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A parere dello scrivente prima di prendere in considerazione direttamente le novità principali, ovvero quelle indicate in frontespizio, è corretto operare un’analisi generale di quelli che sono i criteri di valutazione delle rimanenze, evidenziando gli aspetti fondamentali ed eventuali evoluzioni di concetto tra una versione del principio e l’altra.

Il codice civile riguardo alla valutazione delle rimanenze offre due indirizzi di comportamento17 entrambi contenuti all’articolo 2426. Il primo indirizzo, trattato al punto 9 del citato articolo dispone che “le rimanenze, i titoli e le

attività finanziarie […] sono iscritti al costo di acquisto o di produzione […] ovvero al valore di realizzazione desumibile dall'andamento del mercato,

                                                                                                               

17  Santesso E., Sostero U., I principi contabili per il bilancio di esercizio, Il sole 24 ore, Milano, 2011.  

se minore; tale minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se ne sono venuti meno i motivi. I costi di distribuzione non possono essere computati nel costo di produzione” il secondo invece è

riportato al punto 12 ove si legge che “le attrezzature industriali e

commerciali, le materie prime, sussidiarie e di consumo, possono essere iscritte nell'attivo ad un valore costante qualora siano costantemente rinnovate, e complessivamente di scarsa importanza in rapporto all'attivo di bilancio, sempreché non si abbiano variazioni sensibili nella loro entità, valore e composizione”. Quindi il principio generale di valutazione delle

rimanenze, così come previsto dal codice civile, prevede che vengano identificati sia il costo delle rimanenze, che deve essere il costo di acquisto per le materie prime, sussidiarie e di consumo, per i semilavorati di acquisto e delle merci, mentre deve essere un costo di produzione per i prodotti in corso di lavorazione, per i semilavorati di produzione e per i prodotti finiti, che il valore di realizzazione che si deve desumere all’andamento del mercato. Difatti, così come previsto dai dettami del codice civile, è da questi due valori, precisamente dal minore, che si ottiene la corretta valorizzazione delle rimanenze. Questa disposizione normativa prevede che se il valore di realizzazione è inferiore al costo di produzione o di acquisto vada operata una svalutazione. Tale argomento veniva trattato dalla versione 2005 del principio contabile nazionale 13 a partire dal paragrafo D.II.b) dove veniva riportato che “il principio generale

di valutazione basato sui principi generali sopra richiamati e sulla definizione precedente può essere enunciato come segue: “le rimanenze di magazzino devono essere valutate al minore tra il costo storico e il prezzo di mercato”. Il principio di valutazione delle rimanenze di magazzino […] si fonda sulla teoria che allorquando l’utilità o la funzionalità originaria misurata dal valore originario si riduce, si rende necessario modificare tale valore tramite il valore di mercato”, inoltre la

valutazione delle giacenze di magazzino “comporta il riesame dei costi

escludere quelli o quella parte di essi che non potranno essere recuperati”

ed infine “tale principio si applica a tutte le rimanenze di magazzino”. Dunque il principio 13 tuttora valido nella sezione riguardante la valutazione delle rimanenze di magazzino, dopo averne fornito una definizione, enunciava anche il principio generale di valutazione delle stesse che, in ottemperanza ai dettami forniti dal legislatore, prevedeva la valutazione al minore tra il costo di produzione o acquisto e quello di mercato e questo in ossequio del principio, che l’Organismo Italiano di Contabilità riportava, secondo cui qualora la funzionalità originaria, misurata dal costo, fosse risultata ridotta era necessario modificare il valore a mezzo del prezzo di mercato. Il medesimo argomento è trattato dal nuovo principio 13, presentato a fine aprile 2012, a partire dal paragrafo 11 dove è richiamato nei contenuti l’articolo 2426 del codice civile. Al paragrafo 32, diversamente, è previsto esattamente quanto era riportato al punto D.II.b) della versione del documento del 2005. Circa il metodo generale di valutazione delle rimanenze di magazzino, dunque, la nuova versione del principio 13 concorda perfettamente con la precedente, e questo si ritiene correttamente poiché entrambe si rifanno direttamente all’articolo 2426 del codice civile, di fatto riportandone pari passo o quasi il contenuto. Proseguendo con l’analisi del principio 13 circa la valutazione delle rimanenze notiamo che, dopo aver definito il principio di valutazione, l’Organismo Italiano di Contabilità inizia a trattare concetti richiamati dalla norma civilistica ma non direttamente definiti, come ad esempio le nozioni di costo di acquisto o valore di mercato. Il paragrafo D.III. del documento 2005 era infatti intitolato “definizione di costo storico”, al punto a) di tale paragrafo si leggeva che “il costo storico è costituito dal

complesso dei costi sostenuti per ottenere la proprietà delle rimanenze di magazzino nel loro attuale sito e condizione”, al paragrafo b), invece, si

forniva la definizione di costo inteso come “costo di acquisti per i prodotti

acquisiti per la rivendita e per i materiali diretti e indiretti –essi pure acquistati- e da destinare successivamente alla trasformazione, ovvero il

costo di fabbricazione per i prodotti già trasformati e per i materiali in corso di trasformazione industriale”, infine, al punto c), veniva definito il costo

d’acquisto come “il prezzo effettivo di acquisto più gli oneri accessori” mentre quello di fabbricazione “il costo di acquisto più le spese industriali

di produzione e di trasformazione”. Il principio nella versione del 2005,

quindi, offriva una serie articolata di definizioni della nozione di costo storico. Osservando la nuova versione dell’OIC 13 si nota che la definizione degli elementi di costo viene fornita a partire dal nuovo paragrafo 12 nella sezione intitolata “elementi di costo”. Analizzando i nuovi paragrafi si riscontrano sostanzialmente le stesse diciture, rispetto alla versione tuttora valida del principio, anche se viene fatto riferimento ad un concetto generale di elementi di costo e non, come nella versione del 2005, al costo storico. L’unica differenza, infatti, è che non si trova una definizione analoga a quella contenuta all’interno del paragrafo D.III.a) che definiva proprio il costo storico. E’ probabile che l’Organismo Italiano di Contabilità abbia considerato troppo specifico tale concetto, ovvero quello di costo storico, ritenendo appropriato sostituirlo con una definizione più generale, e più generica, di costo sostenuto per l’acquisto o produzione. Come già riportato l’Organismo Italiano di Contabilità al paragrafo D.III. c) del documento 13 nella sua versione attualmente valida, che coincide sostanzialmente con quella in bozza presentata nel 2012, prevedeva l’inclusione nel costo delle rimanenze sia degli oneri accessori all’acquisto che di quelli di produzione. La rilevazione di tali oneri era spiegata, per quanto riguarda gli oneri accessori all’acquisto, nel “vecchio paragrafo” D.III. d) coincidente di fatto con il nuovo 14, ove si leggeva che “il costo di

acquisto dei materiali include, oltre al prezzo del materiale, anche le spese di trasporto, dogana e le e altre spese direttamente imputabili a quel materiale”, dunque era previsto dovessero essere portati ad aumento del

costo delle rimanenze le spese relative al trasporto, i dazi doganali ed altre tasse non recuperabili (come l’iva indetraibile se del caso) e più generalmente tutti gli altri costi direttamente imputabili. Sotto questo

aspetto si può notare come i dettati dei Principi Nazionali coincidono perfettamente con le previsioni degli omologhi internazionali, difatti al paragrafo 11 dello IAS 2 si legge che i “costi di acquisto delle rimanenze

comprendono il prezzo di acquisto, i dazi d’importazione e altre tasse (escluse quelle che l’entità può successivamente recuperare dalle autorità fiscali), i costi di trasporto, movimentazione e gli altri costi direttamente attribuibili all’acquisto di prodotti finiti, materiali e servizi.” Per la

determinazione del costo di produzione, come già riportato, si devono considerare unitamente sia i costi di acquisto aumentati delle spese industriali che quelli di produzione e trasformazione. Il principio 13 rinnovato, precisamente al paragrafo 16, fornisce un elenco di quei costi “tipicamente identificabili come componenti del costi di fabbricazione o

industriale” dividendoli in due categorie: la prima riguardante i costi diretti

e la seconda gli indiretti. Tra i costi diretti leggiamo: “costo materiali

utilizzati, ivi inclusi trasporti su acquisti, costo della manodopera diretta inclusivo degli oneri accessori, semilavorati d’acquisto, imballaggi, costi per servizi direttamente riferibili al processo di fabbricazione, costi relativi alle licenze di produzione”. Diversamente i costi indiretti indicati nel

principio sono: “stipendi, salari e relativi oneri riguardanti la manodopera

indiretta e relativi costi afferenti la direzione tecnica e l’amministrazione dello stabilimento, ammortamenti economico – tecnici dei cespiti destinati alla produzione, manutenzioni e riparazioni, materiali di consumo, altri costi effettivamente sostenuti per la lavorazioni di prodotti”. Paragonando

la nuova versione con la precedente si nota che tra l’elenco dei principali costi includibili nella determinazione del valore produzione, e più precisamente tra quelli direttamente imputabili, è stata aggiunta la voce “costi per servizi direttamente riferibili al processo di fabbricazione”. Tale voce, si ritiene, è stata inserita dall’Organismo Italiano di Contabilità per ricomprendere all’interno di tale tipologia di costi tutti quei servizi che, pur non essendo esplicitamente enunciati all’interno dell’elenco, sono direttamente riferibili al processo di produzione e che dunque sarebbe

corretto valutare come tali. Una voce analoga, del resto, caratterizzata da generalità di contenuto, si riscontra anche nell’elenco dei costi indiretti in quanto era riportato all’ultimo punto, contraddistinto dalla lettera e) della versione del 2005, “altri costi effettivamente sostenuti per la lavorazione di

prodotti” volto a ricomprendere tutti quei costi che, pur avendo le

caratteristiche di quelli riportati nei punti precedenti, non erano stati tra questi ricompresi. Per quanto riguarda il trattamento dei costi indiretti è lo stesso codice civile, al già citato articolo 2426 n.1, a prevedere la possibilità di comprendere “altri costi per la quota ragionevolmente

imputabile al prodotto” ma dato che lo stesso codice oltre alla adozione

della “ragionevolezza” non prevede nessun altra indicazione sono i principi contabili, nazionali ed internazionali, a dover fornire le corrette informazioni circa i metodi da applicare. Nel nuovo Principio 13 i criteri di imputazione dei costi alle rimanenze sono trattati a partire al paragrafo 21 ove si legge “i costi generali di produzione sono distribuiti sui prodotti

generalmente usando percentuali prefissate basate su un previsto volume di costi relativi ad un normale livello di produzione, ovvero sulla base di dati consuntivi. In quest’ultimo caso però va tenuta presente la capacità produttiva degli impianti”. L’enunciato coincide con quanto veniva riportato

dalla versione del 2005 del documento, precisamente al paragrafo D.III. g) e seguenti. Dunque l’Organismo Italiano di Contabilità ha ritenuto di mantenere le due metodologie di calcolo già previste dal principio 13 e trattate nel paragrafo citato. La prima si basa sull’utilizzo di percentuali prefissate applicate ad un previsto volume di spese relative ad un livello normale di produzione la seconda, diversamente, si basa su dati consuntivi tenendo sempre a riferimento la capacità produttiva normale degli impianti. Sempre secondo i principi contabili la capacità produttiva rappresenta “la potenzialità dell’impianto a produrre con ragionevoli livelli

di efficienza indipendentemente dalla disponibilità degli ordini”.

L’Organismo Italiano di Contabilità ha dunque mantenuto la sua versione del metodo per l’allocazione dei costi indiretti di fabbricazione alle

rimanenze senza operare, così come previsto dal principio nazionale IAS 2, differenti metodologie a seconda che si tratti di costi fissi o costi variabili. Al paragrafo 12 del documento internazionale si legge, infatti, che “l’ammontare di costi generali fissi attribuito a ciascuna unità prodotta non

aumenta in conseguenza di una bassa produzione o inattività degli impianti. Le spese generali non attribuite sono rilevate come costo nell’esercizio nel quale esse sono sostenute. Negli esercizi nei quali il livello di produzione è insolitamente alto, l’ammontare dei costi generali fissi attribuiti a ciascuna unità prodotta è diminuito in modo che il valore delle rimanenze non sia determinato in misura superiore al costo. I costi generali variabili di produzione sono attribuiti a ciascuna unità prodotta sulla base dell’utilizzo effettivo degli impianti di produzione”. Dunque

diversamente da come visto per i principi contabili nazionali, ove è previsto che tutti i costi generali sia fissi che variabili vengano attribuiti alle unità di prodotto in base a livelli normali di attività, per quelli internazionali è prescritto l’utilizzo del livello normale di capacità produttiva per i costi generali fissi e per quelli variabili, diversamente, è richiesto quello del reale utilizzo delle strutture di produzione. Il perché di tale scelta si spiega nel caso in cui non si riesca a raggiungere lo sfruttamento della capacità produttiva normale in un impianto. Al verificarsi di questa situazione, infatti, il fare riferimento a livelli di produzione normali anziché reali per l’attribuzione dei costi indiretti variabili crea l’inconveniente dell’errata attribuzione di tale tipologia di costi, dato che questi risulterebbero solo parzialmente attribuiti ai prodotti generando erroneamente, come conseguenza, costi che altro non sono se non espressione di capacità produttiva inutilizzata.18 La differente previsione dei principi internazionali, che prescrivono la distinzione di metodologia di attribuzione dei costi indiretti a seconda del fatto che siano fissi o variabili, permette di superare l’inconveniente che può verificarsi nel caso in cui, seguendo i dettami dei                                                                                                                

18 Santesso E., Sostero U., I principi contabili per il bilancio di esercizio, Il sole 24 ore, Milano,

principi OIC italiani, si consideri il valore normale di attività anche quando questo è di molto superiore al valore effettivo. Questo perché nello IAS 2 viene indicato che tali costi generali di produzione debbano essere attribuiti ad ogni unità di prodotto sulla base del reale utilizzo delle strutture di produzione. Proprio per evitare la tipologia di situazione sopradescritta si ritiene che sarebbe stato puntuale un intervento dell’Organismo Italiano di Contabilità a modifica del vecchio paragrafo D.III. g) del principio 13 che, rinnovato con il numero 21, è stato invece del tutto riproposto nei precedenti contenuti lasciando inalterati i problemi circa l’attribuzione dei costi indiretti variabili. Si auspica, dunque, un intervento da parte dell’Organismo Italiano di Contabilità sotto questo punto di vista prima dell’uscita della versione definitiva del nuovo principio 13.

Come già riportato il metodo alternativo di valutazione delle rimanenze rispetto all’utilizzo del costo di produzione o acquisizione è quello del valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato. L’utilizzo di tale valore per l’iscrizione a bilancio delle rimanenze è previsto dal codice civile all’art. 2426 al punto 9 qualora esso risulti inferiore al valore di acquisizione o produzione. Il nuovo principio contabile 13 al paragrafo 6 definisce il valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato come “a) il costo di sostituzione per le materie prime e sussidiarie e

semilavorati d’acquisto che partecipano alla fabbricazione di prodotti finiti; b) il valore netto di realizzo per le merci, i prodotti finiti, semilavorati di produzione e prodotti in corso di lavorazione”. Dunque vi è una distinzione

a seconda che si tratti di materie prime, sussidiarie e semilavorati per i quali il valore di riferimento è quello di sostituzione piuttosto che di merci, prodotti finiti, semilavorati e prodotti in corso di lavorazione per i quali il valore da considerare è quello di netto realizzo. E’ lo stesso documento 13 rinnovato, sempre al paragrafo 6, a fornire le definizioni anche dei concetti di “costo di sostituzione” e “ valore netto di realizzo”, per quanto riguarda il primo è riportato che è “il costo con il quale in normali condizioni di

gestione di una determinata voce di magazzino può essere acquistata o riprodotta” e inoltre “il costo di sostituzione dei materiali e dei prodotti acquistati si determina sulla base dell’acquisto di quantità normali effettuato in normali circostanze”, mentre per il secondo si legge che “il valore di netto realizzo rappresenta il prezzo di vendita nel corso della normale gestione, al netto dei presunti costi di completamento e dei costi diretti di vendita”. Confrontando la versione 2012 con la precedente del

2005 del documento 13 non si notano differenze di concetto circa le definizioni di valore di mercato, di valore di sostituzione e di valore netto di realizzo anche se ad una attenta analisi si nota come nella versione proposta in bozza siano state eliminate alcune precisazioni che diversamente sono presenti nella versione destinata a sostituire: ad esempio al punto b.2 del paragrafo D.VI della versione del 2005 era riportato, in aggiunta a quanto già riferito circa il valore di netto realizzo, che “le altre spese di vendita, le spese di pubblicità, le spese generali ed

amministrative non si deducono in quanto esse non sono direttamente attribuibili alla vendita di specifici prodotti o merci e sono sostenute per lo svolgimento della normale attività d’impresa; pertanto, esse rappresentano spese di periodo da addebitare interamente a conto economico”.

Evidentemente l’Organismo Italiano di Contabilità nella sua riorganizzazione del principio ha deciso di snellire le definizioni con l’intento di renderle più chiare e, dunque, è intervenuta non proponendo nuovamente le parti che riteneva superflue perché, come nel caso citato, portatrici di concetti già espressi. Il fatto di non avere toccato, nel processo di rinnovazione, la questione della valutazione del valore di mercato ha come risultato che è rimasta invariata la differenza di interpretazione dell’argomento tra i dettami dei principi contabili nazionali ed internazionali. I principi internazionali, e precisamente lo IAS 2 al paragrafo 28 riportano che qualora il valore delle rimanenze risulti inferiore al costo la “prassi di svalutare le rimanenze […] fino al valore netto di

iscritti a un valore eccedente l’ammontare che si prevede di realizzare dalla loro vendita o dal loro uso” ed al paragrafo30 prevedono che “le

stime del valore netto di realizzo si basano sulla conoscenza più attendibile di cui si dispone al momento in cui vengono effettuate le stime dell’ammontare che si prevede di realizzare dalle rimanenze. Tali stime prendono in considerazione le oscillazioni dei prezzi o dei costi direttamente connessi a fatti intervenuti dopo la data di chiusura dell’esercizio nella misura in cui tali fatti confermano le condizioni esistenti al termine dell’esercizio” e inoltre al paragrafo 31 “le stime del valore netto di realizzo prendono in considerazione anche lo scopo per il quale il magazzino viene tenuto. Per esempio, il valore netto di realizzo della parte di magazzino tenuto per far fronte a vendite concluse o a contratti per la fornitura di servizi si basa sul prezzo di contratto. Se i contratti di vendita riguardano quantità inferiori a quelle tenute in magazzino, il valore netto di realizzo della parte eccedente si basa sui prezzi correnti di vendita”.

Dunque, come riscontrabile dall’analisi del documento IAS 2 si evince che per i principi internazionali, diversamente che dai nazionali, il valore di netto realizzo viene presentato come la migliore alternativa al metodo del costo per valutare, in determinate circostante, le rimanenze. Inoltre i principi contabili internazionali non sono articolati, nell’ampiezza di casistica riportata, come quelli italiani che prevedono una serie di eccezioni alla metodologia ritenuta “normale” di valutazione dei valori di sostituzione e di netto realizzo. Nel dettaglio le eccezioni sono riportate nel nuovo documento a partire dal paragrafo 66 ove si legge che “vi possono

essere dei casi in cui neanche il minor costo di sostituzione delle materie prime e sussidiarie e dei semilavorati d’acquisto può esser recuperato tramite il valore netto di realizzo del prodotto finito in cui entrano a far parte. In tali casi si rende necessario utilizzare il valore netto di realizzo”

inoltre si legge che “nel caso di prezzi decrescenti, la valutazione delle

merci, dei prodotti finiti e di altre rimanenze destinate alla vendita effettuata con il metodo LIFO pone un particolare problema nel definire il

valore di mercato”. L’ultimo paragrafo riportato, ovvero il 67, prende in

considerazione la problematica della valutazione delle rimanenze in presenza di costi decrescenti. La metodologia LIFO (letteralmente last in first out ovvero ultimo entrato primo uscito) viene utilizzata per la valutazione delle rimanenze ed è trattata a partire dal paragrafo 43. Essa consta nel valutare contabilmente come utilizzate per prime le rimanenze che per ultime sono entrate a far parte del magazzino della società. Questo metodo è pensato con lo scopo di fronteggiare situazioni in cui i