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I nomi simbolo nella poetica pavesiana

NOMI, SOPRANNOMI (SN), IPOCORISTICI (IP)

5. I nomi simbolo nella poetica pavesiana

Pavese è tutto nelle sue colline che sanno di lavoro e di stanchezza, di uva e di donna.

Italo Calvino

Il mito si inserisce nella poetica pavesiana con due differenti valori semantici: da un lato si identifica con il mito antico, caratterizzato dall'atteggiamento reverenziale per il sacro, tipico della cultura greco-latina cui appartiene; dall'altro, con il mito moderno, funzionamento irrinunciabile dell'inconscio dell'uomo moderno che, razionalizzato, diventa uno strumento conoscitivo della realtà. In entrambi i casi è fondamentale la presenza di uno sfondo indistinto – sia esso componente del racconto mitico o del pensiero umano –, che rappresenta qualcosa di 'non completamente afferrabile, qualcosa che non si enuncia mai direttamente [...] vuoi che si tratti di una rappresentazione della fisionomia culturalmente codificata (come nel caso del mito classico), vuoi che affondi le radici in una simbologia individuale (come nel caso di un "mito" moderno)'243. Il duplice valore semantico del mito, accresciuto della personale

esperienza emotiva dell'autore, contribuisce alla formulazione di quei 'miti personali', già precedentemente accennati.

I simboli, di cui il mito è composto, sono gli strumenti che permettono all'uomo di raggiungere una dimensione che è extra-temporale, ossia che domina sul tempo reale. Ciascun uomo si sforza incessantemente di tendere all'attimo estatico che è fuori del tempo, per realizzare la propria libertà: l'autore chiama 'mondo del tempo' quell'insieme di atti e gesti quotidiani attraverso cui ciascun individuo caratterizza la propria esistenza. Il gesto non ha tanto valore in se stesso, nella sua naturalità, quanto nell'insieme che richiama colui che lo compie al simbolo contenuto in esso244. Questo l'attimo in cui il tempo dell'individuo,

243B. Van Den Bossche. Nulla è veramente accaduto, cit.

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quello del vissuto, promette, riveste, ed incarna l'attimo estatico atemporale che si inserisce nelle cose fatti gesti di tutti i giorni come una testimonianza dell'avvenuta liberazione della coscienza: il simbolo, 'segno assoluto ed astorico'245, consente

allora di accedere all'attimo estatico e la coscienza liberata non è altro che emancipazione dell'individuo dal mondo del tempo. In questo senso si spiega la riflessione dell'autore del 25 aprile 1943:

La "parola favola fantasia" del 31 ag. '42 congiunta al reale fa ricordo: ecco il simbolo!246

Il ruolo del mito si estende nell'ideologia pavesiana fino a diventare perno dell'intero sistema concettuale, fino ad acquistare la capacità di organizzare le cose del mondo secondo un nuovo ordine, derivato da una sorta di trasfigurazione di esse: ciò avviene per mezzo della fantasia, intelligenza che permette all'individuo di sfuggire al reale e sostituirlo con la favola, il racconto, il mito. Scrive l'autore:

La fantasia non è l'opposto dell'intelligenza. La fantasia è intelligenza applicata a stabilire rapporti di analogia, di implicanza significativa, di simbolismo. Dicevo che essa sola costruisce, perché essa sola sfugge alla tirannia del reale-tranche de vie, dell'evento naturalistico, e sostituisce alla legge del reale (che è assenza di costruzione, tanto è vero che esso non ha fine né principio) la favola, il racconto, il mito, costruzione dell'intelligenza247.

Sono riflessioni come questa che conducono l'autore ad una concretizzazione poetica sempre più compiuta del mito e ad una sempre più consapevole identificazione di esso con i luoghi unici. Si tratta di luoghi dell'infanzia, il cui ricordo è nitidamente impresso nella memoria dell'individuo e che, per tale ragione, assumono un valore assoluto. Le cose, i fatti e i gesti che costituivano il 'mondo del tempo' divengono assoluti, simbolici. Si legge in un

La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 67.

245B. Van Den Bossche, cit.

246C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 25 aprile 1943. 247Ivi, 10 luglio 1942.

111 pensiero dell'11 settembre 1943:

[...] Nella realtà nessun gesto e nessun luogo vale più di un altro. Nel mito (simbolo) è invece tutta una gerarchia248.

In tale contesto, si comprende facilmente l'importanza che rivestono alcuni, particolari, nomi, che si possono qui definire nomi simbolo: si tratta di nomi comuni che godono di un'ampia simbologia nella produzione pavesiana, in quanto portatori di quei valori simbolici che caratterizzano i suoi 'miti personali'. Le immagini del reale divengono, a seguito del processo di simbolizzazione, immagini-ricordo della sua infanzia, dunque, immagini mitiche. E se è 'mitica' l'immagine a cui lo scrittore tende, poiché percepita come qualcosa di unico e come simbolo della sua esperienza249, altrettanto importante risulta il nome che

la identifica. Il luogo mitico è, infatti, «quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve, ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico»250.

Il nome simbolo tra i più evocativi è quello della Collina (da adesso in poi, questi nomi si indicheranno con la lettera maiuscola per sottolinearne il valore simbolico), la cui presenza quasi costante nella produzione pavesiana è dovuta non soltanto al richiamo evidentemente autobiografico, ma anche al suo essere parte indispensabile della concezione mitica dell'autore. Non a caso, il suo avvicinamento al mito era avvenuto proprio tra le colline di Crea, dov'era iniziato il lavoro sui Dialoghi con Leucò, testo da cui la Collina risulta essere, appunto, luogo privilegiato dell'incontro tra l'uomo e gli dèi. Non si dimentichi, inoltre, che le colline delle Langhe rappresentano il luogo di origine di Pavese e della sua famiglia e, dunque, luogo della sua infanzia.

La Collina è 'l'altura trasfigurata in simbolo', scrive Gian Luigi Beccaria251,

248Ivi, 11 settembre 1943.

249«Mitica è quest'immagine in quanto lo scrittore vi torna come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 15 settembre 1943).

250C. Pavese, Feria d'agosto, cit., p. 149.

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basandosi sugli appunti autografi datati 19 giugno e contenuti nel manoscritto della Luna e i falò: 'Salire sulla vetta è un modo di sfuggire alla storia, di tornare davanti all'archetipo', riflette Pavese tenendo conto delle precedenti prove in cui aveva tentato questo atto simbolico: la salita alla casa bruciata in Paesi tuoi, il luogo dove vive l'Eremita dei Mari del Sud, il Greppo del Diavolo sulle colline, le «cime» della Casa in collina, la gita a Superga in Tra donne sole252).

La Collina della Grangia, in Paesi tuoi, è la visione che riempie il risveglio di Berto253 e l'elemento che domina il paesaggio mitico in cui vive Talino, dove

Berto decide di seguirlo; ma è anche il colle al fianco del quale camminano colui che dà la voce ai Mari del Sud e suo cugino:

[...]

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto se salivo con lui: dalla vetta si scorge

nelle notti serene il riflesso del faro

lontano, di Torino. «Tu che abiti a Torino...» mi ha detto «...ma hai ragione. La vita va vissuta lontano dal paese: si profitta e si gode

e poi, quando si torna, come me, a quarant'anni, si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono». Tutto questo mi ha detto e non parla italiano, ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre di questo stesso colle, è scabro tanto

che vent'anni di idiomi e di oceani diversi non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino, usare ai contadini un poco stanchi. [...]254

Anche in poesia, dunque, si incontra il nome simbolo della Collina e, se nei

Mari del Sud non è direttamente menzionata, lo è in Paesaggio [I], dove si legge

«Non è più coltivata quassù la collina [...] Coste e valli di questa collina son verdi e profonde»255; e ancora in Paesaggio [II]: «La collina biancheggia alle stelle, di

252Ibidem.

253C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 32

254C. Pavese, I mari del Sud, in Lavorare stanca, cit. 255C. Pavese, Paesaggio [I], in Lavorare stanca, cit.

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terra scoperta;/si vedrebbero i ladri, lassù. Tra le ripe del fondo/i filari son tutti nell'ombra. Lassù che ce n'è/e che è terra di chi non patisce, non sale nessuno [...]»256; ma anche in Paesaggio [V]: «Le colline insensibili che riempiono il

cielo/sono vive nell'alba, poi restano immobili/come fossero secoli, e il sole le guarda»257. Sono esempi in cui il simbolismo del nome è sottolineato dalla

centralità che questo riveste nel paesaggio che si vuole descrivere, comparendo, in tutti e tre i casi, al primo verso del componimento. Di questo simbolismo si accorge anche il protagonista del Diavolo sulle colline, quando descrive lo scenario naturale e salutare di Mombello, in cui vive l'amico Oreste. Questo romanzo evidenzia un altro di quei 'miti' pavesiani, strettamente connesso a quello della Collina, rappresentato dal dissidio Città/Campagna, cui si è già accennato in questa sede. Il caso particolare del Diavolo sulle colline – se ne vedranno esempi da altri romanzi – realizza questo confronto contrapponendo la Collina di Oreste al Greppo, che può definirsi, citando Daniela Bisagno, un suo 'rovesciamento speculare'258, inserendo l'elemento cittadino nella Campagna. Se Mombello evoca

la sacralità della natura, collocandosi nella tradizione mitica dell'autore, il Greppo è luogo sconsacrato, il disordine contro l'ordine, la malattia (Poli) contro la sanità (Oreste). In tale diversità la Bisagno identifica la nietzschiana Dissonanza

tragica, evidente nel duplice atteggiamento del protagonista: da un lato, infatti,

questi è attratto dalle immagini della Campagna di Oreste, dall'altro sente la forte tensione 'verso la sfera dionisiaca del Greppo'259:

Dall'ombra dov'eravamo si vedevano i versanti delle valli, grandi fianchi come di mucche accovacciate. Ciascuna collina era un mondo, fatto di luoghi successivi, chine e piane, seminati di vigne, di campi di selve. C'erano case, ciuffi di bosco, orizzonti. Dopo tanto guardare si scopriva ancora sempre qualcosa [...] Il sole, da ponente dava risalto a ogni minuzia, e anche lo strano corridoio marino, la nube vaga del

256C. Pavese, Paesaggio [II], in Lavorare stanca, cit. 257C. Pavese, Paesaggio [V], in Lavorare stanca, cit.

258D. Bisagno, Il diavolo sulle colline: la dissonanza tragica, in Cesare Pavese oggi, Atti del convegno internazionale, cit., pp. 63-75.

114 Greppo era più tentante del solito.260

La Collina è anche il nome simbolo che dà il titolo ad uno dei più celebri romanzi pavesiani, La casa in collina: per il professore Corrado, di ritorno nel paese natale, il soggiorno in Collina rappresenta l'ambiente da contrapporre alla storia. La Collina, che doveva essere un rifugio dalla guerra e da una qualunque decisione politica, si trova, tuttavia, ad essere inevitabilmente colpita dalle vicende contemporanee: la guerra è riuscita a raggiungere anche le 'sue' Colline e se prima sembrava una «faccenda altrui», diviene da quel momento improvvisamente vicina. Corrado è costretto a prendere coscienza di ciò che è accaduto e lo spettacolo di morte con cui si chiude il romanzo genera in lui l'umiliazione che gli fa comprendere «che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione» 261 . Il ruolo della Collina non è qui solo quello

'paesaggistico' particolarmente caro all'autore, ma soprattutto quello di permettere la riflessione del protagonista, il quale arriva a comprendere più profondamente se stesso, spiegando il presente attraverso il suo passato: il recupero della sua infanzia, attraverso il ritorno ai luoghi d'origine, consente a Corrado di 'afferrare le coordinate esistenziali della visione mitica della collina', scrive Van Den Bossche262. E, anche in questo caso, si può ravvisare una sorta di

contraddizione nel fascino esercitato dalla Collina, tranquillo rifugio e, nello stesso tempo, natura impenetrabile.

Nella Luna e i falò Anguilla, di ritorno dall'America, si reca nella Campagna piemontese dove ha trascorso la sua infanzia, per riuscire a spiegare non tanto le sue sconosciute origini, quanto piuttosto la sua esistenza attraverso

260C. Pavese, Il diavolo sulle colline, in C. Pavese, Tutti i romanzi, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 2000, cit., p. 620.

261C. Pavese, Prima che il gallo canti, cit., pp.258-9. 262B. Van Den Bossche, cit.

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un recupero delle esperienze fondamentali della sua infanzia. Tali esperienze sono intrecciate al paesaggio naturale della Collina, che è luogo extra-temporale – paese, gente, piante, terra – in cui egli si è radicato:

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti263.

I riferimenti al paesaggio piemontese ben localizzano i luoghi a cui rimandano, ma alludono a qualcosa di più, rendendo la metafora della Luna e i

falò più complessa: le colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe sono i

simboli della rudimentalità di quei luoghi dell'infanzia. Anche in questo caso, la Collina rappresenta l'identità recuperata del protagonista, identità che torna a sentire fortemente anche grazie al ricordo dei miti contadini su cui la Collina si fonda: questo, anche, il ruolo della Luna e dei Falò, nomi simbolo che si analizzeranno più avanti.

Il paese d'infanzia di Anguilla è un luogo in cui il tempo della natura prevale su quello dello storia (come accade inizialmente nella Casa in collina), i cui ritmi sono scanditi dai fenomeni naturali e da quei miti contadini – Luna, Falò, Feste – che, recuperati nella memoria, permettono al ragazzo il recupero di se stesso: «Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato»264.

Il tempo di questi luoghi 'mitici' non è scandito dal passare degli anni, ma dal passare delle stagioni, in una dimensione ciclica che subisce un processo di 'assolutizzazione' e, appunto, di 'simbolizzazione'. Anguilla ritorna al paese, in cui tutto è uguale pur essendo cambiato, proprio come le stagioni e come la Luna. All'insieme di questi significati che identificano la Collina è contrapposta l'America in cui il ragazzo aveva vissuto, che è 'il paese dello sradicamento

263C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 6. 264Ivi, p. 20.

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esistenziale'265. In confronto a quella piemontese, la campagna americana sembra

una costruzione artificiale: «le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio»266.

La casa in collina e La luna e i falò introducono un tema interessante –

anch'esso implicitamente contenuto nei nomi simbolo di Collina, Città e Campagna –, che è quello del ritorno alle origini. Sia Corrado che Anguilla, infatti, attuano un ritorno ai luoghi della loro infanzia, quelli in cui la loro infanzia era trascorsa, quelli rimasti impressi nella loro memoria e, per questo, mitici: il caso di Anguilla è particolare dal momento che questi non sa dove è nato e l'approfondimento delle esperienze del suo passato genera l'amarezza di non appartenere ad un paese:

Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già in mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l'avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l'effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.267

Il tema del ritorno alle radici era presente nella letteratura a partire dal viaggio di Ulisse, trattato anche nei Dialoghi con Leucò, ed era già emerso dalla strofa dei Mari del Sud sopra citata, dove Pavese aveva scritto che, per chi vive lontano dal paese, «quando si torna, come me, a quarant'anni,/si trova tutto nuovo», tuttavia aggiungendo «Le Langhe non si perdono»268.

Strettamente connesso a quello del ritorno è il tema della memoria, attraverso cui la regressione si rende possibile. La ricerca del passato si intreccia,

265B. Van Den Bosche, cit.

266C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 15. 267Ivi, p.5.

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in maniera differente per i personaggi dei romanzi pavesiani, ora con la 'memoria storica', ora con quella 'affettiva' o 'sensoriale'269. Questo è ciò che risulta se si tiene

conto dei diversi esempi già citati, cui può aggiungersi quello di Silvia, protagonista di Fuoco grande, che torna nella Basilicata della sua infanzia per la morte prossima del piccolo Giustino: il suo ritorno fa riemergere ricordi spiacevoli della sua infanzia, un passato che lei aveva volutamente abbandonato a favore di una nuova vita ma che arriva inevitabilmente al confronto/scontro con il suo presente. Questo avviene quando Giovanni scopre il segreto dell'infanzia di Silvia, che la sua famiglia aveva da sempre celato.

La 'memoria sensoriale', così chiamata da Manuel Barriuso Andino, è evidente quando il recupero memoriale avviene per mezzo di visioni ed odori familiari, come quando Anguilla si trova di fronte alla «stessa macchia di verderame intorno alla spalliera del muro. La stessa pianta di rosmarino sull'angolo della casa. E l'odore, l'odore della casa, della riva, di mele marce, d'erba secca e di rosmarino»270.

In una nota di Diario, datata 10 agosto 1944, Pavese afferma di rimanere incantato di fronte al «selvaggio e il contadinesco, e i loro sconfinamenti reciproci»271. Infanzia e selvaggio confluiscono, infatti, nel personale sfondo

mitico dell'autore che è la Campagna. In questo contesto Città e Campagna acquistano il loro particolare e simbolico valore, non soltanto perché ambienti differenti, ma perché 'simboli di una dialettica esistenziale'272. La Campagna fa

da sfondo ai racconti di Feria d'agosto, in cui la Collina «da luogo del selvaggio condannabile alla coscienza cittadina e adulta, diventa riserva privilegiata delle decisive scoperte infantili»273. Se ne cita un esempio dal racconto La Langa:

Certi giorni, studiavo con più attenzione del solito il profilo della

269Le definizioni sono di M. Barriuso Andino, Cesare Pavese tra la luna e i falò, in A. Catalfamo (a cura di),

Ritorno all'uomo, cit., pp. 43-54.

270C. Pavese, La luna e i falò, cit. p. 22.

271C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 10 agosto 1944.

272M. Barsacchi, Pavese e il mito della campagna, in A. Catalfamo (a cura di), Cesare Pavese, il mito, la donna e le

due Americhe, cit., pp. 65-82.

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collina, poi chiudevo gli occhi e mi fingevo di essere già per il mondo a ripensare per filo e per segno al noto paesaggio. [...] Basti dire che vissi in una grande città e feci perfino molti viaggi per mare e, un giorno che mi trovavo all'estero, fui lì lì per sposare una ragazza bella e ricca, che aveva le mie stesse ambizioni e mi voleva un gran bene. Non lo feci, perché avrei dovuto stabilirmi laggiù e rinunciare per sempre alla mia terra.274

La Campagna è anche il «paese di verdi misteri» per il ragazzo che vi si reca d'estate, nel componimento Il dio-caprone; è il luogo «tutt'altro che semplice» in cui, secondo il narratore di Nudismo275, «tutto ha un nome»; è il luogo in cui il

pittore Barbetta della Bella estate si reca per «cercare i suoi colori» perché è lì che si fa la vera pittura; è il luogo di Talino contrapposto a quello di Berto, in Paesi

tuoi: «A tenere il fiato, si sentiva il rumore del sole come fosse un incendio. Che

pianta, non ha neanche un fico, dicevo, e non fa un dito d'ombra. Così impari a venire in campagna. Il tuo posto è a Torino»276;

In Città, invece, si ambienta l'avventura lavorativa (e non solo) di Clelia, in Tra donne sole: «Arrivai a Torino sotto l'ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone. [...] Rividi così Torino, nella penombra dei portici. Quando entrai nell'albergo non sognavo che il bagno scottante e distendermi e una notte lunga. Tanto, a Torino ci dovevo stare un pezzo»277. In

questo caso specifico, il valore simbolico della Città non si esaurisce nel contrasto con la Campagna: Torino, con le vie del centro, così spesso percorse dalla