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NOMI, SOPRANNOMI (SN), IPOCORISTICI (IP)

3. Pavese classico

3.3. Pavese lettore di Frazer

Dalla corrispondenza epistolare con il Cocchiara, sopra riportata, risulta che Pavese fosse anche lettore di James George Frazer: un discorso simile a quello fatto per le Origini e forme del mito greco può, infatti, organizzarsi attorno al Ramo

d'oro. Il testo in questione fu pubblicato per la prima volta in lingua italiana nel

166Ivi, p. 26.

167P. Philippson, cit., p. 184. 168Ivi, p. 185.

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1925, letto da Pavese e per questo consigliato per la «Collana Viola»: scrive la Berardi che il Ramo d'oro fu per l'autore piemontese una sorta di iniziazione allo studio delle civiltà primitive. La ragione dell'interesse per questo testo deve ritrovarsi nella tendenza pavesiana ad approfondire aspetti del mondo attuale attraverso l'attento studio dei fatti del passato; in questo modo si arriva al mito, collegamento tra passato e presente e, in quanto tale, non collocabile nelle categorie spazio-temporali. Il lavoro di Frazer, rivolto alla dimensione magico- spirituale, analizza le origini di usi o riti e tiene conto delle pratiche religiose e magiche, delle superstizioni e dei miti, fondendo passato e presente, o meglio cercando tracce dell'attualità nell'antichità. Questo tipo di approccio mette in evidenza la coscienza dell'uomo antico e la sua consapevolezza di non poter controllare le forze che regolano la realtà circostante: le popolazioni primitive tendono ad interpretare la realtà non 'a partire da categorie mentali che seguono il principio causa-effetto, ma dalla capacità di osservare e di stupirsi di quello che le circonda. Proprio come accade nell'infanzia'170.

Il titolo dell'opera intreccia tra loro due narrazioni piuttosto diverse, l'una mitologica, l'altra protostorica: la prima è quella tratta dall'episodio della Sibilla che consigliò ad Enea di procurarsi un ramo d'oro, prima di discendere nell'Ade, per avere la possibilità di ritornare dagli Inferi; l'altra riguarda, invece, il rito dell'uccisione dei re nel bosco di Nemi. Il primo capitolo – Il re del bosco – introduce proprio questo discorso, partendo dall'indagine del mito di Diana e Virbio, presso il piccolo lago di Nemi: qui, si ergeva il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del bosco e un bosco sacro dove cresceva un albero attorno a cui si aggirava la figura di un sacerdote omicida; solo uccidendolo, come prevedeva la regola del santuario, si poteva prendere il suo posto e divenire nuovo sacerdote, finché quest'ultimo non fosse a sua volta ucciso. Spiega Frazer che l'altra divinità di Nemi era Virbio, ossia l'eroe greco Ippolito che, salvato da

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Artemide (cui egli era particolarmente devoto), fu condotto nel Lazio dove regnò col nome di Virbio171. A proposito del legame tra Artemide ed Ippolito è citato

Servio, secondo il quale Virbio 'stava a Diana come Adone a Venere, o come Attis alla madre degli dei'172; essendo in origine Artemide dea della fertilità e poiché,

come prevedeva la religione primitiva, 'chi rende fertile deve essere fertile essa stessa'173 era necessario che avesse un compagno maschile. Così – arriva ad

affermare Frazer – Virbio, fondatore del sacro bosco e primo re di Nemi, sarebbe, dunque, l'archetipo di quei sacerdoti che servirono Diana e che, uno dopo l'altro, morirono.

La ragione di questo lungo discorso sta nell'analogia con il dialogo pavesiano Il lago, in cui parlano, appunto, Virbio e Diana: dalla prima battuta Virbio si descrive come servo di Diana nel bosco ma, rivolgendosi a lei, mai la chiama per nome; viceversa, non accade lo stesso. Se il nome di Diana non compare mai nel dialogo, quello di Virbio viene invece fatto più volte, ma erroneamente: sottolineando quel forte legame tra i due personaggi, che la tradizione mitologica riconosceva e che Frazer giustificava, Pavese mostra un Ippolito inquieto perché non può più cacciare come faceva un tempo («Mi par di essere un'ombra tra le ombre degli alberi […] in questa terra dei morti, anche le belve mi dileguano tra mano come nubi»174), solo, in quella terra d'Occidente

dove l'uomo non è mai stato e, per questo, terra dei morti.

DIANA Tu sei Ippolito, il ragazzo che morì per seguirmi. E ora vivi oltre il tempo. Non hai bisogno di ricordi. Con me si vive alla giornata, come la lepre, come il cervo, come il lupo. E si fugge, s'insegue sempre. Questa non è terra di morti, ma il vivo crepuscolo di un mattino sempre perenne. Non hai bisogno di ricordi, perché questa vita l'hai

171'Il bellissimo Ippolito passava il suo tempo nelle foreste cacciando gli animali selvaggi con la vergine cacciatrice Artemide, sdegnando la compagnia di qualunque altra donna; così, Afrodite, offesa, accese d'amore per lui la sua matrigna Fedra e quando suo padre Teseo lo scoprì chiese a Poseidone di vendicarlo. Artemide persuase Asclepio a riportarlo in vita e lo condusse nel bosco di Nemi, trasformando il suo aspetto con un'età più avanzata perché non venisse riconosciuto da Zeus' (J. G. Frazer, Il ramo d'oro, Studio sulla magia e la religione, Torino, Bollati Beringhieri, 1964, pp. 9-18). 172Ibidem.

173Ibidem.

82 sempre saputa.175

Ippolito non è più se stesso, per amore di Diana egli è Virbio, ma non può più godere dell'attività che un tempo svolgeva proprio in onore di lei; nonostante in quella «terra d'Esperia» ogni cosa pare possedere luce propria e vigore, Virbio si sente come un'ombra, come una nuvola; egli si sente infelice, incerto persino di esistere: nell'uccidere le belve, un tempo, sapeva di essere vivo, lo sapeva quando sentiva scorrere quel «sangue caldo e fraterno». Ippolito era felice. Questa, la conclusione del dialogo:

DIANA Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.

VIRBIO Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago.

Chiedo di vivere, non di essere felice.

Frazer dedica ampio spazio anche all'approfondimento del mito di Litierse, interlocutore di Eracle nel dialogo L'ospite. La leggenda vuole che Literse fosse un contadino, figlio del re della Frigia: quando uno straniero passava presso il suo campo di grano, Litierse, dopo avergli dato da mangiare e bere a sazietà, lo costringeva a falciare con lui; lo avvolgeva poi in un covone e gli tagliava la testa con la falce. Sembra che Eracle, capitato da quelle parti, lo avesse a sua volta ucciso tagliandogli la testa con la falce e gettando il suo corpo nel fiume, allo stesso modo in cui Litierse trattava le sue vittime.

L'autore del Ramo d'oro tenta una spiegazione di questa leggenda che potrebbe legarsi ad un'usanza frigia della mietitura, secondo la quale se qualcuno fosse capitato nei pressi del campo della mietitura sarebbe stato decapitato: secondo questa usanza, che l'autore dimostra con gli opportuni esempi essere diffusa nell'Europa moderna, colui che taglia e batte l'ultimo grano è considerato l'incarnazione dello spirito del grano; si riscontrano, inoltre, esempi di alcune popolazioni in cui l'uccisione dello spirito del grano – in molti casi accadeva che fosse eseguita solo per finta – avveniva comunemente nelle

83 cerimonie per la fertilità dei campi.

Che Pavese recuperi lo studio di Frazer nel suo dialogo è indubbio, come dimostra la sua prefazione ad esso: 'La Frigia e la Lidia furon sempre paesi di cui i Greci amarono raccontare atrocità. Beninteso, era tutto accaduto a casa loro, ma in tempi più antichi. Inutile dire chi perse la gara della mietitura'176. L'illeso

«signore» di quei campi, Litierse, perde con Eracle la sua sfida, quella che lui stesso aveva considerato necessaria per nutrice la terra affinché essa nutrisse l'uomo a sua volta: 'il sangue che la Madre ci ha dato glielo rendiamo in sudore, in escremento, in morte'177.

Le risposte di Litierse ad Eracle definiscono le ragioni di questa usanza, quelle stesse ragioni sulla cui origine indagava Frazer, nel suo studio; la battuta di seguito riportata, a proposito del trattamento riservato al forestiero che viene preso, ne è un chiaro esempio:

LITIERSE Lo si lacera ancor semivivo, e i brani li spargiamo nei campi

a toccare la Madre. Conserviamo la testa sanguinosa avvolgendola in spighe e fiori, e tra canti e allegrie la gettiamo nel Meandro. Perché la Madre non è terra soltanto ma, come ti ho detto, anche nuvola e acqua.

Un altro dialogo utile a confermare un collegamento col testo è I fuochi, che si apre con il discorso tra due pastori – padre e figlio – sui falò, accesi come offerta agli dèi, affinché piova. Essendo un tempo diverso da quello passato in cui 'anche i figli del re eran pastori'178, è mutata la tipologia di sacrificio, ma

risulta costante la sua necessità nelle civiltà contadine di ogni epoca; ne è testimonianza la premessa dell'autore:

Anche i Greci praticarono sacrifici umani. Ogni civiltà contadina ha fatto questo. E tutte le civiltà sono state contadine.179

Se al tempo di Atamante erano stati uccisi i suoi due figli, perché gli dèi

176C. Pavese, L'ospite, I Dialoghi con Leucò, cit., pp. 89-91. 177Ibidem.

178C. Pavese, I fuochi, I Dialoghi con Leucò, cit., pp. 94-98. 179Ibidem.

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mandassero la pioggia, non bisogna interrogarsi sul carattere degli dèi e sulla giustizia di queste usanze – spiega il padre al figlio –, basti sapere che queste furono sempre diffuse. In questo circolo si chiude il dialogo, con la richiesta del pastore a Zeus di accogliere la loro offerta.

Il dialogo pavesiano richiama esplicitamente un discorso di Frazer sui sacrifici che i figli di re dovevano compiere in onore di Zeus, sulla loro origine, e sulle loro varianti nella storia. La ragione di tale scelta sta nel fatto che nessuno poteva meglio dei figli rappresentare il nome del re nel suo carattere divino: il re di Svezia, Aun o On, sacrificò ad Uppsala nove dei suoi figli a Odino perché gli fosse risparmiata la vita; il re della Tessaglia, Atamante sacrificò i suoi due figli a Zeus perché cessasse la carestia. A riprova di ciò – scrive Frazer – 'lo scrittore di un dialogo attribuito a Platone, dopo aver parlato di immolazione di vittime umane da parte dei Cartaginesi, aggiunge che tali pratiche non erano sconosciute presso i Greci e cita con orrore i sacrifici offerti sul monte Liceo e quelli dei discendenti di Atamante'180.