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Gli studi etnologici e la «Collana Viola»

NOMI, SOPRANNOMI (SN), IPOCORISTICI (IP)

3. Pavese classico

3.1 Gli studi etnologici e la «Collana Viola»

Per meglio comprendere gli stimoli che favorirono la formazione del Pavese classico, bisogna tener conto dei suoi studi, delle sue letture e del suo particolare metodo di indagine del mondo classico. In questo contesto è di fondamentale importanza ricordare che, nello studio dei classici, Pavese è un autodidatta; in lui manca il classicismo tradizionale perché non ha mai letto i testi classici a scuola e nessuno lo ha istruito su come approcciarsi ad essi. All'autore, che vuole studiare per dovere professionale la lingua greca in quanto radice di tutte le civiltà, neppure i consigli del professore Augusto Monti erano serviti:

Coraggio Cesarino! Non t'affannare (t'a). Sono tutte res. Anche Tucidite è una res (non far lo scemo veh! Compra la traduzione letterale interlineare. Fanno così anche i professori autentici).137

Le traduzioni pavesiane, che molti hanno creduto il tentativo da parte dello scrittore di riempire la monotonia del confino, si rivelarono qualcosa di molto più importante: la volontà di ricercare il sacro, il ritmo, ossia il qualcosa che

accade, che costituisce il ciò che deve essere sia di cui si legge nei Dialoghi.

Più che di classicismo, dunque, sarebbe più corretto parlare del classico in Pavese, come suggerisce Annalisa Saccà: se, in autori quali Foscolo, Pascoli o D'Annunzio, il classicismo era volto a recuperare gli aspetti di 'un mondo costruito come una favola, dove si abitava per dimenticare, dove si cercava conforto'138, in Pavese succede il contrario, ossia è lui stesso ad immergersi

136C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 6 febbraio 1944. 137C. Pavese, Lettere 1926-1950, Torino, Einaudi, 1966, p. 564.

138A. Saccà, Senza il velo di Leucotea, discorso su Pavese classico, p. 87, in A. Catalfamo (a cura di), Cesare Pavese:

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totalmente nel mondo classico per rivelarne il tragico.

La situazione tragica greca è ciò che deve essere sia. Di qui il meraviglioso dei numi che fanno accadere ciò che vogliono; di qui le norme tragiche, i tabù o i destini, che devono essere osservati; di qui la catarsi finale che è l'accettazione del dover essere.139

Pavese classico non si preoccupa delle regole stilistiche italiane, ma traduce con la consapevolezza di non potersi avvicinare alla perfezione greca; 'il modello che deve risaltare non è la struttura linguistica italiana a cui deve piegarsi quella greca... ma semmai viceversa: il modello da salvare è nel testo da tradurre', scrive a proposito Attilio Dughera140, basandosi sulle premesse che

l''autore piemontese aveva fatto all'Iliade omerica, nell'edizione di Rosa Calzecchi Onesti (1950):

Sappiamo bene tuttavia che qualunque traduzione è una messa in scena che adatta un testo perlomeno a un nuovo clima verbale e lo colloca in un gioco di riflessi e di richiami, di sopraggiunte oscurità e insospettate possibilità d'echi, che è sempre un travestimento. Ma sappiamo altresì che altro è accontentarsi della generica suggestione di un testo e tradurla secondo un secolare schema oratorio, altro accostarsi alla lettera viva, armati di una sensibile e attenta filologia, come una bilancetta, che dovrà scrupolosamente dosare l'oro della poesia. Di questa nostra convinzione non ci pare anzi nemmeno di doverci vantare: è una semplice esigenza di coscienza e di gusto e chi oggi non la sente si mette fuori non dico della «civiltà letteraria» di buona memoria ma del normale alfabetismo. […] Noi tentiamo dunque con questa traduzione dell'Iliade di proporre al lettore italiano un Omero nuovo, cioè il più vicino possibile (salvo i diritti della lettura) all'antico – l'autentico.141

Si vede l'opposizione di Pavese al classicismo tradizionale, quel classicismo che il Corsini definiva di 'carattere retorico-formale e compositivo'142

arrivando a considerare l'autore un neofito che aveva tentato ingenuamente di

Belbo (CN), I quaderni del CE.PA.M., 2003. 139C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 26 settembre 1942. 140A. Dughera, Tra le carte di Pavese, Roma, Bulzoni, 1992, p. 29.

141C. Pavese, Introduzione a Omero, Iliade, versione di Rosa Clazecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1991, pp. X-XI. 142E. Corsini, Orfeo senza Euridice: I Dialoghi con Leucò e il classicismo di Cesare Pavese, cit.

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trascrivere i nomi greci senza tenere conto della 'derivazione di questi nomi per il tramite del latino'143. Se alcune riflessioni del Corsini possono considerarsi

illuminanti per la comprensione del sostrato culturale dei Dialoghi con Leucò – come è emerso dal capitolo precedente –, non può dirsi altrettanto della sua definizione di «classicismo», identificato in quello che lo scrittore piemontese stesso aveva apertamente annunciato di voler evitare.

L'approdo al classicismo viene prima di tutto dall'esperienza che l'autore fa sulla propria pelle, dapprima come traduttore di scrittori americani e poi di classici. Poco prima di morire, egli definisce la sua idea di cultura e la maniera in cui ha proceduto per documentare i classici – approdandovi senza partire da essi – riconoscendo nell'insofferenza di scrittore e nella sua costante ricerca il bisogno di trovare «qualcosa di assoluto»144:

La cultura deve cominciare dal contemporaneo e documentare, dal

reale, per salire – se è il caso – ai classici. Errore umanistico: cominciare

dai classici. Ciò abitua all'irreale, alla retorica, e in definitiva al disprezzo cinico della cultura classica – tanto non ci è costata niente e non ne abbiamo visto il valore (la contemporaneità al loro tempo).145

Considerando i classici uno strumento di comprensione del reale, Pavese scopre nei contemporanei (gli autori americani e gli studi etnologici) il modo di raggiungere il ritmo classico. Si può, dunque, concordare con la Saccà nell'affermare che 'dare un nome al mistero, dare un senso all'accadere, significa dargli un ritmo che alluda all'inesprimibile'146; proprio come gli antichi greci

avevano peccato di ubris tentando di possedere il selvaggio attraverso la

nominatio, ma scagliandosi inevitabilmente contro il destino, così Pavese,

ugualmente peccatore, attende la rivelazione del reale, che è il mistero su cui genera una personale mitologia, partendo dagli elementi primordiali fino ad

143Ivi, p. 124. 144Ivi, 2 giugno 1947.

145C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 18 febbraio 1950.

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arrivare addirittura a se stesso – si ricordi che i Dialoghi sono un 'colloquio tra l'umano e il divino', come si legge nel Mestiere di vivere.

Come ha notato Francesco Alziator nel saggio Cesare Pavese e l'etnologia, […] il primo ad avere coscienza e ad intendere l'importanza (dell'etnologia) nella propria opera fu lo stesso Pavese.147

La materia etnologica si ritrova nell'opera pavesiana a partire da Lavorare

stanca, attraverso le pagine di alcuni romanzi, fino ai pensieri del Mestiere di vivere.

Ne acquista gradualmente consapevolezza l'autore, i cui scritti dapprima presentano un'impostazione etnologica solo di sottofondo, per acquistare poi aspetti più chiari e definiti. Fondamentale in questa progressiva presa di coscienza è la «Collana Viola», che vede Pavese impegnato alla selezione di testi che fossero organici e potessero ambientarsi 'nel clima culturale italiano', come gli scrive il suo collaboratore Ernesto de Martino, il 9 ottobre 1948:

Bisognava far precedere ogni opera da una introduzione che la ambientasse nel clima culturale italiano e guidasse il lettore sprovveduto a leggere criticamente l'opera presentata. Altrimenti, a mio avviso, si corre un rischio: di favorire mode e infatuamenti pericolosi, e di provvedere non già all'allargamento dell'orizzonte umanistico ma al costituirsi di nuovi dilettantismi, la cosa era tanto più necessaria per la nostra collezione in quanto si toccavano qui argomenti senza tradizione specifica nella nostra cultura nazionale: stava a noi stabilire il riattacco con la tradizione, soprattutto attraverso le introduzioni.148

A lui, Pavese rispondeva:

Sull'orientamento della collezione sono sostanzialmente d'accordo. Bada però che se i libri, usciti sinora e tutti concordati con te, mancano di presentazione unitaria, ciò vuol dire che è pressoché impossibile ottenerla – almeno nel senso da te indicato. Tieni presente che le due esigenze – ambientare i testi nel milieu idealistico italiano e accordarli con le velleità marxistiche dei nostri consulenti ideologici – sono di per sé quasi contraddittorie. Sovente, disperato, io concludo che è meglio

147F. Alziator, Cesare Pavese e l'etnologia, in «Lares», nn. 3-4, 1966, p. 111.

148C. Pavese, E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-50, a cura di P Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 108-09.

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darli nudi e crudi e lasciare che i dibattiti avvengano sulle riviste.149

Le prefazioni, infine, furono pubblicate e, dopo la morte di Pavese, la collana fu pubblicata dalla casa editrice Boringhieri, conservando il titolo originario «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici» fino al 1956, per diventare dal 1962 la «Biblioteca di cultura etnologica e religiosa» della Boringhieri.

Il contatto con la cultura etnologica è testimoniato anche dalla corrispondenza epistolare con il professor Giuseppe Cocchiara dell'Università di Palermo, di cui oggi si legge nel volume del Lajolo, Il vizio assurdo. Ne deriva una serie di riflessioni e di scambi di idee in merito ad alcune opere lette, che i due suggeriscono l'un l'altro, tenendo conto dei temi dominanti della «Collana Viola». La corrispondenza, infatti, risale agli anni '48-'50 e definisce le scelte di Pavese – anche suggerite da Cocchiara – e di de Martino dei testi da inserire nella collana, con conseguenti riflessioni150:

13 dicembre '48

[…] La ringrazio delle fini parole che mi scrive su Leucò.

Io nel frattempo, ho letto, a pezzo a pezzo, le Tradizioni popolari (grazie della dedica) e le ho trovate un libro ricco e importante, guida indispensabile a questi studi, e storia non soltanto della specialità folklore, ma dell'intera cultura storiografica italiana dell'ultimo secolo [...]

7 luglio '48

[…] ho ricevuto i quattro volumi ma non l'inizio della traduzione del Frazer che mi promette.

De quattro il meglio – editorialmente e umanisticamente – è senza dubbio Sex and Repression del Malinowki. Scriviamo subito a Kegan Paul per i diritti e la copia inglese […]

29 luglio '48

[…] Resto dell'idea che del Frazer meglio sarebbe tradurre, in due volumi, il Ramo d'oro: non ho mai potuto appurare chi l'aveva

149Ivi, p.111.

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pubblicato (a Roma?): è un passo preliminare per garantirsi da un eventuale violazione di diritti altrui. Le mando il dattiloscritto Frazer, e i quattro volumi.

14 febbraio '49

Frazer è nostro. Puoi senz'altro stendere la prefazione (non più di 7 o 8 pagine direi) e iniziare la revisione […]

Il lavoro di Pavese per la «Collana Viola», come si vede, aveva stimolato in lui un interesse inevitabilmente più motivato per gli studi etnologici, che deve anche collegarsi al bisogno dell'autore, sempre maggiore, di affiancarsi persone esperte che potessero orientarlo verso scrittori culturalmente interessanti; la corrispondenza col professor Cocchiara dimostra proprio questo. Oltre al suo attivo ruolo di co-direttore nell'iniziativa editoriale della «Collana Viola», bisogna riconoscere a Pavese una grande passione per tali argomenti ma soprattutto un approccio da «non addetto»151: questi, privo della capacità critica

di chi è esperto in materia, si sofferma sugli aspetti contenutistici che lo hanno colpito e da cui la sua attività letteraria ha potuto trarre ispirazione – non soltanto sulla scientificità dei testi. I suoi interessi etnologici sono, infatti, visibili in molte delle sue opere, tra cui Lavorare stanca (1936), Paesi tuoi (1939) e I Dialoghi con

Leucò (1947) sono solo gli esempi più eclatanti. Si veda anche l'intervista

radiofonica di «Scrittori al microfono», durante la quale Leone Piccioni chiedeva a Pavese quale narratore preferisse, e questi – considerandolo impropriamente narratore – rispondeva Giambattista Vico, in quanto

narratore di un'avventura intellettuale, descrittore ed evocatore rigoroso di un mondo – quello eroico dei primi popoli – che (lo) ha sempre interessato e da anni gli ha fatto smettere ogni lettura amena per dedicarsi alle relazioni ed ai documenti etnologici – testi in cui egli ritrova quel senso di una realtà simbolica e insieme fondata su saldissime istituzioni che, a suo parere, è la fonte prima di ogni poesia degna di questo nome.152

151M. Berardi, Valore e significato dell'etnologia nell'opera di Pavese, in A. Catalfamo (a cura di), Ritorno

all'uomo, saggi internazionali di critica pavesiana, Santo Stefano Belbo, I quaderni del CE.PA.M., 2001,

p. 147.

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Pavese sentì fortemente la necessità del primitivo, quel mondo 'che oggi più che mai dà segni di presenza'153 e che si manifestò nella sua opera; proprio le

letture di Vico ('Quel che ti incanta del Vico è l'aggirarsi perpetuo fra il selvaggio e il contadinesco e i loro sconfinamenti reciproci, e la riduzione di tutta la storia a questo germe'154), Philippson e Frazer stimolarono in lui tale interesse. A riprova

della presenza di questo germe in Pavese potrebbero citarsi numerosissimi appunti di Diario, che servirebbero a dimostrare scientificamente l'attaccamento dell'autore a tale materia, attaccamento che sfociò nell'idea del simbolo, elemento costante della sua ricerca tematico-stilistica: identificazione dell'essenza e continua tensione ad essa possono, infatti, considerarsi il motore della sua attività.

12 giugno 1950), in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1953, pp. 295-6. 153E. De Martino, Naturalismo e storicismo dell'etnologia, Bari, 1941.

76 3.2 Origini e forme del mito greco

Paula Philippson aveva parlato di «simbolo» in Origini e forme del mito greco: qui il termine «simbolico» ha un significato rigorosamente etimologico e non indica una cosa che stia per qualcun'altra, bensì «unire per mezzo dell'incontro»; anzi, il significato è, in questo caso, opposto, poiché nell'accezione che tiene conto dell'etimologia della parola si presuppone un rapporto di complementarità e non di assimilazione.

Mario Untersteiner, che nelle sue lettere suggeriva proposte per la nuova collana, consigliò a Pavese la traduzione del testo di Philippson; questa era stata la sua risposta:

La Thessalische Mythologie della Philippson, insieme all'altro studio minore sulle Genealogie, farebbero certo un bel libro. Ma il problema è fino a che punto piacerebbe a un pubblico non specialista. Ci penserò. A me quel libro ha fatto un grande effetto, e un dialogo del mio Leucò: «Le cavalle» ne è tutto intriso.155

Questo legame con i Dialoghi sarà approfondito a breve, per ora si analizzino alcuni aspetti del testo. La prima edizione italiana di Origini e forme

del mito greco compare nel 1949 nella «Collezione di studi religiosi, etnologici e

psicologici» della Einaudi; nella prefazione l'autrice identifica il punto di partenza del suo studio nella visione mitica del mondo cui i Greci diedero espressione attraverso una cosmogonia e una teogonia. Da questa visione sarebbero nate in seguito la filosofia e le scienze dell'Occidente: si pensi a Platone, il quale – affinando il metodo dialettico e concettuale di Socrate, suo maestro – non ha potuto fare a meno di esprimere l'essenza della sua filosofia per mezzo del mito, ragione per cui Philippson lo definisce 'l'ultimo grande creatore greco di miti'. Attraverso Il tempo del mito, La genealogia come forma mitica e La mitologia

tessalica156, si indaga sul mito greco, che è forma di conoscenza, e sull'eternità del

155C. Pavese, Lettere 1945-50, a cura di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1966, p. 242. 156Questi sono i titoli dei tre studi sul mito greco, riuniti nel volume.

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divino; si analizza la Teogonia di Esiodo, che considera la forma genealogica quale origine dell'ordinamento divino universale; si propongono concezioni più antiche di quelle greche, ossia quelle tessaliche del II millennio a. C. Un esempio di una simile stratificazione del mito nel tempo si ha nella storia delle tre figure divine Chirone, Peleo e Thetis, che risulta opportuno nominare anche perché Chirone è il protagonista del dialogo Le cavalle, che Pavese stesso faceva dipendere da queste letture etnologiche.

Philippson tenta una giustificazione storica degli aspetti esteriori e caratteriali di Chirone, al cui mito collega direttamente – proprio come Pavese nel suo dialogo – quello di Asclepio. Secondo il mito, il centauro Chirone, progenitore dei selvaggi Centauri abitanti del monte Pelion, è il più saggio e il più mite, carattere che gli deriverebbe direttamente dal padre, Crono. Come i Centauri, Chirone presenta la doppia forma di cavallo e di uomo157 e sarebbe

legato a questo comune aspetto il rapporto genealogico con essi; ma l'autrice ritiene opportuno indagare il momento a partire dal quale i Centauri si identificarono in tali ibridi caratteri158. Per indicare questa doppia natura – spiega

l'autrice – la lingua greca utilizza il termine θήρ, che tuttavia, nella tradizione, non troviamo esclusivamente per gli esseri ippomorfi; inoltre, il termine

kentauros non identificherebbe esclusivamente un ibrido equino, tanto che sia la Gigantomachia159, che Platone160 e Senofonte161 precisano l'aspetto di 'centauro

equino' nella parola hippokentauros. Si chiarisce con opportuni esempi, che 'il mostro equino originariamente rappresentava un genere di demoni diverso dai Centauri del Pelion'162 per il quale dobbiamo immaginare piuttosto la forma di

Satiri. Solo attorno al 675 a. C. sarebbe quindi da considerarsi 'definitivamente compiuta la trasformazione dei Centauri del Pelion dal tipo satiresco al tipo

157Chirone era nato dall'unione di Crono, in forma di cavallo, e dell'oceanina Filira, il tiglio.

158Si veda, a tal proposito, P. Philippson, Origini e forme del mito greco, Torino, Einaudi, 1949, pp. 207-216. 159Gigantomachia, fr. 7.

160Platone, Fedro, 229d. 161Senofonte, Ciropedia, 4, 3, 17. 162P. Philippson, cit., p. 213.

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ibrido equino: prima di quella data, per due generazioni, l'immaginazione greca tentennava nel riferire questo tipo semiequino ai demoni del Pelion'163. Il

carattere mite di Chirone lo allontanerebbe, tuttavia, da quello selvaggio dei Centauri: bisogna dire che già nell'Iliade omerica, in cui sembrerebbe non ancora avvenuto il collegamento tra queste due figure – i Centauri sono, infatti, presentati con appellativi che li fanno somigliare a Satiri –, Chirone è descritto dal carattere benevolo e temperato; solo secondariamente, dunque, il mito instaura una relazione genealogica tra i Centauri, assunta la forma equina, ed il saggio Chirone.

Ma torniamo al discorso che si ricollega a Pavese e al 'mondo di divine metamorfosi bestiali'164 in cui egli colloca Asclepio: Philippson parla di Asclepio

come del potente dio della Tessaglia affidato alla tutela di Chirone da cui apprende l'arte della medicina; sottratto alla madre morente Coronide dal padre Apollo, cresce davanti alla grotta del mite centauro, dove alleva il suo serpente.

Il dialogo pavesiano si apre con Ermete che porta a Chirone Asclepio perché lo allevi, secondo il volere di Apollo. Soffermandosi sull'aspetto onomastico del dialogo si nota che non compare mai il nome di Apollo, definito il «Dio» e così nominato solo da Ermete, ma anche il «Radioso» così detto da Chirone e più avanti anche dall'altro; inoltre, il nome del piccolo viene fatto solo alla fine del dialogo – nonostante si parli di lui sin dall'inizio – nella penultima battuta del centauro, che riportiamo per intero:

CHIRONE Ti ho già detto la sorte che attende costui nelle case mortali.

Sarà Asclepio, il signore dei corpi, un uomo-dio. Vivrà tra la carne corrotta e i sospiri. A lui guarderanno gli uomini per sfuggire il destino, per ritardare di una notte, di un istante, l'agonia. Passerà, questo bimbetto, tra la vita e la morte, come tu ch'eri coglia di toro e non sei più che il guaritore delle ombre. Questa la sorte che gli Olimpici faranno ai vivi, sulla terra.165

163Ivi, p. 215.

164C. Pavese, Le cavalle, I Dialoghi con Leucò, cit., p. 26. 165C. Pavese, Le cavalle, I Dialoghi con Leucò, cit., p. 29.

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Ermete viene invece definito da Pavese 'dio ambiguo tra la vita e la morte, tra il sesso e lo spirito, fra i Titani e gli dèi dell'Olimpo'166, in riferimento ai

molteplici miti che lo riguardano: ciò che sembra davvero interessante è il nome Enodio con cui Chirone gli si rivolge, nome che sembrerebbe derivato proprio dal testo di Philippson, in cui è presentato come

il pelasgico Hermes itifallico, il dio di Pherai, l'Enodios che presso il lago di Boibe si è congiunto con la Pheraia Chthonia Hekate Enodia Brimo e che si invocava insieme insieme con questa per tutte le epoche greche e nelle più diverse regioni greche167

L'ambiguità della figura di Ermete, evidente già nella presentazione che ne fa Pavese, è sottolineata anche in Origini e forme del mito greco, in quanto appartenente tanto alla sfera ctonia quanto a quella urania, una doppia sfera in cui 'Hermes esplica la propria natura, l'aspetto «ermetico» del mondo'168.

L'Ermete di Pavese è l'Ermete ctonio, capace di discendere agli Inferi e di mandarci le sue vittime, anche se la bella Corònide neppure lo aveva atteso,