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livelli interpretativi degli stessi reperti che i vari autori hanno espresso.
Se Schinkel, che compì il suo Gran Tour nel 1803 all’età di ven- tidue anni, non si limitò solo a “disegnare, rilevare e reinventare
i ruderi della magnificenza romana [ma] il suo sguardo si soffermò anche sull’edilizia meridionale anonima a lui contemporanea, inda- gandone la logica e i sistemi costruttivi“5, l’atteggiamento di vo- lontaria rilettura e reinterpretazione delle architetture dome- stiche e d’ambiente diventa decisamente esplicito in Semper, Goethe, Olbrich, Hoffmann fino ai citati Kahn e Le Corbusier6. Ma se furono gli studiosi stranieri a svelare quali nuove oppor- tunità alle diverse espressioni artistiche fossero recuperabili da un mondo solo in apparenza morto e sepolto, di certo gli artisti ed architetti italiani degli anni venti e trenta del XX se- colo seppero trarre originali vie al proprio fare proprio da quel mondo di sognata classicità e mediterraneità, sentendo come proprio diritto /dovere l’ interpretazione attiva e non filologica di quell’enorme patrimonio di edifici proprio in quanto diretti discendenti di quella cultura. In un bel libro che tocca l'aspet- to del mito della medirraneità Gravagnuolo nota che “l’aura
mediterranea si insinua tanto nei tracciati armonici che regolano le bucature delle pareti di cartone della Casa del Fascio di Terragni, quanto nell’insuperato gioco astratto di piani geometrici e di fasci di luce solare messo in opera nel patio pompeiano della villa-studio per un artista di Figini e Pollini.[...] D’altronde gli stessi Figini e Pollini parlano inequivocabilmente di “impluvio pompeiano” e di “patio” nella relazione di progetto della casa per un artista, costruita per la “Mostra dell’abitazione” alla V Triennale di Milano del 1933”7. La volontà di ancorare la propria presenza di progettisti ad una matrice figurativa e compositiva derivante dalla propria storia, ci sembra comunque non potersi esplicitare soltanto nell’analisi dell’evoluzione materiale delle case ad atrio, come avviene nella maggior parte degli architetti di quella epoca: vivissimo è per quegli architetti il tema della relazione manu- fatto-comportamento, per cui anche gli usi e costumi di una società così antica permeavano talmente la coscienza collettiva tanto da generare desideri di ulteriori “esplorazioni”. La me- diterraneità pompeiana esprimeva una urgenza culturale con forti implicazioni sul progetto di architettura come lo pensa- vano e producevano quegli architetti di inizio ‘900. Giò Ponti riesce a superare gli aspetti della pura forma per recuperare i primari sensi dello spazio affermando che “la casa all’italiana
non è un rifugio, imbottito e guarnito [...] contro la durezza del cli- ma, com’è delle abitazioni d’oltralpe [...] Nella casa all’italiana è di fuori e di dentro senza complicazioni [...] [il suo] comfort è nel darci
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con l’architettura una misura per i nostri pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi [...] del che consiste, nel pieno senso della bella parola italiana, il conforto”8, spingendoci
a tenere presente il valore concettuale e simbolico della strut- tura spaziale originaria della casa italiana e mediterranea in generale, proprio a partire da quella pompeiana.
Un elemento che vorrei peraltro mettere in rilievo è il valore simbolico del viaggio, nello spazio come nel tempo, che è insito nelle parole e nelle esperienze degli artefici che ho ricordato. Nel momento in cui riconosciamo che questo approccio ren- de l’esperienza intellettualmente necessaria, non ci sembrerà improbabile avvicinarci di nuovo a qualcuna delle antiche di- more pompeiane per ricercare le memorie – o piuttosto i desi- deri – in esse conservate: la grecità come aspirazione e tensione culturale di grande prestigio sociale la sentiremo ancora come qualcosa di vivo, capace di parlare a noi uomini del XXI secolo. In tal modo compiremo in prima persona l’esperienza della conoscenza che si esplica attraverso la legittima modificazione che ogni interpretazione del “dato” permette e suggerisce. La memoria dell’uomo impone nell’esperienza conoscitiva una componente attiva e di progetto, di lettura, di interpretazione appunto che chi progetta conosce perfettamente: sperimenta- re il viaggio della conoscenza come deformazione ed interpre- tazione, una sorta di viaggio nel tempo, che è sempre progetto
Particolare del colonnato parzialmente ricostruito per anastilosi del Foro.
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del nuovo che deve ancora attuarsi.
Viaggiare attraverso le culture per produrre del “nuovo”, sul piano dei significati e delle forme, è un’esperienza che stu- diosi dell’architettura ed architetti operanti continuano a fare – come sempre – anche nel tentativo di dare voce e senso ai valori dei luoghi, essendo questa una tensione specifica del moderno progetto di architettura9.
Il presente lavoro di ricerca, e se si vuole di proget- to della storia dell’abitare a Pompei, pone alla base delle proprie considerazioni una serie di riflessioni sulla scorta di quanto elaborato da storici, antropo- logi e filosofi relativamente al senso primario del fare architet- tonico oltre che sul suo originale contributo alla conoscenza del mondo in cui egli vive. In particolare mi piace ricordare una considerazione fatta dal filosofo Masullo sulla primaria re- lazione tra l’uomo, il mondo e i suoi simili, quando ha scritto che “l’architettura risponde a un bisogno di dinamicità, all’esigenza
di stabilizzare l’uomo nel cambiamento, alla necessità di ambienta- re l’uomo nel disambientamento, per radicarlo nel suo più proprio “essere nel mondo” [...] Infine, va ricordato che l’architettura aiuta l’uomo non solo ad abitare il mondo e ad abitare il tempo, ma anche, se così posso dire, ad abitare gli altri uomini. L’architettura appresta all’uomo non soltanto luoghi di protezione e di lavoro, ma altresì di incontro non tanto nel senso letterale quanto nel senso dello scambio spirituale o, appunto, dell’abitare gli altri”10.
Nell’evidente richiamo ad Heidegger di questo passo troviamo una comunanza con i più noti studi, almeno per gli architetti, condotti su questi temi da Norberg-Schulz.
Proprio Cristian Norberg-Schulz nell’indagare sul senso pri- mario dell’abitare parte dalla origine esistenziale della costitu- zione dello spazio interno della casa ribadendo la sostanziale coincidenza tra mondo e manufatto quando afferma che “la
casa, quindi, non comunica l’intendimento come spiegazione, ma nel senso inglese di under-standing, dello “stare sotto”, oppure “tra” le cose. Nella casa l’individuo fa l’esperienza dell’essere parte del mon- do”11. Un’esperienza principalmente fisica, non necessariamen- te esclusivamente intellettuale.
Più avanti lo stesso autore norvegese puntualizza meglio que- sto pensiero affermando che “in effetti la casa ha il compito di
rivelare il mondo, non come essenza ma come presenza, ossia come materiale e colore, topografia e vegetazione, stagioni, condizioni del tempo e della luce [...] Un rifugio non è comunque un luogo in cui si dimentichi il mondo esterno, ma un luogo dove l’individuo raduna le memorie di quel mondo e le mette in relazione con il quotidiano del