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Il nome e il simbolo. L'onomastica nelle opere di Cesare Pavese.

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Indice sommario

Introduzione 3

1. L'importanza dei nomi in Cesare Pavese 7

1.1 L'influsso dialettale nei nomi di Ciau Masino.

Il nome in Paesi tuoi e in Feria d'agosto. 9 1.2 La narrativa 'impegnata': Il carcere, La casa in collina,

Il compagno 16

1.3 Il Premio Strega e La luna e i falò 25

2. Il nome proprio nei Dialoghi con Leucò 39

2.1 La forma dialogica dei Dialoghi con Leucò 39

2.2 Il nome femminile 45

2.3 Struttura e temi dell'opera 53

2.4 I nomi e gli dei 59

2.5 Elenco dei nomi propri dei Dialoghi con Leucò 65

3. Pavese classico 69

3.1 Gli studi etnologici e la «Collana Viola» 69

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3.3 Pavese lettore di Frazer 79

3.4 Il «selvaggio»: dalle poesie ai romanzi 84

4. Dai Dialoghi con Leucò al mito 92

4.1 La letteratura americana e la «poetica del mito» 92 4.2 Il mito dell'infanzia nella campagna di Feria d'agosto 101

5. I nomi simbolo nella poetica pavesiana 109

Conclusione 130

Appendice (Elenco dei nomi propri) 136

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Introduzione

Scopo di questa tesi di laurea è analizzare la strategia di nominazione dello scrittore piemontese Cesare Pavese. Si prenderà in considerazione la sua produzione prosastica, composta dai romanzi e dai racconti, tenendo anche conto delle sue annotazioni nel Mestiere di vivere: Ciau Masino (1932); Il carcere (1939);

Paesi tuoi (1939); La bella estate (1940); La spiaggia (1941); Dialoghi con Leucò (1947); Il compagno (1947); La casa in collina (1947-48); Il diavolo sulle colline (1948); Tra donne sole (1949); La luna e i falò (1950); Fuoco grande (1959, postumo); il racconto Notte di festa, contenuto nell'omonima raccolta (1936-39) e quelli raccolti in Feria d'agosto (1946). Si tenterà, quindi, di delineare l'usus scribendi di Pavese, partendo

dai suoi primi lavori, per arrivare a quelli più maturi dell'ultimo periodo, con lo scopo di evidenziare le possibili ragioni delle sue scelte onomastiche.

In letteratura, infatti, il nome di un personaggio è il risultato di una scelta operata dall'autore, spesso mossa da specifiche motivazioni; per questo, può considerarsi fondamentale approfondire le ragioni di tali scelte, ai fini di una maggiore comprensione dell'opera stessa. Il nome può contribuire a definire un personaggio, può suggerire riflessioni sulla sua personalità o specificarne l'identità; un nome può celare significati simbolici, fornire un riconoscimento etimologico al personaggio, o richiamare precedenti letterari.

Obiettivo di questo lavoro sarà, dunque, quello di fornire un'analisi dei personaggi pavesiani tenendo conto, in primo luogo, dei nomi propri (antroponimi), considerando poi i loro tratti fisici e caratteriali, e tracciando, ove possibile, un collegamento tra di essi. Nel caso specifico, lo studio dei nomi propri porterà alla luce la consuetudine dell'autore di ricorrere assai sovente all'io narrante, il quale rimane molte volte anonimo. Saranno considerati anche i casi in cui questa particolare scelta stilistica avviene e messi in relazione con gli altri, in cui lo scrittore fornisce un nome, spesso ritardandone la rivelazione, come si

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4 vedrà.

Alla generale analisi onomastica dei romanzi pavesiani ne seguirà una più specifica sui Dialoghi con Leucò, il testo a cui l'autore, per sua stessa affermazione, fu più legato. Unico lavoro pavesiano scritto in forma dialogica – carattere suggerito sin dal titolo –, I Dialoghi con Leucò affrontano la tematica classica e gli aspetti tragici e mitici in essa contenuti, che Pavese sente necessariamente di trasmettere sotto forma di dialogo. I quesiti esistenziali dell'essere umano, le paure che lo hanno spinto a rivolgersi ad entità 'altre' vengono approfondite in quest'opera, riflettendo le preoccupazioni dell'autore e il dialogo con se stesso tra i poli opposti della sua complessa personalità. Il tutto avviene attraverso il linguaggio, per mezzo del quale i diversi personaggi rivelano dal profondo 'la più intima realtà', dialogando tra di loro e chiamandosi per nome. Una visione generale dell'opera sarà corredata da una più approfondita indagine delle tematiche che dominano i diversi dialoghi, soffermandosi in particolar modo sulle novità che il tempo degli uomini presenta rispetto a quello degli dèi: il riferimento inevitabile sarà alla 'nuova legge', di cui si parla sin dal primo dialogo e che impone nuovi limiti agli uomini. Se è vero che – come si legge nel dialogo I

ciechi – il mondo esisteva ancora prima di qualunque cosa, «quando il tempo non

era ancor nato»1 ed erano le cose stesse a regnare, gli uomini dei Dialoghi

pavesiani possono affermare la loro dignità di fronte al destino, grazie alla loro capacità di nominare. Sarà, inoltre, evidenziata l'importanza che il nome femminile assume nell'opera in questione, anche tenendo conto del particolare ruolo che la donna riveste nella vita dell'autore e, dunque, aggiungendovi riferimenti agli altri romanzi. Le divinità femminili instaurano il contatto con gli uomini proprio grazie alla parola, accostandosi 'con voce umana' ai rischi del mondo umano, quel mondo di cui esse non possono comprendere a pieno le capacità.

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I differenti argomenti che muovono i Dialoghi saranno esposti anche citando alcuni appunti dell'autore, dimostrando il suo forte attaccamento ad essi, evidente anche dalla loro presenza nell'intera produzione pavesiana e non soltanto nell'opera in questione: si tratta dell'infanzia, del fato, della contrapposizione tra l'umano e il divino, con i differenti aspetti che dominano l'una e l'altra categoria. Tematiche, queste ultime, che mi permetteranno di sviluppare un'analisi su Pavese classico, prima di tutto partendo dagli studi etnologici che gli furono di ispirazione per I Dialoghi con Leucò, ma anche per l'elaborazione delle immagini 'mitiche', che stimolarono le sue riflessioni ed i suoi romanzi. L'approfondimento sui Dialoghi si concluderà con un'analisi delle strategie onomastiche operate da Pavese e sul valore della nominazione nel rapporto tra uomini e dèi. I nomi propri saranno, infine, catalogati alfabeticamente in un elenco.

Il capitolo su Pavese classico si pone l'obiettivo di mostrare ragioni e modalità di approdo al mondo classico: dapprima in qualità di traduttore degli autori americani e, in secondo luogo, come studioso degli autori classici, lo scrittore piemontese fa esperienza di questa cultura sulla propria pelle, acquistando una sempre maggiore consapevolezza.

Approfondimenti dettagliati delle opere di Paula Philppson (Origine e

forme del mito greco) e di James George Frazer (Il ramo d'oro), risulteranno

fondamentali per un approccio agli argomenti etnologici e per una corretta comprensione di essi. Si vedrà come Cesare Pavese, certamente lettore di queste opere, si sia avvalso di alcune riflessioni necessarie per la sua definizione di mito e di simbolo: grazie alle sue letture etnologiche, infatti, questi giunge a collocare le sue intuizioni in una più rigorosa teoria. Gli interessi di Pavese per la cultura etnologica devono, tuttavia, ritrovarsi negli anni del suo confino, anni di isolamento durante i quali l'autore piemontese approfondirà gli studi classici, approdando al mito. Trovato finalmente il filo conduttore tra passato e presente, tra mito e storia, tra campagna e città, si delineerà la presenza del «selvaggio» nei

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suoi componimenti poetici e negli scritti in prosa, introducendo l'argomento del capitolo seguente.

Dalla presenza del mondo classico e di quello etnologico nelle opere pavesiane e dalle ragioni che motivarono tali presenze, si svolgerà una più approfondita analisi del concetto di mito e delle sue diverse considerazioni che, a partire dal suo significato nei Dialoghi con Leucò, attraverso gli stimoli provenienti dalla letteratura americana, si ritrovano nella poetica pavesiana. Nello specifico, si svilupperanno il tema dell'infanzia e, con esso, quello del ricordo e delle 'immagini primordiali', tra i più importanti elementi di quelli che chiameremo i 'miti pavesiani'. Opportuni esempi tratti dalle opere e dai suoi più celebri saggi testimonieranno le meditazioni di Pavese sul mito, generate a partire dalla crisi di fiducia nella validità degli strumenti realistici del raccontare. Particolare attenzione sarà data ai racconti di Feria d'agosto, la cui ambientazione in campagna sembra ospitare una realtà fuori dal tempo, in cui i 'miti personali' di Pavese – primo fra tutti quello dell'infanzia – trovano una loro teorizzazione.

Il lavoro di tesi si chiuderà con uno studio dei 'miti pavesiani', attraverso un'attenta analisi del valore simbolico di cui questi elementi sono portatori. A seguito di un'ulteriore indagine del valore del mito, se ne comprenderà il ruolo cardine all'interno dell'ideologia pavesiana, legato alla sua capacità di organizzare le cose nella realtà extra-temporale. In questa nuova organizzazione delle cose nel mondo è racchiuso il processo di simbolizzazione, che trasforma le immagini del reale in immagini-ricordo, ossia immagini mitiche, assolute. Si analizzeranno i nomi simbolo che identificano tali immagini assolute: nomi comuni che acquistano un valore completamente nuovo e di primaria importanza, in quanto massima espressione di quei 'miti pavesiani' che essi stanno a simboleggiare. Le immagini mitiche di Pavese arrivano, così, a rappresentare il simbolo della sua esperienza, e i nomi considerati – di cui Collina, Campagna, Città, Donna, Vigna, Estate, Luna sono solo alcuni esempi – ne saranno, appunto, visibile testimonianza.

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1. L'importanza dei nomi in Cesare Pavese

L'onomastica letteraria è un'area della critica letteraria nella quale gli studiosi hanno a che fare con il significato dei nomi nel dramma, nella poesia, nella narrativa e nella letteratura popolare. Questi nomi comprendono i nomi dei luoghi, dei personaggi, delle maschere comiche, persino delle opere stesse (il titolo come 'nome').2

In questo modo gli studiosi Grace Alvarez Altman e Frederick M. Burelbach hanno definito l'onomastica letteraria in occasione della quindicesima ricorrenza annuale della «Literary Onomastics Conference». La scelta del nome in letteratura è importante proprio come nel contesto familiare, quando si aprono talvolta lunghi dibattiti per la scelta del nome del nascituro. Ebbene, i nomi in un romanzo hanno la stessa importanza, essendo i personaggi creazione dell'autore, generati dalla sua immaginazione e 'vivi' grazie a lui. Si pensi ai sei personaggi pirandelliani, ideati dalla 'Fantasia' dell'autore e da quel momento 'creature del suo spirito'. Scrive Pirandello, nella Prefazione ai Sei personaggi in cerca d'autore:

Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. […] Creature del mio spirito, quei sei già vivevano d'una vita che era la loro propria e non più mia, d'una vita che non era più in mio potere negar loro.

Tanto è vero che, persistendo io nella mia volontà di scacciarli dal mio spirito, essi, quasi già del tutto distaccati da ogni sostegno narrativo, personaggi d'un romanzo usciti per prodigio dalle pagine del libro che li conteneva, seguitavano a vivere per conto loro; coglievano certi momenti della mia giornata per riaffacciarsi a me nella solitudine del mio studio, e or l'uno or l'altro, ora due insieme, venivano a tentarmi, a propormi questa o quella scena da rappresentare o da descrivere, gli effetti che se ne sarebbero potuti cavare, il nuovo interesse che avrebbe potuto destare una certa insolita situazione, e via dicendo.3

2G. Alvarez Altman e F. M. Burelbach, in occasione della «Literary Onomastics Conference», New York, 1987. 3L. Pirandello, Prefazione a Sei personaggi in cerca di autore, Milano, Mondadori, 1937.

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Il nome occorre a definire un personaggio, occorre a suggerire riflessioni sulla sua personalità ed a specificarne l'identità; un nome può celare significati simbolici, può fornire un riconoscimento etimologico al personaggio, può avere richiami letterari antecedenti. Wellek-Warren scrive in Teoria della Letteratura:

Il modo più semplice di definire un personaggio è l'attribuzione del nome, che in ogni caso può dare vitalità e individualità4.

E ancora, Edoardo Sanguineti:

Un nome proprio di persona, diciamo un Nome maiuscolato, è in ogni caso un forte portatore di indizi e di segnali, a saperli soltanto leggere, e gronda di informazioni, ed è tutt'altra cosa che quella etichetta neutra e convenzionale, quale in astratto si suole pretendere, assai sovente, che sia.5

Certamente, anche il caso di Pavese può essere preso in considerazione, ma deve collocarsi nel contesto novecentesco in cui i nomi propri stavano perdendo il carattere connotativo a favore di quello denotativo6: in tale,

progressiva, perdita di implicazioni da parte del nome proprio si inserisce l'esperienza pavesiana, considerando che, proprio come ogni autore, anche lui deve essersi trovato di fronte alla scelta del nome dei suoi personaggi.

Se si tiene conto dell'intera carriera narrativa pavesiana, prima ancora della ricorrenza di alcuni particolari nomi, o delle ragioni di determinate scelte onomastiche, spicca evidentemente la tendenza dell'autore a ricorrere all'io narrante. Questa scelta stilistica sostanziale coincide spesso con l'assenza di nome per colui che narra, il quale rimane anonimo in ben ventidue casi. A proposito di ciò, Davide De Camilli7 precisa i testi nei quali questo avviene: per l'esattezza si

tratta di due racconti – L'intruso (1937) e Suicidi (1938) –, diciotto brani della

4Wellek-Warren, Teoria della Letteratura, Bologna, Il Mulino, 1965, pp. 302-3.

5E. Sanguineti, Introduzione a E. De Felice, Nomi e cultura, Venezia, Marsilio editori, 1987, IX.

6A proposito dei nomi propri, John Stuart Mill aveva scritto: 'denotano gli individui che sono chiamati con quei nomi, ma non indicano, o implicano, nessun attributo come appartenente a quegli individui' (L. Sasso, Il nome nella letteratura, Genova, Marietti, 1990, p. 12).

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raccolta Feria d'agosto8, e i romanzi La spiaggia (1942) e Il diavolo sulle colline (1948).

Sommando a questi numeri le undici volte in cui l'io narrante prende un nome, ci troviamo di fronte a ben trentatré casi di narrazione in prima persona.

All'analisi onomastica che ivi si vuole delineare deve, inoltre, aggiungersi la particolare consuetudine dell'autore di celare il più possibile nel testo il nome dei personaggi, o di ritardarne la rivelazione, soprattutto qualora si tratti di personaggi particolarmente rilevanti ai fini dello svolgimento della trama.

1.1 L'influsso dialettale nei nomi di Ciau Masino. Il nome in Paesi tuoi e in Feria d'agosto.

Dal settembre 1931 al febbraio 1932, Pavese lavora a Ciau Masino9, una

raccolta di racconti e poesie giovanili: i brevi racconti procedono parallelamente e si alternano, due alla volta, ad una poesia. Se ciascuna poesia è più esplicitamente rivolta al racconto che la precede, ogni capitolo in prosa non si lega direttamente a quello precedente, ma riprende la narrazione da una fase più avanzata.

I protagonisti delle sezioni narrative sono, alternativamente, Masino e Masin. Masino, o meglio Tommaso Ferrero, è un giovane giornalista che, nel tentativo di dare una svolta alla sua vita, incontra un musicista a cui sottopone la sua canzone di «giazze», frequenta i cinematografi, ma conosce anche gli ambienti della periferia di Torino; dopo una breve avventura sentimentale, infine, parte per l’America (inviato dal giornale per il quale lavora), avviando una nuova vita, emozionante perché in un’altra lingua. Masin è invece un meccanico della Fiat, che aspira a conquistare il possesso della lingua attraverso la cultura: costretto a lasciare la Fiat e la città di Torino per aver investito un ubriaco, si

8Il nome, Fine d'agosto, Il campo di granturco, La Langa, Vecchio mestiere, Insonnia, L'eremita, Una certezza,

Risveglio, Il tempo, L'estate, Vocazione, La città, Le case, Le feste, Nudismo, Il colloquio del fiume, Storia segreta.

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aggira per le Langhe alla ricerca di un nuovo lavoro, e, una volta tornato a Torino, conosce una ballerina che decide di sposare. La sua vicenda si conclude con il carcere, dove viene rinchiuso per aver assassinato la moglie, che lo aveva tradito. Per un'analisi onomastica del testo, i nomi più interessanti da analizzare sono indubbiamente quelli dei due protagonisti, le cui differenze sociali sono evidenti non soltanto nella scelta del nome, ma anche nel linguaggio utilizzato. Pavese attribuisce ai suoi personaggi la responsabilità di esplorare i diversi strati del linguaggio che la realtà offre: il dialetto è uno tra i tanti linguaggi che la realtà sociale e storica presentano; la differenziazione linguistica evidenzia quindi l’abisso che intercorre tra classi colte e ceti subalterni, tra città e campagna, i due luoghi in cui i protagonisti si muovono. Se il linguaggio di Masino, appartenente alla middle class, indica una cultura abbastanza elevata che gli permette di deformare volutamente la lingua comune, il caso del giovane operaio è opposto: questi si esprime in lingua italiana, ma il suo pensiero viene strutturato secondo moduli dialettali e colloquiali. Di entrambi Pavese fornisce sia nome che cognome, ma la differenza è chiara: l'uno è Tommaso Ferrero (Masino), l'altro Giantommaso Delmastro (Masin), ma se il primo è chiamato con la forma alterata del nome – Masino, abbreviato di Tommasino –, l'altro con quella dialettale piemontese.

La presenza dialettale è visibile anche nei nomi Rôssot e Gôsto. Nel primo caso si tratta probabilmente della pronuncia piemontese (anche in Rôss) di Rossotto, che in Ciau Masino non troviamo mai nella forma italiana, ma è usato da Pavese nel Diavolo sulle colline, dove Rossotto (probabilmente un cognome) è il padre di Oreste.

Il nome Gôsto, scritto con il circonflesso per indicare la pronuncia piemontese, viene da Augusto ed è il giovane garzone dell'autorimessa in cui Masin prova a lavorare; lo troviamo usato altre volte nella narrativa pavesiana: nel racconto Il mare (Feria d'agosto) è il compagno di avventure dell'io narrante; nel racconto Notte di festa, 'Gosto è un ragazzo, col gozzo, un povero derelitto

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ospite del Padre, insieme con Rico e con Biscione'10; anche nella Luna e i falò, infine,

Cinto nomina un certo Gosto del Morrone.

L'ipocoristico Gosto, comunque, gode di un precedente letterario, essendo il protagonista della novella pirandelliana La levata del sole. In questa novella il nome ricorre ben undici volte e, con l'eccezione dei discorsi diretti in cui gli si rivolge la moglie, è sempre chiamato dal narratore con nome e cognome, Gosto Bombichi. Eccone un esempio:

Oh! A questo punto Gosto Bombichi rimase come abbagliato da un'idea. L'alba di domani? Ma in quarantacinque anni di vita, non ricordava d'aver mai visto nascere il sole, neppure una volta, mai!11

Contenuto nelle Novelle per un anno (1922-1937), ma scritto nel 1902, il testo pirandelliano si colloca in un contesto completamente diverso: Gosto decide di uccidersi per debiti di gioco, ma proprio in quel momento si accorge di desiderare fortemente di assistere alla 'levata del sole'. Esce durante la notte e si aggira nella campagna, attendendo l'alba, ma, stanco, si addormenta. La novella si chiude con la luce del sole che lo coglie, immerso in un sonno profondo.

Bruno Porcelli spiega le ragioni di questo nome attraverso l'interpretazione simbolica e infernale che dà dell'intera novella:

Al momento della presentazione nome e cognome non trovano motivazioni culturali, regionali, caratteriali..., e appaiono, per usare una dizione di Philippe Hamon, «blanc sémantique», anzo addirittura possibile fonte di decezione,12 se è vero che il non certo raffinato

ipocoristico Gosto contrasta alquanto con l'abito da sera indossato dal personaggio. Solo a lettura avanzata emergono le ragioni simboliche di quella scelta. «Gosto! Gosto!» chiama da sottoterra Aennchen, e Gest è in tedesco l'abbreviazione normalmente usata nelle epigrafi funerarie per gestorben, 'morto'. Si può anche ipotizzare una suggestione di ghost, 'fantasma' in inglese, lingua di cui Pirandello dimostra in parecchi suoi testi una buona conoscenza.13

10D. De Camilli, cit.

11L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, I Meridiani, vol. II, Milano, Mondadori, 1985. 12«Strategia decettiva» è espressione di Hamon (P. Hamon, Pour un statut sémiologique du personage, in

Poétique du récit, recueil réalisé sous la direction de G. Genette et T. Todorov, Paris, Seuil, 1977) usata però

a proposito dei nomi trasparenti attribuiti a personaggi che non vi si rispecchiano.

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Sappiamo di una buona conoscenza della lingua inglese anche per Pavese, tuttavia, non sembra essere utile estendere una simile interpretazione al contesto, totalmente differente, di quest'ultimo. Piuttosto che tracciare un collegamento tra il Gosto di Pirandello e l'omonimo personaggio pavesiano, può comunque ipotizzarsi nel nome un'eco pirandelliana.

Tornando a Ciau Masino, sono degne di attenzione anche alcune forme onomastiche alterate come quella di Pucci, soprannome di Maria, la ballerina che Masin sposa e poi uccide: De Camilli spiega la derivazione di Pucci da Iacopuccia, a sua volta da Iacopa; Uccio, da Carluccio, è vezzeggiativo di Carlo: la forma Uccio è dovuta al fatto che si tratta di un neonato e, infatti, viene anche detto «baby». La presenza della lingua inglese è piuttosto ricorrente nel testo: realizza esiti anche piuttosto comici nella confusione tra pronuncia e scrittura nel nome Dina. Si legge nel Blues delle cicche:

– E ben Daina, dove andiamo? | – Non so, dove vuoi –. Dina si chiamava, ma Masino aveva per massima di mutare il nome alle belle, come un segno di possesso e un ricordo che le facesse fantasticare quando lui non c’era. Da Dina, Daina, scritto Dinah, inglese. Tanto bello. Non sempre però riesce.14

Si incontra, inoltre, il nome Talino – alterato di Natalino, diminutivo di Natale15 – tuttavia per un personaggio davvero poco significativo ai fini narrativi,

a differenza del Talino di Paesi tuoi.

Pavese si dedicò alla stesura di Paesi tuoi nel 1939. Protagonista dell’opera è il giovane operaio torinese, Berto, dimesso dal carcere insieme al suo compagno di cella Talino, contadino, accusato di aver incendiato una casa. Quest’ultimo propone a Berto di accompagnarlo al suo paese, con l’incarico di occuparsi della trebbiatrice durante la mietitura. Berto si inserisce rapidamente nel contesto

14C. Pavese, Ciau Masino, Torino, Einaudi, 1968, p. 17.

15Cfr. Tagliavini, Origine e storia dei nomi di persona, Bologna, Patròn, 1978, p. 443. Natale: in latino natalis,-e è un aggettivo il cui significato originario era ¬«relativo alla nascita»; era tratto da natus (per gnatus) dalla radice *gen- che troviamo in gigno e nel rgeco γίγνομαι (ghighnomai).

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familiare di Talino, pur rendendosi conto sin da subito di essersi imbarcato in qualcosa più grande di lui. Non appena si allontana da Torino, infatti, percepisce le diversità che il nuovo paesaggio e che la nuova gente gli offrono. La famiglia di Talino è composta dal vecchio padre, Vinverra, dalla madre e dalle loro quattro figlie, di cui Berto comincia a frequentare Gisella, la più giovane16. È in questo

modo che si accorge della cicatrice della fanciulla, provocatagli da una violenza subìta dal fratello. Da questo momento non si darà pace e non lo farà neppure dopo il tragico evento che segnerà la conclusione della vicenda, quando cioè Talino, accecato dalla gelosia, colpisce a morte Gisella, che aveva offerto a Berto un secchio d’acqua, per riprendersi dal caldo e dalla fatica del lavoro. Soltanto Berto (insieme ad Ernesto, il precedente macchinista, anch’egli innamorato di Gisella) ne è totalmente scosso, non riuscendo a spiegarsi come mai nessuno si preoccupi dell’accaduto, al punto che Vinverra deciderà di riprendere i lavori mentre Gisella sta ancora agonizzando.

Come si è detto, il nome Talino è usato per la prima volta da Pavese in Ciau

Masino, dove Talino è spettatore di Masin che sta suonando e cantando17; qui,

invece, Talino è fratello e assassino di Gisella. Il nome della ragazza è qui riferito all'innocente vittima di questa drammatica vicenda, che ce la presenta così:

Un bel momento Talino si drizza e viene dietro alla ragazza che mi guardava, e le ficca una mano nel collo e lei fa un salto e tutti ridevano. [...] – Ben fatto, – dice il vecchio Vinverra. Le altre ridevano: – Gisella, Gisella, – e la vecchia malediva al buio. Stiamo attenti, non siamo più a Torino, dico tra me in quel caldo. Questo qui con la scusa che è stupido, mi fa incornare da un bue alla prima occasione, se non gli lascio le sorelle per lui. Ma a buon conto si chiama Gisella.18

Immediatamente, dunque, si percepisce tra Gisella e suo fratello lo strano rapporto di cui Berto scoprirà il motivo poco più avanti. Il carattere forte e rude

16«Aveva un modo di rispondere con gli occhi, Gisella, che metteva anche lei l’incendio alla Grangia, come Talino» (C. Pavese, Paesi tuoi, Torino, Einaudi, 2001, p. 51).

17C. Pavese, Ciau Masino, cit., p. 54. 18C. Pavese, Paesi tuoi, cit, p. 26.

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della ragazza è la peculiarità che la fa risaltare agli occhi del protagonista, identificandola con la terra e contrapponendola all'ambiente cittadino da cui Berto proviene: questi caratteri, tuttavia, non richiamano esplicitamente i personaggi omonimi della Spiaggia e di Tra donne sole. Pur ricorrendo più volte nella tradizione onomastica pavesiana, il nome Gisella sembra dovuto all'uso comune e non a somiglianze tra personaggi o ragioni particolarmente care all'autore.

A ricorrere è anche Ginia, ipocoristico di Virginia, nome che svolgerà un ruolo etimologicamente importante nella Bella estate, essendo quello dell'ingenua e giovane protagonista. Tra i nomi femminili del testo risultano interessanti Miliota e Pinota, forme dialettali per Milia e Pina, rispettivamente da Emilia e Giuseppina: Emilia fa anche parte della servitù della cascina della Mora nella

Luna e i falò e Pinotta – in forma italianizzata rispetto a Pinota – è anche serva di

Poli nel Diavolo sulle colline.

Vinverra è il nome del padre di Talino. Inizialmente il figlio lo chiama «Pa'», appellativo che ricorre più volte, anche quando il lettore viene a conoscenza del suo nome. La sua descrizione fisica è piuttosto accurata e spicca soprattutto perché fornisce le prime informazioni sul personaggio, un vecchio che cammina storto dando l'impressione che stia per perdere i calzoni. Il nome Vinverra richiama evidentemente la parola vino, inoltre, -verra sembrerebbe l'italianizzazione del francese verre, che significa 'bicchiere'. In francese esiste il sintagma vin au verre, col significato di 'vino al bicchiere' e verre à vin significa 'bicchiere di vino': la prima volta che compare il suo nome, infatti, il padre di Talino è intento a tracannare un bicchiere di vino. Eccone il riferimento nel testo:

Il vecchio dice: – Mi chiamo Vinverra, – e riempì tre bicchieri. Prima di riempirli li tuffava nel secchio e buttava via l'acqua sull'aia. […] – Al piacere, – e tracanna e poi butta la goccia per terra. Io e Talino beviamo più adagio, e Talino rideva; era fresco e un po' brusco, un'acquetta, e mi fece ballare negli occhi tutta la collina [...]19.

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Berto è la forma alterata dei nomi Alberto e Roberto, entrambi molto diffusi in tutta Italia. È il nome del protagonista del romanzo, ma ricorre nella narrativa pavesiana anche in altri contesti; in particolare è anche il nome di un personaggio di Primo amore, breve racconto contenuto in Feria d'agosto. La raccolta è del 1946, dunque, siamo cronologicamente in avanti: in Primo amore Berto è il protagonista e narra in prima persona (proprio come in Paesi tuoi) del tempo trascorso con Nino ed altri ragazzi. In entrambi i testi, i nomi degli omonimi personaggi non vengono citati subito, ma qualche pagina dopo l'inizio della narrazione, cosa che invece non avviene per i loro compagni – Talino e Nino (forma alterata di Giovanni) – i quali vengono nominati secondo il punto di vista del narratore/protagonista: inoltre, entrambi presentano una peculiarità interessante, ossia quella di avere molte sorelle; se nella presentazione di Nino questo aspetto è evidente perché esplicitamente coinvolto ('Nino stava in una villetta all'uscita del paese e aveva molte sorelle che m'intimidivano'20), in Paesi tuoi le sorelle di Talino hanno un ruolo dominante ai fini dello svolgimento della

trama.

Nell'analisi di Feria d'agosto non si può non tenere conto del racconto di apertura, che risulta interessante sin dal titolo: Il nome. Qui s'incontra Pale («da Pasquale», precisa l'autore stesso) – giovane amico del protagonista/narratore – il cui nome echeggia continuamente nel racconto, gridato dagli altri 'per baldanza o per beffa':

Molte vecchie chiamavano così i figli, ma il nome che faceva ammutolire tutti e che in certe ore echeggiava esasperante come le fucilate dei cacciatori, era quello di Pale.21

Il racconto evidenzia il credo di una realtà primitiva, costituito dalla centralità del ruolo del nome, che deve essere celato perché non subisca gli effetti

20C. Pavese, Feria d'agosto, Torino, Einaudi, 2002, p. 45. 21Ivi, p. 5.

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della magia. Il senso di questo è racchiuso nel timore, da parte di Pale, che la vipera venga a conoscenza del suo nome gridato da tutti, perché conoscendo il suo nome, questa saprebbe poi come trovarlo:

[...] ci gridavamo «la vipera!» per eccitarci, ma la nostra paura – la mia, almeno, – era qualcosa di più complesso, un senso di avere offeso le potenze, che so io, dell'aria e dei sassi. [...]

– Perché non rispondi quando ti chiamano? Questa sera te le dànno. [...] Davvero, se la vipera sente un nome, poi lo viene a cercare? [...] Ma allora il tuo nome dovrebbero saperlo tutte le serpi di queste colline.22

Il nome Pale, come si vedrà, ricorre anche nel Diavolo sulle colline, dove è il garzone della cascina del padre di Oreste.

1.2 La narrativa 'impegnata': Il carcere, La casa in collina e Il compagno

Nel 1948 veniva pubblicato il volume Prima che il gallo canti, raccolta di due romanzi brevi, Il carcere (1938-9) e La casa in collina (1947-8). Scritti a distanza di dieci anni, possono accomunarsi per essere incentrati su una tematica comune; scrive Italo Calvino nell'introduzione al volume:

I due romanzi insieme «fanno libro»: han tutt'e due andamento di memorie, e lo stesso tema generale: la posizione d'un intellettuale in un momento di «scelta» politica, non d'idee, che quelle son date per già scelte, ma d'azione, di presenza.23

Il carcere raccoglie i pensieri del Diario e si colloca al culmine della

profonda riflessione dell'autore sul tema della solitudine. Considerato un lavoro autobiografico, in quanto analisi di una condizione esistenziale che è l'intima condizione di Pavese in quegli anni, questo lungo racconto riflette le esperienze sociali vissute nell'Italia contemporanea.

Condensata in una trama piuttosto povera, si racconta la vicenda

22Ivi, p. 7.

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dell'ingegnere Stefano, confinato politico in un paesino del Mezzogiorno: il tempo del confino appare nel romanzo un tempo perduto, in cui la sensibilità del protagonista si sgretola progressivamente, nel suo vagare tra il mare e le rocce o tra la gente in paese. Non bisogna dimenticare, infatti, che Pavese stesso era stato costretto al confino a Brancaleone Calabro per sospetto antifascismo24, tuttavia, Il carcere non deve considerarsi 'il diario reale del suo confino politico, ma bensì la

cronistoria tutta affidata alla memoria di un intellettuale che si è trovato a pagare di persona una colpa della quale non aveva compreso il perché'25. Stefano è anche

un intellettuale settentrionale, non privo dei pregiudizi per l'ambiente meridionale, che fa pesare su se stesso la responsabilità della propria situazione, non giustificandola nelle vicende politiche del tempo e facendo del confino – proprio come l'autore stesso – una presa di posizione: l'esperienza di Giannino, finito in prigione per 'correre spericolati amori'26, e di un altro confinato, 'che

continua a lottare come può'27, non bastano a dargli l'esempio e, a differenza loro,

Stefano cerca le piccole gioie di questa sua esperienza di confino, che risulta essere una raccolta di memorie – e una confessione autobiografica di Pavese – che troverà il giusto esito solo sette anni dopo: 'meglio di Stefano, il Corrado professore di scienze protagonista della Casa in collina, sa i suoi doveri civili e sente rimorso di non fare', scrive a proposito Calvino, e tutti i personaggi del secondo romanzo possono definirsi, infatti, letterariamente più liberi degli altri28.

Nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale, in cui è ambientato il romanzo, Corrado si rifugia in campagna, presso la casa di Elvira e di sua madre. Qui inizia a frequentare l'osteria le Fontane, dove incontra Cate – con la quale, tempo prima, aveva avuto una storia – e il figlio di lei, Dino. Il forte legame che

24Durante gli ultimi anni universitari, Pavese aveva conosciuto Tina Pizzardo, impegnata politicamente nella lotta antifascista. A lei aveva concesso di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti dal punto di vista politico che gli costarono l'accusa di sospetto antifascismo.

25D. Lajolo, Il vizio assurdo, storia di Cesare Pavese, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 223. 26I. Calvino, Introduzione a C. Pavese, Prima che il gallo canti, cit.

27Ibidem.

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stringe col piccolo Dino riaccende in lui il sentimento di amore per Cate, ma la donna viene arrestata insieme ad altri, dopo una retata nazista presso l'osteria. Dino, fortunatamente salvo, è dapprima affidato ad Elvira e a sua madre, ma decide poi di arruolarsi nelle file partigiane, dopo aver raggiunto Corrado, che invece non esterna mai nel romanzo le proprie idee e mai agisce, ma osserva inerme le barbarie della guerra. Corrado, di ritorno a casa, si imbatte in un'imboscata partigiana e la vista dei cadaveri fascisti genera le riflessioni finali del romanzo. La conclusione porta con sé un senso di morte e di dolore, racchiuso nella responsabilità che pesa su Corrado e, ugualmente, su Pavese stesso:

[...] ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.29

Il nome del protagonista, che è poi anche quello dell'io narrante, ricorre nel romanzo molto spesso, caratterizzandone, infatti, tratti ideologici e caratteriali spesso autobiografici. Lo troviamo non solo nella sua forma completa – anche se sempre manchevole del cognome – ma anche in quella ipocoristica, Dino, che non è, tuttavia, riferita al medesimo personaggio, bensì al figlio di Cate (abbreviato da Caterina), per due volte anche chiamato con l'alterato Corradino, da cui Dino deriva. Il fatto che il nome si ripeta non è assolutamente casuale, infatti, Dino potrebbe anagraficamente essere suo figlio, dal momento che Corrado aveva consumato un rapporto con sua madre. Il sospetto di questo legame, avvalorato anche dall'intesa che nasce tra i due, tuttavia, non troverà conferma nelle risposte di Cate, sempre molto evasive. Questo il momento in cui dentro di lui si insinua il dubbio:

– Si chiama Corrado, - le dissi. Mi guardò interdetta.

– è il mio nome, - le dissi [...] Un mese mi ci era voluto per capire che Dino vuol dire Corrado. Com'era la faccia di Dino? Chiudevo gli occhi e non riuscivo a rivederla.30

29C. Pavese, La casa in collina, in Prima che il gallo canti, cit., p. 259. 30Ivi, p. 148.

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Nel Carcere, il ragazzo confinato incontrato da Stefano viene inizialmente detto come «un giovane dalla barbetta ricciuta» e subito dopo con il suo nome, Giannino. Nel dialogo con un altro confinato è chiamato don Giannino e diverse pagine dopo appare il suo cognome, Catalano; è anche chiamato Giannino Catalano, per la prima volta in un discorso sulle donne che Gaetano Fenoaltea, un giovane del posto, fa a Stefano. Si può dire che le diverse forme del nome si trovano espresse con alternanza, in maniera abbastanza casuale, ma bisogna notare che appare solo la forma ipocoristica, Giannino (per Gianni), anche quando è associata al cognome o quando è chiamato don Giannino, secondo l'usanza meridionale31.

Oltre a quello di Giannino, va notata nel testo la presenza di numerosi altri alterati quali Annetta, Antonino, Beppe, Carmineddo, Pierino, Toschina (e Foschina, quale pronuncia errata di quest'ultimo). Per quel che riguarda il cognome Catalano, ma il discorso può estendersi anche agli altri presenti nel romanzo (Fenoaltea e Spanò), si tratta certamente di cognomi meridionali ampiamente diffusi, con i quali Pavese aveva probabilmente avuto a che fare durante il suo periodo di confino a Brancaleone Calabro.

Il nome del protagonista, Stefano, è un nome diffuso in tutta Italia che certamente risalta tra gli altri che incontriamo: è un uomo acculturato, un ingegnere e un intellettuale, di cui si delinea più volte un profilo distinto rispetto al contesto in cui si trova costretto. È anche questa la ragione per cui l'unica altra forma in cui ci si rivolge è «ingegnere», altrimenti detto solo Stefano, più confidenziale e familiare, trattandosi di una vicenda che l'autore sente intimamente:

Stefano sapeva che quel paese non aveva niente di strano, e che la gente ci viveva, a giorno a giorno, e la terra buttava e il mare era il mare, come su qualunque spiaggia. [...] Stefano a ogni ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua vita, che quella gente e quelle

31«Don» è un termine di derivazione latina (dominus, «signore»), diffuso sin dai tempi di Dante e ancora in uso soprattutto nel Sud Italia, in segno di rispetto.

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parole scherzose erano remote da lui come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe tornato a casa.32

Stefano ha l’anima e il pensiero rivolti verso casa: e se anche ama quel mare che osserva ogni giorno, in più circostanze ricorre all’aggettivo «anonimo» per connotarlo. L'idea del mare è richiamata anche dal nome della donna con cui Stefano lenisce in qualche modo la propria solitudine, Elena. Il nome, per quanto sia mediamente diffuso nel Sud Italia33, produce un'eco classica che evoca il mare

di Odisseo, lo stesso mare di fronte al quale si trova Stefano. In questo contesto è impossibile non ricordare le letture classiche cui Pavese, proprio in quegli anni, si stava rivolgendo e che certamente ebbero su di lui un'influenza importante.

Altra figura femminile del Carcere è Concia, la donna che diventerà per Stefano una fantasia erotica e, per questo, associata agli elementi naturali e bestiali della terra («Se era questa, gli dissero, veniva dalla montagna ed era proprio una capra, pronta a tutti i caproni»34). A proposito del suo nome, De

Camilli spiega che potrebbe derivare dal latino conciens («gravida»), aggettivo che potrebbe rifarsi al carattere del personaggio; inoltre, identifica lo stesso nome in un altro racconto pavesiano, Carogne: anche qui Concia è una serva dai caratteri ambigui e sensuali; anche qui vi è un confinato politico (in questo caso, un prete). A queste osservazioni può aggiungersi un ipotetico richiamo del carattere o del ruolo del personaggio al significato del verbo conciare, di cui si legge nel Vocabolario Treccani: 'accomodare, aggiustare, rimettere in assetto. Con questo sign. è meno com. di acconciare e degli altri sinonimi […] Riferito a oggetti, carte, vestiti, insudiciare, sciupare, per lo più in frasi esclamative'.

Il Compagno (1947), cronologicamente più tardo del Carcere e della Casa in collina, è considerato il romanzo di Pavese più politicamente impegnato. Il titolo

stesso, infatti, richiama l'esperienza antifascista del protagonista, Pablo, il cui

32C. Pavese, Il carcere, in Prima che il gallo canti, cit., pp. 5; 14. 33D. De Camilli, cit.

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impegno politico si farà più chiaro e motivato nella seconda parte del romanzo. Pablo è un giovane torinese che trascorre le sue giornate al negozio di tabacchi di famiglia e le sue serate suonando la chitarra tra amici; il senso di profonda solitudine e noia che caratterizza la sua vita a Torino, dopo l'incidente in moto del suo amico Amelio, verrà parzialmente meno dopo l'incontro con Linda, dalla quale si lascerà portare negli ambienti mondani di città e grazie alla quale conoscerà Lubrani – un impresario con forti legami col Fascio – ed il gobbo Carletto – l'unico personaggio che fa da mediazione tra la prima e la seconda parte del romanzo, anche convincendolo a trasferirsi a Roma. Le due fasi del racconto sono caratterizzate da netti contrasti, come suggerisce Bart Van Den Bossche35: la crisi esistenziale di Pablo, vissuta a Torino nei mesi invernali

coincide con quella che si svolge a Roma tra la primavera e l'estate, caratterizzata dalla sua presa di coscienza politica; il comunista latitante Gino Scarpa e gli ambienti antifascisti con cui Pablo entra a contatto a Roma, corrispondono in maniera antitetica al personaggio di Lubrani e agli ambienti equivoci torinesi dei caffè e dei teatri di varietà.

In qualità di narratore, Pablo presenta la vita di Pablo personaggio: sin da subito nel romanzo, è chiamato col soprannome e immediatamente si spiega anche la ragione, legata al fatto che suona la chitarra. «Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra», si legge in apertura, e questo strumento svolgerà un ruolo simbolico nel testo, in quanto parte integrante della sua identità: la chitarra gli permette di relazionarsi con gli altri, ma gli permette anche di considerare le sue insoddisfazioni personali e di spingersi oltre, dando una svolta alla sua vita; i momenti di solitudine corrispondono ad una mancanza di voglia di suonare e quelli di rabbia vengono comunque proiettati su di essa («Avrei spaccato la chitarra contro un muro. Avrei voluto essere un altro e sparire»36). Non si viene

mai a sapere il suo vero nome e viene sempre chiamato Pablo o in un paio di casi

35B. Van Den Bossche, Nulla è veramente accaduto, Firenze, Franco Cesati editore, 2001, pp. 353-361. 36C. Pavese, Il compagno, Torino, Einaudi, 1990, p. 39.

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Pablito – da Linda, a Torino –; fa eccezione l'unica presenza del nome Paolo: Non lo sapevo che si chiama Gina, – le dissi.

Mi guardò di sfuggita. – Come tu che sei Paolo.37

A chiamarlo Paolo è «la Bionda», la donna dai modi rozzi e schietti con la quale ha una storia a Roma. Solo dopo diverse pagine, il soprannome «Bionda» lascia spazio al nome Gina, proprio nel dialogo sopra citato, a seguito del quale i due inizieranno a frequentarsi. Pablo la chiama col soprannome che gli altri le avevano dato, fino al momento in cui non approfondisce la sua conoscenza, ma si assiste ad una regressione nel momento in cui Linda si presenta a Roma: nella serata che trascorre solo con Linda, Gina è di nuovo «la Bionda»; ma riprende il suo nome subito dopo, poco prima della partenza della torinese. «Il Biondo» è anche il soprannome del marito di Gina, rimasta vedova dopo la sua morte.

Amelio è nome certamente diffuso in Piemonte, ma non sembra essere di particolare rilievo, a differenza del personaggio; questi, se fisicamente compare solo nella primissima parte del romanzo – quando Pablo va a visitarlo subito dopo l'incidente in moto –, è invece una presenza costante nella vita del protagonista, poiché sempre considerato rivale. La rivalità che nutre Pablo nei suoi confronti ha a che fare prima di tutto con Linda – che era stata precedentemente con Amelio –, ma diventa una questione di principio che riguarda anche la vita sociale e il lavoro, fino ad estendersi all'impegno politico. La soddisfazione generata dalla partecipazione ad un'azione clandestina è dovuta all'essere riuscito a fare qualcosa che anche Amelio faceva a Torino:

Era bello sapere che Amelio non era mai stato laggiù.

«Se adesso Amelio fosse qui cosa direbbe», mi chiedevo. Se sapesse che sono dei suoi.38

Altri nomi che si incontrano nel racconto sono Lario e Chelino, rispettivamente da Ilario e Michelino (ipocoristico di Michele), nomi alterati di

37Ivi, p. 96. 38Ivi, p. 115.

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uso locale e poco diffusi; Milo è l'autista compagno di Pablo, il cui nome non sembrerebbe parte della tradizione pavesiana, ma De Camilli non esclude l'eventualità che si tratti di un cognome39. Dal comunissimo nome Carlo – che,

tuttavia, nel Compagno non incontriamo in questa forma – si hanno Carletto, Carlandrea e Carlottina: quest'ultima è la sorella di Pablo, probabilmente più piccola e per questo chiamata da lui solo con il diminutivo; si incontra un'unica volta con il nome Carlotta, in una lettera che la madre scrive a Pablo.

Degli stessi anni, ma di argomento totalmente differente, è Fuoco grande, un breve romanzo rimasto incompleto. Il testo fu trovato a casa dell'autore, tra le sue carte, dopo la sua morte. L'editore Einaudi scelse di pubblicare questo lavoro nonostante fosse incompiuto, con il titolo Fuoco grande, parole, queste ultime, che acquistano un significato interessante, non soltanto perché parte di un discorso della protagonista, ma soprattutto in quanto simbolo dell'ardore del suo animo. Pavese lavorò al breve romanzo durante il 1946, insieme a Bianca Garufi40: i due

realizzarono insieme un lavoro che indaga la medesima, triste vicenda vissuta contemporaneamente dai due protagonisti, Silvia e Giovanni, ma percepita in maniera ben differente dai due sessi. Questo aspetto è perfettamente messo in luce grazie all'alternanza del punto di vista dell'uomo, Giovanni – attraverso la scrittura di Pavese – e della donna, Silvia, di cui scrive la Garufi. Fuoco grande racconta la storia di due ex-amanti, Silvia e Giovanni, che si incontrano qualche tempo dopo la loro separazione. Silvia, giovane donna che vive e lavora in città, riceve un telegramma e deve improvvisamente ripartire per la sua cittadina d'origine, Maratea, perché il fratellino Giustino è in punto di morte. Ad accompagnarla c'è Giovanni, il quale si trova improvvisamente immerso in una realtà che gli è difficile comprendere: la famiglia, infatti, cela un segreto che la ragazza non gli aveva mai confessato e che questi arriverà a comprendere da un serie di frasi ambigue della madre di Silvia. Proprio con questa rivelazione si

39D. De Camilli, cit.

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chiude il romanzo, lasciando il lettore nel punto di massima tensione emotiva del racconto, quando Giovanni ammette a se stesso la verità, quel legame celato tra Silvia e il patrigno Dino, il quale tanti anni prima le aveva fatto violenza. Giustino, dunque, è figlio di Silvia e non suo fratello, come invece era stato fatto credere a tutti i conoscenti.

Il nome della protagonista, Silvia41, compare già nel rigo di apertura del romanzo,

che comincia con il racconto di Giovanni. La donna viene presentata, attraverso il ricordo di Giovanni, in un contesto naturale, che è quello del mare dove i due erano stati l'ultima volta che si erano visti:

L'ultima volta che andai al mare con lei, Silvia si rivestì tra i ginepri e la vidi chinata scrollarsi il costume dalle ambe, tutta rosa e imbrunita.42

Sin da subito trapela il carattere ambiguo della ragazza nel suo inspiegabile desiderio di allontanarsi da Giovanni e nel suo improvviso ritorno mesi dopo, con la richiesta di accompagnarla a Maratea. Del paesaggio lucano si descrive la vicinanza e, nello stesso tempo, la contrapposizione tra mare e montagna: con il mare alle spalle e le montagne all'orizzonte, Giovanni ha di fronte uno scenario di morte e desolazione, presagio della morte prossima di Giustino ma anche del suicidio di Silvia43.

Dietro le case di Maratea la montagna, prima di farsi bosco, era una rupe a strapiombo, enorme e sanguigna, ch'era nido perenne agli uccelli svolazzanti dal mare. Silvia mi disse che, in passato, correva là sotto ogni sera a raccogliere piccole piume. Camminammo su un viottollo brullo, avendo il mare alle spalle e intorno, nell'ultima luce, ficaie d'india e tronchi morti. L'orizzonte era tutto montagne, accidentate, nere.44

41Cfr. Pittàno, cit., p. 213: Questo nome vuol dire 'della selva, boschereccio', poiché deriva da silva che significa appunto 'selva, bosco'. Nella mitologia romana si chiamava Rea Silvia la figlia del re Numitore. Silvio è inoltre il figlio di Eneae di Lavinia, re di Albalonga. Silvio è dunque un nome di tradizione romana che ebbe particolare fortuna nel Rinascimento, quando si ripresero i modelli culturali classici. 42C. Pavese e Bianca Garufi, Fuoco grande, Torino, Einaudi, 2003, p. 3.

43Gli autori avevano deciso di concludere il romanzo con la fuga in città di Silvia con Dino, un amore tra Giovanni e Flavia (amica di Silvia) e il suicidio della protagonista, come si legge da alcuni appunti su carte dattiloscritte rinvenute dopo la morte di Pavese.

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Catina e Peppe sono i nomi dei due che servono, in casa, la madre di Silvia; socialmente inferiori rispetto al contesto in cui si trovano, vengono, per questo, nominati con gli ipocoristici dei loro nomi, Peppe per Giuseppe e Catina per Cate, derivato da Caterina.

Anche qui si incontra il nome Corrado ed il suo alterato Dino ma, a differenza della Casa in collina, in questo caso le due forme coincidono con la stessa persona: Dino è il compagno della madre di Silvia, ma di lui non vengono fornite molte informazioni utili a comprendere particolari aspetti estetici o caratteriali. È interessante notare che nella maggior parte del racconto questi è «l'avvocato», connotazione che tuttavia non è di rilievo per il personaggio se non per conferirgli una collocazione sociale. Il suo nome compare molto avanti nella narrazione, quando la madre di Silvia lo richiama per interrompere un suo discorso particolarmente brutale sui terribili segreti che ogni famiglia cela in sé – discorso, quest'ultimo, che troverà le sue ragioni nell'esito della vicenda, come sappiamo. Il fatto che sia la moglie a chiamarlo potrebbe anche giustificare la presenza del più colloquiale ipocoristico Dino, probabilmente da Corrado45;

ritroviamo il suo nome più avanti, nella narrazione di Silvia, quando insieme si recano a Lauria. Della madre di Silvia, invece, non si dice il nome: la ragione di questa scelta deve probabilmente ritrovarsi nella necessità di rendere il personaggio importante per il ruolo che riveste – quello di «madre» severa e distaccata – senza tenere conto del suo nome.

1.3 Il Premio Strega e La luna e i falò

Il 24 giugno 1950 lo scrittore piemontese Cesare Pavese vince il Premio Strega per La bella estate, uscito l'anno precedente. Si tratta di una raccolta di tre

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romanzi brevi, composti in tre periodi differenti, ma legati da tematiche comuni:

La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline (1948) e Tra donne sole (1949).

Protagonista della Bella estate è la giovane Ginia, di cui si racconta l'iniziazione al mondo adulto, che avviene attraverso la frequentazione di persone e ambienti inconsueti per lei. Operaia presso un atelier, vive insieme al fratello Severino e la sera è instancabilmente felice di uscire con le amiche. Tra queste c'è Amelia, una bella ragazza senza lavoro, che ama far la modella e farsi dipingere dai pittori che incontra al caffè, dove passa gran parte del suo tempo. È proprio grazie a lei, che Ginia conosce il pittore Guido, di cui si innamora: trovatasi sola nel suo studio, perderà con lui la sua verginità.

La relazione tra i due risulta, agli occhi di Ginia, profondamente diversa da com'è per Guido. Solo alla fine, la giovane donna si renderà conto dell'ipocrisia dell'altro: quando, dopo aver gelosamente visto Amelia posare nuda per Guido, decide di spogliarsi anche lei, inconsapevole del fatto che l'amico Rodrigues la sta osservando da dietro la tenda.Solo quando capirà tutto fuggirà in lacrime dallo studio, interrompendo i rapporti con i due ragazzi e, per un certo periodo, anche con Amelia. Il romanzo si concluderà con la visita di Amelia – di cui nel frattempo si erano velatamente delineate tendenze omosessuali e descritti i sintomi della sifilide, contratta in uno di questi rapporti – a casa di Ginia: la notizia della sua prossima guarigione chiude il racconto, prospettando l'inizio di una nuova estate, che le due amiche potranno di nuovo trascorrere insieme.

Nella Bella estate, la prima donna ad essere nominata è Tina, una delle amiche della protagonista, la cui descrizione è inserita nel contesto festoso ed estivo che apre il romanzo:

Eppure una di loro, quella Tina ch'era uscita zoppa dall'ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all'allegria.46

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Di lei non si hanno molte informazioni e neppure risulta essere un personaggio particolarmente importante ai fini della trama. È sempre nominata con la forma alterata del nome, che, infatti resta ignoto. Bisogna, tuttavia, ricordare che Tina è un nome a cui Pavese è particolarmente legato, poiché Battistina Pizzardo è la 'donna dalla voce rauca' di cui era stato innamorato, di cui aveva scritto in Paesaggio IV47, ma che non aveva aspettato il suo ritorno dal

confino. Tina era stata una delle prime grandi delusioni amorose di Pavese. Subito dopo il personaggio di Tina, si introduce Ginia, che risalta quasi per contrasto di fronte a Tina:

Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano piú cosa dire. [...] Le altre dicevano: - Se torno tardi, poi ho sonno; se torno tardi, me le suonano -. Ma Ginia non era mai stanca, e suo fratello, che lavorava di notte, la vedeva soltanto a cena, e di giorno dormiva. [...] Qualche volta chiudeva anche le imposte per far buio e sentirsi più sola.48

Ancora più evidente è il contrasto tra Ginia e Rosa, su cui l'autore insiste in maniera esplicita dandoci informazioni che rendono sempre più nitida la caratterizzazione di Ginia:

A Rosa bisognava di tanto in tanto far capire che non erano più bambine. Neanche per strada Rosa sapeva stare, e faceva dei versacci, rideva, si voltava - Ginia l'avrebbe pestata. Ma quando andavano insieme a ballare, Rosa era necessaria perché dava a tutti del tu, e con le sue matterie faceva capire agli altri che Ginia era più fine.49

Nel romanzo, il nome Ginia è sempre nella forma ipocoristica, da Virginia50. La scelta di questo nome è senza dubbio non casuale e collegata

47C. Pavese, Lavorare stanca, Torino, Einaudi, 2001. 48C. Pavese, La bella estate, cit., pp. 3,4.

49Ivi, p. 5.

50Cfr. Pittàno, cit., p. 232: Virginia. Antichissimo nome gentilizio romano, derivato forse dalla radice etrusca

verse (fuoco). L'etimologia che collega Virginia al latino virgo (vergine) è del tutto popolare. Per questo

motivo fu chiamata Virginia la prima colonia britannica in America, in omaggio alla regina Elisabetta I d'Inghliterra, chiamata la "regina vergine". Questo nome si è diffuso particolarmente in epoca romantica grazie al romanzo Paolo e Virginia di Bernardin Saint-Pierre. Virginia Maria de Leyva è la vera monaca

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all'etimologia popolare del nome, 'vergine': l'autore stesso, infatti, definisce il romanzo come una «storia di una verginità che si difende»51. Altra forma del

nome risulta dal rapporto con il pittore Guido, che è l'unico a chiamarla Ginetta. Tra i due si instaura quasi subito un rapporto confidenziale, stimolato da un'attrazione reciproca che si realizzerà nel momento in cui consumeranno un rapporto sessuale, il primo per Ginia. Questo, tuttavia, non garantisce alla protagonista un riscatto né agli occhi di Guido né di Amelia, che in più occasioni sottolineano la sua ingenua visione del mondo e dei rapporti umani. Spesso Ginia è posta al lettore come una «stupida» dal comportamento infantile ed immaturo, e questo loro atteggiamento – a cui si aggiunge la complicità di Rodrigues (cognome di origine portoghese, usato come nome52) – raggiunge il culmine nel

momento in cui Ginia si convince a posare nuda, deridendo se stessa («che aveva voluto far la donna e non c'era riuscita») di fronte a loro.

Altro personaggio importante è Amelia, la donna che non ha timore di spogliarsi di fronte ai pittori e che conduce Ginia nel suo percorso di 'iniziazione sessuale'. L'omosessualità53 di Amelia, per buona parte del romanzo solo

implicitamente nominata, diventa un problema oggettivo quando è causa della sua malattia. La prima presentazione della ragazza è filtrata, come ogni cosa, dallo sguardo ingenuo di Ginia:

Non si sentiva più la voce di Amelia, che si era tirata dietro tutti gli altri. Ginia, scema, immaginando che giocassero a nascondersi, non li aveva cercati e se n'era tornata sulla barca. […] lei compariva solo di tanto in tanto, le sere di quell'estate, e non dava confidenza a nessuno ma rideva con tutti, perché aveva diciannove o vent'anni. Ginia avrebbe voluto avere la sua statura perché, con le gambe di Amelia, stavano bene sì le calze fini. Quantunque, vista in costume da bagno, Amelia era sporgente di fianchi e come fattezze dava un po l'aria a un

di Monza nei Promessi Sposi.

51Lettera ad Augusto Monti, Torino, 18 gennaio 1950. 52D. De Camilli, cit.

53Ginia chiede ad Amelia se abbia qualche legame con Rodrigues, e lei risponde: «Amelia tirò un sospiro e poi disse: - Non avere paura. Non mi piacciono i biondi. Se mai, preferisco le bionde. Allora Ginia sorrise e non le disse piú niente».

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29 cavallo.54

Potrebbe essere interessante tenere conto della radice am- presente in Amelia: il nome potrebbe così associarsi alla parola amore, ma anche al verbo

ammaliare55, termini che avrebbero un significato particolare nel contesto del

romanzo, dato il ruolo che Amelia riveste nella Bella estate.

Protagonisti del Diavolo sulle colline sono tre giovani ragazzi di Torino, Pieretto, Oreste e il narratore, che trascorrono insieme le nottate estive discorrendo, con estro giovanile, di morale ed interessi comuni. Proprio durante una di queste serate, mentre sono in collina per osservare la città dall'alto, vedono in macchina un giovane uomo, Poli, in preda ad una crisi a seguito di un abuso di sostanze stupefacenti. Da questo momento, Poli diviene il vero e proprio protagonista del racconto, è lui che li accompagna fuori città per trascorrere serate in compagnia e presenta loro quella che solo più avanti si comprenderà essere stata la sua amante, Rosalba.

I tre ragazzi, che nel frattempo si sono recati a casa di Oreste per trascorrere la stagione estiva nelle Langhe, continuano a vedersi con Poli, costretto in casa poiché Rosalba, prima di togliersi la vita, aveva tentato di ucciderlo. Qui è raggiunto anche da sua moglie, Gabriella.

I discorsi sul tema della vita e della morte, di cui si legge, sono condotti da un Poli convinto che la droga possa aiutare ad acquisire una capacità di giudizio superiore, una capacità di giudizio che è differente da quella dei tre ragazzi soprattutto per ragioni sociali, e che crea non poche discussioni. La serietà dei dialoghi viene, tuttavia, smorzata dalle serate trascorse ballando e bevendo vino, anche insieme agli amici milanesi. Nel frattempo, il rapporto tra Gabriella ed Oreste desta particolari sospetti, che si concretizzano nelle preoccupazioni degli amici, specie del narratore, dovute al fatto che Oreste è già promesso ad una

54C. Pavese, La bella estate, cit., pp. 8-9.

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30 ragazza delle sue parti.

Il romanzo si conclude cupamente con un'ulteriore crisi di Poli, malato di tisi. Gabriella, ancora innamorata di lui, sceglie di restare al suo fianco e prendersene cura, mentre i tre ragazzi partono per tornare a Torino.

Tra i personaggi del Diavolo sulle colline, Oreste, amico e compagno di avventure del protagonista/narratore, porta un nome di origine greca, 'montanaro' (da óros = monte). Questo potrebbe indicare la provenienza del personaggio, che infatti ci viene presentato, tanto nei comportamenti quanto nella descrizione fisica, come un uomo di campagna, pur essendo uno studente di medicina:

È un'agraria anche la medicina, - disse Oreste allegro, - il corpo sano è come un campo che dà frutti.56

Giacinta/Cinta è la 'fidanzata' di Oreste ed è questa la sua unica funzione nel romanzo. Nel suo nome è possibile che sia compresa l'idea della delicatezza e della purezza che si associa al fiore del giacinto. Infatti, dalle poche informazioni che abbiamo, questa ci appare quasi esterna al contesto: figura innocente e totalmente inconsapevole di quanto accade tra Oreste e Gabriella57, è

una presenza dai contorni poco delineati. Per tutti è Cinta, perché così la nomina Oreste quando parla di lei; infatti, solo dopo che l'avrà chiamata col suo nome anagrafico per rispondere alle domande insistenti dei suoi amici, anche il narratore la chiama Giacinta, in qualche occasione.

56«Oreste rideva, nella screziatura delle persiane accostate. S'era sfilata dalle spalle la camicia e mostrò i muscoli neri e rotondi»; «Andare a far campagna nel paese d'Oreste noi tre»; «Oreste ci aveva additato all'orizzonte di quel mare di bricchi ombre vaghe e selvose, i suoi paesi»; «cacciò un urlo. Lacerante, bestiale, cominciò come un boato e riempi di terra e cielo, un muggito di toro, che poi si spense in una risataccia da ubriaco»; e soprattutto questa: «pensavo ai viottoli del grosso paese dei miei, aperti in mezzo alla campagna. In un consimile paese Oreste invece era vissuto e ci sarebbe presto tornato. Tornato per starci. Sua ambizione era questa. Se avesse voluto, poteva restare in città» (C. Pavese, Il diavolo sulle

colline, Torino, Einaudi, 2014.).

57Leggiamo di lei: «Oreste parlava con Cinta; i suoi di Cinta lo sapevano ma qui in casa nessuno; Cinta era figlia del cantoniere e lavorava con la sarta; era brava, si faceva i vestiti da sé, e girava in bicicletta. Sapeva perfino, Dina, che siccome il padre di Cinta si zappava lui la vigna, Oreste era costretto in paese a far finta di scherzare soltanto»; «Anche Cinta, pensavo, doveva esser fragile e slanciata, una vite»; «forse mangia soltanto pane e pesche».

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Giustina è la vecchia zia di Oreste, e vive con la sua famiglia in campagna, sul Greppo. Il nome è probabilmente legato al ruolo che il personaggio ha nel racconto o, più in particolare, nel nucleo familiare: 'la cognata Giustina, una vecchia rubizza' è nella casa una sorta di moderatrice morale; vecchia signora (l'aggettivo vecchia lo troviamo quasi sempre associato al suo nome), dal pensiero conservatore e bigotto, i cui interventi risultano sempre finalizzati ad esprimere la sua idea di giustizia e di morale58.

Altra figura interessante è Pinotta, la domestica di casa di Poli. La donna ci viene descritta per i suoi caratteri un po' rozzi – «ragazza rossa e imbronciata», sgraziata, dallo sguardo 'corrucciato' – volgarmente detta col vezzeggiativo Pinotta, e non Pina (a sua volta, ipocoristico di Giuseppina), probabilmente in senso spregiativo e con la funzione di differenziazione sociale.

Pavese lavora a Tra donne sole nel 1949, pochi mesi prima della Luna e i falò. Si racconta la storia della modista Clelia, la quale – inviata da Roma a Torino, sua città natale, per gestire un atelier – ben si inserisce negli ambienti borghesi, frequentando una compagnia di amici, che ruota attorno a tre donne: Rosetta, Momina e Mariella.

A partite dall'iniziale situazione spiacevole nella quale si trova inevitabilmente coinvolta – il tentato suicidio di Rosetta, avvenuto nella stanza d'albergo adiacente alla sua –, Clelia instaura con queste donne un rapporto di amicizia, grazie al quale riesce a conoscere aspetti del loro carattere e ragioni nascoste delle loro relazioni. Rosetta ottiene un'occupazione nel suo atelier ed intraprende una relazione segreta col pittore Febo. Tuttavia, la sua precaria serenità è duramente colpita dalla mancata promessa di Febo di restare con lei, per tornare invece dalla moglie Nene, anche amica di Rosetta.

Proprio come la protagonista della Bella estate, Rosetta si infrange contro una realtà diversa da quella in cui aveva favolosamente creduto, che la condurrà

58Si veda il discorso con Oreste, suo padre e Pieretto sul significato della religione: «Il culto, - diceva Giustina, - il culto. Se non si rispettano i ministri del culto, non si è cristiani né italiani».

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32 alla decisione di togliersi la vita.

Donna indipendente e sicura di sé anche grazie alla propria carriera lavorativa, Clelia riesce a tirarsi fuori da questa tragica situazione, nonostante sia fortemente legata al luogo e ormai anche alle persone con cui ha avuto a che fare (aveva anche avuto un flirt con Becuccio, assistente dell'architetto che curava i lavori del suo atelier). Clelia «partita alla ricerca di un mondo infantile che non c'è più, trova la grottesca e banale tragedia di queste donne, di questa Torino, di questi sogni realizzati. Scoperta di sé, della vanità del suo solido mondo»59.

Il nome Clelia viene dalla radice del verbo latino clueo, che vuol dire 'avere fama'. Per tutto il primo capitolo, non sappiamo quale sia il nome della protagonista-narratrice, la quale ci parla del suo arrivo a Torino, dei ricordi che quei luoghi destano in lei, e poi del tentato suicidio di Rosetta che dormiva nella stanza adiacente. Solo nel capitolo successivo, quando incontra Morelli – solitamente chiamato per cognome, salvo alcune eccezioni –, questo la chiama per nome. Poco dopo arrivano le prime informazioni sul carattere indipendente di Clelia. Morelli la chiama per nome e, solo per presentarla alla comitiva di un salotto torinese, per nome e cognome. Unico luogo del testo in cui la protagonista è chiamata col solo cognome è durante un discorso con Rosa, nonostante le stia rivelando un'intima verità:

- Che cosa mi fa dire, Oitana, - balbettò. - è necessario? Ma non mi vergogno. Sa com'è tra ragazze. Momina è stata il mio primo amore. Tanti anni fa, prima che si sposasse […] Adesso siamo amiche, mi creda.60

Anche Becuccio la chiama per nome e dal primo momento le dà del tu. Questi è l'assistente del pittore Febo, e con lui Clelia ha un piccolo flirt. Nei Nomi

degli italiani, De Felice ci nomina *Beco come ipocoristico di Domenico, anche se

poco attestato in prestigiose tradizioni storiche, letterarie e artistiche come altri ipocoristici che ivi prende in considerazione.

59C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 2000, 17 aprile 1949. 60C. Pavese, Tra donne sole, Torino, Einaudi, 2013.

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