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L’esame degli imputati connessi teologicamente o collegati.

Nel documento Imputato e Testimone (pagine 93-104)

Il “nuovo” esame di persona imputata in un procedimento connesso

3. L’esame degli imputati connessi teologicamente o collegati.

Con riferimento al collegamento probatorio, la Corte di cassazione - con la sentenza 33583 del 2015 delle sezioni Unite122 - ha ridimensionato l’ambito applicativo della disciplina ex artt. 197, 197-bis e 210 c.p.p., negando che possa dare luogo al collegamento probatorio, idoneo a fondare lo status di imputato/indagato “collegato”, l’emersione a carico di un dichiarante, chiamato nel procedimento ad assumere l’ufficio di persona informata sui fatti o testimone, di indizi di responsabilità per i reati di false informazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza, favoreggiamento o calunnia, in ragione dei contenuti delle dichiarazioni rese, di per sé integranti, appunto, una condotta penalmente rilevante: in altre parole, non può̀ determinare l’insorgenza di un’incompatibilità̀ a testimoniare «il reato che consiste in dichiarazioni versate nel processo».

In proposito, la Corte richiama, e riafferma, la nota giurisprudenza in materia di dichiarazioni auto-indizianti, sancendo che l’incompatibilità̀ a testimoniare – in ragione della qualità di imputato “connesso” o “collegato” – si radica nella preesistenza, rispetto all’escussione, della condotta che può dar luogo a responsabilità penale, e nella estraneità̀ di

122 “Le dichiarazioni etero-accusatorie: cosa c’è di nuovo” di Barbara Lavarini: nota alla sentenza della Corte di Cassazione, SS.UU., n.33583 del 26 marzo 2015

tale condotta al contenuto delle dichiarazioni rese in veste testimoniale.

A supporto del ragionamento logico giuridico, il giudice di legittimità pone in luce la differenza, in materia di falsa testimonianza, fra il pregresso sistema processuale – ove l’emersione di una falsità̀ dichiarativa determinava l’immediata apertura del relativo procedimento penale e, di regola, il rinvio del processo principale in attesa della definizione di quello sul falso –, ed il sistema attuale, in cui solo al termine della fase, in cui la falsa dichiarazione è stata resa, il giudice che ravvisi indizi del reato ex art. 372 c.p. deve trasmettere la relativa notizia al pubblico ministero (art. 207 c.p.p.). Da ciò ne consegue la netta separazione fra la valutazione della testimonianza ai fini della decisione nel processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone che abbia deposto il falso: la falsità̀ testimoniale inciderà non sul piano dell’utilizzabilità̀ della prova ma su quello della sua attendibilità.

Da ultimo le Sezioni Unite, riprendendo uno spunto “implicito” della sentenza n. 15208/2010, ric. Mills, fanno leva sulla disciplina delle scriminanti in materia di delitti “dichiarativi” contro l’attività giudiziaria (il riferimento è agli artt. 384 comma 2 e 376 c.p.), per trarne che laddove il reato, di cui il dichiarante risulti indiziato, possa astrattamente “fruire” di una di tali esimenti, lo stesso non possa fondare lo status di imputato/indagato “collegato”.

L’art. 210, co. 6°, c.p.p., detta una disciplina innovativa per il caso in cui un imputato connesso teleologicamente (ex art. 12 co 1° lett. c) o probatoriamente collegato (ex art. 371 co.2° lett. b) giunga in dibattimento senza aver mai reso in precedenza dichiarazioni erga alios123.

Tale soggetto fa il suo ingresso nel processo in qualità di imputato “connesso o collegato” esaminabile con le stesse modalità previste dei primi cinque commi dell’art. 210 c.p.p. relativamente all'ipotesi di connessione per concorso nel medesimo reato, con gli obblighi le garanzie riconosciuti alla categoria di dichiaranti definita “forte” (art. 12 co 1 lett. a) c.p.p.). Vi è però una differenza: oltre all'avvertimento relativo alla facoltà di non rispondere (art. 210 co 4), deve essergli altresì reso l'avviso di cui all’art. 64 co 3 lett c), ossia che, se renderà dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumerà, limitatamente a tali fatti, la veste di testimone assistito.

A questo punto, l'ultimo periodo dell'articolo in questione, prevede che, se il soggetto in discorso non si avvale della

123 Tale situazione si può prospettare sia quando tali persone “non sia mai state sentite da alcuna autorità interrogante, sia quando “pur essendo state interrogate, non abbiano reso in tale sede alcuna dichiarazione sull’altrui responsabilità”: così G. CONSO - V. GREVI, Compendio di procedura penale, Padova, 2003, 327. A tali ipotesi va equiparata quella in cui i soggetti in questione, nel corso dell’interrogatorio, abbaino reso dichiarazioni sul fatto altrui, senza aver previamente ricevuto l’avvertimento di cui all’art. 64 co 3 lett. c : a tale omissione , infatti, consegue l’inutilizzabilità erga alios delle stesse dichiarazioni e, soprattutto, l’impossibilità per il soggetto dichiarante di assumere la veste testimoniale in ordine a tali fatti (art. 64 co 3-bis).

facoltà di non rispondere, assume la veste di teste (assistito). La formulazione letterale della norma risulta alquanto ambigua e suscettibile di dar luogo a fraintendimenti124. Ad una prima lettura, si potrebbe essere indotti a ritenere che il semplice fatto di non aver usufruito della facoltà di tacere e di aver reso dichiarazioni, anche relative alla responsabilità, “comporti l'assunzione della qualifica di teste su qualunque potenziale oggetto”125. In altre parole, il soggetto diverrebbe sempre e comunque testimone, anche nel caso in cui le proprie dichiarazioni non riguardassero la responsabilità altrui.

Tale interpretazione è stata contestata da un gruppo di autori, i quali sostengono che l'incompatibilità a testimoniare verrebbe meno solo nel caso in cui il dichiarante, che abbia deciso di rispondere, comincia a rendere dichiarazioni erga

alios. La dinamica in concreto, sarebbe la seguente:

l’imputato, una volta ricevuti gli avvisi di cui all’art. 210, co. 6°, c.p.p., può scegliere se rispondere alle domande o se restare in silenzio. Nel momento in cui risponde, egli mantiene la sua qualità di “imputato connesso” e, conseguentemente, non ha l’obbligo di dire la verità. Ma se, nel rispondere, rende dichiarazioni su uno o più fatti concernenti l’altrui responsabilità, da quel momento diviene

124 Tale ambiguità è incisivamente posta in rilievo, tra gli altri, da A. SCALFATI, Aspetti dell’acquisizione dibattimentale di fonti dichiarative, cit., 637.

125 C. CONTI, Questioni controverse in tema di prova dichiarativa a quattro anni dalla legge n. 63 del 2001, cit., 667.

testimone assistito limitatamente singoli fatti altrui dichiarati126.

In relazione ai “fatti diversi”127, il soggetto de quo mantiene il suo status originario: può tacere o mentire impunemente. Tuttavia, ogni qualvolta che, nel prosieguo dell’esame, gli vengano poste domande su nuovi temi di prova concernenti la responsabilità di altri, egli si trova nuovamente a dover scegliere tra il silenzio o la parola. Qualora decida di rispondere e, nel farlo, si riferisce a fatti altrui, diviene testimone assistito anche relazione ad essi.

La “singolare metamorfosi”128 che fa dell'imputato connesso o collegato un testimone assistito non è un fatto isolato, ma è suscettibile di realizzarsi reiteratamente, per tutto il corso procedimento, in relazione ad ogni singolo fatto altrui che venga dichiarato dal soggetto escusso.

Ci troviamo di fronte ad un “testimone ad intermittenza”129 : un soggetto che, nel corso del medesimo esame, a volte è

126 Il giudice dovrà, a questo punto, interrompere l’esame e far leggere al “neonato” testimone l’impegnativa a dire la verità sulla base della formula contenuta nell’art. 497 co 2 c.p.p.

127 Nel concetto di “fatti diversi” sono da ricomprendere sia quei fatti che non concernono la responsabilità altrui, perché sono “propri” o riguardano accadimenti “neutri”, sia quei fatti altrui sui quali la persona escussa non abbia ancora reso dichiarazioni. Cosi C. CONTI, Questioni controverse in tema di prova dichiarativa, cit., 668.

128 L’espressione è presa in prestito da V. SANTORO, Il cambio da coimputato a teste esalta il confronto, cit., 47.

129 P. TONINI, L’alchimia del nuovo sistema probatorio: una attuazione del “giusto processo”, in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1° marzo 2001, n. 63), Padova, 2001, 37.

teste e a volte è imputato; che, per così dire, “ cambia più volte cappello”130, a seconda dell'oggetto delle dichiarazioni che rende.

Quella appena esposta appare l’ interpretazione più coerente e ragionevole della disposizione in commento, nonostante la “vaghezza” della formulazione normativa131ha dato luogo anche ad una diversa tesi.

C'è chi sostiene che l'assunzione della qualità di testimone assistito vada, per cosi dire “differita” nel tempo.

Il giudice, più precisamente, a seguito della prima dichiarazione erga alios, egli dovrebbe semplicemente “prenderne nota” e continuare a sentire l'imputato connesso o collegato sugli ulteriori temi di prova, ai sensi dell’art. 210 c.p.p.. Al termine di tale esame si avrebbe così a disposizione una “panoramica” completa di tutti i fatti sui quali il soggetto deve rispondere come teste e lo si potrebbe sottoporre ad un esame testimoniale “onnicomprensivo”132.

130 C. CONTI, Le dichiarazioni dell’imputato connesso che diventa testimone in dibattimento, cit., 356

131 L’art. 210 co 6, infatti, si limita a prevedere che, qualora sussistano le condizioni suddette, gli imputati connessi o collegati “assumono l’ufficio di testimone”, senza precisare con quali modalità e con quali tempi il mutamento di regime avvenga in concreto.

132 Tale interpretazione è sostenuta da M. DANIELE, La testimonianza “assistita”, cit., 221. A parere dell’autore, la tesi dell’immediata escussione dell’imputato connesso o collegato in qualità di testimone, pur dotata di una certa economicità, presenta diversi inconvenienti. In primo luogo, i regimi dei due esami (esame ex art. 210 e esame testimoniale ex art. 197-bis) finirebbero col sovrapporsi e confondersi tra loro, con il rischio che, al momento delle singole domande, non sia più chiara quale disciplina applicare. Inoltre, e soprattutto, l’oggetto

Tale soluzione è caratterizzata da un'eccessiva rigidità.

Rimandando l’escussione testimoniale, si avrebbe un’interruzione “innaturale” nell’esame incrociato, che finirebbe per privare di efficacia lo stesso133. Per la medesima ragione è da rigettare la tesi di chi – pur non sostenendo la necessità di rinviare l’escussione testimoniale – ritiene che vadano, per lo meno, concessi dei termini a difesa, al fine di consentire alle parti di rivedere le domande alla luce del mutato status del dichiarante134. Nel momento in cui quest’ultimo viene citato in dibattimento, infatti, le parti sono già a conoscenza della possibilità che egli si tramuti in teste, anzi, “coltivano” tale “ragionevole aspettativa” e hanno, perciò, l’onere di predisporre in anticipo le domande da rivolgergli in questa nuova,

della testimonianza dell’imputato è limitata a fatti concernenti la responsabilità altrui e, a rigore, questi ultimi non possono essere individuati se non al termine dell’esame ex art. 210, quando il soggetto abbia risposto a tutte le domande. Da queste considerazioni l’autore desume la necessità che i due esami vengano svolti separatamente, in modo da tenere ben distinti gli obblighi e le garanzie operanti nei rispettivi casi.

133 Si pensi al caso in cui il difensore o il pubblico ministero siano finalmente riusciti a “strappare” all’imputato connesso o collegato una dichiarazione su una determinata circostanza , facendogli assumere la veste di testimone.

Secondo la tesi in oggetto, a questo punto, l’esame, invece di proseguire per cercare di “inchiodare” il dichiarante ed indurlo a dire il vero, si dovrebbe bloccare per riprendere in un momento successivo, magari anche a distanza di tempo, in un’altra udienza.

E’ evidente che l’”effetto sorpresa” delle domande, caratteristica peculiare dell’esame incrociato, verrebbe in tali ipotesi posto nel nulla. In questi termini C. CONTI, Le dichiarazioni dell’imputato connesso che diventa testimone in dibattimento, cit., 357.

134 Sostiene tale necessità P. P. PAULESU, Giudice e parti nella “dialettica” della prova testimoniale, Torino, 2002, 57.

eventuale veste135.

È evidente quale sia lo scopo del meccanismo prospettato dall’art. 210 co 6: quello di provocare una “progressiva erosione” dell’incompatibilità a testimoniare – quindi dello spazio di operatività del diritto al silenzio e della facoltà di mentire – e, contestualmente, di ampliare l’area dei fatti sui quali il soggetto escusso diviene testimone assistito e, in quanto tale, ha obbligo di verità. Ciò fino a giungere, in ipotesi, a trasformare l’imputato in teste assistito in relazione a tutti i fatti altrui che siano rilevanti nel processo. Un risultato, quest’ultimo, difficile se non addirittura impossibile da raggiungere, se non nel caso – raro, per non dire “utopico” – di un soggetto “animato dalla più ampia disponibilità di collaborare con la giustizia”136. La stragrande maggioranza dei dichiaranti, infatti, dinanzi alla prospettiva di divenire immediatamente testimoni, sia pure relativamente al fatto altrui, preferirà rimanere in silenzio137. È opportuno accennare ad un ulteriore ipotesi suscettibile di presentarsi: può accadere che all’imputato connesso teleologicamente o collegato, esaminato ex art. 210 co 6, vengano poste domande concernenti “simultaneamente” il

135 R. ORLANDI, Dichiarazioni, cit., 97

136 C. CONTI, Le dichiarazioni dell’imputato connesso che diventa testimone in dibattimento, cit., 356; ID., Questioni controverse in tema di prova dichiarativa a quattro anni dalla legge n. 63 del 2001, cit., 69 137 M. DANIELE, La testimonianza “assistita”, cit., 220.

fatto proprio e il fatto altrui138. Quid iuris, in tali ipotesi?

Il soggetto dovrà essere sentito come imputato connesso o come testimone?

Rispondendo alle domande suddette, egli rende comunque delle dichiarazioni erga alios, seppure riguardanti anche il fatto proprio. Per questo, diverrà comunque testimone assistito in relazione a quanto dichiarato. Tuttavia, manterrà la facoltà di non rispondere sui fatti concernenti la propria responsabilità inscindibilmente connessi con quelli altrui. Tale soluzione si ricava dal disposto dell’art. 197-bis co 4, ultimo periodo, il quale prevede che i testimoni assistiti non possono essere obbligati a deporre su fatti oggetto del procedimento a loro carico139.

138 Un esempio può essere quello di un imputato di furto che depone nel procedimento relativo al reato di ricettazione della refurtiva, addebitato ad altra persona. Tale soggetto è esaminato ai sensi dell’art. 210 co 6 e può tacere e mentire impunemente. Può , tuttavia, accadere che, nel corso dell’esame, gli venga posta una domanda concernente la provenienza delle cose pertinenti al reato: una domanda di questo tipo concerne sicuramente la responsabilità altrui (ossia dell’imputato del reato di ricettazione) ma , a ben vedere, riguarda anche il fatto proprio del soggetto esaminato, ossia il reato di furto.

139 Più precisamente, ciò è previsto con riferimento all’ipotesi in cui l’imputato connesso teleologicamente o probatoriamente collegato sia sentito come “testimone” nel caso previsto dall’art. 64 co 3 lett. c. La formulazione testuale della norma, dunque, concerne sia gli imputati che, in sede di indagini preliminari, abbai reso dichiarazioni relative a fatti inscindibili, sia coloro che abbiano reso tali dichiarazioni per la prima volta in dibattimento. Sul “privilegio contro l’autoincriminazione” riconosciuto a tali soggetti si ritornerà, comunque , ampiamente, in seguito.

Da sottolineare, però, che essi, pur mantenendo la suddetta facoltà di non rispondere, sono comunque diventati testimoni assistiti a tutti gli effetti. Possono rifiutarsi di rispondere sul fatto proprio che sia inscindibilmente connesso con quello altrui; ma, se decidono di rispondere, dovranno necessariamente dire la verità.

Si può, dunque, concludere affermando che le dichiarazioni su fatti inscindibili sono state equiparate dal legislatore ad “una rinuncia a mentire anche sul fatto proprio”140.

Sul punto è intervenuta la pluririchiamata sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione la quale – nel tentativo nomofilattico di segnare la strada da seguire - ha stabilito che ove gli imputati/indagati in un procedimento “debolmente” connesso o collegato (artt. 12 lett. c), 371 lett.

b) c.p.p.), prima del giudicato o dell’archiviazione, abbiano

liberamente e consapevolmente scelto di rendere dichiarazioni sul fatto altrui “a prezzo” della rinuncia al diritto al silenzio, cioè abbiano reso tali dichiarazioni dopo essere stati avvertiti nel “loro” interrogatorio, o preliminarmente all’interrogatorio o all’esame che siano chiamati a rendere de aliis, ovvero delle conseguenze del loro dichiarare erga alios, divengono testimoni assistiti. Dunque, con più specifico riguardo alle situazioni che possono presentarsi al giudice dibattimentale: 1) se colui che risulti imputato debolmente connesso o collegato ha già

ricevuto in precedenza l’avvertimento ex art. 64 comma 3 lett. c), ed ha successivamente reso dichiarazioni de aliis, lo si sentirà direttamente come testimone assistito; 2) se il medesimo soggetto non ha reso in precedenza dichiarazioni

erga alios, lo si sentirà inizialmente ex art. 210 comma 6 –

al fine di formulargli l’avviso del diritto al silenzio e quello di cui all’art. 64 comma 3 lett. c) – dopodiché, se non si avvarrà della facoltà di non rispondere, sarà sentito come testimone assistito; 3) se il medesimo soggetto nelle indagini abbia reso dichiarazioni, ma non sia stato avvertito ex art. 64 comma 3 lett. c) – perché sentito in veste “testimoniale”, o perché l’avvertimento è stato illegittimamente omesso – in dibattimento lo si sentirà̀ inizialmente ex art. 210 comma 6, poi, se non si avvarrà della facoltà̀ di non rispondere, come testimone assistito.

Sarà, quindi, compito del giudicante accertare la corretta qualifica soggettiva del dichiarante, quale che sia il titolo per cui ne è stata chiesta l’audizione, fermo restando che, ove gli elementi suscettibili di evidenziare profili di responsabilità̀ per un reato connesso o collegato non emergano dal fascicolo dibattimentale, dovrà̀ essere il dichiarante stesso, o la parte che ne chiede l’esame, a fornire la prova, ex art. 187 comma 3 c.p.p., del fatto da cui dipende l’applicazione della disciplina ex artt. 210 e 197-bis (vds. Cass. Sez. Un., n. 33583/2015; id., Sez. Un., n. 15208/2010; v. anche Corte Cost. n. 280/2009).

CAPITOLO V

La testimonianza “assistita”

Nel documento Imputato e Testimone (pagine 93-104)