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A fronte di questi pericoli di collasso e di ingolfamento del sistema, la collaborazione tra giustizia e psichiatria è essenziale per gestire al meglio i percorsi, definire nuovi sce-nari, elaborare idee e prassi innovative.

In questa situazione sul piano organizzativo, a mio avviso la Rems deve evolvere e di-ventare sempre più parte integrante del DSM e della comunità, idealmente superare se stessa, se vuole evitare il rischio immanente di una regressione ed una involuzione verso l’istituzionalizzazione, realizzando dei “miniOpg”.

Per questo è utile intraprendere la via della normalizzazione delle Rems, abbattendo muri e sistemi custodiali ereditati dall’Opg, per sviluppare la territorialità, superando la logica del posto-letto, del “dove lo metto” in favore di una concezione nuova orientata ai percorsi, alla responsabilizzazione, ad una concezione più evoluta della misura giudi-ziaria e della cura. Credo siano evidenti gli scarsi risultati delle logiche restrittive, la loro sostanziale inefficacia, se non la dannosità della mera limitazione della libertà.

Una parte dei professionisti sensibili al tema, vede nelle Rems un’occasione per un nuo-vo sistema di psichiatria forense italiano. Se da un lato vi è certamente la necessità di adeguare e collegare la psichiatria forense con la psichiatria di comunità, migliorando al contempo le competenze dei DSM anche tramite Unità Operative o incarichi specifici, sul piano della programmazione organizzativa va molto ben valutato come si intende delineare il sistema. A mio avviso, questo va visto in una logica unitaria e di esso fa par-te anche la questione della salupar-te mentale negli istituti di pena, una grande questione aperta dopo il blocco dei decreti previsti dalla legge 103/2017.

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al contempo azioni per fare fronte alla pericolosità sociale quindi per la sicurezza-prevenzione dei reati, ha reso evidente come si debba passare da una visione lineare ad una binaria.

Semplificando al massimo l'iter consolidato è questo: il giudice, sentito il perito, dispo-ne, lo psichiatra esegue la cura e il paziente obbedisce e in un qualche modo vi si sotto-mette. Una cura di norma fondata sulla psichiatria biologica e quindi prevalentemente farmacologica e al più psico-educativa comportamentale e adattativa. Una cura appli-cata dall’esterno, ad una persona che passivamente la subisce, nella presunzione che vi siano psicofarmaci in grado di curare il disturbo mentale (i dati scientifici indicano che le forme di schizofrenia resistente ai trattamenti è del 25-30%).

Questo schema, lo stesso che era applicato nell’Opg, funziona molto poco.

Oggi è necessario comprendere come per l’autore di reato vi sia una competenza specifica e autonoma della giustizia, possibilmente coordinata con la cura, in grado di sviluppare una propria relazione con la persona tale da dare un senso alla misura adottata, alle azioni necessarie alla rieducazione e per prevenire nuovi reati. Questo a maggior ragione se viene applicata la libertà vigilata, o altre misure come gli arresti do-miciliari, che realizzate nella comunità sociale implicano una forte responsabilizzazione della persona. E’ lei che ne deve rispondere e non lo psichiatra.

In altre parole, la giustizia deve sviluppare un “suo” patto con la persona in relazione al reato e alle misure conseguenti. In questo è fondamentale il coinvolgimento della persona anche se con disturbi mentali, che seppure prosciolta, e a maggior ragione se l'imputabilità è ancora da definire, può comprendere le ragioni del fatto e della realtà e impegnarsi per adempiere ad impegni specifici volti a prevenire altri comportamenti delittuosi e quindi sviluppare e costruire un “patto con la giustizia”. L’impostazione prevista dall’art. 94 della legge 309/90 è quella che si può applicare anche nelle pro-blematiche della salute mentale.

“Il patto di cura” ha un'altra base giuridica, resa ancora più complessa dalla legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, e deve fondarsi sulla volontarietà.

Si tratta di due patti, di due percorsi autonomi e specifici ma con possibili punti di contatto e convergenza, specie negli obiettivi. Nessuno dei due percorsi può sostituire e nemmeno parzialmente vicariare l’altro.

E’ interesse di entrambi i sistemi che la persona si curi e non commetta altri reati, si attenga cioè alle prescrizioni. Quindi la persona nella comunità si trova al centro di un percorso che vede due polarità, quella giudiziaria e quella psichiatrica.

In questo impianto viene ad evidenziarsi la necessità di rivedere la relazione fra reato e disturbo mentale. Nella misura in cui si passa da relazioni lineari fondate su categorie rigide e dicotomiche (sano/malato, imputabile/non imputabile) a processi basati su dimensioni interagenti nella complessità (modello biopsicosociale) la risposta dovrà essere sempre più articolata. Non più un doppio binario che separa sani e malati dan-do vita a percorsi alternativi e mutuamente escludentesi, ma un dan-doppio patto con al centro la persona nella comunità che dà luogo a ad un insieme di interventi incentrati sul soggetto e il suo contesto e tiene conto non solo delle specifiche competenze psi-chiatriche ma anche dei diversi bisogni, a partire da quelli di base, per un programma

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di cura e il progetto di vita.

Se nella prima impostazione, in caso di non imputabilità l'infermità contiene il reato e questa ne è la espressione, nella seconda l’interazione tra i due elementi diviene più articolata, discreta e riconosce sempre ambiti di autonomia rispetto al reato e al di-sturbo che potranno vedere ambiti di sovrapposizione ma che solo eccezionalmente sono pienamente coincidenti.

Questa impostazione trova riferimento anche nelle più recenti concezioni sulla de-terminazione degli agiti anticonservativi6 e eterolesivi7. E per quanto da oltre un se-colo Durkheim8 avesse evidenziato la complessità e la variabilità del suicidio, l'idea di considerarli come tutti ascrivibili al disturbo mentale ha resistito a lungo. Solo grazie a Shneidman9 si è passati ad un visione che pone al centro una condizione psicologica, un dolore mentale insopportabile che viene a determinare un vissuto di perdita di speranza e futuro ed un assetto cognitivo molto ristretto che vede nell’atto lesivo la sola soluzione. Questa condizione mentale, si articola con altri vissuti, condizioni psi-copatologiche, relazionali, sociali, di vita che vengono ad assumere a seconda dei casi il ruolo di fattori di rischio, protezione, precipitazione.

Come è noto “esistono (negli schizofrenici) anche motivazioni all’omicidio del tutto indipendenti da qualsiasi delirio e, in questo senso, del tutto sovrapponibili a quelle degli omicidi compiuti da un soggetto non dichiarato poi infermo di mente, (omicidio nel corso di una rapina, nel corso di una violenza carnale, per conflitti di interessi eco-nomici, per gelosia, per litigi banali in corso di ebbrezza alcolica, etc. ).” 10

Quindi si ha un continuum di vissuti dal normale al patologico, uno spettro sul quale operare. E trattandosi di un vissuto con una componente cognitiva importante, diviene fondamentale agire perché la persona possa sperimentare la capacità di modulare, ar-ticolare, controllare la propria attività mentale e ancor più il proprio comportamento. Numerosi studi hanno dimostrato che ciò è possibile.

Questa azione di responsabilizzazione è essenziale sul piano clinico-riabilitativo prima ancora che giuridico dove sarebbe molto più utile al paziente una pena chiara che una decisione ambigua e talora incomprensibile del proscioglimento seguito dalle misure di sicurezza.

Un cambio di paradigma, a maggior ragione, è necessario per fronteggiare le condizioni oggi più preoccupanti. Ad esempio i femminicidi che in larga parte sono preceduti da un lungo periodo di relazione fra vittima e autore di reato.

Posto che la maggior parte di questi individui è imputabile, la questione del loro inqua-dramento e soprattutto di quale debba essere la lettura psicologica, psicopatologica, relazionale, educativa, sociale, economica è cruciale ai fini della prevenzione e del pos-sibile trattamento in un sistema di comunità.

6) M. Pompili, La prevenzione del suicidio, Fioriti Ed., Roma, 2008

7) A. Ceretti, L. Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Ed. Milano, 2009 8) E. Durkheim, Il suicidio. Uno studio di sociologia, BUR 1897

9) E. Shneidman, Autopsia di una mente suicida, Giovanni Fioriti Ed. 2016

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A fronte delle dimensioni del fenomeno (nella sola regione Veneto in un anno più di 5000 donne si sono rivolte ai Centri Antiviolenza) non si può pensare come possibile la sola custodia cautelare per i soggetti responsabili di condotte di stalking. Quindi, ai fini del nostro discorso, le misure preventive, dissuasive previste nella comunità non possono realizzarsi senza la collaborazione di chi vi è sottoposto. E se questi accede ad un servizio che cerca di aiutarlo e per quanto possibile curarlo, possiamo pensare che questo improbo compito possa essere tentato da un professionista che domani debba rispondere della posizione di garanzia?

L'affidamento del paziente al sistema di cura di comunità implica la necessità di pro-cedere secondo le regole proprie di questo sistema, proteggendo i professionisti, in altre parole riconoscendo loro la complessità e l'estrema difficoltà del compito senza prevedere la posizione di garanzia di controllo, in quanto impossibile.

Una cura che deve vedere un orientamento verso la recovery e deve prendere in considerazione fin da subito dei determinanti sociali della salute, a partire dal reddito, dall’alloggio, dalla formazione e dal lavoro. Affrontare le povertà è fondamentale. A questo va aggiunta l'attenzione ai fattori culturali, religiosi e spirituali della persona in quanto fondamentali per la diagnosi e la cura ma anche per la comprensione del reato e della espiazione. Un impianto nel quale sempre maggiore rilevanza ha l'elaborazione del reato commesso.

Per quanto attiene alla diagnosi e cura del disturbo mentale va attuato nel consen-so e nel sistema di comunità con la partecipazione attiva della perconsen-sona. Condizione fondamentale specie nel suo primo contatto con i servizi della salute mentale che ha bisogno di tempo, di comprendere ed essere compresa nell'ambito di relazioni di fi-ducia, sempre difficili da costruire, strutturalmente fragili, labili, molto esposte al rischio di fallimento. Una condizione operativa molto delicata, dove occorre chiarezza, sensibi-lità, attenzione ai dettagli, dove la parte patologica è nell'ambito di un funzionamento mentale e relazionale di insieme, dove il reato e la violazione sono presenti nel mondo interiore, ingombranti, inquietanti, corpi che cercano spazio, parole, senso. Un male che cerca di definirsi, ferite lancinanti in attesa di medicazione, buchi non colmabili, deva-stazioni e terremoti che aspettano i primi soccorsi, l’accoglienza, l’incontro, il riconosci-mento per come sono e aperture di un dialogo. E in tutto questo i tempi dell’azione giudiziaria segnano le esistenze delle persone (e anche degli operatori) a volte in modo molto ansiogeno, in certi casi confuso e talora kafkiano.