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Le varie voci in cui (formalmente) si suddivide il capitale netto

20.1 Capitale sociale e riserva sovrapprezzo azioni (voci I e II dell’art. 2424 c.c.).

Cominciamo dalle uniche due voci originate da apporti. Dovreste già sapere che l’importo del capitale sociale è dato dal prodotto tra il numero di azioni (o di quote, se si tratta di una s.r.l.) in cui è suddivisa la proprietà dell’intera società e il loro valore nominale unitario.

Vediamo un esempio.

Due soci, A e B, costituiscono la società “S” e decidono di dotarla di un capitale sociale di

750.000 € [e quindi si impegnano a versare complessivamente alla società 750.000 € (supponiamo 500.000 € A, e 250.000 € B) non appena l’organo amministrativo lochiederà]:isocifondatoripossonostabilirechelaproprietàdellasocietàsia suddivisa fra un qualsiasi numero di azioni (o di quote, se s.r.l.), ad esempio 750.000 azioni da 1,00 €

di valore nominale (e, proseguendo nell’esempio, in questo caso il socio A sarebbe titolare di 500.000 azioni e il socio B si 250.000) o 750 azioni da 1.000,00di valore nominale (e in questo caso ad A andrebbero 500 azioni e a B 250); l’effetto non cambia: il capitale sociale è comunque di 750.000 €, pari al credito che la società ha verso i soci sottoscrittori, credito che resterà tale fino a quando i soci eseguiranno il

“versamento di capitale” alla società da loro promesso (e, come visto e come ancora vedremo, questo credito trova posto, in bilancio, alla lettera A) dell’attivo patrimoniale).

Sono passati alcuni anni, l’azienda gestita dalla società “S” è cresciuta rapidamente e così, anche grazie agli abbondanti utili non distribuiti fra i soci, il patrimonio netto contabile è ora pari a

5.000.000 di ; i due soci hanno da poco ricevuto da una grande azienda del settore (che ritiene esistano notevoli sinergie fra le due aziende, e un po’ è anche preoccupata per la rapida crescita di un concorrente così agguerrito)

un’offerta di 15 milioni di per la totalità delle azioni: si può cosìdire (anche se forzando un po’)che il valoredimercatodi“S”è15.000.000.

Pur allettati dall’offerta, A e B decidono di non vendere ma,anzi, di rafforzareulteriormente la societàattraversounapportodi1.500.000, e per far ciò si riuniscono in assemblea straordinaria

(sono in due, ma è comunque un’assemblea dei soci) e deliberano un “aumento di capitale”. Nonvolendo però investire altri capitali personali nella società, A e B propongono al comune amico C di divenirelorosocio“sottoscrivendo”lenuoveazionieinvestendocosì1,5milionidellacospicua eredità che egli ha appena ricevuto da un suo prozio americano tempestivamente deceduto.

In cambio dell’apporto di 1.500.000 € in contanti, C riceverà delle azioni di “S”, ma ribadisco:

nonsonoleazioni “vecchie”sottoscritte al nominale di 1.000 €anniprimadaisocifondatoriAe B, sono azioni nuove (sebbene indistinguibili dalle vecchie) che “S” emette proprio per ricevere altro capitale di rischio ( sinonimo, questo, di capitale netto).A e B, cioè, non vendono a Cuna parte delle loro azioni: A resta proprietario di 500 azioni e B si tiene le sue 250 azioni, ognuna del medesimo valore nominale di 1.000 € (e dalpresumibilevaloredimercatodi20.000€, cioèi15.000.000di valore complessivo della società suddivisi fra le 750 “vecchie” azioni).

Giuridicamente, è la società “S”, e non i soci, ad offrire a C di sottoscrivere delle altre azioni che, essendo identiche alle “vecchie”, hanno sempre 1.000 € di valore nominale.

Quante azioni “nuove” vorrà ottenere C in cambio del suo bel bonifico di un milione e mezzo che farà alla società “S”? Chiederne 1.500 (1.500.000 ÷ 1.000 di valore nominale unitario) sarebbe ridicolo: con

1.500 azioni in mano, il socio C, sborsando solo 1.500.000 €, avrebbe i due terzi dell’intera proprietà della società [il cui capitale sociale sarebbe infatti ora suddiviso in 2.250 azioni: le 750 vecchie più le 1.500 nuove, e 1.500 ÷ 2.250 = 66,67%, cioè 2/3 ], e quindi avrebbe ricevuto 11.000.000 di valore [2/3 dei 16,5 milioni del nuovo valore di mercato della società S, valore che dai15 milionidi prima è ora aumentatodi1,5 milioni per effetto del denaro fresco ricevuto]. ÈovviocheCdovràepotràaccontentarsidiricevereunnumerodiazioninettamente inferiore,inquantoognunahaunvaloredimercatomoltosuperiorealvalorenominaledi1.000. Infatti, come leggibile dai calcoli qui sotto, il numero corretto di nuove azioni da dare al nuovo socio è 75 .

( 15.000.000 + 1.500.000 ) / ( 750 + 75 ) = 16.500.000 ÷ 825 = 20.000 €

Valore società prima + incremento del valore per n. vecchie + n. nuove valore società dopo ÷ n. tot. = valore unitario dell’aumento di capitale effetto del nuovo apporto azioni azioni l’aumento di capitale azioni di mercato (immutato)

La cosa può essere vista anche in questo modo: il numero di azioni in cui è suddivisa l’intera proprietà della società “S” è, dopo l’operazione di aumento di capitale, 825 (750 + 75); il nuovo valore della società, per effetto dell’apporto del nuovo socio, è, come abbiamo già visto,

16.500.000(i15milionidiprimapiùilmilioneemezzoarrivatodi fresco e in contanti), quindi il valore di mercato di ogni azione (vecchia o nuova che sia non ha importanza: sono tutte uguali)èancora 20.000(16.500.000 ÷ 825 = 20.000), per cui C ha ricevuto azioni per un valore di 1.500.000 € (75 x 20.000): lo scambio è equo.

Che lo scambio sia equo lo si può verificare anche considerando che i vecchi soci non ci guadagnano né ci rimettono: il valore del loro investimento nella società è rimasto uguale a quello di appena prima l’aumento di capitale: 10.000.000 € quello di A (500 azioni x 20.000) e

5.000.000 quello di B (250 azioni x 20.000).

Ciò che è cambiata è la quota (la percentuale) della società di cui sono proprietari: prima A aveva il

66,67% (500/750) e B il rimanente 33,33% (250/750); ora, dopo l’aumento e la relativa emissione di 75

nuove azioni, A ha il 60,606% (500/825), B il 30,303% (250/825), mentre C ha il rimanente 9,0909%

(75/825). A e B hanno ora una quota inferiore di una società il cui valore totale (il valore del 100% delle azioni) è però aumentato per effetto dell’apporto di 1,5 milioni fatto da C, e l’aumento del valore complessivo della società compensa la diminuzione della percentuale di possesso. Last but not least, la società ha ora 1,5 milioni di euro liquidi da investire per espandersi.

Ricevere 75 azioni del valore nominale di 1.000 € pagando 1.500.000 € significa pagare ogni azione 20.000, e quindi 19.000 € più del valore nominale. Visto dalla parte della società, tale importo (19.000 €) è il “sovrapprezzo”, e il sovrapprezzo complessivo (19.000 x 75 = 1.425.000 €) va a formare la voce “Riserva sovrapprezzo azioni” numerata romanamente II dall’articolo 2424

del c.c., mentre la voce I “Capitale sociale”, per effetto dell’operazione di “aumento di capitale” aumenta, nell’esempio appena proposto, di soli 75.000 € (1.000 € di valore nominale unitario x 75 nuove azioni).

Quasi sempre l’importo del sovrapprezzo richiesto è però minore, anche sensibilmente, del sovrapprezzo “teorico” (nel caso descritto il sovrapprezzo richiesto potrebbe essere, ad esempio, di 10.000 € anziché di 19.000), e non di rado il sovrapprezzo non è previsto; certamente c’è un limite massimo al sovrapprezzo, e questo limite è dato dalla differenza fra valore di mercato e valore nominale dell’azione (perché nessuno sarebbe disposto a sottoscrivere le azioni nuove a un prezzo complessivo (valore nominale + sovrapprezzo) superiore a quello di mercato: comprerebbero delle azioni vecchie da un azionista invece che sottoscrivere le nuove), ma non c’è alcun limite minimo, potendo il sovrapprezzo essere anche nullo.

Se anche non si prevede ilsovrapprezzo (equindi,semprenelcasodellasocietà “S”,selenuoveazioni vengonoa costaresolo1.000€) i vecchi azionisti hanno il modo di non rimetterci, in quanto a loro (detto meglio: alle loro azioni “vecchie”) spetta il “diritto d’opzione”, cioè il diritto di precedenza nella sottoscrizione delle azioni nuove; e se l’azionista “vecchio” non vuole esercitare questo diritto (perché non vuole apportare altri capitali nella società) lo può vendere (vendere cioè il diritto di sottoscrivere le azioni nuove) a chi è invece interessato a investire i propri risparmi in quella società. Come si è visto prima nel caso dei due soci A e B, l’unico effetto negativo per il “vecchio” azionista che non sottoscrive le azioni nuove

(cioè che “non esercita il diritto d’opzione” e lo vende ad altri investitori) è che si ritrova con lo stesso numero di azioni che aveva prima e quindi con una quota di proprietà più piccola (poiché è aumentato il numero di azioni in cui è suddivisa la proprietà della società). Spesso lo statuto sociale prevede che nel caso un vecchio azionista voglia vendere i suoi diritti d’opzione li debba prima offrirli agli altri vecchi azionisti (è, questo, il “diritto di prelazione”), e solo in caso di loro rinuncia i diritti d’opzione potranno essere acquistati da soci nuovi.

20.2 Riserve di rivalutazione (voce III dell’art. 2424 c.c.).

Detto delle uniche due voci originate da apporti, vediamo ora le “Riserve di rivalutazione”, che si distingue dalle altre riserve derivanti da utili perché gli utili che vi si accumulano hanno la caratteristica di non essere mai stati evidenziati nel conto economico (e quindi anche di non derivare da una decisione dell’assemblea). Per comprenderne la natura partiamo ancora una volta da un esempio, e per partire montiamo in Ferrari.

Probabilmente non tutti sapete che il logo della Ferrari, il notissimo cavallino rampante, era in precedenza lo stemma nobiliare della famiglia materna di Francesco Baracca, famoso asso dell’aviazione italiana della guerra ’15-18, medaglia d’oro per aver vinto 34 duelli aerei (perse solo il 35°, ma bastò). Quel cavallino nero divenne in seguito il marchio della casa automobilistica perché la madre del Baracca, qualche anno dopo la morte del figlio, lo donò a Enzo Ferrari come portafortuna per la sua scuderia.

Ipotizziamo ora che la Ferrari abbia poi speso 1.000 € per completare la grafica del logo (per inserirvi le lettere S F (Scuderia Ferrari) in basso e il tricolore in alto) e che nel bilancio della società Ferrari S.p.A. il marchio sia quindi inserito nell’attivo patrimoniale alsuocostostorico(di soli 1.000 €), comeimpone ilprincipiodiprudenzaprevistonelcodicecivile (agliartt.2423/bise2426) edicuisiparleràalpunto26.1. Ipotizziamo anche che ora il valore di quel marchio sia, data la sua straordinaria notorietà accumulata in tanti decenni di successi sportivi e commerciali, superiore al miliardo (che il marchio possa costituire un valore patrimoniale rilevante spero non stupisca nessuno: è, infatti, una immobilizzazione, cioè un bene capace di incrementare il reddito aziendale per molti anni, ad esempio concedendo, a pagamento, il suo uso ad altri).

Aggiungete alle vostre conoscenze il fatto che di tanto in tanto il legislatore cucina una legge che permette alle aziende di aumentare i valori di bilancio delle immobilizzazioni rispetto al loro costo storico di acquisizione per renderli più coerenti con la realtà e senza pagare imposte

(o pagandole con un’aliquota molto bassa) sulla plusvalenza che in questo modo si evidenzia.

Ora supponiamo che la Ferrari S.p.A., approfittando di un simile intervento legislativo, nel 2020

aumenti il valore del marchio da 1.000 € a un miliardo di euro. In questo caso, il maggior valore che viene inserito nell’attivo patrimoniale (999.999.000 € in più nelle “Immobilizzazioni immateriali”, e quindi in dare) NON ha come contropartita (in avere) un componente positivo di reddito, cioè i

999.999.000 € NON si registrano fra i ricavi ma direttamente in avere del patrimonio netto, alla voceRiservadirivalutazioneLeggeX/2020” (dove X è il numero della legge che ha reso possibile la rivalutazione). Registrare i 999.999.000 € dell’aumento di valore del marchio in avere di un conto di reddito, e quindi fra i ricavi del conto economico del 2020, sarebbe infatti scorretto in quanto non si tratta di valore creato dall’azienda nel 2020 bensì in tutti i precedenti anni in cui il valore del marchio è gradualmente cresciuto. Ecco allora che è più ragionevole inserire direttamente quel valore, che pure esiste,nelcapitalenetto,allavoce“Riservadirivalutazione ex legge X/2020”.

Poiché delle voci VII (Riserva per operazioni di copertura dei flussi finanziari attesi) e X(Riserva negativa per azioni proprie in portafoglio) mi guardo bene dal parlarvi (agli eventuali interessati posso procurare qualche pagina di spiegazioni e il nome di un buon psichiatra), per chiudere l’argomento restano solo quattro voci (IV, V, VI, e VIII), tutte accomunate dal fatto di indicare riserve derivanti da utili evidenziati in bilanci precedenti. (In realtà resta anche la voce IX “Utile (perdita) d’esercizio”, ma sul concetto di reddito già ho scritto e ancora scriverò più avanti).

20.3 Riserva legale (voce IV).

Il codice civile (art. 2430) impone alle società di capitali che almeno 1/20 (cioè il 5%) degli utili prodotti nell’esercizio non sia distribuito e venga invece accantonato in questa voce (a volte detta anche “riserva ordinaria”) fino a quando tale voce di bilancio raggiunge il 20% (cioè 1/5) del capitale sociale (per le banche e le assicurazioni la legge prevede limiti minimi di accantonamento maggiori). Tale riserva potrà essere utilizzata (e cioè ridotta) solo per coprire una perdita d’esercizio e solo se non ci sono altre riserve (e se non ti è chiara la riga qui sopra torna immediatamente al numero 18.). Ogni altro utilizzo, e in particolare la distribuzione ai soci, è vietata.

20.4 Riserve statutarie. (voce V).

Lo statuto sociale (in inglese “by-laws”, e se vuoi un eccitante esempio di statuto sociale ecco qui il link per il by-laws di E.N.I.

S.p.A https://www.eni.com/docs/en_IT/enicom/publications-archive/governance/by-laws/Statuto-ENG-Maggio-2014-mark-up.pdf) è, copia-incollando da wikipedia, “l'atto normativo fondamentale che disciplina l'organizzazione e il funzionamento di un ente pubblico o privato”. In pratica sono le regole di funzionamento stabilite dai soci [al momento della nascita della società, ma modificabili con apposite successive delibere assembleari con maggioranze “qualificate” (cioè più ampie del 50% + 1 delle azioni in possesso dei soci partecipanti all’assemblea)] che si vanno ad aggiungere a quelle fissate dal legislatore per la generalità delle società. Ecco allora che se lo statuto prevede che si debbano accantonare altri utili, questi saranno accreditati, cioè scritti in

“avere”, in un conto chiamato “Riserva statutaria”. Anche le statutarie sono, come la legale, riserve “obbligatorie” in quanto imposte da una norma (e che la norma sia stata prevista dai soci stessi non la rende meno vincolante, a meno che con una successiva delibera assembleare la si modifichi, di una norma di legge).

20.5 Altre riserve. (voce VII).

Sono le cosiddette “riserve libere” o “facoltative” o “volontarie”, in quanto decise liberamente, su proposta degli amministratori, dall’assemblea che approva il bilancio. Essendo state costituite e alimentate “volontariamente” (nel senso che nessuna norma, né di legge, né statutaria l’imponeva), una successiva assemblea può utilizzarle come meglio crede, al contrario dell’utilizzo di quelle “obbligatorie”

che èvincolatoaquantoprevedelanorma(dileggeostatutaria) chelehastabilite.

20.6 Utili o perdite portati a nuovo (voce VIII).

Questa voce nasce, quasi sempre, quando l’assemblea che approva il bilancio decide di rinviare la decisione di come usare una parte degli utili prodotti nell’esercizio (o di come “coprire” le perdite subite nel periodo il cui bilancio si sta approvando). Le altre possibili origini di queste riserve sono di trascurabile importanza.