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Vinci Una comunità toscana fra Cinquecento e Ottocento

Cosimo I dei Medici, all’indomani della sua ascesa al Ducato nel 1537, provvide a rafforzare il proprio potere sull’intero territorio. Firen- ze estendeva la sua giurisdizione su una porzione limitata della Toscana dato che nella regione erano presenti lo Stato Fiorentino, la Repubblica di Lucca, la Repubblica di Siena ed il Principato di Piombino.

Due erano le magistrature che sovrintendevano al territorio duca- le: i Cinque Conservatori del Contado e del Distretto, a cui spettava il compito di controllare le spese delle comunità come Vinci e di vigilare sulle rendite pubbliche e sull’operato dei Camarlinghi (funzionari della amministrazione locale) e gli Otto di Pratica che invece dovevano risol- vere “le differenze per le quali si soleva ricorrere alla Signoria per i casi occorrenti tra comunità e comunità e tutte quelle cose dove si dispu- tano di privilegi, capitoli et esentioni e dove si disputasse l’autorità de’ magistrati o dove accadeva haver ricorso alla Signoria per querelarsi dei magistrati della città o li Rettori di fuori”1.

Cosimo, pronto a concedere maggiori autonomie alle amministrazio- ni locali pur di ottenere un rigoroso accentramento giudiziario, fiscale e giurisdizionale attraverso i suoi fedelissimi Auditori, agì soprattutto sui Rettori comunitativi. Occorreva attenuare quel carattere vessatorio che, con il trascorrere del tempo, aveva assunto tratti sempre più marcati in ogni decisione fiorentina nei confronti del contado e del distretto. L’unità

1 Ordinationi fatte dalla Repubblica Fiorentina insieme con l’Excellentia del Duca Alexandro

de’ Medici, dichiarato capo della medesima sotto dì 27 Aprile 1532, in L. CANTINI, Le- gislazione toscana raccolta e illustrata da Lorenzo Cantini, socio di varie accademie, Firen-

ze, Fantosini, 1800-1808, tomo I, p. 13. Cfr, in proposito A. Anzilotti, La costituzione

interna dello stato fiorentino sotto il Duca Cosimo I dei Medici. Firenze, Lumachi, 1910,

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Il volto del potere fra centro e periferia

dello stato nelle mani del Duca doveva ora trovare la sua manifestazione esteriore più nell’armonica coesione fra centro e periferia che nell’impro- duttivo rafforzamento dei privilegi dell’antica classe dirigente fiorentina e, proprio per dar vita ad un nuovo corso, il 13 Febbraio 1546 Cosimo pubblicò un significativo bando “Sopra i Rettori che vanno in officio”, estendendolo a qualsivoglia città, terra o luogo del ... dominio”2.

Il Duca di Firenze voleva richiamare l’attenzione dei propri funzio- nari su vari punti ma, in particolare, desiderava fissare in modo catego- rico il numero degli “officiali, famiglie et cavalcature “3 presenti in cia-

scun luogo e conferire ad essi una nuova dignità per una migliore am- ministrazione della giustizia. Tutte le carceri pubbliche dovevano essere “rassettate et custodite con diligentia”4 e persino le vesti dei Rettori do-

vevano essere caratterizzate dal massimo decoro, dato che solo “drappi buoni et honorevoli” e “panni o rascie fini”5 sarebbero stati, da allora in

poi, consentiti.

Era solo il primo passo verso il riordinamento del potere periferico ed il 27 Luglio 1546, Cosimo intervenne di nuovo con una importante leg- ge: Sopra l’osservanza et approvazione delli Statuti delle Comunità di fuori

e del tenere i Rettori e birri e famigli ne’ loro palazzi. Questa volta erano

gli Statuti delle Comunità al centro dell’attenzione del Duca ed il Me- dici chiariva con estrema precisione il suo atteggiamento nei confronti dei testi normativi che gli usi e la consuetudine avevano generato.

“Che per l’avvenire non sia alcun Rettore ... preposto ... o che si pre- ponessi al governo e reggimento di qualsivoglia popolo et all’esercizio di qualsivoglia giurisdizione et alla amministrazione della santa giustizia che ardisca, o presumere in alcun modo, né sotto alcun quesito colore, direttamente o per indiretto, transgredire, così nel conoscere, come nel decidere e terminare le cause criminali, gl’ordini e Statuti a’ quali egli è o

2 CANTINI, Legislazione toscana, cit., tomo I, p. 277. Cfr. in proposito E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, Firenze, Sansoni, 1973, p. 76. E. FASANO GUARINI, Potere centrale e comunità soggette nel granducato di Cosimo I, “Rivista Sto- rica Italiana”, LXXXIX, 1977, p.501.

3 CANTINI, Legislazione toscana, cit., tomo I, p. 277. 4 Ivi, tomo I, p. 279.

sarà sottoposto, ma quelli debba al tutto osservare e secondo quelli giudi- care, assolvere e condennare, sì come troverà per giustizia convenirsi”6.

Cosimo ribadiva dunque il valore delle particolarità locali rafforzan- done il significato giuridico per porre un freno agli eventuali arbitri dei propri funzionari e, proprio nella stessa legge del 27 Luglio 1546, giun- geva ad ordinare in maniera perentoria:

“Che tutte le Comunità ... che si trovassino havere propri Statuti de’ quali non siano gli originali o le copie autentiche alle Riformagioni, sieno tenute e debbino intra un anno prossimo futuro ... haverne fatto fare un altro libro in fogli reali o in mezzanella bolognese e di buonissi- ma lettera, nel quale apparisca scritto tutto quello che si trovi ne’ propri originali e di sorte che non vi manchi pure una parola”, da consegnare, riscontrato ed emendato “nell’Archivio Pubblico di detta Cancelleria delle Riformagioni”7.

Se “drappi buoni et honorevoli” dovevano caratterizzare i funziona- ri dello stato in ogni località, anche lo stile di vita esteriore dei singoli abitanti doveva essere improntato ad austerità e decoro. Cosimo ema- nò precise disposizioni al riguardo per imporre un’unica disciplina sun- tuaria e bandire ovunque, nella maniera più rigorosa, l’eccessiva osten- tazione del lusso. Solo i membri della famiglia ducale o gli esponenti dell’ aristocrazia di corte potevano esibire senza freni la loro ricchezza, tutti gli altri dovevano contenere entro ristretti confini le caratteristi- che estrinseche di vesti e gioielli che finivano così per assumere precisi connotati sociali.

La legge Sopra gli ornamenti et habiti degli huomini et delle donne del 19 Ottobre 1546, relativa a Firenze ed al suo contado, fu estesa dunque anche a Vinci ed è estremamente eloquente nel suo contenuto per farci comprendere un aspetto importante della vita quotidiana cinquecente- sca. Alle donne, ad esempio, non era lecito: “Portare ... per ornamento delle persone loro gioie, perle, né pietre fini d’alcuna ragione, né ancora ambre, christalli, vetri, ossi, avori, madreperle, brilli, né altre simili pie- tre ... Non possino ancora portare oro né argento sodo, tirato né filato

6 Ivi, tomo I, p. 313. 7 Ivi, tomo I, p. 316.

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... in alcuna sorte di ornamenti, vestimenti o cuciti loro se non cathene, gorgiere, cuffie, nastri o vero grillande, anella ...

In oltre non possino le dette donne e fanciulle portare per vestimen- to o ornamento delle persone loro zibellini, latiti, hermellini, lupicer- vieri, gatti di Spagna, velluti alti e bassi di qualunque colore, drappi al- la broccata con pelo, tabi, né corone, maniglie o altri simili ornamenti, pasta d’ambra, né muscho. Né guanti profumati ... né penne o piume in berrette e cappelli ... Non possin portar lavori o ricami d’oro, d’argento buono o contraffatto, né di seta ... in vestimenti, ornamenti, camicie, pezzette, né in altri habiti o portamenti loro, né filetti, né vergole, né passamani, né nastri con opere d’alcuna sorte”8.

Rigorose norme riguardavano anche l’abbigliamento maschile. La massima austerità doveva essere il tratto dominante e gli uomini di Vin- ci, di qualunque età e condizione, non potevano indossare: “Velluto alto et basso, né drappi alla broccata con pelo, né etiam calze di drappo di alcuna ragione ... né vesti o altri habiti loro ricamati, stampati, trinciati o frappati in alcun modo”9.

La condizione sociale di ciascuno doveva essere ben riconoscibile dall’abito. Per questo i contadini, oltre ai divieti già specificati, ne ave- vano di aggiuntivi. Non potevano infatti permettersi: “Né ciambellotti ... né stere et in oltre non possin bordar gl’abiti loro di drappo. Né por- tar seta per cingersi ... e non possin portare, tanto gl’huomini, quanto le donne, panni di grana o di chermisi, salvo che in berrette”10.

Anche le meretrici venivano ricordate. Non potevano indossare “vesti di drappo, né seta d’alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento elle vorranno”11: La loro attività infamante doveva esse-

re ben visibile a tutti e per questo erano obbligate ad avere: “Un velo, o uno sciugatoio, o fazzoletto, o altra peza in capo che habbi una lastra larga un dito d’oro, o di seta, o d’altra materia gialla e in luogo che ella possa esser veduta ... a fine che elle sien conosciute dalle donne da bene

8 Ivi, tomo I, pp. 318-319. 9 Ivi, tomo I, p. 320. 10 Ivi, tomo I, p, 322. 11 Ibidem.

e di honesta vita”12.

Rigorose pene pecuniarie avrebbero inesorabilmente colpito chiun- que avesse violato per la prima volta la legge ed anche “sarti, sarte, cal- zaiuoli et loro garzoni ... che facessino, tagliassino o cucissero alcuna delle cose proibite”13. I recidivi sarebbero incorsi nella tortura e nella

diffamazione. Due tratti di fune erano previsti per gli uomini e la go- gna per le donne.

Terribili i tratti di fune, la forma di tormento corporale più diffusa nello stato fiorentino. Al condannato venivano legate le braccia dietro alla schiena e ad esse veniva collegata una lunga corda. Il capo opposto della corda veniva fatto passare ad un anello appeso al soffitto di una stanza o ad una trave ed il malcapitato veniva sollevato fino a quel pun- to. Le braccia non potevano ruotare per le caratteristiche anatomiche dell’articolazione ed i legamenti provocavano un terribile dolore per la torsione a cui erano sottoposti.

Dopo essere stato innalzato, il condannato veniva abbassato fino a terra e sollevato di nuovo tante volte quanti fossero i tratti di fune sta- biliti. Niccolò Machiavelli ad esempio, per i sospetti che avesse aderito alla congiura di Agostino Capponi e di Pietro Paolo Boscoli, ebbe ben sei tratti di fune nel 151314 e riuscì a resistere al dolore.

La Comunità di Vinci, assieme a quella di Cerreto Guidi, era sede di Podesteria. Il Podestà, la cui competenza era limitata alle cause civili, risiedeva equamente sei mesi l’anno a Vinci e sei mesi a Cerreto Guidi. La Podesteria, nel suo insieme, comprendeva: Vinci, Cerreto, Corliano, Gonfienti, Collepietra, Gavena, Collegonzi, Greti, Petroio, Sovigliana, Spicchio e Vitolini.

Il Vicario curava l’amministrazione della giustizia sotto il profilo pe- nale ed i Vicariati avevano un ambito territoriale molto più ampio delle podesterie data la minor quantità di reati penalmente rilevanti. Nel caso di Vinci il Vicariato competente era quello di S. Miniato al Tedesco ed in quella località era necessario recarsi per ogni procedimento giudiziario.

12 Ibidem.

13 Ivi, tomo I, p. 323.

14 Cfr. R. RIDOLFI, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma, Belardetti, 1954, p. 208. VIII - Vinci. Una comunità toscana fra Cinquecento e Ottocento

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Vinci godeva di uno Statuto Giurisdizionale e di uno Statuto Am- ministrativo e non mancò di uniformarsi alle disposizioni cosimiane. I propri testi normativi, ancor oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze nel fondo Statuti delle Comunità autonome e soggette15, sono

di estremo interesse per mettere a fuoco regole e consuetudini locali di quel lontano periodo.

Davvero singolare risulta, ad esempio, il numero dei giorni “feriati”, legati in gran parte al culto divino o a particolari eventi della dinastia me- dicea, nei quali, oltre a non svolgere alcuna attività lavorativa, era proibi- to procedere a confische o ad arresti da parte dell’apparato giudiziario.

Tali giorni erano: ogni “domenica, il 1 di Gennaio per la Circoncisio- ne del Signore ed dì della Epifania, a 9 per la creatione dell’Ill.mo et Ecc. mo Sig. Cosimo dignissimo Duca di Firenze e Siena, il giorno di Santo Antonio Abate, el dì di San Bastiano et il dì della conversione di Paulo; a dua di Ferraio per la purificatione della Vergine Maria, alli 3 per la festa di San Biagio, alli 5 Santa Agata, alli 22 per la cadedra di San Pietro et il dì di San Mattia Apostolo; alli 7 di Marzo San Thommaso d’Aquino, alli 12 San Gregorio papa, alli 19 San Giuseppe, alli 25 la Annuntia, con un dì innanzi e uno doppo, tutta la Septimana Sancta cominciando il sabato dell’Ulivo con i tre giorni della Pasqua; alli 5 d’Aprile Sant’Am- bruogio, alli 23 San Giorgio, alli 25 San Marco, alli 29 San Pier Marti- re; al 1 di Maggio San Iacopo e San Filippo, il giorno della inventione della Croce, con un giorno innanzi e un doppo, alli 6 San Giovanni an- te Portam Latinam, alli 8 San Michele, alli 13 Santa Maria Marta, alli 25 San Zanobi, el giorno dell’Ascensione, la Pasqua dello Spirito Santo con un giorno innanzi e un doppo; alli 11 di Giugno San Bernaba, alli 14 feriato insino a tutto il mese per le ferie di San Giovanni ... alli 2 di Luglio la Visitatione della Beata Vergine, alli 22 Santa Maria Magdale- na, alli 25 San Iacopo, alli 27 San Pantaleone martire et in nel populo di esso un dì innanzi e un doppo; el 1, 2 e 3 d’Agosto per la presa di Montemurlo e per la rotta di Piero Strozzi, alli 6 la Trasfiguratione del Signore, alli 7 San Donato e in nel populo d’esso, un dì innanzi e un

15 Archivio di Stato di Firenze (A.S.F.), Statuti delle Comunità autonome e soggette, 935 e 936.

doppo, alli 13 Santo Hypolito, alli 15 l’Assompta di Nostra Donna, con un dì innanzi e un doppo, alli 28 Sant’Augustino, alli 29 la decollatione di San Giovanni, alli 8 di Septembre la Natività di Nostra donna, con un dì innanzi e un doppo per il titolo della cappella del Comune, alli 14 la exaltatione della Croce, alli 21 San Matteo Apostolo, alli 29 San Mi- chele, alli 30 San Girolamo; alli 4 d’Ottobre San Francesco, alli 18 San Luca, alli 28 Simone e Giuda; el 1 di Novembre, con un giorno innanzi e un doppo, alli 9 San Salvatore, alli 11 San Martino, alli 25 Sancta Ca- therina, el dì di Sant’Andrea, protettore et avvocato del populo di Vinci, con 4 dì innanzi e 4 dì doppo; alli 4 di Dicembre Santa Barbera, alli 6 San Niccolaio, alli 8 la Conceptione di Nostra Donna, alli 10 per la sa- gra della chiesa di Vinci, alli 13 Santa Lucia et in nel populo di essa un dì innanzi e un doppo, alli 21 San Tommaso Apostolo, alli 24 per sino a tutto detto mese per la Natività di Nostro Signore”16.

Con grande severità si procedeva contro chiunque avesse danneggia- to corsi d’acqua per la cronica penuria di risorse idriche che affliggeva la zona:

“Che niuna persona ardisca o presuma in alcun modo chiudere et im- pedire e del suo luogo trarre alcun corso o ver condotto d’acqua corrente ad alcun mulino ... Che nessuna persona ardisca in alcun modo menare a bere alcuna bestia sua e d’altri ad alcuna fonte della qual gl’huomini di quel luogo si servono per bere, né appresso a quelle far brutture, o lavar panni di alcuna sorte ... e nessuna persona per nessun modo guastare o impedir il corso dell’acqua che va nel fosso del Castel di Vinci ... e che nessuna persona ardisca gittare in esso fosso alcuna bruttura e che nessu- na persona possa metter in esso fosso, lino, o in alcuna fonte o rio”17.

Il massimo decoro doveva caratterizzare il centro abitato e norme pre- cise impedivano ogni gioco sconveniente presso edifici sacri o la loggia del Comune:

“Che alcuna persona del Comune di Vinci non ardisca o presuma gio- care a carte, dadi o simil giuochi profani vicino a chiese, compagnie et altri luoghi pii ... cioè a braccia 50 et sotto la loggia di detto Comune le

16 A.S.F., Statuti, cit, 936, cc. 8r-9r 17 Ivi, cc 12v-13r

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domeniche et le altre feste comandate, infino che non son dette le mes- se et in nel tempo della Quaresima non si possano ... giuocar in detta loggia a detti giochi a modo alcuno ... Item che alcuna persona ... non ardisca o presuma girare alcuna sorte di girelle o pallottole dalla Porta di Borgo in sù, né in alcun altro luogo di detto castello”18.

Ogni produzione era importante per accrescere la disponibilità di generi alimentari e, fra i numerosi divieti ne troviamo di singolari, che rivelano quanto fosse grama la vita quotidiana e sempre incombente il dramma della carestia:

Se nessuno poteva infatti “menare o menar fare a pasturare bestie porcine, vaccine e agnelline nel castel di Vinci, né nelle ripe, né in piaz- za, né per la via che va dalla Porta di Borgo insino alla Vergine”, ogni “lavorator di terra” era invece “tenuto e debba ciascun anno, ne’ tempi convenevoli far o far fare orto in sua terra, o vero condotta da altri, in qualsivoglia modo”19.

La figura più significativa di questi anni è senza dubbio quella di Pie- rino da Vinci, valente scultore, figlio di Bartolomeo, fratello minore del celebre Leonardo. Giorgio Vasari, nelle sue Vite, dedica largo spazio a Pierino, offrendoci di questo artista un ritratto minuzioso e ricco di fa- scino. Nato a Vinci attorno al 1533, fu prima allievo di Baccio Bandi- nelli a Firenze e successivamente del Tribolo “il quale pareva a Bartolom- meo che più s’ingegnasse d’aiutare coloro i quali cercavano d’imparare e che più attendesse agli studi dell’arte e portasse ancora più affezione alla memoria di Lionardo”20.

Dopo i primi esercizi ed alcuni incoraggianti risultati, Pierino “preso adunque animo e comperato un pezzo di pietra bigia lungo due braccia e mezzo e condottolo a casa sua al Canto alla Briga, cominciò ... a lavo- rarlo ... Era questa una figura di Bacco che aveva un satiro a’ piedi e con una mano tenendo una tazza, nell’altra aveva un grappolo d’uva”21, Era

18 Ivi, cc. 15 r-v. 19 Ivi, c. 15v.

20 G. VASARI, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Salani, 1969,

Vita di Pierino da Vinci, vol, V, p. 317.

una delle sue prime, importanti sculture e Bongianni Capponi subito l’acquistò, collocandola nel proprio palazzo fiorentino e trasmettendola poi ai suoi discendenti.

Il legame con il Tribolo fu a lungo produttivo e Pierino collaborò attivamente con il maestro realizzando numerosi lavori in marmo e in bronzo. Un soggiorno romano consentì al giovane scultore di approfon- dire la propria esperienza culturale e di studiare da vicino quei modelli della classicità che costituivano il percorso formativo di ogni artista. La protezione di Luca Martini, alto funzionario mediceo e Provveditore a Pisa per incarico di Cosimo I, fu determinante per imprimere nella vita di Pierino una svolta decisiva.

Trasferitosi a Pisa, il nipote di Leonardo ebbe modo di scolpire in marmo “un fiume giovane che tiene un vaso che getta acqua ed è il vaso alzato da tre fanciulli”22. Appena terminata, l’opera fu donata al Marti-

ni che, a sua volta, la offrì in segno di devozione ad Eleonora di Toledo, “ed a lei fu molto cara perché allora essendo in Pisa don Garzia di To- ledo, suo fratello, venuto con le galere, ella la donò al fratello, il quale con molto piacere la ricevette per le fonti del suo giardino a Napoli, a Chiaia”23.

Luca Martini leggeva e studiava con passione la Divina Commedia ed in onore di Dante Alighieri e dello stesso Martini, Pierino realizzò un bassorilievo in bronzo, dedicato alla triste vicenda della morte per fame del Conte Ugolino della Gherardesca, “che sommamente piacque”24.

Non poteva mancare a questo punto una commessa pubblica e, per il mercato nuovo di Pisa, Pierino scolpì attorno al 1550 una Dovizia in travertino “tre braccia e mezzo alta”25, ancor oggi esistente.

La fama del nipote di Leonardo stava diffondendosi e l’esplicito lega- me con Cosimo I e con Eleonora di Toledo accresceva costantemente il prestigio dello scultore. Un suo bassorilievo in marmo, “nel quale espres- se una Nostra Donna con Cristo, con S. Giovanni e con S. Elisabetta” si

22 Ivi, p. 323. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 324. 25 Ibidem.

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trovava addirittura “fra le cose care del Duca nel suo scrittoio”26 e nessu-

na testimonianza poteva esprimere in modo più tangibile, agli occhi dei contemporanei, la familiarità dell’artista con la corte fiorentina.

In questo clima di costante entusiasmo maturò una importante com- messa. La famiglia Turini di Pescia voleva onorare il membro più illu- stre del proprio casato: Monsignor Baldassarre, che era stato Datario di Leone X Medici, Segretario di Clemente VII Medici, Chierico di Ca- mera di Paolo III Farnese ed esecutore testamentario di Raffaello San-