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Il trust e le procedure concorsuali

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea Magistrale

in Amministrazione, Finanza e Controllo

(ordinamento ex D.M. 270/2004)

Tesi di Laurea

IL TRUST E LE PROCEDURE CONCORSUALI

Relatore

Ch.mo Prof. Mauro Pizzigati

Laureando

Andrea Tognon

Matricola 806413

Anno Accademico

2011 / 2012

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INDICE

Introduzione

pag. 1

Capitolo I: Il trust: profili civilistici

1.1 Origini del trust: The Statute of Uses pag. 8

1.2 La Convenzione de L’Aja pag. 13

1.2.1 Il modello descritto dalla Convenzione pag. 15

1.3 Il riconoscimento pag. 20

1.4 Le tipologie presenti negli ordinamenti di civil e common law pag. 22

1.5 Il dibattito giurisprudenziale pag. 26

1.5.1 Il ruolo della giurisprudenza italiana dopo la Convenzione de L’Aja pag. 28 1.5.2 Giurisprudenza a confronto: Tribunale di Belluno, decreto 25

settembre 2002, Tribunale di Bologna, sentenza 1 ottobre 2003 pag. 34 1.5.3 La trascrizione e il trust autodichiarato pag. 36 1.6 Il rapporto fra il trust e gl'altri istituti similari pag. 41

Capitolo II: I soggetti

2.1 Il disponente (o settlor) pag. 48

2.1.1 Il trust fund pag. 55

2.2 Il trustee pag. 55

2.3 I beneficiari pag. 60

2.4 Il guardiano (o protector) pag. 67

2.5 Il concetto di segregazione patrimoniale pag. 73

2.6 La scelta della legge regolatrice pag. 76

Capitolo III: Il trust e il fallimento

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3.2 Cenni sul nuovo diritto concorsuale pag. 81

3.3 Il binomio trust-procedure concorsuali pag. 84

3.4 L’applicazione del trust nel fallimento pag. 90

3.4.1 Il trust liquidatorio: il problema della riscossione dei crediti

maturati durante la procedura fallimentare pag. 94 3.4.2 Segue: il recupero dei crediti tributari maturati durante la procedura

fallimentare pag. 98

3.4.3 Segue: Il caso del trust post fallimentare affrontato dal Tribunale di

Saluzzo pag. 103

3.5 Il trust come mezzo per evitare il fallimento pag. 109

Capitolo IV: L’applicazione del trust nelle procedure concorsuali

4.1 Il trust nei piani attestati per la risoluzione della crisi d’impresa pag. 117 4.2 La proposta di concordato preventivo per mezzo del trust pag. 121 4.2.1 Segue: La proposta di concordato preventivo per mezzo del trust pag. 128 4.2.2 Segue: il decreto di omologa del Tribunale di Parma, 3 marzo 2005 pag. 132 4.3 Il trust negli accordi di ristrutturazione dei debiti, ex art. 182-bis pag. 134 4.4 L’azione revocatoria e le garanzie dei creditori pag. 141

Capitolo V: Profili fiscali

5.1 Premessa pag. 148

5.2 L’inquadramento fiscale pag. 150

5.3 La residenza del trust pag. 152

5.4 Le imposte dirette pag. 155

5.4.1 Il trasferimento dei beni nel trust pag. 149

5.4.3 La qualificazione del reddito pag. 153

5.5 Le imposte indirette pag. 153

5.5.1 L’atto istitutivo pag. 162

5.5.2 L’atto dispositivo pag. 163

5.5.3 Operazione effettuate durante la vita del trust e il trasferimento dei

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5.6 Cenni sul trattamento fiscale del trust nell’ambito del concordato

preventivo pag. 167

Conclusioni

pag. 169

(5)

1

Introduzione

Con questo elaborato si vogliono analizzare le molteplici sfaccettature di uno strumento molto in voga negl’ultimi tempi, quale è il trust.

L’idea del binomio trust-procedure concorsuali, nasce dall’influenza pervenuta dai corsi di diritto fallimentare e diritto tributario, colonne portanti del mio corso di laurea e dalla centralità che ricopre il termine affidamento, non solo nella sfera personale, ma anche nel mondo attuale.

Emblematico, è l’esempio che quotidianamente ci viene presentato dalle più alte cariche politiche che, proprio durante questi periodi di assoluta crisi, chiedono agli enti sovranazionali ed ai concittadini di essere fiduciosi nei mezzi dei propri Paesi.

Allo stesso modo, una società che versa in una situazione di crisi, ha la possibilità di porre la propria fiducia in strumenti giuridici per il miglioramento della propria condizione economica, come: il concordato preventivo ex art. 160 l.f., gli accordi di ristrutturazione dei debiti, art. 182-bis l.f., e il trust.

Il termine trust è di derivazione anglosassone, precisamente deriva dal verbo “to trust” che significa “avere fiducia” ed esprime il concetto di affidamento. Infatti l’espressione spesso utilizzata dai coach americani nei vari contesti sportivi “put one’s trust in…”, tradotta, significa “fare affidamento a …”, rivolta al quarterback di una squadra di football, oppure al playmaker di una squadra che milita nell’Nba.1

Il prof. Lupoi, presidente dell’Associazione “Trust in Italia”,2

sostiene che la traduzione del termine “trust” con il verbo italiano “fidarsi” non sia del tutto corretta: il beneficiario di un trust, anche se non dovesse riporre la propria fiducia nel trustee designato, ha il diritto di fare affidamento che egli adempierà regolarmente agli obblighi prescritti dalla legge e dall’atto istitutivo.

1

L’acronimo Nba sta per “National Basketball Association”, trattasi della principale lega professionistica di pallacanestro negli Stati Uniti.

2

L’associazione Trust in Italia nasce nel 1999 su input dei Consigli dei professionisti italiani del settore: notai, avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili. E’ una associazione apolitica senza finalità lucrative, finalizzata a studiare e comunicare le problematiche che hanno per oggetto il trust. L’attività svolta dai soci è pubblicata nel sito internet: www.il-trust-in-italia.it.

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2

Si parte, dunque, da questo concetto per definire il trust come un particolare tipo di contratto,3 finalizzato alla protezione di posizioni giuridiche, con il quale un soggetto denominato “settlor” (disponente) conferisce, con atto tra vivi o mortis causa, la gestione di tutti i suoi beni, o parte di essi, ad un altro soggetto chiamato trustee, che ne diviene legittimo titolare e assume l’obbligo di amministrarli e gestirli secondo le disposizioni dell’atto.

L’effetto più importante è rappresentato dal concetto di segregazione patrimoniale: sostanzialmente, significa che i beni appartenenti al trust, da chiamarsi a tutti gli effetti beni in trust (trust fund), costituiscono un patrimonio separato rispetto ai beni residui che compongono il patrimonio del disponente e del trustee.

Ma, per quale motivo una persona, sia essa fisica o giuridica, dovrebbe ricorrere al trust?

La ragione per cui si è soliti ricorrere a questo tipo di strumento, deriva dalla volontà di tutelare al meglio i propri interessi, sempreché leciti, che non trovano un’efficiente tutela nei mezzi giuridici previsti dal nostro ordinamento.

Il trust, opera affinché qualunque vicenda personale e patrimoniale che colpisce il disponente, non travolga mai i beni conferiti. Si tratta di una sorta di cassetta di sicurezza per i relativi beni personali.

Lo stesso vantaggio può conseguirlo un trust costituito nell’ambito di una procedura concorsuale, dimostrandosi un utile strumento a tutela di quei soggetti che maturano crediti nei confronti dell’imprenditore in stato di crisi (o insolvenza), in modo tale che non vedano violati i propri diritti.

I beni sono a tutti gli effetti considerati “blindati”, o secondo la terminologia inglese “earmarking”, ovvero marchiati, affinché non si confondano con i beni delle altre parti.4

La segregazione, fa sì che i beni in trust non possano essere aggrediti dai creditori personali del trustee, del disponente e dei beneficiari. In altri termini, i beni conferiti, risultano efficacemente sottoposti ad un vincolo di destinazione quale è il raggiungimento dello scopo prefissato dal disponente nell'atto istitutivo,

3

L’uso del termine contratto non è del tutto corretto per definire un trust, precisamente si tratta di un atto unilaterale nel quale è stilato un programma. Oltre alla figura del costituente, sono coinvolti altri soggetti. 4

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3

e ad un ulteriore vincolo di separazione, che giuridicamente li mantiene separati sia dal patrimonio residuo del disponente, sia da quello del trustee.5

I beneficiari designati nell’atto, nel rispetto delle funzioni loro attribuite, hanno pieni poteri di controllo del buon operato del trustee e possono chiedere un resoconto periodico circa l’andamento della gestione. Nell’ipotesi di trust senza beneficiari, tipologia che incontra molti limiti, è invece prevista necessariamente la nomina di un guardiano (o protector) che possa esercitare i diritti loro spettanti. Il guardiano, è quella figura nominata discrezionalmente dal disponente, non necessariamente presente, salvo che sia la legge regolatrice ad imporre la sua esistenza. Al guardiano, sono attribuiti i poteri di controllo propri del disponente, incluso quello di revocare il trustee e di nominarne uno nuovo, sempre nell’interesse del perseguimento degli scopi del trust.

A seguito di numerosi e vivaci dibattiti a livello giurisprudenziale, è stata altresì ammessa l’ipotesi che il disponente possa nominare sé stesso come trustee, in questo caso il trust si definisce “autodichiarato” (declaration of trust). L’effetto segregativo si realizza all’interno del patrimonio del disponente, senza che vi sia il trasferimento della titolarità dei beni.

Da ultimo, si sottolinea che il trust, proprio per gli effetti immediati che produce, non può esistere senza proprietà e i beni futuri non possono esserne oggetto.

E’ opportuno far notare che si tratta di uno strumento di marca anglo-sassone, prodotto da una tradizione giuridica diversa dalla nostra, quale è la common law.6

Originariamente, creò dei problemi legati alla comprensibilità. Nasceva da una tradizione basata sulla concorrenza di diverse giurisdizioni e sull’incidenza di molteplici ordini istituzionali nella disciplina dei rapporti tra privati, ignorando pilastri concettuali come l’unità del patrimonio e della proprietà e la tipicità dei diritti reali.

5

Tribunale di Trento, Sezione distaccata di Cavalese, Giudice Tavolare, dott. L. Battistella, 20 luglio 2004. 6

PIRRUCCIO P. “La segregazione dell'intero patrimonio aziendale del trust non il normale svolgimento della

procedura concorsuale in danno alla massa dei creditori”, in “Giurisprudenza di merito”, 2010, n. 6, pp.

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Tuttavia, acquisì un diritto di cittadinanza aderendo alla “Convenzione de L’Aja” in seguito alla legge 16 ottobre 1989, n. 364, dal titolo “Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla Legge applicabile ai trusts e sul loro Riconoscimento, adottata a L’Aja il primo luglio del 1985”, poi entrata regolarmente in vigore il primo gennaio 1992.

Proprio per il successo operativo finora conseguito e per il suo largo ricorso in periodi di crisi, come quello attuale, tenendo presente gli aspri dibattiti a livello giurisprudenziale e dottrinale, il mio elaborato si svilupperà sui diversi utilizzi dell’istituto anglosassone, focalizzandosi principalmente sulla sua capacità operativa nel campo delle procedure concorsuali.

Per consentire una più agevole comprensione dell'argomento, l’elaborato sarà suddiviso in cinque capitoli.

Il primo capitolo presenta un piccolo excursus storico, in modo da spiegare l’evoluzione del trust, il quale nasce nella prima parte del dodicesimo secolo, per aggirare le imposte feudali sulle successioni. Il periodo storico è l’alto medio-evo inglese, laddove la Corona riunì il mondo amministrativo e il mondo giuridico, i quali diedero vita al diritto consuetudinario, oggi conosciuto come common law, caratterizzato per il vincolo posto dal precedente giudiziario nei confronti delle sentenze future, che all’epoca portavano il nome di writs.

Con il tempo, la popolazione inglese si accorse che le regole dettate dai writs, risultavano poco efficaci e la loro rigidità lasciò spazio prima all’Equity, e poi, con l’incoronazione di Enrico VIII, all’emanazione dello Statute of Use, documento che riconosceva la proprietà dei beni a favore dei feoffes, quelli che oggi sono rappresentati dai trustees.

La Convenzione de L’Aja del 1985, è il passaggio che sancisce definitivamente la nascita del trust, così come si è affermato al giorno d’oggi.

Nonostante il nostro Paese sia intervenuto con una legge volta a ratificare la Convenzione, sono stati necessari molti anni prima che l’istituto fosse pienamente accettato da tutti i professionisti del settore. Infatti, nella prima parte, si è ritenuto opportuno analizzare gli interventi più incisivi da parte della giurisprudenza, la quale è stata più volte chiamata a risolvere questioni legate alla conformità dell’istituto, con le norme imperative di legge vigenti nel nostro ordinamento.

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In seguito, si è posta ulteriore attenzione alle difficoltà incontrate da coloro che costituivano l’atto di trust, circa il riconoscimento della trascrizione del vincolo di destinazione, ai sensi delle disposizioni dettate dal recente art. 2645-ter c.c..

Il primo capitolo si conclude con il confronto tra il trust e gl’altri istituti ritenuti similari, tra tutti: fondo patrimoniale, negozio fiduciario e fondazione.

Il secondo capitolo è dedicato ai soggetti che hanno un ruolo attivo nella vita del trust. Vi è descritta la figura del disponente, che rappresenta colui che da l’impulso per l’avvio del trust. In secondo luogo, si presenta la figura del trustee, nominata direttamente dal disponente. Egli è l’unico soggetto indispensabile, il quale, sia in virtù dei poteri assegnati dalla legge, sia in virtù della fiducia riposta dal disponente, persegue gli interessi di quest’ultimo, che si traducono nel perseguimento degli obietti indicati nell’atto costitutivo. Per questo è, a tutti gli effetti, considerato l’elemento principale.

La terza categoria che si incontra, è rappresentata dai beneficiari. Questi soggetti, sono titolari di diritti sui beni (e sui redditi) conferiti nel trust fund. Solo al termine della durata del trust oppure al verificarsi di precise situazioni descritte nell’atto istitutivo, potranno beneficiare dei loro diritti.

Infine, l’ultima parte che possiamo trovare lungo l’elenco degli attori del trust, è interpretata dal guardiano. Si tratta di una figura convenzionale, perché la norma non impone la sua nomina, anche se, nella pratica, sono rari i casi in cui il disponente se ne priva.

Il guardiano, come il nome ci suggerisce, è l’organo preposto al controllo dell’attività amministrativa e gestionale svolta dal trustee, a tutela degli interessi dei beneficiari. Diviene di fondamentale importanza quando il trust non individua beneficiari specifici oppure quando quest’ultimi non sono a diretto contatto con l’attività svolta dal trustee.

Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati al binomio trust-procedure concorsuali.

Nella prima parte, sono stati riportati alcuni esempi giurisprudenziali in cui, il giudice delegato di un procedimento fallimentare, ha conferito l’incarico al curatore di costituire un trust al fine di agevolare la procedura.

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Spesso, durante il fallimento, vengono a crearsi delle situazioni che ostacolano gli interessi della massa dei creditori. Nello specifico, i crediti di natura commerciale e tributaria che si accumulano durante la procedura, sono difficilmente riscuotibili e, talvolta, possono esserlo solo a conclusione della stessa. In questi casi, i crediti che rientrano nella disponibilità dell’imprenditore tornato in bonis, in occasione del passaggio in giudicato del decreto che chiude il fallimento, non possono essere distribuiti tra i creditori concorrenti, non potendo, il curatore, agire ultrattivamente. Pertanto, la facoltà di agire individualmente nei confronti del debitore, è concessa anche ai soggetti che non hanno partecipato al concorso, limitando, di fatto, le garanzie dei creditori concorrenti.

Il trust utilizzato in questo contesto, consente di segregare le risorse che, dopo la chiusura della procedura, rientrano nella disponibilità dell’imprenditore, per distribuirle a coloro che risultano legittimamente insoddisfatti dal riparto finale.

Il terzo capitolo si conclude con un cenno alle occasioni in cui è possibile ricorrere al trust come mezzo per scongiurare la dichiarazione di fallimento o, in modo più appropriato, per distogliere la volontà dei creditori a proporre istanza di fallimento.

Il quarto capitolo, è strettamente correlato al terzo. In questo caso, l’attenzione si sposta verso le procedure concorsuali alternative al fallimento, quindi: piani attestati, concordato preventivo (artt. 160 e seguenti l.f.), accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis l.f.). Il trust utilizzato in questo senso, sembra la soluzione più opportuna se confrontata con l’ipotesi di un innesto durante la procedura fallimentare, nel momento in cui si potrebbe contestare il surrogarsi del trust alle regole dettate dalla legge fallimentare.

Il trust, nell’ambito delle procedure alternative, fornisce ai creditori dell’imprenditore che versa in uno stato di crisi, una garanzia ad ampio spettro, non ritrovabile nei mezzi ordinari previsti dall’ordinamento. La sua funzione, è di garantire l’adempimento delle obbligazioni assunte, per mezzo del conferimento di una parte di patrimonio che verrà messa a disposizione per risanare la propria esposizione debitoria. Tuttavia, l’elemento più interessante è rappresentato dall’effetto segregativo che assicura l’integrità del patrimonio conferito nel fondo

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ed esclude ai terzi la possibilità, mediante azioni cautelari, di sottrarre i beni ai creditori partecipanti ai piani, al concordato, agli accordi di ristrutturazione. Nella parte conclusiva ci si concentra sui rimedi revocatori e sulle garanzie dei creditori, che sono coloro che subiscono massimamente il dissesto del proprio debitore.

Il quinto capitolo, conclude l’elaborato. E’ dedicato brevemente all’inquadramento tributario del trust. Il legislatore è intervenuto al riguardo con la legge 27 dicembre 2006, n. 296, meglio conosciuta come “Finanziaria 2007”, la quale ha inserito il trust tra i soggetti passivi delle imposte sui redditi, insieme agl’enti commerciali e non. Tuttavia, i forti dubbi manifestati dagli operatori del settore, hanno indotto l’amministrazione finanziaria ad emanare una serie di circolari (su tutte la circolare n. 48/E del 2007) volte a chiarire precisi aspetti concernenti il trattamento fiscale, che si scontrano con alcune pronunce giurisprudenziali (c.t.p. Firenze 23 ottobre 2008, depositata il 12 febbraio 2009, n. 30, Caserta 11 giugno 2009, Bologna 30 ottobre 2009, Salerno 8 ottobre 2010).

In mancanza di una norma che disciplini in modo particolareggiato gli aspetti civilistici e tributari del trust, la materia, nonostante l’acquisito riconoscimento, continuerà ad essere terreno fertile per dibattiti e liti.

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CAPITOLO I: IL TRUST: PROFILI CIVILISTICI

1.1. Origini del trust: The Statute of Uses - 1.2. La Convenzione de L’Aja - 1.2.1. Il modello descritto dalla Convenzione - 1.3. Il riconoscimento - 1.4. Le tipologie presenti negli ordinamenti di civil e common law - 1.5. Il dibattito giurisprudenziale - 1.5.1 Il ruolo della giurisprudenza italiana dopo la Convenzione de L’Aja - 1.5.2. Giurisprudenza a confronto: Tribunale di Belluno, decreto 25 settembre 2002, Tribunale di Bologna, sentenza 1 ottobre 2003 - 1.5.3 La trascrizione e il trust autodichiarato - 1.6 Il rapporto fra il trust e gl'altri istituti similari

Prima di approfondire il campo applicativo del trust, è opportuno ripercorrere alcune delle tappe che hanno portato alla sua ascesa. I motivi per cui si è prima sviluppato e poi affermato nei contesti anglosassoni, sono analoghi a quelli che gli hanno permesso di farsi conoscere anche nei Paesi di civil law. Ancora oggi, questi motivi continuano a sollecitare il dibattito tra coloro che sono a favore e coloro che ancora ostacolano il riconoscimento dello strumento.

1.1 Origini del trust: The Statute of Uses

Il trust nasce in Inghilterra durante il periodo medioevale, in un contesto in cui faceva da padrone l’ordinamento feudale. Successivamente, si è spinto al di la dei confini dell’isola per estendersi nelle colonie in cui fu esportato il sistema giuridico inglese.

Prima dell’anno 1000 d.c., coesistevano norme di origine germanica e norme di diritto romano e canonico (introdotte con la cristianizzazione nel 664 d.c.) che disciplinavano la materia matrimoniale e la materia successoria.

L’unità politica, avvenuta nel 1066 d.c. con incoronazione di Guglielmo I (Il Conquistatore), portò all’unificazione dei diritti allora vigenti, in uno unico, chiamato “diritto comune”.

La Corte di Guglielmo I, c.d. curia regis, era diventata il centro della vita amministrativa e giuridica. Al suo interno, i giudici erano chiamati a risolvere le liti che si presentavano al loro cospetto e, con le loro sentenze, andavano creando

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un diritto consuetudinario, di derivazione giudiziaria, conosciuto ancor oggi con il nome di common law.

All’epoca, vigeva ancora un sistema di diritti terrieri sottoposto a regole molto rigide, che impedivano di trasmettere per testamento la ricchezza accumulata nella vita lavorativa, con l’eccezione, riconosciuta dalla Corona, di trasmettere i propri averi, in via successoria al solo figlio primogenito. Ad esempio, non era possibile destinare, a qualsiasi titolo, le proprie terre agli ordini religiosi per via del vincolo che li sottoponeva al voto di povertà. In tutti gli altri casi, l’ordinamento imponeva una serie di pesanti tributi a favore della corona, unica vera proprietaria terriera, ogni qualvolta si doveva disporre di beni mortis causa.7

Per contrastare gli effetti di questo regime molto rigido, i giuristi inglesi inizialmente crearono la prassi dello “use” (l’antenato del trust), uno strumento che prevedeva la possibilità per il feoffer (in seguito chiamato settlor, esattamente come si chiama il disponente nell’ambito del trust) di trasferire, inter-vivos, la proprietà di un determinato bene ad altri soggetti (c.d. feoffees to use). Questi, a loro volta, trasferivano il bene a uno o più beneficiari (c.d. cestuis que use) prescelti dal trasferente, al verificarsi di un determinato evento.

Il feoffement, nome di derivazione latina (“infeudo”) che indica il negozio di trasferimento, prevedeva un diritto di comproprietà e il successivo accrescimento della titolarità del bene in favore dei cestuis que use. La presenza di più feoffees permetteva di posticipare, quasi all’infinito, il rientro in possesso della proprietà terriera alla Corona: bastava ricordare all’ultimo feoffees ancora in vita, di nominare nuovi beneficiari.

La prassi adottata aveva individuato un curioso espediente, che permetteva di arginare notevolmente l’impatto delle regole imposte dalla Corona, la quale, in breve tempo, vedeva interrotti i flussi di denaro in entrata che dovevano derivare dai tributi imposti ai successori dei de cuius titolari dei beni.

Inoltre, si stava affermando una consuetudine secondo la quale, gli obblighi in capo ai feoffees, erano vincolanti anche per gli eredi. Di conseguenza, i vincoli

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REALI A. “Il trust nel diritto inglese e nella Common Law”, in Moja “Il trust nel diritto civile e tributario”, ed. Maggioli, Rimini, 2009, pp. 17 e seguenti.

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posti dallo “use”, finivano per essere considerati opponibili ai terzi acquirenti del bene oggetto di trasferimento, a meno che non si trattasse di terzi in buona fede ignari dell’esistenza del vincolo. Ciò dimostra lo stretto legame che intercorre tra lo use ed il trust.

Presto, però, sorse il problema di garantire i diritti del disponente nei confronti degli eventuali feoffees inadempienti: è andato generandosi uno scenario altamente penalizzante per il primo, il quale poteva ottenere solamente il risarcimento dei danni patiti, senza avere possibilità alcuna di rientrare in possesso del bene trasferito.

La situazione, così come descritta dai giuristi dello use, si dimostrava poco equa: non trovava la giusta tutela presso i tribunali di common law dopo la decisione di vietare la creazione di nuovi writs (ordinanze)8, se non per la risoluzione di casi analoghi a quelli già previsti. Presto, questa paralisi del sistema giuridico, si palesò nella mancanza di tutela per tutte quelle situazioni che non erano ancora contemplate dal sistema dei writs.9

Fu da questo contesto che, nel corso del 1300, il mondo anglosassone vide affermarsi la giurisdizione di Equity, un sistema di rimendi processuali, allora affidati al Cancelliere del Re, al quale i feoffers ed i cestuis que use cominciarono a rivolgersi per tutelare i propri diritti e che ebbe un impatto molto significato nello sviluppo strutturale del trust.

L’Equity, era diretto ad attenuare la rigidità applicativa delle regole di common law.

Su incarico del Re britannico, l’esercizio di questa attività correttiva fu affidata proprio al Lord Chancellor, persona dal pedigree culturale per lo più ecclesiastico, mentre alla Court of Chancery,10 fu attribuito il potere di convocare e interrogare le parti coinvolte in una lite, risolvendola con un provvedimento diretto contro il convenuto. Nel momento in cui si provava la sua colpevolezza,

8

I writs sono da considerarsi le sentenze dell’epoca. Si trattava di ordini scritti, muniti di sigillo, che rendevano la giustizia in nome del Re. I writs erano caratterizzati da un rigido sistema procedurale così che, in mancanza di uno stretto legame fra la situazione per la quale si chiedeva tutela e la formula astrattamente prevista, non si poteva proporre l’azione: “no writ, no remedy”. Anche il Re, nonostante l’opposizione del Parlamento, aveva il potere di emanare dei writs al fine di accentrare la funzione giurisdizionale e per ostacolare gli eventuali ricorsi proposti dai sudditi.

9

ZANCHI D. “Diritto e pratica dei trust: profili civilistici”, ed. Giappichelli, Torino, 2008, pp. 10-11. 10

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causata da un comportamento contrario alla coscienza reale, egli era obbligato a scontare la pena in carcere e pagare per porre rimedio alle ingiustizie cagionate.

La risoluzione dei casi, si fondava più sulla morale del Lord Chancellor (questo è il motivo per cui deteneva la “coscienza” del Re, c.d. “good conscience”) che su meri principi di diritto. Per questo motivo, prese il nome di giurisdizione di Equità.

Il Cancelliere, di fronte a liti caratterizzate dall’inadempimento degli affidatari dei beni, riconosceva in capo ai beneficiari, il diritto di ottenere la proprietà dei beni trasferiti dal disponente ai feoffees, stabilendo che il godimento dovesse essere gestito secondo quanto stabilito dal disponente.

La tutela degli interessi nei confronti dei beneficiari, fu possibile anche grazie alla peculiare struttura riconosciuta al diritto di proprietà dal common law, caratterizzato da elementi di notevole differenza rispetto a quanto previsto dagli ordinamenti di civil law.

Nel diritto inglese, non è necessario che un unico soggetto goda di tutti i diritti in relazione ad un determinato bene materiale. Per questo, si assiste ad una scissione del diritto di proprietà, dove, nel caso del trust, il trustee non è l’unico proprietario dei beni conferiti, ma è affiancato, sebbene in modo differente, dai beneficiari.

Il trustee, che svolge esattamente la stessa attività di amministrazione e garanzia dei beni conosciuta dai Paesi continentali, è titolare del c.d. legal estate (proprietà formale del trust fund), mentre i beneficiari detengono la titolarità dell’equitable estate (proprietà sostanziali dei beni): si tratta di una sorta di proprietà astratta.

Al contrario, uno scenario simile non è nemmeno ipotizzabile negli ordinamenti di civil law, perché si contrappone al principio di esclusività del diritto. Anche quando ci troviamo di fronte a più soggetti titolari di quote insistenti sullo stesso bene (es. due parenti entrambi titolari di porzioni uguali di un immobile), ciascuno di essi è comunque contitolare dell’unico diritto di proprietà possibile rispetto a quel bene.

Erano soprattutto le controversie aventi per oggetto diritti di proprietà, che venivano affidate alla giurisdizione della Cancelleria Regia, poiché le Corti di

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common law, non ritenevano la difesa degli interessi dei beneficiari di propria competenza.

I contrasti di potere non sembravano comunque placarsi e nel 1535 Enrico VIII emanò lo Statute of Use, una legge che traeva origine dalla pratica dello use, ma riconosceva direttamente in capo ai cestuis que use, il titolo di proprietari at common law dei beni trasferiti ai feoffees: in questo modo non c’era più la necessità, per i primi, di richiedere al Cancelliere l’emanazione di un provvedimento volto a tutelarne i diritti di proprietà.

Il Re, di certo non avrebbe mai emanato una legge per lui poco vantaggiosa: lo scopo dello Statute of Use era, infatti, quello di ripristinare tutta una serie di antichi privilegi, abolendo, in particolar modo, gli usi.

La legge, che imponeva di cancellare la figura dei feoffees, impediva ai disponenti di avvalersi dell’ausilio di questi ultimi, per eludere i tributi (c.d. incidents) dovuti alla corona.

Appena entrato in vigore, lo Statute of Use incontrò le resistenze di molti. Fin da subito, ci si accorse dei vuoti legislativi lasciati dalla norma, probabilmente per la velocità con cui il Re decise di attuarla. Questo, permise ai consulenti giuridici dei feudatari, di avvalersi delle lacune del testo normativo, per creare strumenti giuridici in grado di aggirare i tributi. È proprio da una di queste lacune, che ebbe origine l’istituto del trust.

Precisamente, di fronte ad atti di disposizione che prevedevano uno “use upon use” (uso sull’uso), la giurisprudenza di Equity si trovò presto costretta a dichiarare che, se il primo grado dello use era da considerarsi nullo, il secondo grado doveva essere ritenuto legittimo, in mancanza di un’apposita disciplina fornita dallo Statuto, confermando così le originarie intenzioni del disponente.11

Nella prassi, l’espressione use upon use prese il nome di trust. Fu poi riconosciuta in capo ai cestuis que trust l’esistenza di un equitable ownership (una specie di proprietà in Equity) in contrasto con la legal ownership (proprietà formale) dei feoffees individuati dal settlor.12

11

Pe un maggiore approfondimento sul tema, REALI A. “Il trust nel diritto inglese e nella Common Law”, in MOJA A. “Il trust nel diritto civile e tributario”, ed. Maggioli, Rimini, 2009.

12

STESURI A.,PORTELLI S.“Il trust. Aspetti civilistici, fiscali e concorsuali”, ed. Sistemi, Napoli, 2009, pp. 9 e seguenti.

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I due ordinamenti si armonizzarono solo nel 1873 con lo “Jadicature Act”, il quale stabilì che common law ed Equity dovevano essere amministrate dalle medesime Corti, pur sempre con la prevalenza dell’Equity in caso di conflitto. Si tracciò in questo modo, la strada verso la diffusione del trust così come oggi è conosciuto.13

1.2 La convenzione de L’Aja

Nel corso del secolo precedente, l’istituto del trust ha cominciato a suscitare l’interesse dei giuristi di civil law, incuriositi dalle peculiarità che offriva. L’attenzione accresceva proporzionalmente, all’aumentare degli scambi internazionali, come diretta conseguenza delle necessità operative dell’istituto worldwide (rete mondiale).

Il trust, è entrato a far parte degli ordinamenti di civil law dopo la ratifica della Convenzione de L’Aja, siglata il 1° luglio 1985.14

La Convenzione, non assume il carattere di diritto sostanziale uniforme, perché non introduce una nuova figura giuridica nel diritto interno. Gli obiettivi che si pone sono:

- superare i conflitti di legge che possono manifestarsi in seguito all’approvazione di norme di caratura internazionale;

- rendere possibile il riconoscimento dell’istituto, anche per i Paesi (come l’Italia) privi di una norma ad hoc;15

- fare chiarezza, indicando quale normativa dovrà essere applicata ai trust regolati da una legge straniera, in modo da evitare il sorgere di eventuali dubbi applicativi in capo ai giudici.

Fino ad ora, la Convenzione vincola i seguenti paesi: Australia, Italia, Canada, Olanda, Lussemburgo, Malta, Svizzera, Principato di Monaco e Regno

13

Anche Francis Bacon (1561-1626), nominato Lord Chancellor nel 1618, affermò la prevalenza dell’Equity sulla Common law in caso di contrasto fra i due sistemi.

14

L’adesione alla Convenzione di Roma, legge 18 dicembre 1984 n. 975 “Convenzione sulla legge

applicabile alle obbligazioni contrattuali”, rese possibile la ratifica della Convenzione de L’Aja.

15

(18)

14

Unito. Quest’ultimo, ha operato la ratifica anche per altri suoi territori e colonie, come Jersey (che ha una legge specifica), l’Isola di Guernesey, le Isole Turks e Caicos.

Gli Stati firmatari, si impegnano al riconoscimento automatico degli effetti dei trusts, i quali sono regolati dalle leggi di quei Paesi che li disciplinano espressamente nel proprio ordinamento. Per questo motivo, la Convenzione si dice abbia carattere erga omnes. Infatti, in caso di conflitto con l’ordinamento interno di un Paese, non deve mai subordinarsi all’applicazione delle leggi del Paese stesso.16

Inoltre, la Convenzione cerca di armonizzare le regole del diritto internazionale privato in materia di trust, al fine di assicurare il riconoscimento dell’istituto negli ordinamenti privi di una disciplina interna e si concentra sull’individuazione degli elementi essenziali che caratterizzano lo strumento.

L’Italia ha ratificato la Convenzione de L’Aja con la legge 16 ottobre 1989, n. 364, dal titolo “Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento”, entrata regolarmente in vigore il 1° gennaio 1992.17

In una prima approssimazione si potrebbe affermare che la scelta della legge italiana, come legge regolatrice, presenti dei problemi di legittimità circa l’applicazione della Convenzione. Questo perché, i principi dettati dal nostro legislatore, contrastano con quelli descritti dagli artt. 2, 11 e seguenti della Convenzione, tra i quali emerge la segregazione dei patrimoni dei soggetti coinvolti. La legge italiana si dimostrerebbe adatta, solo se si riuscisse ad individuare una norma che disciplini il prodursi di effetti tipici del trust. Anche se in Italia ancora non esiste una legge simile, ci giunge in soccorso la Repubblica di San Marino, che di recente ha emanato una legge, interamente in lingua italiana, sul trust.

16

LUPOI M. “Il trust: le finalità, le dinamiche, le responsabilità e gli aspetti fiscali”, in “Guida al diritto de

Il Sole 24 ore”, 1997.

17

Il testo originale e la traduzione in lingua italiana de “La Convenzione de L’Aja” sono ritrovabili nel sito internet http://www.il-trust-in-italia.it, http://www.finanzaediritto.it e http://trustwhynot.com/.

(19)

15

Come già detto, la legge di ratifica non regola effetti e funzioni del trust, si limita solo a sancire “piena ed intera esecuzione” della Convenzione. Per questo è necessario ricorrere ad una legge straniera.18

Infine, la Convenzione non definisce precisamente cosa sia un trust, bensì ne descrive una particolare tipologia, quella di origine inglese e, implicitamente, esclude tutti gli altri istituti aventi lo stesso nomen iuris, privi delle caratteristiche minime indicate negli artt. 2 e 3.19

1.2.1 Il modello descritto dalla Convenzione

Il primo capitolo della Convenzione, intitolato “Campo di applicazione”, descrive le caratteristiche essenziali che un trust deve possedere affinché possa essere riconosciuta la sua legittimità e quindi rientrare nel suo campo di applicazione.

L’art. 2, primo comma, presenta un vero e proprio modello. La norma definisce il trust come: “un rapporto giuridico istituito da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”. Si evince che non si tratta di un contratto, ma di un atto unilaterale che conferisce delle obbligazioni a soggetti diversi, a seconda del ruolo che questi ricoprono all’interno del trust.

Sono quattro gli elementi essenziali descritti dalla norma:

- la presenza di due o più soggetti: il costituente (da una parte), il trustee e il beneficiario (dall’altra);

- l’oggetto: quindi i beni posti sotto controllo;

- l’atto: rapporto giuridico inter vivos o mortis causa;

- la funzione: realizzazione di un interesse o di un fine specifico per il beneficiario.

18

STESURI A.,PORTELLI S. “Il trust. Aspetti civilistici, fiscali e concorsuali”, ed. Sistemi Editoriali, Napoli, 2009, pp. 23-24.

19

(20)

16

Il secondo comma elenca altre tre caratteristiche fondamentali:

- i beni del trust devono costituire una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee;

- i beni del trust devono essere intestati a nome del trustee o di un'altra persona per conto del trustee;

- il trustee ha il potere e il dovere, di cui deve rendere conto (ai beneficiari), di amministrare gestire o disporre beni secondo i termini del trust e secondo le norme particolari imposte dalla legge.

Secondo la common law, il trust può anche nascere per mera dichiarazione unilaterale, non essendo necessaria la contestuale accettazione dell’incarico da parte del trustee. Infatti, un soggetto può nominare sé stesso come amministratore di determinati beni o amministratore di diritti, che saranno tenuti in proprio favore e a favore di altri beneficiari.20

Nell’ipotesi in cui il trustee non accettasse l’incarico assegnatogli, il disponente dovrà rivolgersi all’autorità giudiziaria che, ordinariamente, vi provvederà a sostituirlo con un altro soggetto.

Qualsivoglia sia la tipologia di trust istituito, essa dovrà sempre essere rispettosa di quanto previsto dall’art. 2.

L’art. 3 stabilisce che “la Convenzione si applica solo ai trusts costituiti e comprovati per iscritto”. La norma è parzialmente derogata dall’art. 20, nel punto in cui si specifica che “le disposizioni della Convenzione saranno estese ai trusts costituiti sulla base di una decisione giudiziaria”. Non più, dunque, ai soli trusts volontariamente costituiti.

Gli art. 4 e 5, elencano alcune esclusioni dall’ambito di applicazione della Convenzione. Trattasi di: “questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici, in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trustee”. In questo modo, si realizza la volontà di mantenere separati gli aspetti relativi alla legge regolatrice del trust, dalle questioni preliminari attinenti la sua costituzione.

Al fine di evitare conflitti tra norme, l’art. 5 chiude spiegando che la Convenzione non si applica in presenza di una la legge regolatrice che non

20

(21)

17

prevede espressamente l’istituto del trust, o la categoria di trust in questione (es. la legge italiana).

Il secondo capitolo della Convenzione è dedicato proprio al ruolo della legge regolatrice, il quale sancisce “piena e assoluta libertà del disponente di scegliere la legge che ritiene più appropriata per il proprio modello di trust”. La scelta adottata dal legislatore internazionale, non trova l’opposizione di nessuna corrente di pensiero, poiché l’istituzione del trust avviene mediante atto unilaterale e, di conseguenza, il costituente non ha la necessità di concordare la propria preferenza con altri soggetti.

Il soggetto che decide di costituire un trust, ha il compito di indicare nell’atto istitutivo, la legge straniera che da quel momento lo regolerà.21

L’art. 6, fa notare un elemento molto importante: nell’ipotesi in cui il disponente non manifesti in modo chiaro la scelta della legge applicabile, è necessario verificare le seguenti opzioni riguardo la legge:

- desunzione dalle disposizioni contenute nell’atto istitutivo; - provare che l’atto scritto si riferisca a quella specifica legge; - interpretazione in base alle circostanze del caso.

Qualora, invece, a) il disponente esprima la sua preferenza, ma la legge scelta non preveda l’istituzione del trust o la categoria del trust in questione, b) il disponente non scelga alcuna legge e non sia possibile desumerla nemmeno dall’atto istitutivo, l’art. 7 stabilisce che: “il trust sarà regolato dalla legge con la quale ha collegamenti più stretti”.

L’art. 7, per fare in modo che si possa comprendere al meglio questo collegamento, prende in considerazione i seguenti elementi, analogamente alle previsioni indicate dal Trattato Ocse contro le doppie imposizioni, in caso di difficoltà di individuazione della legge applicabile:

1. luogo designato dal disponente per l’amministrazione del trust; 2. luogo dove sono localizzati i beni in trust;

21

Per esempio, la Repubblica di San Marino è il “Paese” che più di recente ha aderito alla Convenzione (decreto consigliare 20 settembre 2004, n. 119) ed ha emanato la legge 17 marzo 2005, n. 37, approvata dal Consiglio Grande e Generale della Repubblica di San Marino, è la prima legge a regolare l’istituto del trust in lingua italiana, la quale trae chiaramente origine dal diritto inglese. Un operatore italiano può decidere di servirsene quale legge “straniera” applicabile ad un trust interno, ovvero ad un trust estero costituito in conformità alle disposizioni ivi contenute.

(22)

18 3. residenza o domicilio del trustee;

4. scopo del trust e luogo dove dovrà essere realizzato.22

Nella maggior parte dei casi, gli elementi sono riconducibili ad un Paese specifico e, giocoforza, si farà riferimento alla legge sul trust ivi applicabile. Qualora, invece, il Paese individuato sulla base dei suddetti criteri, è privo di leggi interne in grado di disciplinare l’istituto, la Convenzione non potrà essere applicabile.23

L’elenco dei criteri di collegamento, non sembra essere così esaustivo e, a differenza dei criteri previsti dal già richiamato Trattato Ocse, non viene fornita un’indicazione tassativa circa l’ordine da seguire nell’individuazione dei criteri cui far riferimento.

Non solo, l’art. 13 limita l’efficacia del criterio generale di scelta della legge regolatrice straniera da parte del disponente, concedendo al potere decisionale dell’autorità giudiziaria, ampi margini di discrezionalità. La stessa norma, dispone inoltre che, “nonostante la legge scelta dal costituente regoli espressamente il trust e, anche qualora il luogo di amministrazione e la residenza del trustee siano situati nel Paese che disciplina il trust nel suo ordinamento, uno Stato aderente potrebbe comunque negare il riconoscimento”. Tale riconoscimento può essere negato, per esempio, quando altri elementi, nello specifico il luogo dove sono situati i beni e il luogo di realizzazione degli obiettivi fissati nell’atto, hanno più stretti legami con un Paese che ignora l’istituto.24

Inoltre, la norma non specifica nemmeno quando essere effettuato l’esame che accerta la presenza dei criteri di collegamento. Non si capisce se, ad esempio, è necessario fare riferimento al momento in cui è stato costituito il trust o, se occorre tenere conto delle variazioni intervenute successivamente, come: spostamento del luogo di amministrazione, della dislocazione di un immobile, del cambiamento della sede, ecc..

22

STESURI A.,PORTELLI S. “Il Trust: aspetti civilistici, fiscali e concorsuali”, ed. Sistemi Editoriali, Napoli, pag. 25

23

Il primo comma spiega che il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente, mentre il comma due stabilisce che “qualora la legge in applicazione del precedente paragrafo non preveda l’istituzione del trust o

la categoria di trust in questione, tale scelta non avrà valore e verrà applicata la legge di cui all’art. 7”, il

quale a sua volta prevede che in tale ipotesi il trust sia regolato “dalla legge con la quale ha i più stretti

legami”.

24 L’art. 13 è stato introdotto per evitare il riconoscimento dei trusts interni da parte di quei Paesi che non disciplinano espressamente l’istituto. Si tratta di una norma di chiusura.

(23)

19

A tal proposito, la prassi suggerisce di considerare la situazione esistente al momento della costituzione del trust. Tuttavia si tratta di una soluzione che appare altamente riduttiva e poco solida, poiché finalizzata alla sola semplificazione del problema.

In ultima ratio, sarà comunque il Paese individuato a dover decidere le sorti del trust.

Individuata e accettata la legge che regolerà l’istituto, l’art. 10 concede al disponente la facoltà di modificarla. Per fare ciò, è, però, necessario che il disponente abbia preventivamente inserito nell’atto istitutivo, un’apposita clausola che preveda, in modo non equivoco, tale facoltà: “in caso contrario […], perde la possibilità di incidere in proseguo sulle sue vicende”.25

L’atto può prevedere che il potere di modifica di cui sopra, sia concesso anche ad altri soggetti come, ad esempio, il guardiano o i beneficiari. Le ragioni che inducono un soggetto a sostituire la legge con un’altra, generalmente sono ricondotte ad un cambio di residenza operato dai beneficiari e/o a seguito di modifiche eseguite dal legislatore che incidono sulla struttura della legge regolatrice (mutamento di elementi del trust).

La Convenzione si conclude con le cosiddette clausole di salvaguardia predisposte dagli articoli 15, 16, 18, 19, “inserite al fine di rendere possibile l’applicazione delle norme convenzionali, anche in quegli Stati contraenti in cui è sconosciuta la figura del trust”26

e che, consentono il prodursi di determinati effetti.

I casi in cui è possibile fare ricorso a tali clausole, sono:

- presenza di particolari elementi relativi all’amministrazione del trust, per i quali l’ordinamento interno impone di ricorrere ad una legge diversa da quella scelta;

- presenza di integrazioni o modifiche intervenute nel testo della legge regolatrice tali da renderle incompatibili con gli interessi predisposti originariamente dal disponente.

25

Cit. ZANCHI D. “Diritto e pratica dei trusts. Profili civilistici”, ed. Giappichelli, Torino, 2008, pag. 80. 26

(24)

20

1.3 Il riconoscimento del trust

Al principio di libertà di scelta della legge regolatrice, in parte si contrappone l’art. 13.

Quest’ultimo, è considerato una norma di chiusura. Infatti, recita che “Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”.

Il dettato, permette al giudice di rifiutare l’applicazione di norme derivanti dall’ordinamento di uno Stato differente. Tale rifiuto, si estende anche a tutti quei casi in cui lo stesso giudice ritenga che l’atto produca effetti contro l’ordinamento dello Stato, nonostante non sia in contrasto con quanto previsto dagli articoli 15, 16 e 18.

Secondo la dottrina, gli elementi da prendere in considerazione sono quelli proposti dall’art. 7 della Convenzione. Oltre a quelli testualmente elencati, ci sono:

- il luogo in cui si trovano i beni oggetto del trust; - lo scopo del trust;

- il luogo dove lo scopo deve essere realizzato.

Questa eventualità, è prevista direttamente dalla Convenzione, per salvaguardare la sovranità dello Stato chiamato al riconoscimento. Tuttavia, ciò, ha portato la dottrina a dividersi in due correnti contrapposte: da una parte, ci sono coloro che appoggiano il riconoscimento dei trusts c.d. interni (di cui si parlerà nei prossimi capitoli)27. Questi, ritengono l’art. 13 alla stregua di una norma di chiusura finalizzata a evitare che una norma interna sia sostituita, artificiosamente, da una legge straniera. Dall’atro lato, troviamo, invece, coloro che, nonostante i molteplici interventi delle autorità giudiziarie, ancora si oppongono all’approvazione dei trusts interni nei Paesi di civil law.

27

I trusts c.d. interni sono quelli istituiti in un Paese aderente alla Convenzione, ma regolati da una legge straniera. Es.: una società italiana conferisce in trust il proprio patrimonio immobiliare, l’atto viene istituito in Italia, ma il disponente decide che sia la legge di San Marino a regolarlo.

(25)

21

Soddisfatti i requisiti, la legge regolatrice e gli artt. 13, 15, 16 e 18, per il riconoscimento del trust, l’istituto comincerà a produrre i suoi effetti ai sensi dell’art. 11 e sarà dunque operativo sul territorio dello Stato.

L’art. 11 riconosce i seguenti effetti minimi:

- i beni del trust sono separati dal patrimonio personale del trustee, c.d. effetto segregativo;

- in caso di lite, il trustee può agire in giudizio in qualità di attore e convenuto;

- il trustee può comparire anche di fronte ad autorità pubbliche (come ad esempio difronte a notai).

Se la legge applicabile lo prevede espressamente, è conseguenza naturale che il giudice riconosca anche quest’altri effetti:

- i creditori personali del trustee non possono sequestrare i beni del trust; - i beni del trust sono separati dal patrimonio del trustee in caso di

insolvenza di quest’ultimo28

o di sua bancarotta29;

- i beni del trust non rientrano nel regime matrimoniale o nella successione dei beni del trustee;

- i beni del trust sono rivendicabili, qualora il trustee, in violazione degli obblighi derivanti dal trust, li abbia confusi con i propri o ne abbia indebitamente disposto.

Sull’ultimo punto, la Convenzione prevede che “gli obblighi di un terzo possessore dei beni del trust rimangono soggetti alla legge fissata dalle regole di conflitto del foro”. Di norma, in presenza di conflitti di competenza si segue il principio di territorialità, secondo il quale si applicano le norme vigenti nel luogo in cui è situato il bene.

Al fine di consentire l’opponibilità a terzi, l’art. 12 prevede che: “il trustee che desidera registrare i beni mobili e immobili, o i documenti attinenti, avrà facoltà di richiedere l’iscrizione nella sua qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che riveli l’esistenza del trust, a meno che ciò non sia vietato o sia

28

Lo stato d’insolvenza è definito dall’art. 5 della Legge Fallimentare, r.d. 267/42 novellata dal d.lgs. 5/2006 e dal d.lgs. 169/2007.

29

(26)

22

incompatibile a norma della legislazione dello Stato nel quale la registrazione deve avere luogo”.

Nel nostro Paese, la facoltà presentata dalla norma, si tramuta in un vero e proprio obbligo, nel rispetto del principio dell’affidamento dei terzi (apparentia iuris),30 per cui non è sufficiente che un documento sia redatto solo in forma scritta, ma è richiesta anche la redazione sotto forma di atto pubblico. Ne consegue che: il trust redatto in forma di scrittura privata, sarà riconoscibile e ritenuto valido ai sensi della Convenzione, ma non passabile di trascrizione in Italia.

1.4 Le tipologie di trust presenti negli ordinamenti di

civil e common law

Negli ordinamenti dei Paesi aderenti alla Convenzione de L’Aja, esistono diverse tipologie di trusts, ognuna caratterizzata da specifici elementi distintivi.

Tra questi, ricordiamo i fixed trusts, o trusts fissi, che rappresentano la categoria in cui il disponente, già nell’atto costitutivo, designa i beneficiari come aventi diritto alla percezione del reddito e/o del capitale.

Esistono, inoltre i trusts discrezionali, in cui i beneficiari sono raggruppati in categorie diverse c.d. class of objects. I trustees, il disponente, o entrambi, hanno il potere di individuare chi debba ricevere i redditi, o i capitali, e in quale misura. In realtà, si tratta di una mera aspettativa poiché, di norma, i beneficiari non hanno la disponibilità del reddito (o del capitale), prima dell’effettiva erogazione operata dal trustee.31

I trust discrezionali possono essere exhaustive o non-exhaustive. Il trust esaustivo, si ha quando i beneficiari ricevono dal trustee, sia il reddito prodotto dal patrimonio del trust, sia il patrimonio medesimo. In questo modo, il trustee ha la possibilità di scegliere che cosa riceveranno i beneficiari e in quale misura.

30L’art. 2657 c.c. tutela i terzi in buona fede. 31

FANTOZZI A. “La soggettività del trust”, in “Trust: opinioni a confronto. Atti dei congressi

dell’associazione “Trust in Italia””, a cura di DE GUGLIELMI BARLA E., ed. Wolters Kluwer Italia, Milano,

(27)

23

Si ha, invece, un trust non esaustivo, quando i trustees decidono, discrezionalmente, di non distribuire il reddito (o il patrimonio), ma di detenerlo o accumularlo in modo da incrementarne il valore.32

I trusts di scopo (o purpose trusts), terza categoria dell’istituto del trust, si differenziano da quelli appena descritti, per l’assenza di disposizioni in favore di beneficiari specifici. Questi, non potranno essere designati nemmeno in un secondo momento. Nascono per fini caritativi, nei quali si affida al trustee il compito di svolgere la propria attività in favore di una generalità di soggetti. I trust di scopo si estendono ai trusts successori, ai trusts finanziari, ai trusts commerciali e si dividono in due categorie: charitable trusts e non-charitable purpose trusts.

Nell’atto del trust charitable (trust c.d. caritatevole) non sono individuate persone specifiche. Si caratterizza per la volontà di conseguire un fine determinato, come può essere l’aiuto di persone diversamente abili, promuovere l’istruzione, favorire la ricerca, la religione, la protezione degli animali, la promozione di attività creative, ecc..

Lo scopo è diretto alla realizzazione di un beneficio per la collettività (public benefit), attraverso l’esercizio di attività filantropiche secondo il comune sentire.

La mancanza di un beneficiario specifico, contrasta però con la “human beneficiary principle”, una teoria elaborata dalla giurisprudenza anglosassone. Secondo questa teoria, solo una persona, sia essa fisica o giuridica, può essere beneficiaria di un trust, e può quindi agire in giudizio per chiedere l’adempimento delle obbligazioni in capo al trustee.33 Di conseguenza, quando si dovrà procedere al controllo dell’operato dei trustees, si potrebbero manifestare alcuni ostacoli. In mancanza di soggetti incaricati al controllo, risulta impossibile instaurare un procedimento giurisdizionale, con la conseguenza che l’atto sarà soggetto all’annullamento per violazione delle norme imperative di legge.

Per aggirare questo ostacolo, gli ordinamenti di common law hanno stabilito che il controllo sull’operato dei trustees deve essere attribuito ad un Attorney

32

MOJA A. “Il trust nel diritto civile e tributario”, ed. Maggioli, Rimini, 2007. 33

DE GUGLIELMI BARLA E., PANICO P.,PIGHI F. “La legge di Jersey sul trust”, ed. Wolters Kluwer Italia, Milano, 2007, pag. 155 e seguenti.

(28)

24

General, che il Regno Unito definisce come una sorta di procuratore generale. Gli Stati Uniti, invece, affidano il controllo alla competenza del Ministro della Giustizia.

Per quanto riguarda il mancato riferimento ai beneficiari, il problema è contemporaneamente superato mediante il ricorso al c.d. cy près doctrine. Il criterio, è applicabile, però, a questi tipi di trusts solo nell’ipotesi in cui lo scopo non possa essere praticabile o non possa essere raggiunto. Si permette, altresì, al trustee di poter utilizzare i beni conferiti in trust, per raggiungere uno scopo che si avvicini quanto più possibile alle originarie intenzioni del settlor.34

E’ questa la ragione per cui tutti gli ordinamenti giuridici vedono con favore la categoria rappresentata dai trust caritatevoli. Questi, per l’interesse collettivo e pubblico che perseguono, sono conosciuti anche con il nome di public trust, pertanto si differenziano dalle altre tipologie di trusts considerati che, invece, sono chiamati “private trusts”.

Ai charitable trusts si oppongono, come già detto, i non-charitable trusts. Anche questi non individuano i beneficiari in modo specifico e si caratterizzano per il perseguimento delle più svariate finalità. Negli ordinamenti di civil law, si tratta di una tipologia non prevista, mentre l’ordinamento inglese li sanziona con la nullità per il carattere distorsivo che implicitamente esprimono.

Va notato che, alcune giurisdizioni off-shore come Lichtenstein, Cayman Island, Seishell, Cook Island, Bermuda e, in particolar modo, l’art. 12 della Trust Jersey Law 1984 as amended, hanno introdotto delle norme ad hoc dirette a riconoscerne la legittimità. Il trust è legittimo, sempreché rispetti i principi generali di ordine pubblico, a condizione che l’atto istitutivo nomini contestualmente un protector (il c.d. guardiano), che rimanga in carica per tutta la durata del trust. Il guardiano, avrà la funzione di analizzare le decisioni assunte dal trustee e dovrà esercitare tutti i poteri gestionali e dispositivi prescritti dalla legge.35

Va notato che spesso risulta difficile individuare il confine fra trust caritatevoli e trust non caritatevoli. Questa difficoltà, ha suscitato problemi legati

34

ZANCHI D. “Diritto e pratica dei trusts. Profili civilistici”, ed. Giappichelli, Torino, 2008. 35

(29)

25

all’incertezza del trattamento fiscale essendo più vantaggioso ricorrere alla costituzione di un trust caritatevole. Ciò spiega le ambiguità e i problemi che ne possono derivare, tenuto conto dell’interesse fraudolento di coloro che vogliono far figurare, come caritatevole, un trust che, invece, è istituito in favore di persone fisiche.

Infine, ci sono i c.d. trusts irrevocabili, nei quali non è prevista alcuna possibilità di giungere alla revoca dell’atto, oppure non è concesso sostituire il soggetto incaricato a ricoprire l’ufficio di trustee.

Passando ora alle modalità di costituzione di un trust, è necessario distinguere tra atto istitutivo e atto di dotazione del trust.

L’atto istitutivo è l’atto attraverso il quale il disponente esprime le sue volontà, prevedendone i principali effetti. Nel nostro Paese, si richiede che l’atto sia munito di data certa affinché sia validamente riconosciuto. Al contrario, secondo il diritto inglese, un trust può essere costituito semplicemente mediante un mera dichiarazione unilaterale orale.

Gli atti di dotazione, invece, consentono al disponente di conferire i beni in sede di costituzione del trust, oppure in un momento successivo.

Nella pratica si è soliti ricorrere anche ad altre tipologie, come:

- l’express trust, nel quale il disponente manifesta espressamente la volontà di istituire un trust. Si consiglia la redazione in forma scritta, che peraltro è obbligatoria in Italia, pena l’invalidità.

- Il constructive trust, che è imposto dalla legge in modo autonomo. Il meccanismo scatta quando un bene appartenente al trust è trasferito, senza autorizzazione, ad un terzo soggetto a conoscenza del vincolo posto sul bene. La legge lo impone come forma di tutela dei diritti dei beneficiari. Infatti, chiunque acquista un bene conferito in trust, diventa trustee dello stesso (constructive trustee), con tutti gli obblighi e gli adempimenti che ne scaturiscono.

Un constructive trust si palesa quando il trustee cede un bene appartenente al trust fund, per conseguire illegittimamente un proprio interesse.

(30)

26

- Il resulting trust, il quale sorge in due casi: a) ex lege, b) in seguito ad un accertamento da parte del Tribunale, il quale riscontra la presenza di diritti e doveri simili a quelli caratterizzanti un trust. C’è anche una terza possibilità, che si verifica quando il giudice riscontra degli elementi che rendono inefficace un trust espresso. Nei casi elencati, gli effetti dello strumento si riproducono in capo a soggetti diversi da quelli originariamente previsti dall’atto costitutivo.

- Il trust mortis caus, il quale prevede la costituzione di un trust istituito mediante disposizione testamentaria. Produce i suoi effetti dal momento in cui viene aperta la successione.

Nel corso degli ultimi anni, sono state istituite molte altre tipologie di trust. Tuttavia, non trattandosi di trusts volontariamente costituiti in adempimento delle prescrizioni convenzionali, tendono ad essere escluse dal nostro Paese.36

1.5 Il dibattito giurisprudenziale

37

Prima della ratifica della Convenzione de L’Aja, la giurisprudenza italiana aveva già affrontato il tema del trust, con riferimento ai trusts esteri che comportavano delle implicazioni giuridiche all’interno del nostro territorio.

Il primo intervento effettuato dagli operatori giuridici, risale alla fine del 1800, per opera della Suprema Corte di Roma. Si trattava di beni conferiti in un trust estero, ma localizzati nel territorio dello Stato.

Nella fattispecie, il trustee era incaricato a procedere con la vendita di determinati beni, per poi attribuirne il ricavato a specifici beneficiari inglesi. Il figlio del disponente, contrario alle volontà del padre, decise però di impugnare l’atto, argomentando che, in ottemperanza alla legislazione italiana, la vendita non poteva essere realizzata.

36

DE GUGLIELMI BARLA E. “Trust: opinioni a confronto: atti dei congressi dell’Associazione “Il Trust in

Italia””, ed. Wolters Kluwer Italia, Milano, 2006, pag. 653.

37

LUPOI M. “La giurisprudenza italiana sui trust: dal 1899 al 2006”, ed. Wolters Kluwer Italia, Milano, 2006.

(31)

27

La Corte di Cassazione di Roma riconobbe, invece, in capo al trustee, la facoltà di vendere i beni oggetto della lite. La Corte prese questa decisione, richiamando la prassi adottata delle corti di Equity, le quali operano nel migliore interesse dei beneficiari.

Anche il Tribunale di Oristano, con sentenza del 15 marzo 1956, fu chiamato ad un notevole sforzo interpretativo concernente l’ammissibilità di un trust estero, costituito su beni immobili ubicati nel territorio italiano.

Si trattava di un trust istituito mortis causa, che, a seguito di una riforma fondiaria promossa dalla regione Sardegna, vide i trustees espropriati del possesso delle unità immobiliari. I beneficiari del trust, nella fattispecie i figli del de cuius, impugnarono il decreto di esproprio nei confronti della madre, adducendo che questa, quale trustee, non potesse essere considerata proprietaria dei beni oggetto di esproprio.

Il tribunale fu chiamato a stabilire se, il soggetto passivo dell’espropriazione per pubblica utilità dei beni, dovesse essere il trustee o il beneficiario.38

In prima istanza, la Corte dovette affrontare la questione dello sdoppiamento del diritto di proprietà. Secondo il diritto inglese, la proprietà formale spetta al trustee, mentre la proprietà sostanziale spetta ai beneficiari. La prassi inglese, però, contrastava con il principio italiano del c.d. numerus clausus (numero chiuso) dei diritti reali. Questo implica l’impossibilità di eleggere un tipo di proprietà “limitata” e cioè divisibile tra più soggetti.

La Corte, invece, riconosceva contemporaneamente il trustee titolare del diritto di disposizione dei beni e i beneficiari titolari del diritto di godimento sui medesimi beni.39 Di conseguenza, il trust non poteva essere ammesso nel nostro ordinamento, in quanto contrario alle norme di diritto pubblico.

La corte affermò che “il trust, sebbene nullo nel nostro ordinamento per contrarietà alle norme sulla proprietà e alle norme di ordine pubblico, può essere interpretato al fine di dar seguito alla effettiva volontà del disponente”.

In questo modo, la giurisprudenza appellata, ritenne di dare un’interpretazione in grado di ottenere gli stessi effetti giuridici richiesti dal trust,

38

Cit. STESURI A., PORTELLI S. “Il trust: aspetti civilistici, fiscali e concorsuali”, ed. Sistemi Editoriali, Napoli, 2009, pag. 32.

39

(32)

28

attraverso l’utilizzo di strumenti propri della legislazione italiana. Il giudice decise di riconoscere ai beneficiari la titolarità effettiva dei beni e di equiparare il trustee ad un “amministratore sui generis investito di assai vasti poteri”. Di conseguenza, ritenne non legittimo l’atto di esproprio eseguito dalla Regione Sardegna.40

Più convincente, fu la decisione del Tribunale di Casale Monferrato del 13 aprile 1984, la quale affrontò un analogo caso di trust testamentario.

Il Tribunale sostenne che non esisteva una duplice di titolarità di diritti reali, di conseguenza stabilì che il trustee esecutivo (executory trustee) “doveva essere considerato a tutti gli effetti proprietario dei beni immobili situati in Italia” ancorché vincolato dalle ultime volontà del de cuius. In virtù del pactum fiduciae nascente con la costituzione del trust, fu giudicata non dovuta la richiesta di autorizzazione giudiziale per la vendita dei beni in trust da parte del trustee.

Nei casi appena riportati, si evince come la giurisprudenza italiana, anche se in modi tra loro differenti, abbia agito nell’interesse dei beneficiari, elaborando delle soluzioni ad hoc caso per caso, in linea con le prassi adottate dai tribunali di common law.41

Le sentenze proposte, furono le prime ad approcciarsi nel mondo del trust. Nonostante l’interesse suscitato, le Corti non affrontano la questione dell’effettiva riconoscibilità di un nuovo istituto all’interno dell’ordinamento. Si sono focalizzate, soprattutto sull’inquadramento della figura del trustee.

1.5.1 L’impatto della Convenzione de L’Aja sulla

giurisprudenza italiana

L’emanazione della legge di ratifica della Convenzione, ha intensificato, dal punto di vista civilistico, i dibattiti a livello dottrinale.

40

Testo della sentenza in “Foro Italiano”, 1956, I, 1019. 41

MONTEFAMEGLIO M. “La protezione dei patrimoni. Dagli strumenti tradizionali ai nuovi modelli di

segregazione patrimoniale”, ed. Maggioli, Rimini, 2010, pp. 124-125; DE GUGLIELMI BARLA E. “Trust:

opinioni a confronto: atti dei congressi dell’Associazione “Il Trust in Italia””, ed. Wolters Kluwer Italia,

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