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La letteratura americana e la «poetica del mito»

NOMI, SOPRANNOMI (SN), IPOCORISTICI (IP)

4. Dai Dialoghi con Leucò al mito

4.1 La letteratura americana e la «poetica del mito»

Negli anni Trenta Pavese, dopo la perdita della madre, si dedica al mestiere di traduttore. Egli aveva già tradotto in precedenza, nel periodo universitario, durante il quale era entrato a contatto con la letteratura americana – cui resterà molto affezionato – tanto da laurearsi con una tesi Sull’interpretazione

della poesia di Walt Whitman (1930). Nel 1931 veniva pubblicato il romanzo Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis, da lui tradotto; su questo autore, Pavese aveva già

scritto dei saggi, pubblicati sulla rivista La Cultura fondata da De Lolli, oggi contenuti nella raccolta dal titolo Letteratura americana e altri saggi. Il lavoro di traduzione avvicina lo scrittore ad alcuni temi che diventeranno per lui molto cari e contribuiranno a far parte dei suoi 'miti personali', per tale ragione questo periodo risulta indispensabile per comprendere i pensieri, gli studi e le riflessioni successivi. Bisogna anche tener conto del contesto in cui Pavese si trova mentre svolge questi lavori: pur non essendo un uomo d'azione, egli vive inevitabilmente la situazione politica della Torino dell'epoca ed il lavoro di traduzione – anche per il paese di provenienza degli autori che traduceva – lo aveva accostato a dei pensieri politici. Molti suoi saggi di questo periodo, infatti, testimoniano un interesse per i rapporti tra letteratura e società, tra impegno sociale e impegno politico. A tal proposito, si veda il saggio su Anderson, in cui emerge un Pavese che risponde con spirito patriottico a chi lo accusava di lesa patria per la

198C. Pavese, Il mito (27-29 gennaio 1950), pubblicato su «Cultura e Realtà», n. I, maggio-giugno 1950, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1990, p. 315.

93 traduzione degli americani (1931):

Ora non solo per capire i moderni romanzieri nordamericani – alludo al gruppo al gruppo più famoso che noto dei tre innovatori: Theodore Dreiser, Sinclair Lewis e Sherwood Anderson – è necessario conoscere qual è il bisogno storico comune in cui essi sono venuti incontro colla loro opera, ma è indispensabile un parallelo storico, che riporti a termini noti, nostri, quegli atti di vita d'oltreoceano, che piace di più immaginare come tanto esotici. Ed il parallelo c'è, chiaro e verissimo. [...]

E si pensi specialmente ai miei conterranei del Piemonte, dove più forte si sente ancora il fermento di questa aspirazione e più lontana ne è la realizzazione, sviati come siamo ora dietro a troppa specializzazione dialettale. Noi piemontesi, pensiamoci; nel nome dei quali con l'Alfieri è pur cominciata storicamente questa rinascita e che, a cominciare appunto dall'Alfieri, attraverso il D'Azeglio, l'Abba fino al Calandra e più in là, non abbiamo mai avuto quell'uomo e quell'opera che oltre ad essere carissimi a noi, raggiungessero davvero quell'universalità e quella freschezza che ci facciano comprendere da tutti gli uomini e non soltanto dai conterranei. Questo è il nostro bisogno non ancora soddisfatto, mentre al rispettivo bisogno nella loro terra e nella loro provincia, sono appunto bastati i romanzieri americani di cui parlo. Da questi, noi dunque, dobbiamo imparare199.

Si vedono le ragioni che spinsero lo scrittore a tradurre proprio quegli autori, che egli fà suoi a tal punto da ispirarlo per una più compiuta definizione del proprio stile e linguaggio; proprio in questa fase troviamo ripetuti i temi principali della sua poetica.

Si legge, in una nota di Diario, datata 3 giugno 1943:

La tua classicità: le Georgiche, D'Annunzio, la collina del Pino. Qui si è innestata l'America come linguaggio rustico universale (Anderson,

An Ohio pagan), e la barriera (il Campo di grano) che è riscontro di città

e campagna. Il tuo sogno alla stazione di Alba (i giovani albesi che creano le forme moderne) è la fusione del classicismo con la città in campagna. Recentemente hai aggiunto la scoperta dell'infanzia (campagna = forma mentale), valorizzando gli studi di etnografia (il

Dio caprone, la teoria dell'immagine-racconto)200.

199C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., pp. 35-6. 200C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 3 giugno 1943.

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Il tema dell'infanzia, che in questa nota Pavese definisce recente scoperta, racchiude dentro di sé i significati dominanti della sua poetica, inglobando le riflessioni degli anni precedenti. Massimamente rappresentato da alcuni dei suoi lavori – Paesi tuoi (1939), La bella estate (1940), Feria d'agosto (1946), Il diavolo sulle

colline (1948) –, quello dell'infanzia è un concetto cardine per comprendere l'opera

pavesiana, poiché solo l'infante è in grado di commuoversi davanti a ciò che ha visto per la prima volta e che ha battezzato: «[...] Qui sta la spontaneità non della poesia (che è una storiella) ma dello stato prepoetico, quello che fornisce il materiale (che è necessaria). La spontaneità dell'ispirazione, che è tutt'altro dal

poetare (cfr. 10 febb. '42)»201. L'infanzia è il momento della vita in cui l'individuo

impara a conoscere il mondo, vive le cose per la prima volta; l'infanzia è il momento in cui la realtà che si rivela non ha nome: in questo è racchiuso l'eccezionale senso di essa. Il ricordo permette all'adulto di vivere quella stessa realtà una seconda volta, quando il bambino che è sopravvissuto in lui 'sussulta in radi momenti-ricordo'202.

Nel dialogo L'isola (Dialoghi con Leucò) era stato proprio il ricordo contenuto, o meglio cristallizzato, nel nome – della sua patria, della sua donna, del suo cane – a condizionare le scelte di Odisseo:

[...] I luoghi dell'infanzia ritornano alla memoria a ciascuno consacrati nello stesso modo; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico (non ancora poetico).

Quest'unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unicità del gesto e del fatto, assoluti e quindi simbolici, che costituisce il mito.203

Come non ricordare il dialogo Le streghe, quando Circe dice a Leucotea: «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo»204. Ecco l'importanza del ricordo:

201Ivi, 15 giugno 1943. 202Ivi, 25 maggio 1942. 203Ivi, 11 settembre 1943.

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la poetica pavesiana del mito si basa sulla regressione memoriale, possibile all'autore grazie al processo di simbolizzazione delle immagini in immagini- ricordo della sua infanzia; possibile al lettore grazie alla medesima simbolizzazione, poiché – si ricordi – i luoghi dell'infanzia possiedono un carattere di unicità, che è tuttavia parte «di quella generale unicità del gesto e del fatto, assoluti e quindi simbolici, che costituisce il mito»205. Dopotutto, lo scrittore

stesso annotava nel Diario, il 10 aprile 1949:

In fondo, tu scrivi per essere come morto, per parlare da fuori del tempo, per farti a tutti ricordo206.

Le riflessioni dell'autore lo conducono, col tempo, a riconoscere l'infanzia un termine di riferimento assoluto. Si rende conto che l'infanzia svolge un ruolo centrale anche per l'arte moderna, dal momento che 'in arte si esprime bene soltanto ciò che fu assorbito ingenuamente' e che gli artisti non possono che rivolgersi ad essa. Il mito subisce progressive variazioni, che lo vedono identificarsi sempre più col tema del ricordo, inteso come campagna-infanzia: le sensazioni che riaffiorano in lui alla vista della campagna e le immagini a lui care – anche perché immagini-ricordo della sua infanzia – permettono all'autore piemontese di partecipare al mito, ma in modo del tutto personale.

Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo. Deve pensare che immagini primordiali come a dire l'albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane, la frutta, ecc. mi si sono dischiuse in questi luoghi... e rivedere perciò questi alberi, viti, sentieri, ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro, la immagine assoluta di queste cose, come se fossi bambino, ma un bambino che porta, in questa sua scoperta, una ricchezza di echi, di stati, di parole, di ritorni, di fantasia insomma, che è davvero smisurata! [...] ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest'esperienza che è il mio posto nel mondo207.

205C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 11 settembre 1943. 206Ivi, 10 aprile 1949.

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In quel pensiero del 3 giugno 1943, infatti, Pavese sintetizzava la sua poetica, incentrata sul mito della campagna, come risultato della fusione del classicismo con la città; scrive Elio Gioanola: «trasformare la campagna da mito (sia come contenuto, sia come funzionamento dell'inconscio) a memoria-essenza è stata la vera operazione di poetica effettuata da Pavese». Il mito è, per Pavese, quel sostrato culturale, comune a tutti e irrinunciabile, che viene strettamente legato ad un uso particolare del linguaggio: è attraverso il linguaggio, infatti, che i Dialoghi con Leucò vengono costruiti, e il linguaggio è la manifestazione più intima e concreta della realtà. Il mito, attraverso cui Pavese penetra nell’anima popolare, diventa esperienza collettiva, in cui un popolo, al di là delle differenze sociali, può indistintamente riconoscersi; razionalizzato, esso diventa uno strumento conoscitivo, capace di interpretare la realtà.

Lo sfondo di ogni suo racconto è un paesaggio, il paesaggio piemontese, di cui scrive, anche quando sembra non definirlo come tale: le colline della campagna, il passare delle stagioni e dei mesi dell’anno, le credenze contadine, il

mito dell’origine e dell’infanzia, scandiscono l’incedere dei suoi racconti, che

siano i racconti brevi di Feria d’agosto o i romanzi, come La casa in collina o La luna

e i falò. «Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e

indimenticabilmente quest'esperienza che è il mio posto nel mondo», scriveva Pavese; non c'è niente di più importante se non che i suoi luoghi, le sue Langhe e, con essi, la sua visione del mondo giungano chiari al lettore. L'autore si svela agli altri grazie ai suoi particolari 'miti personali', che gli permettono di instaurare una connessione col resto del mondo, partendo dalla sua personale esperienza emotiva per estendersi a quella del suo pubblico. Questo è possibile grazie al fatto che i simboli, di cui il mito è composto, diventano gli strumenti per attingere una dimensione che è fuori del tempo, e dunque eterna: essendo inconsci ed immortali – e quindi tramandati senza cambiamenti da una generazione all'altra – essi rappresentano un momento di libertà in quel destino di morte che fa da sfondo a tanta narrativa pavesiana. Sfuggire a questo destino è possibile poiché,

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attraverso il simbolo, si approda alla dimensione fantastica, che è extra-temporale e domina sul tempo reale. Idee, queste ultime, maturate nello scrittore anche a seguito del suo approccio alla letteratura americana e alimentate dalle riflessioni su alcune opere, quale, ad esempio, l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, poi tradotto da Fernanda Pivano (allieva universitaria di Pavese): in un saggio su Lee Masters (1943), a proposito dei suoi personaggi, Pavese scrive:

[...] vivendo noi tutti nel mondo delle cose dei fatti dei gesti, che è il mondo del tempo, il nostro sforzo inconsapevole e incessante è un tendere, fuori del tempo, all'attimo estatico che ci farà realizzare la nostra libertà. Accade perciò che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettano di questi attimi, li rivestano, li incarnino, ed essi divengano simboli della nostra liberata coscienza. Ciascuno di noi possiede una ricchezza di queste cose fatti gesti che sono i simboli del suo destino – essi non valgono per sé, per la loro naturalità ma c'invitano, ci chiamano, sono simboli208.

I saggi sugli autori americani, cui Pavese lavora negli anni Trenta, contribuiscono ad orientare le sue riflessioni verso una nuova direzione – che si amplierà e modificherà negli anni seguenti, influenzata dalle esperienze letterarie, culturali e biografiche dello scrittore – e a sensibilizzarlo a quelle tematiche che resteranno i motivi dominanti della sua ricerca poetica. Nella prefazione al volume Benito Cereno di Herman Melville (1940), si nota questa considerazione della 'realtà delle cose', e l'attenzione alla sua corrispondenza narrativa: il mare è 'più che un ambiente' per Melville, proprio come la collina lo è per Pavese. L'autore piemontese si sofferma ad analizzare lo stile di Melville, proprio come si soffermerà sul proprio stile:

Il mare è assai più che un ambiente: è il volto visibile, infinitamente ricco d'analogie, dell'arcana realtà delle cose. E ciò è vero non soltanto nel noto senso che, facendosi poesia, qualunque ambiente perde la sua limpidezza documentaria e diventa creazione fantastica, ma nel senso, più raro, che il mare è qui la sola forma sensibile che agli occhi di Melville possa degnamente incarnare il cupo e ironico nòcciolo

208C. Pavese, I morti di Spoon River, saggio pubblicato su «il Saggiatore», n. I, 10 agosto 1943, ora in C. Pavese,

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demoniaco dell'universo. Oserei dire che le marine, gli interni, i batticuori, le voci, tutto ciò che compone lo sfondo della singolare giornata trascorsa da Capitan Delano sul San Dominique, sono tecnicamente analoghi allo sfondo di certi episodi del Purgatorio dantesco – la scalata, il dormiveglia, i crepuscoli primaverili e le visioni – simbolo, oltreché immagine, di una opposta concezione delle cose: la possibile spiritualizzazione angelica209.

Le 'immagini primordiali' che formano il mito – per tornare al saggio su Lee Masters – hanno valore 'di nome comune'210, lo stesso valore comune e

universale che acquistano gli oggetti reali nella memoria dell'infanzia, a trasformare gli attimi estatici in stampi immaginativi, come si legge nel Mestiere di

vivere:

Davanti al mare della Pineta […] passando in treno, hai visto i fuocherelli lontani e pensato che per quanto questa scena, questa realtà ti riempia di velleità “di dire”, t'inquieti come un ricordo d'infanzia, essa non è però per te né un ricordo né una costante fantastica, e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non contiene, come una vigna o una tua collina,

gli stampi della tua conoscenza del mondo211.

L'unicità dell'infanzia – l'infanzia di Pavese e che simbolicamente si allarga sugli altri – è l'unicità del mito, schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e in questo senso definibile come 'assoluto', astratto dal tempo; l'unicità del mito sta nell'unicità dei gesti e dei fatti che, filtrati da questa visione mitica quasi fosse una lente di ingrandimento, conferiscono un valore alle vicende quotidiane.

Le meditazioni sul mito e sul simbolo rappresentano il centro della poetica pavesiana: dai primi accenni sul Diario, attraverso lo sperimentalismo linguistico di Ciau Masino, fino alle prose di Feria d'agosto e agli ultimi romanzi. Nei primi anni Trenta – si è visto – Pavese voleva raggiungere un rinnovamento linguistico,

209Prefazione al volume Benito Cereno di Herman Melville, traduzione di Cesare Pavese, Einaudi, Torino, 1940, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 92.

210«[...] il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico. Neanche nella memoria dell'infanzia il prato, la selva, la spiaggia sono oggetti reali fra i tanti, ma bensì il prato, la spiaggia, come ci si rivelarono in assoluto e diedero forma alla nostra immagine» (C. Pavese, Feria d'agosto, cit., p. 149).

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imitando col dialetto lo slang americano (Ciau Masino); approdando al romanzo, Pavese prende le distanze dal formalismo della prosa d’arte, superando inoltre l’etichetta di ‘naturalismo’ che lui stesso aveva applicato ai suoi primi racconti: se, in una fase iniziale, questa si riferisce al rapporto che i protagonisti instaurano con la realtà – di cui percepiscono gli aspetti superficiali, registrando semplicemente l’andamento dei fatti – acquista più avanti la connotazione ‘realistica’, evidente in Paesi tuoi. Le meditazioni sul mito, dunque, si generano a partire dalla crisi di fiducia nella validità degli strumenti realistici del raccontare, una crisi che porta alla progressiva presa di coscienza dei limiti del naturalismo americano, ed al graduale passaggio dall'idea di poesia-racconto a quella di immagine-racconto.

L'approdo al mito è espresso con notevole efficacia nel saggio Raccontare è

monotono (1949):

Un simbolo che non investa di sé tutto lo stile di un racconto, che addirittura non risulti anche nella punteggiatura o nel ritmo diretto- indiretto del discorso, non è un simbolo ma soltanto un'allegoria, fredda e arbitraria. Perciò i racconti più simbolici, più intrisi di mito – come di salsedine chi nuota – sono quelli che apparentemente non hanno un secondo senso che qua e là affiora, ma sono piuttosto un solido blocco di realtà, sufficiente in se stesso, aperto, se mai, a innumerevoli sensi che tutto lo intridono e interessano. [...] È evidente che tensione mitica significa la gioiosa certezza di una più ricca realtà sotto la realtà oggettiva – l'indistinta presenza del nuotatore nell'acqua – e questa presenza si esprime in vortici, schiume, affioramenti212.

Ma anche nel saggio Il mito (1950):

Mitico chiamiamo perciò questo stato aurorale; e miti le varie immagini

che balenano, sempre le stesse per ciascuno di noi, in fondo alla coscienza. Esse vivono in quanto tuttora non risolte nell'evidenza poetica o nella chiarezza razionale, ma irradiano tanta vita, tanto calore, tanta promessa di luce, che riescono in definitiva altrettanti fuochi o fari della nostra coscienza213.

212C. Pavese, Raccontare è monotono (Varigotti, 6-12 agosto 1949), pubblicato postumo su «Cultura e realtà», n. 2, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 306.

213C. Pavese, Il mito (27-29 gennaio 1950), pubblicato su «Cultura e Realtà», n. I, maggio-giugno 1950, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 318.

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Esempi simili a quelli appena citati, testimonianza più o meno esplicita dell'interesse pavesiano per la realtà simbolica e per una corretta rappresentazione di essa, sono numerosissimi. Si diceva della centralità del paesaggio piemontese nella narrativa pavesiana: proprio nella natura l'autore risolse quella comunicazione autentica, particolarmente difficile da instaurare con gli uomini. Gli odori e i colori della terra rappresentano per lui istintivamente il ricordo dell'infanzia, «nelle Langhe egli proietta le sua fantasie arcaiche alla scoperta di una mitologia che leghi con le antichi radici della terra, uguali in Grecia come in Piemonte, la sua parabola d'uomo a quella dell'intero genere umano», si legge in un saggio di Gina Lagorio214.

Il contrasto città-campagna acquista valore in quanto contrasto tra vita adulta e infanzia, tra sconforto e speranza, infanzia intesa come 'prima strada dell'esilio'215, primo luogo da abbandonare, campagna verso cui la memoria e

l'anima dell'autore tendono con nostalgia:

Vivere in un ambiente è bello quando l'anima è altrove. In città quando si sogna la campagna, in campagna quando si sogna la città216.

214G. Lagorio, Città e campagna: tema di esilio e di frontiera, in Cesare Pavese oggi, Atti del convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 25-26-27 settembre 1987, p. 39.

215Ivi, p. 37.

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4.2 Il mito dell'infanzia nella campagna di Feria d'agosto

La poetica della campagna-infanzia è egregiamente espressa in Feria

d'agosto, in cui Pavese abbandona progressivamente la dialettica del reale-

razionale, e la collina «da luogo del selvaggio condannabile alla coscienza cittadina e adulta, diventa riserva privilegiata delle decisive scoperte infantili»217.

Si tratta di una raccolta di racconti cui l'autore lavorò negli anni Quaranta, i cui temi dominanti sono quelli che rappresentano la mitologia personale di Pavese, dei suoi simboli infantili e, per tale ragione, ambientata nella campagna, durante il periodo estivo, di 'feria' dalle attività di lavoro contadino, appunto. Diviso in tre sezioni – Il mare, La città, La vigna – traccia un confine tra mondo civile, che obbedisce alle sue regole, e mondo campestre, collocato invece fuori dal tempo e, come suggerisce il titolo dell'opera, di natura contemplativa.

È particolare che sia il mare a dare il titolo alla prima sezione, sezione in cui tra l'altro è la campagna a fare da protagonista: l'aspetto singolare sta nel fatto che Pavese considera il mare come uno di quei mondi che non gli appartengono perché da lui non vissuti nel periodo dell'infanzia, e, per questo, difficili da 'poetare'. Nel racconto omonimo della raccolta, il protagonista e il suo amico Gosto (si noti il dettaglio del nome – Gosto da Augusto – che richiama «il mese d'agosto, tra i primi e i secondi raccolti, quando in campagna non si fa più niente e la giornata dura ancora metà della notte»218) desiderano vedere il mare e