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Eccezione generale all'incompatibilità con l'ufficio di testimone: gli imputat

Nel documento Imputato e Testimone (pagine 60-68)

La legge n 63 del 2001 1 Considerazioni general

3. La riduzione dell'incompatibilità a testimoniare

3.2 Eccezione generale all'incompatibilità con l'ufficio di testimone: gli imputat

“giudicati”.

Secondo l’orientamento più recente delle SS.UU. della Corte di Cassazione (sent. n. 33583 del 26.03.2015) l’incompatibilità a testimoniare viene meno per tutti gli imputati “connessi” o “collegati”, allorché si formi, nei loro confronti, il giudicato di condanna, di proscioglimento o

patteggiamento (l’incompatibilità non cessa, invece, con

l’inoppugnabilità della sentenza di non luogo a procedere;

85 C. CONTI, L’imputato nel procedimento connesso, cit., 194

86 Ciò si deduce chiaramente sia dall’art. 197-bis co 1 c.p.p., secondo il quale il dichiarante “può sempre essere sentito come testimone”; sia dall’art. 64 co 3 c.p.p. che, in tema di avvertimenti all’interrogato, prevede che questi deve essere avvisato che, “se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone”.

vds. Cass. Sez. un., n. 12067/2009)

Dopo tale momento, l’ex imputato dovrà essere sentito

come testimone “comune”, se è stato irrevocabilmente assolto per non aver commesso il fatto ovvero come

testimone assistito in ogni altro caso (art. 197-bis commi 1,

3, 4, 5, 6).

Proprio con la sentenza n. 381 del 206 il Giudice delle Leggi ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 3 e 6 dell’art. 197-bis c.p.p. «nella parte in cui prevedono,

rispettivamente, l’assistenza di un difensore e l’applicazione delle disposizioni dell’art. 192 comma 3 c.p.p. anche per le dichiarazioni rese dalle persone indicate al comma 1 del medesimo art. 197-bis c.p.p., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto”, divenuta irrevocabile».

Fino al 6 aprile 2001, solo la persona definitivamente prosciolta poteva - e doveva - assumere lo status di testimone nei procedimenti connessi con quello svoltosi a proprio carico87.

La nuova legge ha mantenuto tale previsione, fornendo nel contempo, alcune inedite garanzia al soggetto prosciolto che depone come teste. In passato questi aveva esattamente gli

87 Anche sotto il codice del 1930 il proscioglimento con formula ampia costituiva un’eccezione all’incompatibilità a testimoniare (art. 348 co 3 c.p.p. abrogato). In argomento si veda M. BARGIS, Incompatibilità a testimoniare e connessione di reati, Milano, 1980, 9 ss.

stessi diritti e gli stessi obblighi che sono attribuiti ad un qualsiasi testimone. Secondo la disciplina attuale, invece, egli al pari delle altre persone “giudicate” assume la qualifica di “testimone assistito”. In particolare, tale soggetto è affiancato da un difensore (art. 197 bis, co. 3°, c.p.p.) ed è tutelato dalla inutilizzabilità nei suoi confronti delle dichiarazioni che egli rende con obbligo di verità (art. 197 bis, co. 5°, c.p.p.). Non gli è invece riconosciuto alcun privilegio sul fatto giudicato. All'imputato prosciolto è infatti attribuito solo il normale privilegio contro l’autoincriminazione, previsto per tutti testimoni dall’art. 198, co. 2°, c.p.p.. Egli, dunque, non potrà “essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”: è evidente che il diritto di astenersi dal deporre si riferisce a fatti ulteriori e diversi rispetto a quelli oggetto del giudicato, da cui è già “emersa” la responsabilità penale dell’imputato.

Nonostante la serie di garanzie attribuita all'imputato prosciolto, la disciplina in esame non si preoccupa di tutelare l'onore del soggetto in questione. Questi, pur non avendo nulla da temere sotto il profilo penale, potrà trovarsi costretto a rendere, con obbligo di verità, dichiarazioni comunque pregiudizievoli per la propria reputazione, se non addirittura ad ammettere la propria responsabilità per il fatto

da cui è stato assolto con sentenza irrevocabile88.

L'onore del dichiarante, è invece esplicitamente tutelato nel caso dell'imputato definitivamente condannato.

La compatibilità con l'ufficio di testimone di quest'ultimo è una novità introdotta dalla legge n.63/2001: nel sistema previgente la persona definitivamente condannata non poteva deporre come testimone, per quanto il “ne bis in

idem” apparisse già garanzia sufficiente ad escludere

un'eventuale uso a suo sfavore, per lo meno in sede penale, delle eventuali dichiarazioni autoindizianti rese con obbligo di verità.

Il diritto al silenzio era ritenuto necessario al fine di proteggere il condannato, sia nella prospettiva di eventuali giudizi civili o amministrativi relativi al fatto oggetto della sentenza di condanna, sia nel possibile giudizio di revisione per il medesimo fatto. Era, inoltre, diffuso il timore che il condannato potesse strumentalizzare una propria eventuale testimonianza , al fine di precostituirsi una prova per chiedere la revisione della condanna89.

88 In questo senso S. CORBETTA, Principio del contraddittorio e riduzione del diritto al silenzio, cit., 681; E. AMODIO, Giusto processo, diritto al silenzio e obbligo di verità dell’imputato su fatto altrui, in Cass. pen., 2001, 3592.

89 Secondo A. MELCHIONDA, Note per l’introduzione della figura di testimone assistito, in Critica dir., 1999, 152-153 tale timore era, comunque, da ritenersi infondato. In primo luogo perché una ipotetica “autocertificazione” non può in alcun modo essere considerata “nuova prova” utilizzabile agli effetti dell’art. 630 c.p.p.; in secondo luogo sarebbe stato sufficiente integrare tale disposizione precisando che, in nessun caso, può avere valenza di nuova prova la dichiarazione, anche

I suddetti pericoli sono stati neutralizzati dall'espressa previsione dell'inutilizzabilità contra se delle affermazioni dell'imputato condannato, sia in eventuali giudizi civili o amministrativi, sia nel giudizio di revisione (art. 197 bis, co. 5°, c.p.p.).

Ai soggetti irrevocabilmente condannati è stata poi riconosciuta un'inedita figura di “privilegio sul giudicato”. L’art. 197 bis, co. 4°, c.p.p., prevede che, anche quando assumono la veste di testimoni, essi non possono essere obbligati a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio una sentenza di condanna nel loro confronti, se nel procedimento avevano negato la propria responsabilità90 o

se resa in veste di testimone, del soggetto interessato alla revisione della condanna.

90 L’espressione appare piuttosto ambigua. A parte il caso in cui l’imputato abbia respinto ogni addebito, vi è da chiedersi quando si può ritenere che egli, nel processo a suo carico, “aveva negato la propria responsabilità”. Secondo C. CORBETTA, Principio del contraddittorio, cit., 681, è opportuno distinguere tra l’ammissione del fatto nella sua materialità e l’ammissione dell’addebito. Si può fare l’esempio di un imputato connesso o collegato definitivamente condannato per corruzione propria che, nel procedimento aveva dichiarato di aver consegnato denaro ad un pubblico ufficiale - , ammettendo, dunque, di aver materialmente commesso il fatto -, precisando, però, di esservi stato costretto (prospettando cosi un fatto di concussione). Tale soggetto, nel processo a carico del pubblico ufficiale, non potrà essere sentito come testimone sul fatto oggetto della sentenza di condanna emessa a suo carico, poiché aveva negato la sua responsabilità. Più problematico il caso in cui vi sia una parziale ammissione dell’addebito. Se, nell’esempio proposto, l’imputato aveva ammesso di aver pagato il pubblico ufficiale per corromperlo, dichiarando però di aver ceduto una somma di ammontare diverso da quello affermato dall’accusa, una differenza minima non inciderà sull’ammissione di responsabilità; per contro , differenze significative saranno da interpretare come negazione dell’addebito.

non avevano reso alcuna dichiarazione91. Ne deriva che l'obbligo di deporre sussiste “ogni qualvolta il condannato in via definitiva abbia avvallato l'impianto accusatorio”; quando invece egli, nel processo a suo carico, si sia inutilmente difeso, a parole o con silenzio, è assistito dal privilegio di astenersi dal rispondere anche quando depone come testimone nell'ambito di un altro procedimento.

La ratio di una simile disciplina è alquanto scura: come si è visto, l'imputato potrebbe trovarsi nella situazione di dover ammettere la propria responsabilità per il fatto da cui è stato assolto con sentenza divenuta irrevocabile, senza però poter usufruire del privilegio sul giudicato sancito a favore dell'imputato definitivamente condannato.

Il legislatore ha così riconosciuto al condannato una tutela che appare “sovrabbondante”92però, stabilendo che l'onore

Secondo R. ORLANDI, Dichiarazioni dell’imputato su responsabilità altrui, cit., 189, nota 85, l’espressione “negare la propria responsabilità” copre certamente strategie difensive volte a negare la sussistenza di elementi essenziali del reato, quali la condotta, il nesso causale, l’elemento soggettivo, nonché di elementi negativi dell’illecito penale, quali le cause di giustificazione. Non è invece sicuro che vi rientrino altre cause di non punibilità, come la prescrizione né se vi sia ricompresa la richiesta di non imputabilità, poiché il non imputabile, a rigore, non può essere considerato responsabile del reato che pure ha materialmente commesso.

91 L’interpretazione più corretta è quella secondo la quale l’espressione si riferisce non al caso in cui l’imputato, nel proprio processo, non abbai reso alcuna dichiarazione, bensì all’ipotesi in cui egli si sia astenuto dal dichiarare fatti che avrebbero potuto costituire oggetto d’esame nel processo a suo carico e che potrebbero formare oggetto di prova testimoniale nel processo connesso o collegato. Cosi, ancora, R. ORLANDI, op. cit., 189, nota 86.

del dichiarante debba prevalere sul diritto a confrontarsi con l’accusatore93.

Infine, l’art. 197 c.p.p. stabilisce che possono rendere testimonianza anche soggetti nei cui confronti sia stata emessa sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p.94.

L’art. 445 c.p.p. prevede che “salve diverse disposizioni di legge” tale sentenza “è equiparata ad una pronuncia di condanna”95.

L’incompatibilità a testimoniare, secondo il recentissimo orientamento giurisprudenziale sopra citato (SS.UU. Lo Presti), cede all’accertamento della verità processuale, anche per tutti gli imputati “connessi” o “collegati” allorché il

93 V. SANTORO, Il cambio da coimputato a teste esalta il confronto, cit., 42; C. CONTI, La riduzione dell’incompatibilità a testimoniare, cit., 290, nota 19

94 La scelta di rendere compatibili con la qualifica di teste anche coloro che hanno patteggiato risponde ad una esigenza avvertita dopo l’esperienza di “tangentopoli”: si è voluto evitare che si ripetessero situazioni nelle quali i coimputati lanciavano accuse contro altri (acquisendo in tal modo meriti nella negoziazione informale con il p.m.), patteggiavano e poi si sottraevano ad ogni successivo confronto con gli accusati. Cosi M. D’ANDRIA, Le nuove qualifiche soggettive create dalla l. n. 63 del 2001 e la riforma dell’art. 64 c.p.p., cit., 850. 95 Ricordiamo che, con la sentenza di patteggiamento , il giudice applica quella pena che è stata precisata da una richiesta delle parti, ossia dell’imputato e del pubblico ministero. E’ dunque necessario che le parti abbiano previamente concluso un accordo (cd. patteggiamento) sulla pena da applicare in concreto. Il giudice dovrà controllare la correttezza di tale accordo sulla base degli atti scritti contenuti nel fascicolo delle indagini. L’applicazione della pena su richiesta delle parti appartiene al novero dei cd. riti semplificati: la semplificazione consiste nell’eliminazione dell’assunzione orale delle prove in dibattimento; inoltre, la sentenza in esame non è appellabile (art. 448 co 2 c.p.p.), ma può essere oggetto di solo ricorso per cassazione.

procedimento a loro carico si chiuda con l’archiviazione: a fronte di un dato testuale assai ambiguo – se non decisamente orientato in senso contrario – le Sezioni unite (sent. n. 12067/2009, De Simone) hanno precisato che l’esigenza di tutelare il diritto di difesa, sub specie di diritto al silenzio, si pone nei confronti di chi sia “accusato” – nel senso proprio del termine – o “accusabile” – perché un’indagine è pendente e potrebbe ancora sfociare nell’esercizio dell’azione penale – di un reato connesso o collegato.

Quando, invece, le indagini non abbiano consentito di confortare l’ipotesi di accusa, ogni profilo di tutela viene meno e l’ex indagato degrada a teste addirittura

“comune”, non meritando attenzione l’esigenza di tutelarlo

dal rischio di riapertura delle indagini (art. 414 c.p.p.),

«sostanzialmente assimilabile, e anzi probabilmente inferiore», a quello di apertura di un’indagine a carico di chi

non sia mai stato sottoposto a un procedimento penale. Sebbene questo orientamento persegua il giusto obiettivo di scongiurare le denunce “pretestuose” (presentate al solo scopo di declassare una potenziale testimonianza a carico, assoggettandola alla regola valutativa ex art. 192 comma 3 c.p.p.), lo stesso non può che suscitare riserve, sia sotto il profilo della costruzione grammaticale e logica della norma in questione, sia perché, al fine di prevenire un’eventualità “patologica”, lascia paradossalmente privo di tutela il “già indagato” nei cui confronti si sia “fisiologicamente”

proceduto per una notizia di reato seria: per absurdum, chi è protetto dal ne bis in idem – l’irrevocabilmente giudicato – fruisce delle garanzie della testimonianza assistita, mentre chi è esposto ad un’ipotetica nuova indagine no.

3.3 Eccezione “speciale” all'incompatibilità

Nel documento Imputato e Testimone (pagine 60-68)