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2. Il nome proprio nei Dialoghi con Leucò

2.4 I nomi e gli de

Si è detto che i Dialoghi con Leucò possono considerarsi il risultato degli studi antopologici ed etnologici di Pavese: la critica ha riconosciuto un legame più o meno esplicito delle letture pavesiane con autori quali soprattutto Frazer120.

La visione etnologica del mito prevede un'analisi ed un approccio scientifico simile ai miti dei popoli 'primitivi' (ad esempio, gli Indiani d'America), in quanto considerati 'un complesso di credenze largamente superate dall'umanità moderna, più 'evoluta'121. Certamente, in quello che è stato appena

detto, ci sono aspetti interessanti da cui Pavese mutuò la propria idea del mito; tuttavia, bisona concordare con Eugenio Corsini, sull'impossibilità di considerare di derivazione interamente etnologica tutto il materiale dei Dialoghi. A tracciare una simile linea direttiva dell'opera è stata M. L. Premuda nel saggio I Dialoghi

con Leucò e il realismo simbolico di Pavese: partendo da una corretta ed indiscutibile

affinità di temi con il Ramo d'oro di Frazer – alcuni miti dei Dialoghi, come quelli di Ippolito-Virbio e Diana (Il lago), o di Atamante (I fuochi), ma anche di Eracle e Litierse (L'ospite), infatti, sono stati ampiamente analizzati da Frazer ma molto poco trattati nella tradizione letteraria classica –, la Premuda ha interpretato

119Ivi, pp. 170-1.

120L'autore stesso conferma la conoscenza del Ramo d'oro di Frazer, in una nota di Diario (21 luglio 1946). 121A. Brelich, Introduzione a K. Kerényi, Figlie del Sole, Torino, Einaudi, 1949, p. 10.

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secondo moduli etnologici anche miti scollegati dall'etnologia.

Precisa Corsini che il materiale etnologico è presente in Pavese solo in alcuni dialoghi, più precisamente in quelli «della terra e dei suoi aspetti e fenomeni dei miti che li riguardano: miti della fecondità, della vegetazione, del raccolto, della propiziazione magica e rituale (sacrifici umani, falò, lustrazioni, ecc.); miti del «primitivo», dell' «indistinto», dello «stupore», dell'uomo primitivo disindividualizzato»122: stiamo parlando dei dialoghi La belva, L'ospite, Il lago, La madre, L'uomo-lupo, I fuochi, che Corsini definisce i 'dialoghi della terra'. Da questo

gruppo, egli ne distingue altri due – rispettivamente i 'dialoghi degli dèi' e i 'dialoghi degli uomini' – da cui emerge una visione del mito classico più complessa che, pur non essendo elaborazione autonoma di Pavese, dichiara il suo distacco dalla scuola etnologica, a favore di quella mitologica di cultura germanica, rappresentata da Paula Philippson e Karl Kerényi123.

Scrive Pavese che 'il mito è un linguaggio': espresso come un linguaggio, esso acquista un valore simbolico, una 'particolare sostanza di significati':

Il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo - cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene - come a tutti i linguaggi - una particolare sostanza di significati; che null'altro potrebbe rendere. Quando riportiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, diciamo in mezza riga, in poche sillabe, una cosa sintetica e comprensiva, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo.

L'approccio metaforico al mito classico è reso evidente da una serie di

escamotages: nel bel mezzo del dialogo avviene spesso che chi parla utilizzi un

elemento significante del mito in senso non letterale (si pensi al valore metaforico che acquista il sorriso divino, nel corso dell'opera); in questo modo il mito «si configura come un dispositivo semiotico particolare, le cui opposizioni e meccanismi simbolici strutturali forniscono delle chiavi di lettura pertinenti per

122E. Corsini, Orfeo senza Euridice: I Dialoghi con Leucò e il classicismo di Cesare Pavese, «Sigma», 1964, 3-4, p. 125.

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l'esperienza contemporanea»124, scrive Van Den Bossche.

La conoscenza della mitologia classica in Pavese è visibile a partire dal titolo, passando per gli argomenti dei dialoghi, fino ai nomi dei personaggi: la scelta dei nomi testimonia la competenza dell'autore nella sfera classica ma anche e soprattutto il suo interesse per la mitologia primitiva. I nomi che vengono scelti, infatti, sono fortemente grecizzanti, anche nella grafia: Iasone e non Giasone; Iacinto e non Giacinto; Ariadne e non Arianna; ma anche Odisseo e non Ulisse; le Cariti piuttosto che le Grazie; Eracle piuttosto che Ercole; Zeus anziché Giove; nel dialogo Il fiore, i due interlocutori sono Eros e Tanatos e non Amore e Morte (come nel Canto di Leopardi125). Come si vede dalla tabella sotto riportata, molti

nomi sono trascritti con l'accentazione greca: tra questi, Anfitrìte, Calliòpe, Cliò, Deiàneira, Fàlero, Làrissa, Mélita, Mnemòsine, Onfàle, Oritìa, Pèlope, Persefòne, Sísifo, Tànatos; troviamo, invece, l'accento secondo l'uso italiano nei nomi Corònide, Erìgone, Fòcide, Ippòlita, Ippòloco, Megàra; infine, altri nomi vengono scritti senza accento, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, come nel caso di Ippolito, Nefele.

Bisogna riconoscere la singolarità degli accenti alla maniera greca – tanto che il Corsini scrive che Pavese oblia «tanto l'uso quanto la legge della derivazione di questi nomi per il tramite del latino»126 –, ma siamo d'accordo con

De Camilli a considerare la trascrizione grecizzante dei nomi una strategia ben scelta, poiché legata al «bisogno di risalire alla fonte più diretta del nome e quindi del mito senza alcun tramite, quindi neanche quello linguistico latino»127. A

questa analisi è, tuttavia, doveroso aggiungere il riferimento piuttosto esplicito dell'autore a Philippson, la quale aveva spiegato la sua propensione ai miti greci in Origini e forme del mito greco:

L'indagine va impiantata sui miti greci, non tanto perché tutto il

124B. Van Den Bossche, «Dialoghi con Leucò» di Cesare Pavese: un caso di riscrittura del mito classico, «Otto/Novecento», 2000, n. 1, pp. 105-122.

125G. Leopardi, Amore e morte, Canti, XXVII. 126E. Corsini, cit., p. 124.

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presente studio sia basato su intuizione greche, ma perché i miti greci sono tuttora accessibili, sia per il loro contenuto che per la loro lingua, a un gran numero di persone europee128.

Molto simile è la premessa di Pavese ai suoi Dialoghi:

Potendo si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia. [...] Qui ci siamo accontentati di servirci di miti ellenici data la perdonabile voga popolare di questi miti, la loro immediata e tradizionale accettabilità [...]129.

E non dimentichiamo le inconsuete forme abbreviare di alcuni nomi, a partire da quello di Leucò, presente nel titolo a nei dialoghi Le streghe e La vigna (in una prima stesura era Leucina, che si ritrova nella Teogonia di Esiodo130); ma

anche Poli al posto di Polideute e Deò al posto di Demetra; abbreviazioni che potrebbero spiegarsi, come suggerisce Van Den Bossche131, con il carattere

spiccatamente colloquiale dell'opera pavesiana, evidente nell'umanizzazione delle figure divine, e nel linguaggio semplice che la forma dialogica evidenzia. Il troncamento di Leucotea in Leucò è, inoltre, spia della presenza di divinità mediterranee nel testo pavesiano: «l'uso della desinenza tipicamente mediterranea in -w» 132 identificherebbe in maniera più diretta Leucotea,

inserendola nella classe di divinità mediterranee – come Artemide, Britomarti, Circe, Demetra, Ino-Leucotea, Medea – a cui Pavese si riferisce nelle note introduttive di alcuni dialoghi:

Le streghe (parlano Circe e Leucotea):

[...] la maga – antica dea mediterranea scaduta di rango – sapeva da tempo che nel suo destino sarebbe entrato Odisseo...

La belva (parlano Endimione e uno straniero):

Noi siamo convinti che gli amori di Artemide con Endimione non furono cosa carnale [...] il carattere non dolce della dea vergine –

128P. Philippson, Origini e forme del mito greco, trad. Ital., Torino, Einaudi, 1949, p. 27. 129C Pavese, Premessa ai Dialoghi con Leucò, cit.

130Esiodo, Fr. 351 (D. De Camilli, cit.).

131B. Van Den Bossche, «Dialoghi con Leucò» di Cesare Pavese: un caso di riscrittura del mito classico, cit. 132Ivi.

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signora delle belve, ed emersa nel mondo da una selva d'indescrivibili madri divine del mostruoso Mediterraneo – è noto...

Nei Dialoghi con Leucò la parola acquista un valore decisivo, apparsa insieme alla nuova legge che minaccia uomini e dèi: di questo parla Nefele quando, nel primo dei dialoghi, annuncia ad Issione il mutato destino dell'uomo, e il problema si propone simile alla fine dell'opera (Gli dèi). In questo dialogo si legge: 'Quel che accade non ha nome', ossia l'accadere delle cose avviene prima che gli sia dato un nome: 'il nome può custodire l'accaduto, ma non l'accadere stesso'133, scrive Lino Gabellone. In questo contesto, la nominatio e, dunque, la

parola appartengono tanto agli uomini quanto ai divini immortali, poiché il linguaggio è il mezzo attraverso cui quella nuova legge si dice; e se questa legge 'limita' uomini e dèi ad uno stesso mondo – dal momento che 'gli uomini vorrebbero le qualità divine, gli dèi le umane'134 – il linguaggio è nel contempo

elemento di unione e di separazione tra sfera umana e sfera divina. Pur sottolineando le differenze delle due sfere, Pavese riconosce in questo stesso mondo, che definisce caos umano-divino, una sorta di connubio tra uomini e divinità; lo fa cercando una soluzione al profondo contrasto tra irrazionale e razionale, ma sempre mantenendosi ben saldo al 'germe mitico'. La parola poetica attribuisce un nuovo valore comunicativo ed etico all'esistenza di uomini e dèi, grazie al contatto primordiale che in questo caotico mondo divino-umano è avvenuto tra loro.

Scrive Corsini:

E l'insistenza sulla funzione demiurgica della parola, nel senso pregnante originario del logos, pensiero-parola articolata, ci porta a comprendere che essa è, anche per Pavese (ed è qui l'approdo più alto del suo classicismo), l'artefice di questa nuova immortalità: essa, che dà un nome alle cose, mette ordine nel caos con i suoi miti perenni,

133L. Gabellone, I nomi e gli dèi: la scomparsa del tragico, in «Paragone-Letteratura», XLIV, Nuova serie, giugno- agosto, 1993, nn. 520-22, p. 114.

134«Nei dialoghetti, gli uomini vorrebbero le qualità divine, gli dèi le umane. Non conta la molteplicità degli dèi – è un colloquio tra il divino e l'umano» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 31 ottobre 1946).

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vivifica nei misteri con il suo favoleggiare che ricrea l'evento originario, evoca dal grembo incondito dell'indistinto e dell'irrazionale l'armonia immortale della poesia135.

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Elenco dei nomi propri dei Dialoghi con Leucò