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Il «selvaggio»: dalle poesie ai romanz

NOMI, SOPRANNOMI (SN), IPOCORISTICI (IP)

3. Pavese classico

3.4. Il «selvaggio»: dalle poesie ai romanz

Per comprendere e motivare gli interessi di Pavese per la cultura etnologica bisogna tornare indietro nel tempo fino al periodo del confino. Questa esperienza, iniziata nel 1935 a Brancaleone Calabro, ha segnato l'autore nel profondo: il confino politico e il rifugio a Crea durante la guerra, che lo costringono ad affrontare l'esperienza della solitudine, modificano in lui le percezione delle cose: 'di fronte a una realtà dura, come quella della guerra, – scrive la Berardi – Pavese cerca nel mito una possibile spiegazione all'insoddisfazione che sente rispetto a quello che vive'181. Durante il rifugio a

Crea egli approfondisce il cammino religioso con padre Baravalle e con il conte

180J. G. Frazer, Il ramo d'oro, cit., pp. 346-50. 181M. Berardi, cit. p. 144.

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Grillo, i quali lo sensibilizzano a nuove letture di argomento mitologico e religioso.

In una lettera del 27 dicembre 1935, Pavese scrive dal confino a sua sorella Maria:

La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che ha una sola spiegazione; qui una volta la civiltà era greca. […] I colori della campagna sono greci. Rocce gialle e rosse, verde chiaro di fichi indiani e agavi, rosa di leandri e gerani a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva. Persino la cornamusa, il nefando strumento natalizio, ripete la voce tra di organo e d'arpa che accompagnava gli ozi di Paride quando sui pascoli dell'Ida mangiava il formaggio delle sue pecore e sognava gli amori di Elena (congiunta seco lui su di un'isola sassosa).182

A questo discorso deve certamente aggiungersi quello, già esaminato, sul fascino che la cultura classica esercitava sull'autore piemontese, approfondito in questo periodo di 'isolamento spirituale' da cui deriverà l'incontro con il mito. Proprio adesso, infatti, la collina acquisterà nell'opera pavesiana il valore simbolico di cui leggeremo nei suoi più celebri romanzi.

La campagna ha da sempre rappresentato per lui la sua terra, Santo Stefano Belbo, le Langhe, con le vigne e le alte colline in cui echeggiano le tradizioni, i riti secolari – gli stessi che Frazer classificava nel suo studio –, la natura selvaggia. Il selvaggio è ciò che fa parte dell'uomo da sempre, forza vitale innata che lo spinge ad agire, mistero, ed esercita su Pavese un fascino incredibile, lo stesso che lo condusse a leggere le pagine di Kerény, Philippson e Frazer. Le letture etnologiche gli occorrevano a trovare un filo conduttore tra passato e presente, tra mito e storia, tra campagna e città, e rintracciare, così, il selvaggio in quanto mistero e non in quanto 'brutalità storica'. Le annotazioni del 10 luglio 1947 sono illuminanti su tale argomento. Ne cito una parte, perché di significativo interesse:

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Contemplato a lungo la collina oltre Po e notato che insomma sono tutti parchi, ville, strade note e rinote. Dov'è l'interesse per il selvaggio, che pure t'incute? Quel che accade al selvaggio è di venire ridotto a luogo noto e civile. Il selvaggio come tale non ha in fondo realtà. È ciò che le cose erano, in quanto inumane. Ma le cose in quanto interessano

sono umane. Notato che Paesi tuoi e Dialoghi con Leucò nascono dal

vagheggiamento del selvaggio – la campagna e il titanismo. […] L'arte del Novecento batte tutta sul selvaggio […] Tutto ciò che ti ha colpito in modo creativo nelle letture, sapeva di questo. Con al scoperta dell'etnologia sei giunto a storicizzare questo selvaggio. La città- campagna dei primi libri è diventata il titanismo-olimpico dell'ultimo. […] Il selvaggio t'interessa come mistero, non come brutalità storica […] Selvaggio vuol dire mistero, possibilità aperta.183

Quanto scritto dall'autore parla da sé; basterebbe questo a dare una collocazione a tutti quegli elementi della sua formazione culturale, alle sue letture, ai suoi studi ed interessi, ma soprattutto alla sua poetica; basterebbe questo a dare una spiegazione risolutiva al profilo classico di Pavese, che in questa sede si voleva delineare. Le riflessioni sul selvaggio sono per l'autore un punto di partenza e un punto di approdo, ispirazione dei suoi studi e ragione delle sue ricerche, che trovano realizzazione concreta nelle sue opere: lui stesso scrive queste annotazioni nel 1947, quando la sua poetica è già piuttosto definita, ma simili riflessioni già si nascondono dietro alcuni versi di Lavorare stanca, cui l'autore lavora a partire dagli anni '30. Pensiamo al Dio caprone (4-5 maggio 1933), i cui versi iniziali sono:

La campagna è un paese di verdi misteri al ragazzo, che viene d'estate …184

Il senso di questi due versi è lo stesso delle note di Diario del '47: la campagna è il selvaggio e 'selvaggio vuol dire mistero'. Così, il ragazzo si trova di fronte il mistero inspiegabile della natura, una natura impassibile: è la natura delle colline fatte di terra, di cui si legge in Legna verde.

Ora è solo. L'odore inaudito di terra

183C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 10 luglio 1947. 184C. Pavese, Il Dio caprone in Lavorare stanca, cit.

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gli par sorto dal suo stesso corpo, e ricordi remoti - lui conosce la terra – costringerlo al suolo, a quel suolo reale [...]

[…] Hanno pure una gioia

i villani: quel pezzo di terra divelto.185

La dominante presenza della collina nella poetica pavesiana (si avrà modo di approfondire questo aspetto in seguito) è evidente a chiunque si accosti alla sua opera e la ragione è inclusa in se stessa, nella sua essenza: dire collina è come dire natura e, dunque – ricollegandoci a quanto citato sopra –, mistero.

Con Paesi tuoi (1939) Pavese torna alle sue colline, dopo il devastante periodo del confino politico che aveva generato il romanzo breve Il carcere. Contro le mode letterarie e, soprattutto, contro le convenzioni gesuitiche del suo tempo, propone la storia di una passione incestuosa, quella di Talino per sua sorella Gisella. Emerge il tema greco del mostruoso, da cui l'autore aveva già dimostrato di essere attratto, quando – nelle lettere dal confino – trapelava l'idea del suicidio, in maniera più o meno diretta, più o meno ironica.

Il rapporto tra città e campagna è espresso sin dalle pagine di apertura del romanzo presso un carcere di Torino, dove vengono rinchiusi anche i campagnoli che tentano di lasciare il paese per la città186. La fuga di Berto dalla città diventa,

così, la fuga dal carcere, ed una sorta di affermazione della propria libertà. L'intero romanzo si articola su una serie di elementi contrastanti, risultato di un dissidio interiore dell'autore che l'esperienza del confino ha potuto solo accentuare e le vicende politiche del periodo aggravare: città e campagna, sangue e miseria, sesso ed innocenza, e ancora brama sessuale (Talino) e dolcezza (Berto). Città e campagna sono due mondi che non possono comunicare tra loro e non posso comprendersi: quello urbano è, infatti, troppo distante dalla sensualità degli odori della natura e della donna, troppo distante dalla sua ignoranza e

185C. Pavese, Legna Verde in Lavorare stanca, cit.

186Questo, inoltre, dimostra simbolicamente che l'approdo per chi desiderasse la libertà, a quel tempo, sarebbe stato il carcere e inserisce il romanzo anche nel contesto politico del tempo.

88 bestialità.

Il paesaggio di Paesi tuoi è il paesaggio delle Langhe, ancora una volta il paesaggio familiare e intimamente vissuto dall'autore che colora le sue pagine – in una passeggiata col Lajolo presso Vinchio e S. Stefano Belbo, Pavese aveva infatti parlato di 'ritorno al clima e all'ambiente di Paesi tuoi'. Ciò che vive il protagonista Berto è il senso di un paese ritrovato: l'ardore del sole estivo, il rombo delle trebbiatrici nei campi, il senso della morte e del sangue, il mistero vitale che si cela nell'uomo ed esplode sotto forma di sensualità e passioni… 'ecco il groviglio fumante e primitivo che questo libro rovescia sul nostro tavolo d'intellettuali'187.

Si è detto che Paesi tuoi è, tra i romanzi pavesiani, quello che forse più di tutti presenta elementi tratti dalla tradizione etnologica e, il tema del selvaggio, che qui affiora attraverso l'elemento della campagna, ne è un chiaro esempio: la natura sessuale di cui questa campagna è portavoce è anche indicata dall’immagine simbolica della collina-mammella – su cui avremo modo di tornare –, che ricorre in maniera quasi ossessiva nel breve romanzo; la natura bestiale del mondo contadino, che emerge per contrasto con la visione di Berto, è espressa attraverso il ricorrente paragone con le bestie. Questa la riflessione di Berto sulla tragedia conclusiva del romanzo:

Le scoprimmo la faccia e guardai per un pezzo. – Andiamo sotto, – dice Ernesto, – non c'è più niente da fare. Che fischiassero pure, e gridassero e scoppiasse magari anche la macchina, pensavo vedendone due, rossi e piantati lassù sopra il grano, nella polvere che bruciava più del fuoco. È a fare di questi lavori che gli gira la testa e diventano bestie […] A tenere il fiato, si sentiva il rumore del sole come fosse un incendio. Che pianta, non ha neanche un fico, dicevo, e non fa un dito d'ombra. Così impari a venire in campagna. Il tuo posto è a Torino.188

Il drammatico esito del romanzo racchiude in sé la presenza del tragico,

187E. Galvano, «Primato», 15 luglio 1941.

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del mostruoso, del selvaggio e del bestiale. Scrive Luigi Vigliani che 'ogni tragedia postula una catarsi: e la catarsi in Berto è impossibile. Al dolore che purifica, allo sdegno che nobilita egli è irremissibilmente chiuso. Berto conosce solo una «rabbia» impotente […] «perché sembravan tutti d'accordo nel lasciarla (Gisella) morire»; il suo dramma interiore si riduce ad un sordo spasimo, che si risolve, dopo vaghi conati e incerti impulsi, in una torbida indifferenza'189.

Un aspetto interessante è che la protagonista femminile è spesso identificata con la frutta190 (nel racconto il vecchio della casa spiega a Berto

l'usanza di piantare un albero quando nasce una figlia «perché cresca con lei»): se, come si è detto, la collina è una mammella, allora la frutta è il nutrimento che essa produce, terra e madre. Berto e, come lui, altri personaggi pavesiani (si veda più avanti, Storia segreta) mordono la frutta proprio come un neonato succhia il latte dal seno materno; questo è simbolo di un bisogno inconsapevole di recuperare la vita nei suoi aspetti primordiali, tornando ad attingere al ventre materno. Non a caso si trova anche l'elemento dell'acqua, che designa ulteriormente questo simbolico aspetto materno e che, infatti, rientra spesso tra i bisogni di Berto: quando vuole farsi il bagno nel fiume; sotto forma di sete; nei secchi che porta Gisella, la quale è accostata all'acqua anche prima di morire, quando «passa ridendo, col secchio, fresca e arrabbiata». In merito a ciò, si pensi alle affermazioni di Jung, autore che Pavese certamente conosce ed infatti citato in alcuni sui pensieri del Mestiere di vivere: in Simboli della trasformazione leggiamo che «il significato materno dell'acqua è una delle interpretazioni simboliche più chiare della mitologia»191 e l'idea junghiana dell'acqua come simbolo materno è

espressa anche nei Dialoghi con Leucò. Si legge nel dialogo L'ospite:

189L. Vigliani, «Leonardo», XII (1941), pp. 216-18.

190«Gisella, che adesso mi guardava ridendo, sembrava invece fatta di frutta. Perché, una volta finito, chiedo a Talino se non aveva delle mele e lui mi porta in una stanza dove ce n'era un pavimento, tutte rosse e arrugginite che parevano lei. Me ne prendo una sana e la mordo: sapeva di brusco, come piacciono a me. – Sono le mele di Gisella – fa Talino mentre torniamo a tavola» (C. Pavese, Paesi tuoi, cit. pp. 34-5); a tal proposito, si veda anche il capitolo seguente.

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LITIERSE […] Perché la Madre non è terra soltanto ma, come ti ho detto,

anche nuvola e acqua.192

L'elemento selvaggio è presente anche in Storia Segreta, tra i più celebri racconti della raccolta Feria d'agosto (1946), e, non a caso, annoverato tra i Racconti

italiani del Novecento193 di Enzo Siciliano.

Il 2 settembre 1944 Pavese scrive:

Due specie di selvaggio hai trattato finora. In Nudismo il selv. dell'adulto, la campagna vergine, ciò che l'opera umana non ha sinora toccato (e qui si sottintende che un'opera, un rito qualsiasi bastano a giustificare la natura). In Storia segreta il selvaggio del ragazzo, ciò che è lontano, inafferrabile comunque, anche e tanto più se altri invece lo raggiunge o l'ha raggiunto. (Nei due casi esso è ciò che ci manca, «ciò che non sappiamo»).194

Il selvaggio è, dunque, qualcosa che esiste in natura e che attrae l'uomo, ma ad esso, l'uomo non sa dare una spiegazione: è visibile nell'ambiente che si mostra all'uomo naturalmente, ossia nella sua essenza incontaminata, «nell'acqua tiepida, che sa di terra»195, l'acqua in cui il protagonista di Nudismo

sente il bisogno di immergersi nudo, arrivando persino a dimenticare il proprio corpo. Vediamo tornare il tema dell'acqua, elemento primordiale che lega visceralmente l'uomo alla terra: il contatto con la natura permette all'uomo, in questo racconto, di perdere coscienza del proprio corpo – «non sapevo più di carne ma d'acqua e di terra» afferma –, e di acquistare gradualmente confidenza con l'ambiente, vergine: passando gran parte del suo tempo nudo, il suo contatto con la natura si fa più forte, a tal punto da non sentire più il bisogno di proteggersi dalla campagna.

In Storia segreta si trova nuovamente espresso il tema della frutta. Qui affiora quello che Pavese definiva il «selvaggio del ragazzo», la progressiva

192C. Pavese, I Dialoghi con Leucò, cit., p. 90.

193E. Siciliano, Racconti italiani del Novecento, Milano, I Meridiani Mondadori, 2001. 194C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 2 settembre 1944.

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scoperta della natura e dei suoi modi di rivelarsi al giovane uomo, il mistero che si svela nel lampo, nell'odore di terra bruciata sinora sconosciuto, nel bosco, nei sentieri attraverso le vigne, nei frutti. Nel corso del racconto, il ragazzo comprende che «tutto quello che nasce è fatto di terra», tutto quello che mangia porta con sé il buono della terra e, solo allora, si palesa il suo simbolico attaccamento alla frutta, al materno prodotto della sua terra; solo allora le prugnole selvatiche sembrano essere portatrici di un gusto 'nuovo':

Le frutta, secondo il terreno, hanno molti sapori. Si conoscono come fossero gente. Ce n'è delle magre, delle sane, delle cattive, delle aspre. Qualcuna è come le ragazze. […] Specialmente le prugnole mi facevano gola. Ancora adesso lascio tutto per le prugnole. Le sento a distanza: fanno siepi spinose… 196

Gli studi etnologici di Pavese collocano entro un canone oggettivo le sue intuizioni, già fissate dall'autore nelle sue annotazioni e rivelate nei primi lavori di poesia, come si è visto: i temi – a lui così cari – della collina, della campagna e del selvaggio trovano conferma scientifica, ponendosi tra l'intimità dell'autore e l'universalità della letteratura etnologica, rappresentata dai testi letti e da lui consapevolmente scelti per la «Collana Viola».

L'etnologia e il folklore non sono altro che uno specifico campo di possibili ricerche storiche destinate a chiarirsi e illuminarsi a vicenda per chiarire e illuminare le nostre stesse civiltà.197

196Ivi, pp. 190-1.

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