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La forma dialogica dei Dialoghi con Leucò

2. Il nome proprio nei Dialoghi con Leucò

2.1 La forma dialogica dei Dialoghi con Leucò

Cesare Pavese lavora ai Dialoghi con Leucò dal 1945 al 1947, data – quest'ultima – cui risale la pubblicazione dell'opera. Sono anni in cui lo scrittore piemontese ritorna al passato, ai suoi studi classici, effettuando un recupero del mondo delle origini69.

Pavese dedicò buona parte della sua carriera letteraria alla ricerca di uno stile che meglio si conformasse al suo genere di scrittura, attraversando fasi differenti, tutte incentrate sul mito. Dire mito è, nel caso di Pavese, dire selvaggio e

primitivo approdando agli aspetti simbolici e rituali che sono le peculiarità del

mito pavesiano, tematiche ricorrenti e strettamente unite tra loro in tutta la sua scrittura, tanto poetica, quanto diaristica e narrativa. Sugli aspetti cardine del pensiero pavesiano e di come questi siano arrivati ad identificarsi con i suoi 'miti personali' si parlerà in seguito, anche per collocare il nostro studio in un compiuto quadro letterario.

I Dialoghi con Leucò sono, per affermazione dell'autore stesso la sua opera più importante, l'unica per la quale «ogni giorno si recava all'ufficio diffusione per conoscere come procedeva la vendita», come ci informa Davide Lajolo70.

Pavese concepì questo lavoro sotto il santuario di Crea, durante la reclusione a Serralunga, dove tornavano alla sua memoria i «luoghi dell'infanzia e i fatti della sua vita come luoghi e fatti mitici»71: così si legge nel Diario, il giorno 8 febbraio

69'Pavese si è ricordato di quand'era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù. I suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l'assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po' straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi'. Testo scritto da Cesare Pavese per la prima edizione dei Dialoghi con Leucò.

70D. Lajolo, cit., p. 315. 71Ivi, p. 316.

40 1946.

L'altr'anno, in questi giorni, non sapevi quale massa di vita ti attendeva nel giro di un anno. Ma fu vita veramente? Forse la triste e chiusa passeggiata su per Crea ti disse simbolicamente di più che non tante persone e passioni e cose di questi mesi.

Certo, il mito è una scoperta di Crea, dei due inverni e dell'estate di Crea. Quel monte ne è tutto impregnato72.

L'opera si compone di ventisette brevi racconti (il più lungo occupa appena sei pagine73), scritti in forma dialogica e incentrati su miti dell'antichità,

con lo scopo di recuperare il sostrato culturale rappresentato dal mito stesso. Sull'importanza del mito in Pavese si è appena accennato e questo aspetto sarà ulteriormente approfondito nei capitoli seguenti. Ciò che deve stupire il lettore è prima di tutto la forma in cui Pavese decide di strutturare quest'opera: il dialogo è certamente uno degli aspetti caratterizzanti dell'opera, e questa scelta dello scrittore è avvalorata dal titolo stesso74. I Dialoghi con Leucò rappresentano l'unico

lavoro pavesiano scritto in forma dialogica e questo non è casuale: la tematica classica, gli aspetti tragici e mitici in essa contenuti, necessitano infatti di essere trasmessi attraverso il dialogo. L'autore stesso rifletteva il 27 settembre 1942, poco prima di accingersi al lavoro:

Tendenzialmente. Nella trag. gr. le persone non si parlano mai, parlano a confidenti, al coro, a estranei. È rappresentazione in quant ognuno espone il suo caso al pubblico. La persona non scende mai a dialoghi con altre, ma è come è, statuaria, immutabile. [...] L'avvenimento si risolve in parola, in esposizione. Non dialogo: la trag. non è dialogo ma esposizione a un pubblico ideale, il coro. Con esso si attua il vero dialogo. [...] manca del coro cioè del secondo personaggio che tiene testa a quello unico che è la somma delle altre persone.75

L'assenza di dialogo sarebbe dunque il limite della tragedia greca e di

72C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 8 febbraio 1946. 73C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 2014.

74Il titolo originario dell'opera, come si legge in una minuta di frontespizio, era Uomini e dèi, cancellato e sostituito da Dialoghi con Leucò, il 27 febbraio 1946 (Roma).

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quella moderna – quella francese e quella dell'Alfieri – che mantiene 'l'esposizione' di quella greca. Per tale ragione, in quest'opera, troviamo prevalentemente divinità che dialogano tra loro e uomini con dèi. Ne deriva l'emergere di tematiche ricorrenti nei quesiti esistenziali di ciascun individuo quali l'amore; la solitudine; il sesso e la conseguente insoddisfazione; il peccato; il ricordo; il rimpianto; il dolore; la vita, la morte e l'immortalità; il destino. Sono le eterne paure umane, le stesse che hanno generato il bisogno di rivolgersi ad entità altre e di interrogarsi sulla presenza del divino; le stesse che, in un tempo più recente (si veda il dialogo Gli dèi), la razionalità umana ha spiegato con esiti differenti: i due interlocutori di questo ultimo dialogo ricordano nostalgicamente il tempo passato, in cui uomini e dèi vivevano nell'armonia del caos a 'contatto immediato con la natura animata'76.

L'opera e la sua forma dialogica riflettono le preoccupazioni dell'autore, il dialogo con se stesso, tra i poli opposti del pubblico e del privato e, come afferma il Lajolo77, lo stesso Pavese ci aveva rivelato che il paesaggio mitologico dei Dialoghi è il paesaggio della sua infanzia, e che i monti greci del Taigeto ed

Erimanto ripropongono le sue care Langhe. Il contrasto tra la soggettiva visione pavesiana e il tentativo di raggiungere un'oggettività sono da sempre l'aspetto principale del dissidio dell'autore, ma anche la chiave di lettura dell'opera stessa, nata in uno stato d'animo 'oppresso e liberato', rappresentato dalla triste sorte degli dèi che, nella prospettiva di una vita eterna, non concede loro il suicidio. I

Dialoghi ripercorrono la storia dell'umanità e, nello stesso tempo, ciò che più la

caratterizza e la rende altra rispetto a quella divina. Attraverso il linguaggio, il

logos (ecco la necessità della forma dialogica), i diversi personaggi rivelano dal

profondo 'la più intima realtà': le figure divine vengono talvolta umanizzate o miseramente descritte da una prospettiva umana; quelle umane esaltate, sia pure nei loro limiti, che risulteranno essere quanto di più amato da loro stessi e

76De Las Muñiz Muñiz, Introduzione a Pavese, p. 122. 77D. Lajolo, cit.

42 invidiato dagli dèi.

Risulta facilmente realizzabile a un lettore colto un confronto con le

Operette morali di Leopardi. A partire, ovviamente, dalla strutturazione in

dialoghi e dal recupero dell'argomento mitologico di entrambe le opere, fino alla ripresa di concetti e immagini ricorrenti nelle Operette morali.

Nell'Isola Pavese descrive la realtà ordinaria come tutta un silenzio, il tempo in cui la comunicazione verbale non era necessaria perché ogni cosa era in contatto con le altre in maniera indiscriminata. Quando uomini e dèi si differenziarono rispetto al mondo delle origini entrarono in conflitto tra loro il nome assegnato dagli uomini e la sostanza divina ineffabile. In questo dialogo, Pavese sembra aderire alla visione leopardiana dell'infelice condizione mortale:

CALIPSO Ti sei mai chiesto perché anche noi cerchiamo il sonno? Ti sei

mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni? [...] Di morire non spero. E non spero di vivere.

E nel Lago:

DIANA Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.

VIRBIO Non importa signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago.

Chiedo di vivere non di essere felice.

Nel Dialogo di Malambruno e Farfarello e nel Dialogo della natura e di un'anima, Leopardi così descrive l'impossibilità umana di raggiungere la felicità:

MALAMBRUNO Fammi felice per un momento di tempo.

FARFARELLO Non posso

MALAMBRUNO [...] Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l’animo almeno di liberarmi dall’infelicità?

FARFARELLO Se tu puoi fare di non amarti supremamente. MALAMBRUNO Cotesto lo potrò dopo morto.

FARFARELLO Ma in vita non lo può nessun animale: perché la vostra

natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa. [...] Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possa fuggire per nessun

43 verso di non essere infelice.78

ANIMA Madre mia, non ostante l'essere ancora priva delle altre

cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della felicità. E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non altrimenti posso appetire questo non so se io mi dica bene o male, se non solamente come felicità, o come utile ad acquistarla.

NATURA Figliuola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda all'infelicità, senza mia colpa. Ma nell'universale miseria della condizione umana, e nell'infinita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria è giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi possano proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non per odio, ma per vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di prestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidi che erano in mio potere.79

È impossibile non tenere conto delle affinità tematiche che i testi sopra citati mostrano con particolare evidenza; tuttavia, anche per contrasto, alcuni elementi possono considerarsi interessante testimonianza del legame con l'opera leopardiana: uno tra questi è il discorso sui nomi. I Dialoghi pavesiani richiamano per contrasto la polemica del Leopardi sull'inutilità dei nomi forniti dagli uomini alle cose, di cui si legge nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. L'antefatto è la scomparsa del genere umano:

FOLLETTO Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più

gazzette?

GNOMO Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?

FOLLETTO Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o

freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e

78G. Leopardi, Operette morali, Torino, Einaudi, (edizione di riferimento Canti, con una scelta da «Le operette morali, I pensieri, Gli appunti, Lo Zibaldone», a cura di Francesco Flora, Milano 1959), p. 39.

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scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.80

E più avanti:

GNOMO E i giorni della settimana non avranno più nome.

FOLLETTO Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano?

O forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami? In questo dialogo incalzante, lo gnomo e il folletto si trovano a discorrere sulle ragioni della scomparsa dell'umanità, deridendola per le sue manie di protagonismo che l'hanno condotta a considerare quegli aspetti della natura utili e necessari ai suoi scopi. I due protagonisti rendono evidente che nessun elemento naturale è stato creato per servire all’uomo, tanto che dopo la sua scomparsa tutto sopravvive come è sempre stato prima di lui: «– Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi. – E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie»81.

Nel caso di Pavese, è vero che il mondo precedente alla nuova legge – quella di cui si parla sin dal primo dialogo e che impone nuovi limiti agli uomini – è il mondo delle 'cose stesse', come dice Tiresia ad Edipo parlando degli dèi, nel dialogo I ciechi («Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l'unico dio – quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse regnavano allora»82); ma bisogna considerare che gli uomini di Pavese

possono affermare la loro dignità di fronte al destino, grazie alla loro capacità di nominare83 (di questo si parlerà più approfonditamente in seguito).

80G. Leopardi, Operette morali, cit., pp. 32-3. 81Ivi, p. 36.

82C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 21. 83Si vedano i dialoghi Il diluvio e Le streghe.

45 2.2 Il nome femminile

Analizzando le figure divine dei Dialoghi con Leucò, è interessante soffermarsi sul valore di quelle femminili, in particolare. Infatti, nella vita dell'autore, la donna riveste un ruolo di fondamentale importanza e questo è visibile nella quasi totalità dei suoi lavori. Le donne sono spesso il centro delle tragedie pavesiane, che esse siano o meno le protagoniste: in Paesi tuoi sarà Gisella, 'l'unica che sapeva diventar rossa in quella casa'84, – di cui si innamora il

protagonista Berto, alter ego dell'autore – a pagare per tutti e a morire; il breve romanzo Tra donne sole si aprirà col tentato suicidio di Rosetta, che diventerà il tema di ogni pagina e il gelido gesto che chiuderà definitivamente il racconto; e neppure Santa, l'innocente bambina (Santina) di cui si legge nella Luna e i falò, sarà risparmiata da Pavese: divenuta spia prima dei tedeschi e poi dei partigiani, morirà fucilata... unica concessione che le fà l'autore è «l'onore del fuoco, quello di diventare cenere come il letto di uno di quei falò, che hanno illuminato le notti della sua infanzia»85.

L'interesse di Pavese per la donna si ritrova anche nel mondo mitico dei

Dialoghi, nei sacrifici umani, nelle parole e nelle espressioni delle dee: qui la

donna è una Pandora che porta il disordine, procurando guai all'uomo. Nel dialogo Schiuma d'onda (parlano Saffo e Britomarti):

SAFFO Non sono mai stata felice, britomarti: il desiderio non è un canto. Il desiderio schianta e brucia, come la serpe, come il vento.86

Nel dialogo Gli uomini (parlano Cratos e Bia):

BIA Donne e bestie è lo stesso. Cosa credi di dire? Sono il frutto più

ricco della vita mortale.87

84C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 50. 85D. Lajolo, cit., p. 137.

86C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 48. 87Ivi, p. 147.

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L'interesse per la figura femminile deve cogliersi sin dal titolo dell'opera: Leucotea, letteralmente la 'dea bianca', è il nome che assunse Ino dopo essere stata mutata in divinità marina. Il mito vuole che Ino – sposa di Atamante e madre di Melicerte – attirasse su di sé la gelosia di Era, avendo allevato Dioniso, che sua sorella Semele aveva avuto da Zeus. La dea, adirata, inviò Tisifone a rendere folle Atamante, il quale scambiò Ino per una leonessa e, inseguendola, la constrinse, disperata, a gettarsi in mare col filgio Melicerte. Poseidone, impietosito dall'accaduto, tramutò madre e figlio in divinità marine, con i nomi di Leucotea e Palemone88.

Leucò e Leucotea sono le forme arcaiche del nome Bianca89, e non

dimentichiamo la vicenda biografica di Pavese, che lo vede particolarmente legato a Bianca Garufi. I due si conoscono presso la sede romana della Einaudi e spinti da interessi comuni, si imbattono in un sodalizio che, dall'autunno del 1945, sarà destinato a finire alla metà di febbraio dell'anno successivo. Ne sono testimonianza le lettere che i due mandano tra il '45 e il '46, quando la Garufi si allontana dall'ambiente romano per recarsi nei pressi di Genova. Questa donna sarà per Pavese importante («non voglio che la nostra storia somigli alle altre che ho bruciato», le scriveva il 25 novembre 1945), a tal punto da dedicarle un ciclo di poesie (La terra e la morte) edite in seguito da Einaudi, e consacrare questo amore non corrisposto nei Dialoghi con Leucò: «il fatto che ormai si chiamano

Dialoghi con Leucò mi schiarisce le idee; che ne diresti di dedicarli – a Leucò – ?».

La dea bianca Leucotea era una figura molto diffusa presso i popoli mediterranei: era l'Aurora che giungeva al mattino, scacciando i pericoli della notte; ma era anche Alia, moglie di Poseidone violentata dai propri figli e sprofondata nel mare; era Ino – come si è detto – moglie di Atamante e madre di Melicerte; era zia e nutrice di Dioniso. In quest'ultima veste, la stessa in cui

88Il mito è raccontato da Ovidio, nei libri III e IV delle Metamorfosi.

89Cfr. Pittàno, Dizionario, Venezia, Sonzogno, 1980: Bianca. Il suo significato è molto evidente, deriva infatti dall'aggettivo 'bianco' e appartiene a quei nomi personali che si riferivano a precise caratteristiche semantiche come il colore della pelle, dei capelli, degli occhi.

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l'aveva descritta Esiodo, la vediamo nel dialogo La vigna:

LEUCOTEA Può darsi che una annunci un gran dio. ARIADNE Chi Leucotea, chi mai?

LEUCOTEA ...È un nuovo dio. È il pià giovane di tutti gi dei. Ti ha veduta

e gli piaci. Lo chiamano Dioniso.90

L'ambiguità di Leucò – chiamata col vezzeggiativo che la avvicina più agli uomini – è più in generale l'ambiguità della donna: a dominare l'opera sono figure femminili portatrici di una doppia natura, materna – creatrice – ma anche infanticida – distruttrice –. La donna è contemporaneamente 'frutto più ricco della vita mortale'91 e 'bestia', come controbatte Bia (Gli uomini) quando si lamenta

dell'interesse che Zeus nutre per essa, la Pandora che lui stesso aveva dato agli uomini, per punirli del furto del fuoco, e a cui ora si accosta 'da uomo'. Le donne dominanti nel libro sono esseri femminili che incarnano perfettamente questo dualismo: oltre a Leucotea, vi sono Circe (Le streghe), Artemide (La Belva), Medea (Gli Argonauti), Elena (La famiglia), Arianna (Il toro).

Incontriamo Leucotea nell'Odissea, ed è una delle dee che dialoga con Odisseo:

OD., V, 333-335

τὸν δὲ ἴδεν Κάδμου θυγάτηρ, καλλίσφυρος Ἰνώ, Λευκοθέη, ἣ πρὶν μὲν ἔην βροτὸς αὐδήεσσα, νῦν δ᾽ ἁλὸς ἐν πελάγεσσι θεῶν ἒξ ἔμμορε τιμῆς. Lo scorse la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie, Leucotea, che era mortale un tempo, con voce umana, e ora tra i gorghi del mare ha in sorte onori divini.92

La scelta dell'aggettivo αυδήεσσα non è casuale e contribuisce all'ambiguità del personaggio: il significato dell'aggettivo – dal verbo greco αυδάω – è 'parlante, dotato di voce umana', ma in riferimento alla divinità nell'atto di comunicazione con l'uomo.

90C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 140. 91Ivi, p. 147.

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La stessa formula si trova usata nel caso di Circe e di Calipso:

OD., X, 135-7

Αἰαίην δ᾽ ἐς νῆσον ἀφικόμεθ᾽: ἔνθα δ᾽ ἔναιε Κίρκη ἐυπλόκαμος, δεινὴ θεὸς αὐδήεσσα, αὐτοκασιγνήτη ὀλοόφρονος Αἰήταο E arrivammo all'isola Eèa: vi abitava

Circe dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana, sorella germana di Aiete pericoloso93

OD., XI, 8; OD., XII, 150

Κίρκη εὐπλόκαμος, δεινὴ θεὸς αὐδήεσσα.

Circe dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana94

Questo epiteto fornisce alle tre divinità un carattere comune di 'umanità', ossia la capacità di comunicare con gli uomini, il tentativo di comprenderli e di farsi comprendere. Vediamo da vicino i dialoghi pavesiani, in cui queste entità divine prendono parola: L'isola (parlano Calipso e Odisseo); Le streghe (parlano Circe e Leucotea); La vigna (parlano Leucotea e Ariadna).

Nel primo di questi casi, l'incontro di Calipso e Odisseo sull'isola di Ogigia, genera nella ninfa la sensazione del risveglio, temuta come l'uomo teme la morte. Secondo il mito, Odisseo aveva rifiutato l'immortalità che gli era stata offerta:

CALIPSO Diciamo che sono immortale, ma se tu non rinunci ai tuoi

ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l'orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci. [...] Nel vecchio mondo degli dèi quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare mi obbedivano. Poi mi stancai [...] lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale [...] Temo il risveglio, come tu temi la morte. Ecco, prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest'isola che la voce del mare e del vento. Oh non era un patire. Ma da quando sei giunto hai portato un'altr'isola in te.95

Nel dialogo Le streghe Circe racconta a Leucotea del momento in cui