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Imputato e Testimone

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione 5

CAPITOLO I

ORIGINI ED EVOLUZIONE DELL’ISTITUTO

1. Considerazioni preliminari 9 2. Il declino del simultaneus processus dal codice

del 1930 ad oggi 10

3. L’interrogatorio libero 17 4. Il nuovo codice di procedura penale del 1988:

l’esame di persona imputata in un procedimento connesso 21 5. Dal codice del 1988 alla legge n. 267 del 1997 28 6. Dalla sentenza n. 361 del 1998 della Corte

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CAPITOLO II

I PRINCIPI DEL “GIUSTO PROCESSO”

1. I nuovi contenuti dell’art. 111 Cost. 37 2. La costituzionalizzazione del “giusto processo” 38 3. Gli elementi indefettibili del giusto processo 41 4. Il giusto processo penale 44 5. Il principio del contraddittorio 46

CAPITOLO III

L’ATTUAZIONE DEI NUOVI PRECETTI COSTITUZIONALI

LALEGGE N. 63 DEL 2001

1. Considerazioni generali 49 2. La nuova disciplina della connessione 52 3. La riduzione dell’incompatibilità a testimoniare

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3.2 Eccezione generale all’incompatibilità con l’ufficio di testimone: gliimputati “giudicati” 60 3.3 Eccezione “speciale” all’incompatibilità con l’ufficio di testimone: gliimputati connessi teleologicamente

o collegati che rendono dichiarazioni erga alios 68 4. Le nuove norme sull’interrogatorio dell’indagato

4.1 Considerazioni generali 70 4.2 Avviso relativo allo ius tacendi e all’utilizzabilità

contra se delledichiarazioni rese 71 4.3 Avviso relativo alle dichiarazioni erga alios 73

CAPITOLO IV

IL “NUOVO” ESAME DI PERSONA IMPUTATA

IN UNPROCEDIMENTO CONNESSO

1. Uno sguardo d’insieme alla nuova normativa 82 2. L’esame dell’imputato connesso in senso stretto

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3. L’esame degli imputati connessi teleologicamente

o collegati 93

CAPITOLO V

LA TESTIMONIANZA “ASSISTITA”

1. Ambito applicativo dell’istituto 104 2. L’assistenza del difensore 106 3. Le garanzie contro l’autoincriminazione 111

3.1 I “privilegi”: 112

a) del condannato

b) contro l’autoincriminazione prima della sentenza irrevocabile

3.2 Le cause di non punibilità 121 3.3 L’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal teste 124 4. La valutazione delle dichiarazioni rese dal teste

assistito 127

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Introduzione

Nell'ambito del processo penale, a volte, al fine di accertare i fatti, è necessario acquisire il contributo probatorio di soggetti che rivestono la qualifica di “imputati” nello stesso o in un diverso procedimento.

Il complesso rapporto che viene a crearsi tra l'imputato che rende dichiarazioni sull'altrui responsabilità penale, e il destinatario delle stesse era interamente disciplinato, fino al 2001, dall’art. 210 c.p.p., attraverso lo “esame di persona imputata in procedimento connesso”.

Trattasi di un mezzo di prova molto contestato, sin dalla sua ormai lontana introduzione (1977), ma era l'unico strumento attraverso il quale era possibile l’ingresso, nel processo, del contributo di soggetti, che essendo anch'essi imputati, non potevano rendere testimonianza.

Il rapporto tra gli imputati si risolve attraverso i rispettivi diritti di difesa: da una parte il diritto dell'imputato accusatore a non rendere dichiarazioni suscettibili di pregiudicare la propria posizione processuale, dall'altra il diritto dell'accusato ad un confronto diretto con chi lo accusa.

Fino al 2001 tale antitesi vedeva una netta prevalenza del diritto dell'imputato accusatore: l’art. 210 c.p.p. permetteva a quest’ultimo, senza alcuna riserva, di formulare accuse senza subire nessuna conseguenza per un eventuale falsità, e di

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chiudersi in dibattimento, in un totale “mutismo” dopo aver reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini.

Il diritto al silenzio di tale soggetto era “super tutelato” a discapito del diritto dell'imputato accusato che non poteva confrontarsi con il proprio accusatore.

L’inaccettabilità di tale situazione, è emersa a seguito della riforma dell’art. 111 Cost. ad opera della L. Cost. n. 2 del 1999, che ha inserito nel testo costituzionale, i c.d. “principi del giusto processo”, tra i quali, in particolare: il principio del contraddittorio nella formazione della prova, con conseguente impossibilità di condannare l'imputato in base ad accuse formulate da un soggetto che per libera scelta si è sottratto all’interrogatorio ed il diritto dell'imputato ad interrogare o fare interrogare i suoi accusatori o persone che lo possono discolpare.

Alla luce di tali principi, è stata necessaria una “revisione” dell'intero sistema probatorio e, in primis una riduzione dell'aria del diritto al silenzio concesso a imputati connessi e collegati.

Da questo deduciamo, come per molti anni nell'ordinamento italiano, l'attenzione degli studiosi del processo penale è stata monopolizzata dall’intento di tutelare il diritto al silenzio. Fino agli anni ‘60, la necessità di assicurare l'attuazione del diritto a confrontarsi con l’accusatore, non sfiorava neppure la mente degli operatori giuridici. Il diritto

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al silenzio è stato a lungo riconosciuto in modo incondizionato a prescindere dalla persistenza delle esigenze che vi erano sottese (nemo tenetur se detergere) o dall'esistenza di altre istanze dotate di pari rilevanza (diritto a confrontarsi).

Le regole sul “giusto processo”, hanno trovato ingresso nel c.p.p. attraverso la Legge n. 63 del 2001; in quanto era necessario far fronte all'abuso del diritto al silenzio da parte di quelli imputati che accusavano i loro complici nella fase delle indagini, per poi trincerarsi in sede dibattimentale, in un totale mutismo, se esaminati ai sensi dell’art. 210 c.p.p. Tale comportamento era inaccettabile, per tal motivo a ciò ha provveduto, la nota “legge di attuazione del giusto processo”.

Essa ha portato importanti modifiche in tema di incompatibilità a testimoniare, ha limitato la facoltà di tacere degli imputati accusatori, e ha introdotto la figura inedita nel nostro ordinamento del “testimone assistito”. Lo scopo è stato, quello di estendere l'obbligo di verità a coloro che depongono sull'altrui responsabilità penale.

Nel presente lavoro verranno ripercorse le tappe essenziali dell'evoluzione legislativa e giurisprudenziale dello “esame di persona imputata in un procedimento connesso” dal 1977 fino alla citata riforma costituzionale, nonché della “testimonianza assistita”. La disamina di ciascun istituto sarà

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compiuta in chiave critica, cercando di mettere in evidenza non solo gli aspetti positivi, ma anche i limiti della nuova normativa, cercando di giungere ad un giudizio di insieme su questa riforma, che è stata tra le più complesse e travagliate della storia del nostro processo penale.

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Capitolo I

Origini ed evoluzione dell’istituto

1. Considerazioni preliminari

L'esame di persona imputata in un procedimento connesso, è lo strumento predisposto dall'ordinamento al fine di consentire l'ingresso nel processo, di quei soggetti che siano anch'essi imputati in un procedimento penale.

Si tratta di un mezzo di prova che costituisce, senza dubbio, una peculiarità del processo penale italiano: non trova, infatti, riscontro in altri ordinamenti garantisti1.

La sua disciplina è dettata dall’art. 210 c.p.p., disposizione che rappresenta il risultato di una lunga e travagliata evoluzione, sia legislativa che giurisprudenziale, che affonda le sue radici nel sistema previgente e sulla quale hanno inciso profondamente i mutamenti apportati all'istituto della connessione tra procedimenti.

Per comprendere le motivazioni che hanno indotto il legislatore ad ideare tale istituto è, opportuno illustrare il ruolo di assoluta centralità che il vincolo connexitatis causae rivestiva nel sistema abrogato, e le ragioni che determinarono il suo sfaldarsi.

1 P. TONINI, La prova penale, Padova, 2000,155: “Negli ordinamenti europei di civil law e di common law esistono soltanto due ruoli processuali: quello dell'imputato e quello del testimone. Non esistono altre figure intermedie”.

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2. Il declino del simultaneus processus dal

codice del 1930 ad oggi

Nel codice di procedura penale del 1930, la connessione era configurata come un “legame tra procedimenti”2, “situazione-presupposto per il cumulo dei procedimenti stessi e per il correlativo cumulo delle competenze normalmente stabilite”3.

La norma fondamentale era costituita dall’art. 45 c.p.p., che prevedeva un'amplia gamma di ipotesi suscettibili di dar luogo alla connessione4.

Volendo rispettare la classificazione del testo legislativo, si possono così classificare i procedimenti connessi: “connessione con pluralità di persone”; “connessione con pluralità di reati”; “connessione soggettiva”; “connessione probatoria5.

La sussistenza di una di tali situazioni, dava luogo alla possibilità di riunire procedimenti che, diversamente, si sarebbero dovuti svolgere separatamente: la caratteristica principale dell’istituto della connessione è ancora oggi,

2 L. MARAFIOTI, La separazione dei giudizi penali, Milano, 1990,85. 3 Ibidem,87.

4 A. PAGLIARO , I reati commessi, Palermo, 1956,26.

5 M. GARAVELLI, Connessione, riunione e separazione di procedimenti tra vecchio e nuovo codice , Milano, 1989,8.

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quella di consentire il “simultaneus processus”, ossia il processo con una pluralità di imputati/ o di imputazioni. L'ampia estensione dei casi di connessione, dimostra come il codice del 1930 favoriva tale fenomeno, definendolo addirittura un “mito” del simultaneus processus.

La ratio di fondo di tutto ciò, era l’importanza che il legislatore fascista attribuiva alla ricerca attraverso il processo penale, della “verità materiale”, in armonia con l'ideologia dell'epoca e con l'impianto generale del codice6. Ai sensi dell’art. 299 c.p.p., co. 1° c.p.p. del 1930, il giudice aveva “l'obbligo di compiere prontamente tutti e soltanto quegli atti” che apparissero “necessari all'accertamento della verità”.

La dottrina ha rilevato come le ragioni poste a fondamento dell'istituto fossero fondamentalmente tre: l’economicità, la coerenza e l'equità della giurisdizione.

L’economicità, consisteva nel fatto che in un'unica attività processuale, era possibile definire una pluralità di procedimenti.

La coerenza, consisteva nel fatto che il cumulo processuale consentiva di prevenire la contraddittorietà tra giudicati, considerata tra i maggiori pericoli per una corretta amministrazione della giustizia.

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La connessione, infine, permetteva di realizzare, per quanto possibile, l'equità intesa come “uniforme trattamento di posizioni processuali analoghe” nonché come “temperamento del rigore derivante sul piano sanzionatorio da un separato svolgimento dei processi”7.

Il codice del 1930 mise progressivamente in discussione, tutte le rationes su cui si riteneva fondata la connessione. Sul piano dottrinale e legislativo, si procedette all’enucleazione della peculiare funzione di certezza in senso soggettivo e garantistico del ne bis in idem8.

Anche la ratio di un'economia processuale entrò in crisi, in quanto il processo cumulativo complicava e allargava a dismisura il campo d’indagine, creando processi macroscopici, ingestibili ed indeterminabili.

La crisi del simultaneus processus apparve ancora più evidente con l'avvento degli “anni di piombo” che videro l'affermarsi con sempre più prevaricazione forme di criminalità organizzata, nonché microcriminalità di ogni genere, affacciandosi così sulla scena giudiziaria i cd. Maxiprocessi. Si trattava di procedimenti con decine o centinaia di imputati e capi di imputazione, tecnicamente

7 L. MARAFIOTI, La separazione dei giudizi, cit., 103

8 G. DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963,89 ss.; G. LOZZI, Giudicato (dir. penale), in Enc. Dir., vol. XVIII, Milano, 1969, 913 ss.

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originati dal meccanismo della connessione9, caratterizzati da una complessità oggettiva e soggettiva, da rendere addirittura impossibile per molti di essi, di raggiungere una definizione unitaria per tutte le posizioni e per tutti i reati contestati10.

Ciò determinò gravi ripercussioni sia sul piano delle strutture giudiziarie, che su quello della posizione delle parti con particolare riferimento alle garanzie dell’imputato e al diritto di difesa11.

In un maxiprocesso d’appello gli imputati non venivano più nemmeno individuati con il loro nome, ma con un numero che contrassegnava il fascicolo relativo ad ognuno di essi12, e la stessa difesa sociale si vanificava a causa dell’impunità che derivava, per molti aspetti, dal trascurare gli illeciti

9 Il fenomeno dei maxiprocessi era favorito soprattutto “da quell'ipotesi di connessione suscettibili, come la connessione probatoria (art 45, n.4, c.p.p. 1930) , di elastica manipolazione: M. BARGIS , L’ esame di persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo codice di procedura penale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone , III, Milano, 1991, 23.

10 A. GIARDA, Le “novelle” di una notte di mezz’estate, in AA. VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998,139. “In tali giudizi tutto concorreva rendere difficoltoso lo svolgimento dell'iter processuale: la lunghezza dell’istruttoria, del dibattimento e delle successive fasi, l'enorme massa di atti, la presenza e l'esigenza di numerosi difensori, I tempi necessari per scrivere le decisioni”: così M. GARAVELLI, Connessione, riunione e separazione di procedimenti tra vecchio e nuovo codice, cit., 90.

11 G. NEPPI MODONA, Il processo cumulativo nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1988, 944 ss.

12 E. AMODIO, La patologia del maxiprocesso: diagnosi e terapeutica, in Cass. pen., 1987,2056.

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marginali e dalle inevitabili prescrizioni13.

Gli effetti negativi di questi “ciclopi processuali” erano davanti agli occhi di tutti: il principio dell’economia processuale più volte proclamato il pilastro portante della connessione complicò al massimo le cose, e una riforma globale del sistema era assolutamente necessaria.

Il legislatore dinanzi a questo colosso, decise di potenziare l'andamento separato dei procedimenti connessi, i cui criteri guida erano dettati già nella legge delega 3 aprile 1974, n. 108 per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale. In armonia con le direttive fissate dalla suddetta legge delega, si susseguirono una serie di leggi speciali, tutte volte a ridimensionare gli effetti della connessione, ampliando le ipotesi di separazione dei procedimenti14.

È stato rilevato che il termine separazione comprende in realtà due situazioni: quella in cui i due procedimenti diversi, invece di confluire nel simultaneus processus hanno svolgimento autonomo, e quella in cui procedimenti diversi, dopo essere stati riuniti, riprendono la loro autonomia. Solo nel secondo caso il risultato di fatto comune ad entrambe le

13 M. GARAVELLI, Connessione, riunione e separazione dei procedimenti, cit., 90.

14 Il punto 13 della legge delega del 1974 prevedeva, infatti, “disciplina dell'istituto della connessione, con eliminazione di ogni discrezionalità nella determinazione del giudice competente; esclusione della connessione nel caso di imputati minori; potere di disporre, anche in sede d’appello, la separazione dei procedimenti su istanza dell'imputato che vi abbia interesse”.

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situazioni, deriva da un provvedimento che tecnicamente può definirsi “separazione”; nel primo caso si tratta più propriamente dell'assenza di ogni provvedimento e, specificatamente dell'assenza dell'opposto provvedimento di riunione15.

Vi fu una frattura rispetto alle scelte consacrate nella legge delega del 1974, in cui il legislatore delegante ostacolava il cumulo processuale intervenendo in via diretta sull'ambito della connessione e, quello del 1977 che si limitava adoperare sugli effetti del vincolo connettivo, lasciando immutati i casi. Per di più la scelta tra riunione e separazione era spesso è volentieri affidata alla discrezionalità del giudice.

Si era finito con il creare una categoria di procedimenti privilegiati, con parametri solo all’apparenza rigidi, rimessi seppur in parte, ad apprezzamenti discrezionali che si potevano risolvere in una valutazione arbitraria.

In tal modo, da un lato era possibile realizzare una conoscenza tendenzialmente esaustiva di fatti e circostanza, attraverso l’interrogatorio di tutti i coimputati; dall'altro si evitava di indurre la stessa persona a confessare, in sede di deposizione testimoniale, quanto avrebbe avuto il diritto di

15 E. AMODIO, Competenza e connessione, in E. Amodio – O. Domioni – G. Galli, Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico. Le leggi dell’8 agosto 1977, Milano, 1978, 30.

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tacere come imputato nello stesso processo16.

Il divieto di deporre in capo al coimputato in procedimento connesso operava (ed opera) anche qualora i processi seguono un corso separato. In mancanza di una speciale mezzo acquisitivo, il contributo di tali soggetti, non canalizzabile attraverso la testimonianza, rischiava di disperdersi17, e l'unico tramite formale per recuperare l'apporto conoscitivo di tali soggetti era costituito dalla trasposizione, nel processo separato, dei processi verbali dei singoli interrogatori (ex art. 465, co. 2°c.p.p. 1930). Ma il contributo testimoniale di tutti coimputati, era troppo importante e l'autorità giudiziaria non poteva accontentarsi del freddo scritto di un processo verbale; per tale motivo si recuperò l'oralità dell'audizione del coimputato giudicato separatamente attraverso un mezzo formale caratterizzato dalla forma di coazione analoga a quella della testimonianza ma che, allo stesso tempo, lasciasse ai soggetti in questione la libertà di poter esercitare la facoltà di non rispondere18. Tale mezzo fu individuato nell’interrogatorio libero di persona imputata in procedimento connesso.

16 G. GAITO, “Interrogatorio libero”, in G.VASSALLI, Dizionario di diritto e procedura penale, Milano, 1986, 517.

17 A. SANNA, L’ interrogatorio all'esame dell'impostato nei procedimenti connessi , cit.,10.

18 A. GIARDA , Le “novelle” di una notte di mezza estate , cit.,139-140

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3. L’interrogatorio libero

Il primo riconoscimento espresso della figura dell’imputato accusatore, deve attribuirsi alla legge 8 agosto 1977, n. 534. Tale provvedimento aveva la finalità di consentire la trattazione separata dei procedimenti connessi, al fine di porre rimedio al fenomeno dei maxiprocessi contro una pluralità di imputati19.

La legge in oggetto delineò il cd. “interrogatorio libero” dell’imputato connesso (artt. 348-bis e 450-bis c.p.p. 1930). Si trattava di uno strumento con il quale era possibile sentire in istruzione (art. 348-bis) o in dibattimento (art. 450-bis) gli imputati in procedimenti connessi che si svolgevano separatamente . Tali soggetti non potevano essere sentiti con il comune interrogatorio, che era riservato all’imputato nel proprio procedimento, inoltre non potevano essere escussi neanche come testimoni perché il codice ne stabiliva espressamente l’incompatibilità con tale qualifica.

Per tal motivo fu creato un istituto ad hoc per ascoltare l’imputato connesso, in quanto la separazione dei procedimenti avrebbe comportato la perdita irrimediabile del contributo probatorio di tale soggetto.

L’art. 348-bis c.p.p. così statuiva: “le persone imputate per

19 Sull’argomento, si rinvia a N. GALANTINI, Appunti sulle più recenti disposizioni in materia di connessione, in Giust. pen., 1979, III, 679 ss.

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lo stesso reato o per un reato connesso nei confronti delle quali si procede separatamente , possono essere sentite liberamente sui fatti per cui si procede e, ove occorra, ne può essere ordinato l’accompagnamento. Esse vengono citate osservando le norme per la citazione dei testimoni e hanno facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia. In mancanza il giudice provvede a nominare un difensore d’ufficio. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni concernenti l'interrogatorio dell’imputato”.

Nell'ormai codice abrogato, veniva introdotto secondo una definizione di Amodio il modello del cd. “condominio di prove”20 tra più processi e quella singolare figura che fu definita dalla dottrina come lo ”impumone”, ossia un soggetto che si trovava metà strada tra l'imputato e il testimone, possedendo tutti i diritti del primo e nessun obbligo del secondo21.

Il nuovo istituto era regolato dalla norma relativa alla testimonianza per quanto riguarda la citazione.

Il coimputato da sentire liberamente aveva sempre diritto ad una citazione, e nei casi urgenti, tale situazione poteva essere orale o il soggetto poteva presentarsi spontaneamente. In caso di non comparizione per legittimo impedimento, il coimputato poteva essere esaminato nel luogo in cui si

20 La definizione di E. AMODIO, Il regime probatorio conseguente alla separazione dei procedimenti connessi, in Nuove norme sul processo penale e sull'ordine pubblico, cit., 38.

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trovava22.

In particolare, era esplicitamente prevista la possibilità di ordinare l'accompagnamento coattivo, ove risultasse necessario. Una volta citato nelle forme previste per i testimoni, il soggetto da interrogare liberamente veniva sentito come imputato e, lo confermano sia la previsione dell'assistenza da parte del difensore (di fiducia o d’ufficio), sia la previsione secondo la quale “si applicano, in quanto

compatibili le disposizioni concernenti l’interrogatorio dell’imputato”. In particolare erano riconosciuti ai soggetti de quibus il diritto di non rispondere e la facoltà di mentire

impunemente23.

L'attribuzione di tali diritti veniva giustificata in base al principio nemo tenetur se detergere 24. Anche se

l’interrogatorio libero, formalmente, riguardava non il reato ascritto alla persona sentita, bensì il fatto attribuito all'imputato nel procedimento in cui la prova veniva assunta, era tutt'altro che improbabile che il coimputato, nel

22 G. GAITO, “Interrogatorio libero”, cit., 516.

23 Il soggetto sottoposto ad interrogatorio libero “se vuole non fiata; qualunque cosa dica non rischia l’incriminazione ex art. 372 c.p., non essendo testimone (ad escludere tale qualifica basta il fatto che non giuri); anche quando gli fosse incongruamente imposto, l'ipotetico obbligo testimoniale sarebbe eliso dall’art. 384 c.p. : nessuno è obbligato ad autoincriminarsi”: F. CORDERO, Guida alla procedura penale, cit.,347.

24 Tale principio, che costituisce un'estrinsecazione del diritto di difesa, fu consacrato definitivamente nel nostro ordinamento nel 1969 con la legge n. 932. Sul punto si veda V. Grevi , Nemo tenetur se detenere: interrogatorio dell'imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972.

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rispondere, finisse col fornire indicazioni anche sul fatto proprio. Tanto più che, ex art. 144-bis c.p.p. (anch’esso introdotto dalla l. 534/1977), vi era la possibilità di trasferire, nel procedimento separato in cui il soggetto interrogato era imputato, i risultati dell'interrogatorio libero25.

Attraverso l’introduzione dell'interrogatorio libero, si era finito col “super -tutelare” il diritto del soggetto interrogato rispetto a quello dell'imputato del procedimento separato in cui la prova doveva essere assunta. Non si era, infatti, considerato che il soggetto interrogato, qualora avesse deposto, avrebbe potuto accusare ingiustamente l'imputato nel procedimento separato senza incorrere in alcuna conseguenza negativa. La criminalità organizzata, iniziò a sfruttare tale novità per colpire impunemente gli avversari interni ed esterni all’associazione, utilizzando la giustizia

25 G. GAITO, “Interrogatorio libero”, cit.,523. E’ opportuno ricordare che le innovazioni introdotte a supporto della nuova disciplina sul cumulo processuale investivano due distinti profili: oltre alla creazione dell'interrogatorio libero, il legislatore cerco di attenuare le preclusioni di cui all’art. 46 co2 c.p.p. 1930 (che vietava, in via di principio, la lettura in giudizio di atti the processi non ancora conclusi con sentenza irrevocabile), introducendo l’art. 144-bis, che consentiva “l’acquisizione e la lettura di atti di procedimenti separati, anche se non ancora conclusi con sentenza irrevocabile”. Si è parlato, per entrambi gli strumenti, di “effetti probatori della connessione”, condizionati alla mancata attuazione del cumulo processuale: così E. Amodio, Il regime probatorio conseguente alla separazione dei procedimenti connessi, in Nuove norme sul processo penale e sull'ordine pubblico, cit.,39 . In merito alla disciplina stabilita dall’art.144-bis circa la trasmigrazione di verbali degli atti di procedimenti separati si veda M. BARGIS, In tema d’interrogatorio “libero” di un imputato di reati connessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, 874-875; A.A.

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come strumento.

Il processo contro Enzo Tortora, nel 1983, può essere considerato la prova generale che ha permesso di testare tale strumento: “da allora il monstrum giuridico creato dalla legge del 1977 ha mietuto vittime in abbondanza”26.

4. Il nuovo codice di procedura penale del

1988: l'esame di persona imputata in un

procedimento connesso

Con l'avvento del nuovo codice, la situazione rimase immutata; in quanto il legislatore del 1988 proseguì la strada inaugurata nel 1977, il nuovo mostro giuridico allora creato dal codice abrogato trovo la sua collocazione nell’art. 210 c.p.p. del 1988 sotto le spoglie dello “esame di persone puntate in procedimento connesso”. Mutò in parte il “contenitore” ma i contenuti sostanziali - e le problematiche ad essi sottese - restarono.

Nonostante il legislatore ha costruito un istituto dall'assetto normativo dichiaratamente analogo a quello dell'interrogatorio libero introdotto nel 1977, non si è limitato però a recepirne passivamente la disciplina ma apportò alla stessa una serie di adattamenti la cui genesi è ben evidenziata dalla lettura dei lavori preparatori27.

26 P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2002, 232. 27 M. BARGIS, L’esame di persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo c.p.p., cit., 25 ss. e da A. SANNA,

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Il legislatore, dopo aver sfrondato il catalogo dei casi rientranti nell’ambito della connessione (art. 12), ora configurata come autonomo criterio di competenza, aveva predisposto una disciplina della riunione e della separazione tale da produrre un contenimento dei processi cumulativi (artt. 17-18).

Una volta stabilita la regola dell’incompatibilità a testimoniare degli imputatidel medesimo reato nonché delle persone imputate in un procedimento connesso ovvero interprobatoriamente collegato ai sensi dell’art. 371 c.p.p., co. 2°, lett. b) (art.197 c.p.p., co.1°, lett. a) e b), occorreva, dunque, approntare uno strumento che consentisse di acquisire il contributo probatorio di tali soggetti quando nei loro confronti si procedesse, o si fosse proceduto, separatamente. Diversamente si sarebbe determinata nei loro confronti una sorta di impasse procedurale: all’interno del procedimento principale essi non avrebbero potuto assumere né la veste di testimone, né tanto meno quella di imputato e il loro contributo probatorio sarebbe andato irrimediabilmente perso.

In questa sede è, comunque, sufficiente illustrare quello che fu il risultato ultimo, ossia l’art. 210 c.p.p. così come comparve nel neo-nato codice di procedura penale e gli aspetti caratterizzanti del “nuovo” istituto rispetto

L’interrogatorio all'esame dell'imputato nei procedimenti connessi, cit.,10 ss.

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all’interrogatorio libero.

L’art. 210 c.p.p., nella sua originaria formulazione, disponeva che nel dibattimento le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 c.p.p.28, “nei confronti dei quali si procede o si è proceduto separatamente” dovessero essere esaminate a richiesta di parte, ovvero anche d'ufficio qualora un testimone si fosse ad esse riferito per la conoscenza dei fatti. Già emerge una prima differenza rispetto all'interrogatorio libero: l'estensione dell'esame anche alle persone nei cui confronti si è proceduto separatamente.

Ciò è diretta conseguenza della nuova disciplina dell’incompatibilità a testimoniare ex art. 197 c.p.p. co.1°.

28 L’art 12 c.p.p. 1988, nella formulazione originaria, prevedeva la sussistenza di una connessione tra procedimenti: a) sei il reato per cui si procedeva era stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o se più persone con condotte indipendenti avevano determinato l’evento; b) se una persona era imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni in un'unità di tempo o di luogo; c) se una persona era imputata di più reati quando gli uni fossero stati commessi per eseguire od occultare gli altri. È evidente che l'unica ipotesi rilevante fini dell'incompatibilità testimoniare era la prima, poiché soltanto in tale situazione si trattava di connessione plurisoggettiva. Si veda a riguardo L. KALB, Il processo per le imputazioni connesse, Torino, 1995,151 ss.; L. MARAFIOTI, Maxi-indagini e dibattimento “ragionevole” nel nuovo processo penale, Padova, 1990, 23-24; ID., La separazione dei giudizi penali, cit., 305 ss.

Successivamente, il decreto 20 novembre 1991, n. 367, convertito nella legge 20 gennaio 1992, n.8 ampliò le ipotesi di connessione previste dall’art. 12: la lett. c) fu estesa ai casi di connessione plurisoggettiva ed assunse il seguente tenore: “c) se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri o in occasione di questi ovvero per conseguirne od assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità”.

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lett. a). Tale disposizione prevedeva, l'impossibilità di assumere la qualifica di testimone per i “coimputati nel medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12, anche se nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, di proscioglimento o di condanna, salvo che la sentenza di proscioglimento sia divenuta irrevocabile”.

L’art. 348 c.p.p., co.3°, del 1930 prevedeva il divieto di testimonianza degli imputati dello stesso reato o di un reato connesso, anche se prosciolti o condannati, salvo che il proscioglimento fosse stato pronunciato in giudizio per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussisteva. Con il c.p.p. del 1988 si registrava, un parziale ampliamento della possibilità di testimoniare, ora collegata a qualsiasi formula di proscioglimento dibattimentale, purché pronunciata con sentenza divenuta irrevocabile. Ma la novità più rilevante deriva dal fatto che, mentre nel codice abrogato l'interrogatorio libero era riservato solo agli imputati in atto, con la nuova normativa diveniva possibile recuperare il contributo probatorio anche dei prosciolti all'udienza preliminare e dei condannati29, ossia di coloro che non possono più essere considerati imputati per essersi concluso il procedimento connesso instaurato separatamente.

Un'ulteriore estensione dell’ambito soggettivo dell’esame

29 M. BARGIS, L’esame di persone imputato in procedimento connesso, cit.,33 ss.

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era poi prevista dal sesto comma dell’art. 210 c.p.p., anch’essa riflesso dell’ampliamento delle ipotesi di incompatibilità con l’ufficio di testimone: la relativa disciplina diveniva applicabile anche alle persone imputate di un reato collegato ai sensi dell’art. 371 c.p.p., co.2° lett. b).

Per il resto l’art. 210 ricalcava, con alcune precisazioni, il “Vecchio” art. 348 bis c.p.p. 1930. I soggetti esaminabili erano introdotti in giudizio sulla falsariga del teste: avevano l'obbligo di presentarsi al giudice, che doveva citarli osservando le norme sulla citazione di testimoni30 e doveva ordinarne, qualora fosse necessario, l’accompagnamento coattivo (comma 2°). Essi mantenevano, tuttavia, singolari prerogative, ovvero dovevano essere necessariamente assistiti da un difensore (di fiducia o d’ufficio) che aveva diritto di partecipare all’esame (comma 3°); dovevano essere avvertiti della facoltà di non rispondere31, salvo l’obbligo ex art. 66 c.p.p. co.1°, di fornire le proprie generalità (comma 4°). Infine, il comma 5° prevedeva l'applicabilità delle disposizioni previste dagli artt. 194 (oggetto e limiti della testimonianza), 195 (testimonianza indiretta), e 499 (regole

30 Nella versione sostituita dell’art.2 co 1, lett. a del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 con. Con modificazioni nella l. 7 agosto 1992, n. 356, la previsione circa l'osservanza delle norme sulla citazione dei testimoni è divenuta generale, mentre nella formulazione originaria apparteneva alla sola citazione disposta dal giudice: cfr. sul punto M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in procedimento connesso. Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Milano, 1994, 13 ss. 31 M. DEGANELLO, Esame di persona imputata in un procedimento connesso, in Dig. disc. pen, Agg., I, Torino, 2000, 206.

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per l'esame testimoniale), del codice di rito.

Rispetto alla previdente disciplina, si è codificata espressamente il diritto al silenzio e l’indicazione specifica delle disposizioni applicabili all’esame (mentre l’art.348 bis c.p.p. prevedeva genericamente che “si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni concernenti l'interrogatorio dell’imputato”).

Nonostante tutto, riemerge nel nuovo codice, l’ibrida figura dello “impumone”. Tale soggetto, pur dichiaratamente incompatibile con la qualifica di teste, era chiamato ad assumere un ruolo processuale non diverso, sotto il profilo contenutistico, da quello del testimone sul fatto altrui; la sua posizione era (ed è), però, caratterizzata dall'esistenza di collegamenti della più varia natura tra il fatto altrui (ossia dell'imputato nel procedimento principale) e il fatto proprio (oggetto dell'imputazione a suo carico nel separato procedimento).

È valida, oggi come allora, la considerazione che l'imputato connesso non può essere considerato “terzo” in relazione ai fatti del processo nel quale è chiamato a rendere le proprie dichiarazioni: egli avrà sempre un qualche interesse, più o meno concreto, affinché il processo abbia un certo esito anziché un altro o comunque ad evitare le eventuali ricadute negative che le dichiarazioni rese potrebbero sortire nel procedimento che lo vede imputato.

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Dato l’apporto necessario e in alcuni casi imprescindibile, il legislatore ha concesso all'imputato connesso o collegato a comparire dinanzi al giudice, una volta entrato nel processo, la facoltà di tacere o di mentire impunemente salvo, le ipotesi in cui commetta i delitti di calunnia o di simulazione di reato.

Qual è la ratio di tutto ciò?

Ciò che interessa al giudice, è l'apporto conoscitivo che può dare al processo principale, e non la sua qualità di imputato. Sotto questo aspetto non vi è alcuna differenza rispetto al testimone. Ma egli è pur sempre un imputato e tale sua qualifica non può essere ignorata: per questo, una volta presentatosi all’esame de quo gli sono state riconosciute tutte le garanzie proprie dell'imputato nel procedimento principale, riconducibili al principio espresso dall'antico brocardo nemo tenetur se detergere.

Le conseguenze di tutto ciò sono state disastrose: in più occasioni “personaggi equivoci, imputati di reati gravissimi”32 hanno lanciato accuse false senza incorrere in alcuna responsabilità e senza nemmeno perdere i sussidi concessi dallo Stato ai collaboratori di giustizia.

Troppi diritti riconosciuti all’imputato accusatore, a cui non corrispondeva altrettanta attenta tutela per l’accusato.

Dal 1988 l'esame di persone imputata in un procedimento

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connesso è stato costantemente al centro del dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale, cercando di mitigare la rilevata disparità di trattamento tra imputato accusatore accusato e, attraverso “repentini aggiustamenti e brusche virate”33 si è giunti fino alla situazione odierna.

5. Dal codice del 1988 alla legge n. 267 del

1997

L’art. 210 c.p.p., pur riferendosi testualmente alle sole persone imputate in un procedimento connesso, era - ed è - da ritenersi applicabile anche a coloro che non abbiano ancora assunto tale qualifica nel corso del separato iter processuale. Questa affermazione trova il suo fondamento nell’art. 61 c.p.p., co. 2°., che estende alla persona sottoposta alle indagini le regole previste per l’imputato, salvo che sia diversamente stabilito.

Il codice Vassalli, nella sua originaria formulazione, prevedeva che gli imputati connessi o collegati, potevano rendere dichiarazioni già nel corso delle indagini preliminari, qualora ricorressero fondati motivi di irripetibilità di inquinamento della prova.

Quale era la sorte di tali dichiarazioni qualora essi si fossero avvalsi in dibattimento della facoltà di non rispondere?

Originariamente, il codice di procedura penale dettava una

33 M. DEGANELLO, Esame di persone imputata in un procedimento connesso, cit.,206.

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disciplina differenziata a seconda se l'imputato connesso fosse giudicato nel medesimo procedimento o in un procedimento separato. Nel primo caso, qualora il coimputato avesse rifiutato di sottoporsi all’esame, le precedenti dichiarazioni, a richiesta di parte, potevano essere lette ed utilizzate sia nei confronti di colui che l'aveva rese sia nei confronti di altri coimputati (art. 513 c.p.p.). Nella seconda ipotesi l'imputato connesso giudicato separatamente non poteva rifiutare l'esame in dibattimento (art. 210 c.p.p. co.2°), ma vi era tuttavia riconosciuta la facoltà di restare in silenzio: ove si fosse avvalso di tale facoltà, il codice nulla disponeva in ordine all'utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni (art. 513 c.p.p. co. 2°).

Nel silenzio della legge, la giurisprudenza si era stabilizzata su un orientamento che riteneva che le dichiarazioni precedentemente rese non potessero essere utilizzate34, ciò sulla base della considerazione che le norme che consentono l'acquisizione di prove precostituite sono eccezionali poiché derogano al principio di oralità e immediatezza e, pertanto, sono tassative.

Chiamata a pronunciarsi sull’art. 513 c.p.p. co. 2, ° la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 254 del 1992 ne dichiarò

34 Tra le tante si vede Cass., sez. VI, 20 settembre 1993, D’Ambrosio, in Giust. pen., 1994, n.3, 483; Cass.,sez III, 3 luglio 1991, Cerra, in Cass. pen., 1992, p. 1820; Cass., sez VI, 22 aprile 1991, Casula, in Cass., pen., 1992, p. 1260; Trib. Vasto , 16 luglio 1991, in Giust., pen., 1992,115; Corte Assise Catania, 17 ottobre 1991, Pino, in Cass., pen., 1992, 424.

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l'illegittimità nella parte in cui non consentiva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese in precedenza (al Pubblico ministero o al giudice per le indagini preliminari) dalle persone indicate dall’art. 210 c.p.p., qualora si avvalessero in dipartimento della facoltà di non rispondere. Le dichiarazioni accusatorie rese dall'imputato connesso durante le indagini divenivano utilizzabili qualora questi in dibattimento si fosse avvalso dello jus tacendi. Il diritto al contraddittorio veniva così svuotato di contenuto.

A porre rimedio a questa situazione, fu il Parlamento che, nel 1997, adottò con larghissima maggioranza la legge n. 26735.

Tale provvedimento normativo affermò il primato del contraddittorio nella formazione della prova e lo fece in un duplice modo.

Da un lato ampliò l'aria di operatività dell'incidente probatorio, in modo da ridurre l'applicabilità dell’art. 513 c.p.p.; dall'altro subordinò a divieti assai rigorosi l'uso dibattimentale delle precedenti dichiarazioni36. A seguito della modifica apportata dalla l. n. 267, l’art. 513 c.p.p. co.1°

35 Per un commento analitico di tale legge v. AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, 121 ss.; AA.VV., Le innovazioni in tema di formazione della prova nel processo penale, Milano, 1998.

36 R. ORLANDI, Dichiarazioni dell'imputato sulla responsabilità altrui: nuovo statuto del diritto al silenzio e restrizione in tema di incompatibilità testimoniare, in AA. VV., Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, cit.,155-156.

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disponeva che, ove il coimputato nel processo cumulativo avesse rifiutato l’esame, le pregresse dichiarazioni sarebbero state utilizzabili contro di lui ma non contro altri senza il loro consenso. Il secondo comma di suddetto articolo, prevedeva invece, che le precedenti dichiarazioni dell'imputato connesso che si fosse avvalso della facoltà di non rispondere sarebbero state utilizzabili solo con l'accordo delle parti. In buona sostanza, soltanto le dichiarazioni assunte con il metodo dell'esame incrociato avrebbero potuto essere utilizzate nei confronti dell’imputato.

Ancora una volta la legge del 1997 concedeva all'imputato accusato la tutela di un contraddittorio “monco”, perché non completato dal diritto di confrontarsi con quelli dell’accusa37, per tal motivo la Corte Costituzionale si sentì chiamata in causa38 e intervenne con la sentenza n. 361 del 1998.

6. Dalla sentenza n. 361 del 1988 della Corte

Costituzionale al nuovo art. 111 della

Costituzione

Con la sentenza costituzionale 26 ottobre - 2 novembre 1998, n. 361 si è cominciato ad aprire un primo spiraglio

37 P. TONINI, Sul conflitto tra imputato “accusatore” e imputato “accusato” nei principali ordinamenti processuali dell'Unione Europea, in Gazz. giur., 1998, n. 7,3.

38 La riforma dell’art. 513 ad opera della legge 267 fu accolta malissimo dei giudici penali, come dimostra l'enorme quantità di ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale.

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verso il superamento del contraddittorio sistema che è stato descritto.

In primo luogo, la Corte ha ribadito con forza il fondamentale diritto di ogni imputato di confrontarsi con la fonte di accusa.

Essa ha affermato che non è ragionevole precludere a priori l’utilizzabilità di elementi legittimamente raccolti nel corso delle indagini, a patto che essi siano acquisiti nel processo con un metodo che garantisca il diritto al contraddittorio dell’imputato. Quando è esaminato un testimone, e questi omette o rifiuta di rispondere, tale esigenza è soddisfatta attraverso la disciplina delle contestazioni: il giudice delle leggi ha affermato che la medesima disciplina debba essere applicata anche nel caso dell'esame di persona imputata in un procedimento connesso ma separato.

Quale è la ratio di tale estensione?

La Corte ha fondato il suo ragionamento sul rilievo che, tra il soggetto esaminabile ex art. 210 c.p.p. e il testimone, vi è un’analogia: entrambi rendono dichiarazioni che sono “ rivolte e destinate a valere nei confronti di altri”39. La situazione dell'imputato accusatore, chiamato a deporre su di un fatto altrui già riferito in precedenza, è simile a quella del testimone. Partendo da queste considerazioni la Corte ha

39 S. Buzzelli, Le letture dibattimentali, Milano, 2000, p. 198; M. DEGANELLO, Esame di persona imputata in un procedimento connesso, cit.,232.

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ritenuto ragionevole estendere all'imputato connesso le norme che permettevano di utilizzare le precedenti dichiarazioni del testimone che fosse rimasto silenzioso. L'accusatore doveva, pertanto, essere condotto qualitativamente in dibattimento e doveva subire le contestazioni; in caso di silenzio, le sue precedenti dichiarazioni erano utilizzabili solo in presenza di altri elementi di prova che ne confermassero l’attendibilità (art. 500 c.p.p., co. 2° bis e 4°)40.

La sentenza n. 361 ha equiparato l’imputato connesso , giudicato nel medesimo procedimento e che abbia in precedenza reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, all'imputato connesso giudicato separatamente. È stata così enucleata la figura unitaria del dichiarante erga alios41:anche il coimputato veniva in tal

modo sottoposto alla disciplina previsto dall’art. 210 c.p.p. Con tale sentenza è venuto meno il “diritto al silenzio totale”. Dapprima era opinione dominante che lo jus tacendi

40 La Corte dichiarò “l'Illegittimità costituzionale dell’art. 513 co 2 , ultimo periodo del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell'accordo delle parti alla lettura, si applicano l’art. 500 co 2-bis e 4 , del codice di procedura penale”.

41 La Corte dichiarò “l’illegittimità costituzionale dell’art. 210 del codice di procedura penale nella parte in cui non è prevista l'applicazione anche all'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero”.

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potesse essere esercitato anche prima dell’esame e che equivalesse, in sostanza, al rifiuto di sottoporvisi. L’affermata possibilità di effettuare le contestazioni implicava, invece, che l'imputato connesso non potesse astenersi in limine dal deporre bensì che dovesse rifiutare volta per volta di rispondere alle singole domande42.

Nonostante la sentenza n. 361, segni senza dubbio una tappa essenziale nel lento cammino verso la piena attuazione del contraddittorio nella formazione della prova, non è pervenuta alla totale equiparazione tra imputato connesso e teste sotto il profilo dell'obbligo di verità.

È stato denunciato come il sistema delle contestazioni non garantisse appieno il diritto dell'accusato a confrontarsi con l’accusatore: si trattava in realtà di un contraddittorio “sulla” prova precostituita nel corso delle indagini, senza che il difensore dell'imputato principale avesse la possibilità di effettuare il controesame43. Si è parlato, al riguardo, di un contraddittorio “afasico”44.

42 G. FRIGO, Un’ involuzione dell'impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, in Guida dir., 1998, n. 44,62; A. NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p. : un'importante innovazione che lascia aperti molti problemi, in Gazz. giur., 1998. n. 40, p. 2; P. TONINI , La prova penale, cit.,162.

43 In tal senso v. M. DEGANELLO, Esame di persona imputata in un procedimento connesso, cit., p. 232; G. FRIGO, Un’ involuzione dell'impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, cit., p.62; P. TONINI, La prova penale, cit.,162.

44 L'espressione appartiene a G. GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361/1998 della Corte Costituzionale? In Quest. giurist., 1999, 198, che la utilizza nel senso etimologico di

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Le reazioni sulla pronuncia non furono delle migliori: il Parlamento accusò i giudici di aver “legiferato” in una materia riservata al potere legislativo e, di averlo fatto fornendo un'interpretazione distorta dei principi costituzionali; gli avvocati lamentavano la violazione del contraddittorio, chiedendo il ripristino della normativa del 1977.

Si decise di esplicitare quei principi, affermati dalla Convenzione Europea sui Diritti Dell’Uomo45, che secondo molti studiosi, erano già ricavabili dalla Carta Fondamentale. Il 10 novembre 1999 è stata approvata definitivamente la legge di revisione costituzionale dell’art. 111 Cost. che ha sancito in maniera espressa principi del “giusto processo”: il diritto dell'imputato ad interrogare i suoi accusatori; il principio del contraddittorio nella formazione della prova; la regola secondo cui la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto al contraddittorio.

Tali principi sono stati attuati dalla legge n. 63 del 2001, che ha apportato profonde modifiche al sistema probatorio, incidendo sui temi quali il diritto al silenzio e il diritto a

45 In particolare, la Convenzione europea sui diritti dell’uomo all’art. 6, par. 3, lett. d afferma che l'accusato ha diritto ad “interrogare o far interrogare i testimoni a carico e ad ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico”. La giurisprudenza della Corte europea ha precisato che il termine testimone non va intesa in senso stretto ma si riferisce a qualsiasi persona che faccia dichiarazioni destinate ad essere utilizzate dal giudice nella valutazione dell’accusa.

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Capitolo II

I Principi del “Giusto Processo”

1. I nuovi contenuti dell’art. 111 Cost.

La sentenza costituzionale n. 361 del 1998 ha cancellato la riforma del 1997, approvata dal Parlamento a grande maggioranza. La Corte aveva desunto dai principi sanciti nella Carta fondamentale una concezione “debole” del contraddittorio, per tal motivo si rese necessario conferire espresso riconoscimento ai principi desumibili dalla Costituzione vigente; si tratta in particolare del metodo del contraddittorio nella formazione della prova e del diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore.

Il Parlamento, con la legge di revisione costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ha introdotto nell’art. 111 cinque nuovi commi che consacrano i canoni del “giusto processo”.46 Tra di essi oggetto di specifico interesse, è il principio del contraddittorio che è stato cristallizzato dal legislatore nelle sue molteplici sfaccettature.

I primi due commi del suddetto articolo sanciscono principi che non sono inerenti solo al processo penale, bensì una sorta di denominatore comune, di tutti i processi, anche

46 Per una analisi delle origini composite della riforma costituzionale , E. MARZADURI, La riforma dell’art. 111 Cost., tra spinte contingenti e ricerca di modello costituzionale del processo penale , in Leg. pen., 2000, spec. 758-759; P. TONINI , “Giusto processo”: riemerge l’iniziativa del Parlamento , in Dir. pen. proc., 2000, 137.

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quello civile, amministrativo e tributario47.

I successivi tre commi, invece, hanno per oggetto specifico ed esclusivo la disciplina del processo penale.

2. La costituzionalizzazione del “giusto

processo”

Il primo comma dell’art. 111 stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. Oggetto di accesa discussione è il significato sotteso all’espressione “giusto processo”. C’è chi ne riduce la portata richiamando l’asserto giuspositivista secondo cui il processo regolato dalla legge è sempre giusto48, è chi lo considera una formula retorica, di incerto significato giuridico49, o chi sostiene che esso si limita a sintetizzare i

47 Si veda M. CECCHETTI, Il principio del “giusto processo” nel nuovo art 111. della Cost. Origini e contenuti normativi generali, in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, a cura di P. TONINI, Padova, 2001, 49 ss.; ID.; voce Giusto processo (diritto costituzionale), in Enc. dir., Agg. V, Milano, 2001, 595. Sulle ragioni che inducono gli ordinamenti processuali a specificare spontaneamente le precostituite norme del loro attivarsi, con ciò rilevando i principi fondamentali ai quali debbono informarsi per poter produrre atti di giurisdizione, G. FOSCHINI, La giustizia sotto l’albero e i diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1963, 300.

48 G. Lozzi, Lezioni di procedura penale , 5° ed., Torino, 2002, 16. 49 P. FERRUA, Il “giusto processo” in Costituzione, in Dir. giust., 2000, 1, 5. Ad avviso di V. CAIANIELLO, Riflessioni, cit., 48 “quando le costituzioni adoperano espressioni enfatiche queste hanno un significato polemico con il passato ed è per questo che il legislatore costituzionale, ritenendosi ingiustamente contestato dalla Corte a scapito di un diritto inviolabile come il diritto di difesa in giudizio, con l’aggettivo “giusto” ha voluto sottolineare che il processo deve essere conforme a quanto è scritto in Costituzione”.

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principi sanciti nei commi successivi50.

La tesi più condivisibile è quella secondo cui la locuzione allude ad un concetto ideale di Giustizia, che preesiste rispetto alla legge ed è direttamente collegato ai diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo. Sotto tale profilo, la clausola del “giusto processo” risulta collegata all’art. 2 Cost. nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili della persona51.

In realtà tale argomentazione sottende ad un concetto di giustizia che guarda alla dimensione concreta e fattuale dell’interazione tra i principi proclamati in maniera teorica52. Come già evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, il principio in esame coordina sia i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, quanto ai diritti di azione e di difesa in giudizio53.

50 In passato, la Corte costituzionale aveva ritenuto che quella in oggetto costituisse una “formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e di difesa in giudizio” (C. Cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131 , in Giur. cost., 1996, 1146). Il Giudice delle leggi, in altre parole, ravvisava nell’espressione il processo voluto dalla Costituzione. .

51 In tal senso, E. MARZADURI, sub art 1, l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 , in Leg. pen., 2000, 765; ID., Appunti sulla riforma costituzionale del processo penale, in AA.VV., Scritti in onore di Antonio Cristiani, Torino, 2001, 440

52 C. CONTI, op. cit., 95. In tal senso cfr. N. TROCKER, Il valore costituzionale del “giusto processo”, in Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, a cura di M. G. Civinini e C.N. Verardi, Milano, 2001, 49.

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È stato inoltre osservato che la nozione di “giusto processo” deve corrispondere ad un principio “a tessitura aperta”: l’elenco dei diritti e delle garanzie enunciate nell’art. 111 non deve essere considerato esaustivo bensì suscettibile di essere integrato dall’interprete in diversi aspetti che non sono stati esplicitati. Basti pensare ad alcuni elementi tipici del “modello internazionale” (quali la pubblicità del procedimento o la pronuncia delle sentenze in pubblica udienza), nonché alcuni caratteri delineati dall’art. 130 del progetto della Commissione bicamerale del 1997 (in particolare i principi dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza, la garanzia di effettività della difesa tecnica per i non abbienti)54.

La mancata menzione di tali fattori non significa che essi non facciano parte della nozione in esame ma solo che in sede parlamentare si è preferito inserire nell’art. 111 solo la parte dei principi riconducibili al concetto di giusto processo maggiormente condivisa dalle forze politiche.

Giusto è il processo che, oltre a rispettare i parametri fissati esplicitamente dalle norme costituzionali, si pone come attuazione dei valori condivisi dalla collettività.

54 M. CECCHETTI, Il principio del giusto processo nel nuovo art. 111 della Cost. , cit., 73

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3. Gli elementi indefettibili del giusto

processo

Il secondo comma dell’art. 111 enuncia i caratteri minimi, che devono connotare inderogabilmente lo svolgimento di ogni processo: il contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, la terzietà e imparzialità del giudice, la ragionevole durata.

Il cuore di suddetto articolo sta senza dubbio nell’affermazione del contraddittorio.

Secondo la classica definizione tale canone postula che la decisione del giudice sia emanata audita altera parte, in base al quale un provvedimento giurisdizionale non può mai assumere i caratteri della definitività senza che la parte destinata a subirne gli effetti sia stata posta in condizioni di far valere le proprie ragioni55.

E’ opportuno sottolineare che la proclamazione del contraddittorio ricorre anche al quarto comma, con riferimento al processo penale: in tale sede il principio è richiamato nel suo significato specifico di contraddittorio nella formazione della prova56 .

55 P. FERRUA, Il giusto processo in Costituzione, cit., 5. Per una sintesi dell’evoluzione storica del concetto di contraddittorio si veda N. PICARDI, Il principio del contraddittorio, in Riv. dir. proc., 1998, 673 ss.

56 Cosi. V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio (dagli insegnamenti della

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Da ciò ricaviamo che il concetto di contraddittorio del comma 2 non va riferito alla formazione delle prove bensì al solo intervento dialettico delle parti nel corso del giudizio, intervento che si può realizzare anche su prove già precostituite e prodotte.

Il secondo comma prosegue con l’affermazione del “principio della parità tra le armi “del processo. “Parità delle armi” non significa che i poteri e le facoltà di ciascuna parte debbano essere necessariamente esercitati nelle stesse forme e l’art. 111, co.2°, prosegue che il processo debba svolgersi dinnanzi ad “un giudice terzo ed imparziale”. La dottrina è divisa circa il significato dell’espressione. Secondo alcuni autori l’espressione costituirebbe un’ “endiadi”57, un’inutile ripetizione.

Loro, rilevano che la terzietà attiene alla posizione istituzionale rivestita dal giudice, l’imparzialità nello stesso modo come nel processo civile; ma nel processo penale vi è una diversità di posizione, istituzionale e sostanziale tra pubblico ministero e imputato e, in tale contesto, il concetto di “parità” implica una reciprocità dei diritti, in particolare riferimento alla formazione della prova, (ossia eguale

Corte Cost. al progettato nuovo modello di “giusto processo”), in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 844.

57 C. TAORMINA, Riforme da riformare, in Giust. pen., 2000, I, 2; M. MURONE, Primi appunti sulla riforma del giusto processo, ivi, 12; S. CHIARLONI, Il nuovo art. 111 e il processo civile, in AA. VV. , Il nuovo art. 111 della Cost. e il giusto processi civile, cit., 26.

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possibilità di accesso alle prove o alle fonti di prova). 58

Merita precisare che l’accostamento del principio di terzietà del giudice a quello del contraddittorio, non è altro che un legame sostanziale tra i due concetti. La piena attuazione del contraddittorio postula un determinato assetto della giurisdizione59.

Infine, il secondo comma dell’art. 111 sancisce il principio della “ragionevole durata” del processo rimettendo l’attuazione al legislatore60.

La dottrina è apparsa concorde nel ribadire che l’obiettivo della ragionevole durata non può in alcun modo compromettere le garanzie dell’imputato e la qualità dell’accertamento processuale.

Non a caso si parla di “ragionevole” durata, sottolineando un

58 Cfr. C. Cost., ord. 21 marzo 2002, n. 83: “Il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato giacché una diversità di trattamento può risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza [...] sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia”. Sul punto si veda C. CONTI, voce Giusto processo (Diritto processuale penale), in Enc. dir., Appendice, V, Milano, 2001; F. CORDERO, Procedura Penale, 6° ed., 1212; G. SPANGHER, Il “Giusto processo” penale, in Studium iuris, 2000, 256.

59 R. ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 457.

60 L’art. 111 Cost. recepisce in questo punto l’art. 6, comma 1 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, il cui mancato rispetto ha comportato svariate condanne dell’Italia da parte della Corte Europea. Si ricordi che con la legge 24 marzo 2001 , n. 89 (cd. Legge Pinto) è stata prevista la possibilità di ottenere un’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole processo.

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equilibrio nel quale siano contemperate armoniosamente, per un verso, l’istanza di una giustizia amministrata senza ritardi e, per l’altro verso, l’istanza di una giustizia non frettolosa e non sommaria61.

4. Il giusto processo penale

I successivi tre commi dell’art. 111 si riferiscono espressamente al processo penale e delineano i requisiti che esso deve presentare per essere definito “giusto”.

Il terzo comma, è stato influenzato dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

In primo luogo, la persona accusata deve essere informata riservatamente, e nel breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico.

Allo stesso tempo, la tempestività dell’informazione non deve essere tale da ostacolare le indagini o ridurne l’efficacia, ad esempio impedendo al pubblico ministero di compiere atti a sorpresa (perquisizioni, intercettazioni, etc.). Il bilanciamento tra le due istanze è rinvenibile nell’espressione “nel più breve tempo possibile”, che non deve essere interpretata nel senso di “immediatamente”: l’indagato deve essere avvisato non appena tale informazione risulti compatibile con l’esigenza di genuinità

61 Cosi N. TROCKER, op. cit., 47.

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ed efficacia delle indagini62.

All’accusato devono essere assicurati il tempo e le condizioni necessari per la sua difesa.

Giungiamo all’enunciato più importante dell’art. 111, co.3°: l’imputato ha il diritto “davanti al giudice, di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico”.

Il diritto di escutere i testimoni deve trovare applicazione “davanti al giudice”, in modo che l’organo giudicante viene messo nelle condizioni di poter osservare dal vivo il comportamento del dichiarante che inciderà sulla valutazione delle dichiarazioni stesse. Il legislatore costituzionale dell’art. 111, co.3°, ha riconosciuto un vero e proprio diritto a confrontarsi con l’accusatore.

Il terzo comma sancisce poi il diritto dell’accusato di “ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”. Ovviamente occorre precisare che anche le prove richieste dall’accusato debbano passare attraverso il filtro costituito dal vaglio giudiziale di ammissibilità63, in quanto qualsiasi esclusione di controllo da parte del giudice confliggerebbe con i principi di ragionevolezza e di parità delle parti.

62 Cosi, P. FERRUA, Il giusto processo in Costituzione, cit., 79

63 Cosi, C. CONTI, L’imputato nel procedimento connesso, cit. 109-110.

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Infine, all’accusato è concessa la facoltà di farsi assistere da un interprete se non comprende o non parla la lingua utilizzata nel processo64.

5. Il principio del contraddittorio

Il quarto comma dell’art. 111 enuncia i principi che hanno rivestito un ruolo fondamentale nella “trasformazione” dell'esame dell'imputato in un procedimento connesso o collegato.

“Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore”: così recita la

disposizione che ci accingiamo ad analizzare.

La prova non deve essere ottenuta in segreto con pressioni unilaterali; per poter essere considerata attendibile, essa deve risultare dalla contrapposizione e dal confronto tra l'accusa e la difesa, deve essere il frutto dell'applicazione del metodo dialettico65.

È stato sostenuto che il nuovo art. 111. costituisce le “due

64 Su tale argomento v. D. CURTOTTI, Il problema delle lingue nel processo penale, Milano , 2002, 235 ss.

65 L. D’AMBROSIO, Sintesi pratica delle riforme del processo penale, Padova, 2002, 68.

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