Silenzi contigui e lezione di Spagna
I. Se è vero – come è vero, e come magistralmente sintetizza An-
na Dolfi – che nel secondo dopoguerra italiano la traduzione poetica, e quella dallo spagnolo in particolare, ha avuto i caratteri di una peculiare forma di «comparatistica fatta prassi»1, nell’acco-
starsi oggi di nuovo a quella stagione intellettuale (già molto in- dagata nel portato culturale delle sue dinamiche interne, nonché nella fitta trama di relazioni personali e progetti editoriali e acca- demici, di scambi epistolari e riflessioni di poetica), la domanda che resta forse ancora in parte da esplorare è: esistono tratti di- stintivi o linee di tendenza riconoscibili, nella prassi traduttiva di quegli anni?
Volendo cercare risposte a tale domanda, almeno sul fronte del- l’ispanistica, si dovrà per prima cosa volgere lo sguardo verso il quartetto di traduttori/critici/letterati composto da Oreste Macrì e Vittorio Bodini, da Carlo Bo e da Francesco Tentori: è intorno alle versioni poetiche realizzate da queste quattro figure preminen- ti (con un focus più specifico, lo si vedrà, su Macrì) che ci si con- centrerà nelle pagine che seguono. Nelle quali, a dire il vero, più che altro ci si limiterà a interrogarsi preliminarmente sul metodo di ricerca più adeguato per affrontare la questione appena enunciata.
Come traducevamo.
La Generazione del ’27 spagnola nelle sue prime
versioni italiane: appunti in cerca di un metodo
Francesco Fava
1 È infatti Una comparatistica fatta prassi. Traduzione e vocazione europea nella ter- za generazione, il titolo del saggio con cui Anna Dolfi apre il fondamentale volume da lei curato: Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 13-30.
Guardando oggi a quella stagione, inoltre, stupisce come l’e- splicita consapevolezza delle profonde implicazioni culturali in- site nel processo traduttivo si declini in riflessioni per certi ver- si antesignane, in quanto accostabili a temi e formule che, nel di- battito teorico sulla traduzione, sarebbero entrati in circolo solo qualche decennio dopo: ritrovarle tra le righe di pagine scritte negli anni Cinquanta del secolo scorso costituisce un’ulteriore ragione di interesse nei confronti di quella generazione di tra- ghettatori2. Per fare un primo esempio, già in un testo del 1957
(ma pubblicato solo nel 1962) Oreste Macrì osservava che «gli esemplari affini della poesia spagnola, come di ogni altra poesia straniera, fluiscono nel circolo vivente della lirica italiana»3, per
poi precisare:
Tutta la poesia ispanica è così entrata nel concerto delle traduzioni dei poeti stranieri, i quali, italianizzati nella lin- gua poetica degli Ungaretti e dei Montale, hanno influito a loro volta sulla poesia originale delle nuove generazioni, soprattutto nelle forme e nei toni […]. Influsso benefico nei migliori, e già avvertito dalla generazione di Luzi e di Sereni4.
Un’influenza reciproca, dunque, una feconda relazione biuni- voca. E, da parte di Macrì, un punto di vista sul ruolo della tradu- zione letteraria che sembra anticipare la teorizzazione di Itamar Even-Zohar sul polisistema letterario, elaborata una ventina d’an-
2 Si ricava la medesima impressione scorrendo il ricco e ragionato panorama della «traduttologia ante litteram» racchiusa nelle pagine di scrittori, tradut- tori e studiosi italiani lungo i primi tre quarti del XX secolo cui è dedica- to il recente, e splendido, volume: Angela Albanese, Franco Nasi (a cura di), L’artefice aggiunto. Riflessioni sulla traduzione in Italia: 1900-1975, Ravenna, Longo, 2015.
3 Oreste Macrì, Mezzo secolo di traduzioni italiane dallo spagnolo, p. 88, in «L’al- bero», 36-40, 1962, pp. 80-92. Successivamente incluso in: Idem, Studi ispa- nici, II, a cura di Laura Dolfi, Napoli, Liguori, 1996.
ni più tardi5 (per quanto qualche idea al riguardo, volendo, la si
può trovare già in Madame de Staël…). Nel solco di Even-Zohar, più recentemente, l’idea che la letteratura tradotta costituisca un angolo visuale privilegiato per osservare fenomeni e linee di svi- luppo della letteratura nazionale è l’assunto da cui partono due importanti e innovative operazioni culturali, The Oxford Guide to
Literature in English Translation curata da Peter France e i quattro
volumi della Histoire des traductions en langue française proposti da Verdier e coordinati da J.Y. Masson e Y. Chevrel6. Che la letteratu-
ra tradotta abbia rivestito un ruolo assolutamente cardinale nell’e- voluzione del sistema letterario italiano, nei decenni centrali del Novecento, è un dato che i protagonisti di quella stagione mostra- no di avere già ben presente in corso d’opera. Limitandosi al cam- po della poesia, la pratica traduttiva del secondo dopoguerra sem- bra caratterizzarsi in particolare per un originale equilibrio tra in- novazione e tradizione, sostiene retrospettivamente Giuseppe San- sone, sottolineando come «la smobilitazione di forme e stilemi adusati, a tutto favore di moduli modernamente duttili e calzante- mente adeguati, si ottiene soltanto al prezzo di una conoscenza del proprio strumento linguistico tale da poter produrre continui in- nesti nel solco della tradizione e ardite invenzioni, o reinvenzioni, di lessico e sintassi»7. Gli effetti di tale fenomeno non furono all’e-
poca considerati da tutti in senso positivo. Enrico Falqui, per esempio, nell’introdurre l’antologia da lui curata nel 1956 (La gio-
5 Si vedano, in particolare, Itamar Even-Zohar, Papers in Historical Poetics, Tel Aviv, Tel Aviv University, 1978; Idem, The position of translated literature with- in the literary polysystem, in «Poetics Today», 1, 1990, pp. 45-51.
6 Peter France (ed.), The Oxford guide to literature in english translation, Ox- ford/New York, Oxford University Press, 2000. Per il progetto francese, in attesa dell’imminente pubblicazione del quarto e ultimo volume della serie, dedicato al XX secolo, si veda esemplarmente il primo, curato da Yves Che- vrel, Lieven D’hulst, Christine Lombez, Histoire des traductions en langue fran- çaise, XIXe siècle (1815-1914), Paris, Verdier, 2012.
7 Giuseppe Sansone, Oreste Macrì traduttore di poesia, p. 237, in Per Oreste Ma- crì. Atti della giornata di studio, Firenze – 9 dicembre 1994, a cura di Anna Dol- fi, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 235-250.
vane poesia) non manca di segnalare il «minaccioso persistere dello
stile di traduzione, in cui risulta schiacciante e mortificante l’in- flusso esercitato dall’uno o dall’altro poeta straniero preferito. Fra i moderni, oggi, Whitman, Esenin, Aragon, Majakovskij, Lorca, Lee Master [sic], la fanno troppo da padroni. E troppi sono i versi ri- calcati sul loro modello»8.
Anche in questo caso, dagli anni Cinquanta a oggi il passo sembra essere particolarmente breve. La querelle sull’influenza, presumibilmente nefasta, esercitata dallo «stile di traduzione» sul- la lingua letteraria nazionale è infatti anch’essa tornata negli ulti- mi anni al centro del dibattito intellettuale, in particolare a caval- lo tra 2010 e 2011. Prima, sotto forma di domanda, nell’intelli- gente intervento di Michele Cortelazzo: L’italiano della traduzione
è l’italiano di domani?9. Poi, in un vivace scambio di articoli tra Ga-
briele Pedullà e Daniele Giglioli, sulle pagine del supplemento domenicale de Il Sole 24 ore10, per confluire infine nel 2016 tra le
questioni oggetto di dibattito nel fascicolo monografico della ri- vista «Nuovi Argomenti» intitolato Che lingua fa?11
Tornando a circoscrivere il discorso al periodo e all’ambito che qui ci interessano, è di nuovo Oreste Macrì a inserirsi tra la posizione di Falqui e quella di Sansone, in questo caso nelle vesti di testimone diretto – non solo osservatore, ma anche e soprat- tutto attore protagonista. Volgendo lo sguardo indietro, ormai alle
8 Enrico Falqui, Saggio sulla giovane poesia nel secondo dopoguerra italiano, p. 73, in Idem, La giovane poesia: saggio e repertorio, Roma, Colombo, 1956, pp. 7- 83.
9 Michele A. Cortelazzo, Premessa. L’italiano della traduzione è l’italiano di do- mani?, in «Rivista internazionale di tecnica della traduzione (International Journal of Translation)», 12, 2010, pp. xi-xvii.
10 Gabriele Pedullà, Scrittori, bisogna avere stile!, «Il Sole 24 Ore», 28 agosto 2011, <http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-08-28/scrittori-bi- sogna-avere-stile-081509.shtml?uuid=AarO%20MbzD>
D. GIGLIOLI, È la lingua che non ha più fascino, «Il Sole 24 Ore», 11 settembre 2011, <http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-09-11/lingua-fasci- no-081506.shtml?uuid=AaHJgS3D>
soglie degli anni ’90, Macrì afferma rotondamente che «noi tra- duttori si traduceva con la lingua poetica dei poeti coetanei»12. È
davvero così? Ha ragione Falqui, ha ragione Macrì, o hanno in qualche misura, e per diversi aspetti, ragione entrambi? Ma so- prattutto: in che modo lo si può verificare?