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Essere nobili a Milano nel Quattrocento. Giovan Tommaso Piatti tra servizio pubblico, interessi fondiari, impegno culturale e civile

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Academic year: 2021

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Nadia Covini

Essere nobili a Milano nel Quattrocento. Giovan Tommaso Piatti tra servizio pubblico, interessi fondiari, impegno culturale e civile*

[A stampa in “Archivio storico lombardo”, s. XII, CXXVIII/8 (2002), pp. 63-155 © dell’autrice - Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”]

1. Un ambito relazionale primario: la famiglia 2. Le relazioni economiche: terra, affari, denaro 2.1 Le terre del Seveso

2.2 Il Gentilino, i suburbi di porta Ticinese: mulini, campi, sedimi 2.3 Tribunali e azioni di spossessamento

3. Le relazioni sociali: ambienti curiali, circoli culturali, associazioni, vicinie 3.1 Abitazioni e quartieri cittadini

3.2 Le relazioni nell’ambiente curiale: nobili, notai, letterati

3.3 Il Piatti deputato dell’Ospedale Maggiore e rappresentante nelle assemblee vicinali 3.4 La corte ludoviciana

3.5 Notai e consulenti legali 3.6 La cerchia dei dotti

3.7 ll testamento: ispirazione civile e motivi culturali 3.8 I legami con i canonici della Passione

4. Un’idea di nobiltà (urbana)

Sotto l’anno 1450 lo storico milanese Bernardino Corio narra dell’intenzione del nuovo duca Francesco Sforza di ottenere l’avallo dei cittadini alla ricostruzione del castello di Porta Giovia, distrutto nel 1447 alla proclamazione della repubblica Ambrosiana1. Abbandonando la puntuale

parafrasi della narrazione di Giovanni Simonetta2, egli inserisce un lungo passaggio originale in cui

spiega che il nuovo duca, conoscendo l’avversità dei Milanesi al suo progetto, volle chiedere ai suoi sostenitori di far intendere modestamente il suo desiderio a «plebbei et anche nobili» e di rassicurarli che la costruzione si faceva non per sfiducia nei cittadini, ma ad ornamento della città e in vista della sicurezza dello stato, e che i castellani sarebbero stati esclusivamente milanesi, «a ciò paresse che ogni sua salute fusse reposta ne la loro potestate»3. Comprendendo che la decisione

era irrevocabile, i notabili sforzeschi fecero convocare i sindacati delle porte cittadine «quali havessino ad intercedere al principe la nova redificatione»4. A questo punto della narrazione, lo

storico milanese disegna un medaglione memorabile di Giorgio Piatti, «celeberrimo iurisconsulto

*La sigla AOM indica l’Archivio dell’Ospedale Maggiore. In assenza di indicazione dell’archivio, le fonti citate provengono dall’Archivio di Stato di Milano, e si usano le seguenti abbreviazioni: Sforzesco (Fondo Sforzesco, Carteggi e varia); RD (Registri ducali), RM (Registri Missive), FN (Fondo Notarile), FR (Fondo di religione), Comuni (Fondo Diplomatico, Comuni), Famiglie (Fondo Diplomatico, Famiglie). Tra le tante persone che mi hanno dato un aiuto, un parere, un suggerimento durante la stesura di questo scritto, vorrei almeno ringraziare - purtroppo trascurandone molte altre - , Letizia Arcangeli, Claudio Donati, Giovanna Menicatti, Patrizia Mainoni, Elisa Occhipinti. Rispetto all’edizione a stampa in questa versione digitale è aggiunto l’indice dei nomi di persona.

1 B. CORIO, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Milano 1978, pp. 1335-1337. Sulla composizione di

quest’opera S. MESCHINI, Uno storico umanista alla corte sforzesca. Biografia di Bernardino Corio, Milano 1995, in

particolare p. 151 ss.

2 JOHANNIS SIMONETAE Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, in Rerum italicarum

scriptores, 2 ediz., 21/2, Bologna 1932. Il lavoro del Simonetta, opportunamente rivisto dal Puteolano, apparve a stampa già nel 1480 (ibid., p. LXXIV), nel 1489 uscì la versione italiana voluta dal Moro, a cura di Cristoforo Landino. Sulla derivazione Simonetta-Corio e sui passaggi originali del Corio fa il punto S. MESCHINI, Bernardino Corio storico milanese, in Le cronache medievali di Milano, a cura di P. Chiesa, Milano 2001, p. 117, e in particolare p. 156-157 sul passaggio relativo a Giorgio Piatti.

3 CORIO, Storia di Milano cit., p. 1335: «non volendo dimonstrare sua sponte (…) volerlo fare, a ciò non se

comprendesse sì tosto de subditi suoi puocho fidarse per la restauratione de le potentissime mure e gli volesse sottomettere a scevissimo iugo, impose a li amici e fautori suoi che modestamente presso de plebbei et anche nobili facessino intendere la voglia sua circha al redificare della forteza, non perché niente dubitasse de la loro fede, ma solo per ornamento de la cità e sicureza contra qualunque inimico che in ogni tempo la volesse molestare, e che li prefecti de quella non permetterebbino che fussino altro che Milanesi, a ciò paresse che ogni sua salute fusse reposta ne la loro potestate».

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quanto alchuno altro in quegli tempi et anche di presente memorato per excellentia como homo egregio, sincero e fidelissimo a la sua patria», un uomo che già si era distinto come autorevole esponente della Repubblica ambrosiana ed esponente di quei «nobili» a cui allude il Corio. Nel corso di una assemblea convocata nella sua parrocchia di San Giorgio al Palazzo, il Piatti, «non potendose contenere a demonstrare quanta importantia e periculo fusse la restauratione dil castello a la patria milanese», si era proclamato fieramente contrario alla ricostruzione1. Per

convincere i suoi concittadini il Piatti aggiungeva che sì, il duca Francesco era saggio e moderato, ma come sarebbero stati i suoi successori?

Non sapiamo chi seguirà dopo di lui. Direte: li figlioli. Di che natura? di che prudentia? di che sorte serano? Non lo sapiamo, né parimente loro serano immortali. Che termini? Che processi? che ventura ha da essere la nostra? non lo vediamo. Che amici? quali inimici ne hano a conservare o molestare? Non lo possemo intendere2.

Non di fortezze aveva bisogno il nuovo dominus, ma di un dominio fatto forte «con il core et amore de suoi subditi»; sudditi fedeli i quali si sarebbero impegnati da parte loro a combattere le fazioni («l’odio intestino e factioso»), per costruire un regime giusto e rappresentativo, repubblicano o principesco («libertade o principe iusto»). Al contrario, se il castello fosse stato ricostruito, come pareva inevitabile, c’era da temere un futuro minaccioso e oscuro: «vi anuncio, quasi non so se me dica, l’ultimo exterminio di la nostra patria, non dico al tempo de sì clementissimo duca, ma quegli serano doppo noi forse lo vederano sotto pessimo e reo suo fatale destino». Perciò Giorgio Piatti ammoniva i suoi cordialissimi concivi a opporsi al progetto, «a ciò doppo il facto non si habiamo a dolere havere fallito né biastemati dai nostri discendenti»3.

La profezia di Giorgio Piatti è un passaggio essenziale nella struttura narrativa e argomentativa della Historia del Corio, in quanto si riconnette alle ultime drammatiche pagine dell’opera stessa, e ai giudizi espressi dall’autore circa il destino della dinastia sforzesca travolta dalla conquista francese: come è noto, nel 1503 lo storico milanese terminava la sua narrazione da testimone partecipe e accorato dell’«inextinguibile foco (…) che non solo la Sforcesca famiglia ma anche quasi tutta la Italia (…) ha ruinato»4. Come Giorgio Piatti aveva profetizzato, il duca Ludovico

Maria Sforza, sopraffatto anche psicologicamente dagli eventi catastrofici che si stavano consumando, aveva deciso di affidare il possente castello di Porta Giovia a un castellano «vile, scelerato e cupido»5 che si era arreso prestissimo al nemico6. Per il Corio questi eventi finali non

erano altro che l’inevitabile esito del deteriorarsi dei rapporti tra gli Sforza e i nobili milanesi, e della promozione sconsiderata di nuovi venuti e di gente «di infimo stato». Nella mente dello storico questi parvenu erano sì, in parte, i forestieri importati e promossi dalla dinastia sforzesca,

1 Ibid. Su questo episodio cfr. anche A. SIMIONI, Un umanista milanese: Piattino Piatti, «Archivio storico lombardo»,

s. 4, 2 (1904), pp. 5-50, 227-301, a p. 8-9 (nel seguito citato come SIMIONI). Tra l’altro il Piatti fu ispiratore di un

racconto storico di M. CHIAPPONI, Giorgio Piatto, o la Repubblica ambrosiana, Milano 1877, recensito non troppo

benevolmente da Matteo Benvenuti («Archivio storico lombardo» 4 (1877), pp. 448-451).

2 Ibid., p. 1336. 3 Ibid., p. 1337.

4 Ibid., p. 1481. Su questo momento di crisi, G. CHITTOLINI, La crisi dello stato milanese alla fine del Quattrocento, in

ID., Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale, Milano, 1996, pp. 167-180 (già con il titolo Dagli Sforza alle dominazioni straniere, in Giovanni Antonio Amadeo. Scultura e architettura del suo tempo, a cura di J. Shell e L. Castelfranchi, Milano 1993, pp. 19-35).

5 «Chi serà il castellano? forse uno vile homo, scelerato e cupido», forse un «infimo servo» che, dimenticato ogni

beneficio, «per cupiditate de oro o suppelectile che tal volta in loro dominio se trovano, come pessimi e perfidi proditori ne sottoponeno ad ultima e misera disperatione, dil che per non puochi exempli posemo essere experti»: ibid., p. 1336.

6 Ibid., p. 1628. Il castellano Bernardino da Corte si era congedato «con uno basio» da Ludovico il Moro fuggitivo (p.

1625); arrivato a Como, il Moro rivelò al fratello Ascanio a chi aveva lasciato la rocca, e quello esclamò: «Voi dil milanese imperio sete al tutto privato». Cfr. anche MESCHINI, Bernardino Corio cit., pp. 172-173.

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ma anche i nobili guelfi infedeli, che il Moro aveva protetto ed esaltato, e che alla fine, pur conoscendone le trame, non aveva perseguito e punito1.

Ecco allora spiegata la scelta di affidare alla figura del Piatti - al di là della puntuale identificazione del personaggio o del valore solo esemplare dell’episodio - il ruolo di profeta, capace di guardare lontano e di anticipare lo sgomento e la disillusione del Corio spettatore della inesorabile caduta degli Sforza2. Come i Piatti, anche molti dei Corio - ben venti membri della famiglia a detta di

Bernardino - avevano accordato la loro fiducia alla dinastia cotignolese e l’avevano servita fedelmente in veste di officiali e cortigiani. Non a caso dunque il Piatti viene scelto come voce ammonitrice: da giureconsulto stimato e degno di considerazione, da esponente di spicco del ceto nobile originario, e infine avo materno della moglie di Bernardino, Agnese Fagnani3. L’appello

accorato ai discendenti, che avrebbero «biastemato» i loro avi, ricollegava direttamente l’allarme lungimirante del Piatti alla delusione angosciata del Corio.

Lo storico milanese ben sapeva che, dopo l’insediamento del nuovo duca, Giorgio Piatti aveva superato le sue riserve e come molti altri suoi pari si era allineato alla nuova dinastia, e, in modo forse sofferto, forse semplicemente pragmatico, aveva accettato l’offerta di Francesco Sforza di prestare i suoi servigi come consulente legale della Camera ducale. Poco dopo Giorgio Piatti aveva collocato a corte il figlio più giovane, Pietro Antonio, che entrò a far parte di un circolo di giovani nobili formato attorno al conte di Pavia e principe ereditario Galeazzo Maria Sforza. A testimonianza di una larga adesione alla nuova dinastia possiamo annoverare anche la cooptazione del fratello minore di Giorgio Piatti, Giovan Tommaso, nella cancelleria di Angelo da Rieti, autorevole giurista che da tempo serviva lo Sforza condottiero, e che ora era stato nominato

auditore ducale con il compito di ricevere e istruire le suppliche «di giustizia»4. Il giovane Piatti,

già avviato agli studi umanistici, si inseriva tra il personale di stato che operava nella curia

arenghi, residenza ducale fino alla ricostruzione del castello di Porta Giovia (1468), sede della

cancelleria, dei consigli e delle magistrature centrali. Tra i due fratelli, Giorgio e Giovan Tommaso, persistevano affetti e interessi comuni, fra cui appunto il servizio presso i signori di Milano5.

Gli atti privati e pubblici che documentano l’esistenza, gli affari, gli interessi culturali e la vita pubblica di Giovan Tommaso Piatti coprono un notevole periodo di tempo. Nato sotto l’ombra dei Visconti (presumibilmente attorno al 1430), passato per l’esperienza repubblicana, poi cooptato

1 Ibid., p. 1619 (nel 1499 Ludovico Sforza rifiuta «per troppa bontà» una lista di proscrizione dei guelfi propostagli da

Ascanio e dai suoi seguaci). Sul Corio, sulla sua tangenziale partecipazione a conciliaboli e iniziative dei nobili ghibellini e sulla figura di Ascanio Sforza come referente di queste speranze di rivalsa sforzesca cfr. MESCHINI, Uno

storico umanista cit., p. 363-64; sulla costruzione dell’opera e sulla parte relativa alle vicende di fine secolo, ID.,

Bernardino Corio cit., pp. 157-173.

2 Non si tratta infatti di un ricordo personale, poiché nel 1449 il Corio non era ancora nato. Sulla figura di Giorgio

Piatti: si era addottorato a Pavia nel 1426: SIMIONI, p. 8-9; Codice diplomatico dell’Università di Pavia, a cura di R.

Majocchi, II (1441-1450), Pavia 1915 (rist. anast. Bologna 1971) p. 330-338. Nel 1448 era entrato a far parte dello Studio milanese voluto dalla Repubblica Ambrosiana.

3 MESCHINI, Uno storico umanista cit., pp. 56-57; G. MENICATTI, La famiglia Piatti a Milano nei secoli XIV e XV,

Università degli Studi di Milano, Fac. di Lettere e Filosofia, a.a. 1984-1985, relatore Patrizia Mainoni (nel seguito, MENICATTI).

4 La trattazione delle suppliche nella cancelleria sforzesca: da Francesco Sforza a Ludovico il Moro, in Suppliche e

“gravamina”. Politica, amministrazione, giustizia in Europa (secoli XIV-XVIII), a cura di C. Nubola e A. Würgler, Quaderni dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, Bologna, Il Mulino 2002, pp. 107-146. Cfr. anche F. LEVEROTTI, «Diligentia, obedientia, fides, taciturnitas... cum modestia». La cancelleria segreta nel ducato sforzesco,

«Ricerche storiche», 24, 1994, pp. 314-315; ID., «Governare a modo e stillo de’ Signori». Osservazioni in margine

all’amministrazione della giustizia al tempo di Galeazzo Maria Sforza duca di Milano (1466-76), Firenze 1994, p. 123.

5 Note biografiche su Giovan Tommaso in SIMIONI, p. 10-11. Nel 1457 i due fratelli insieme stipularono una procura,

AOM, Origine e dotazione, eredità e legati. Testatori (nel seguito AOM, Testatori), 169, n. 36, 1° lug. 1457 e MENICATTI, p. 115, n. 66. Giorgio Piatti nel 1458 aveva beni a Cesano confinanti col fratello: ibid., n. 38 e MENICATTI, p.

116-121. Sono frequenti le citazioni di Giorgio nei registri dell’auditore: cfr. ad es. la lettera di Tommaso de Miccoli del 22 mar. 1459 a Giovan Tommaso, con riferimento a «Giorgio nostro» in Sforzesco 1587.

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dagli Sforza, moriva a Milano - dove era sempre vissuto - il 18 giugno 15021, sotto il dominio di

Luigi XII re di Francia. I primi atti che documentano la sua lunga e attiva esistenza risalgono al 1448, gli ultimi al 1500-1502: uno dei più importanti è il testamento del 14992 con il quale lasciava

in eredità ai «magnifici et venerandi et spectabili domini deputati regimini bonorum» dell’Ospedale Maggiore di Milano la maggior parte dei suoi beni, la sua grande casa di porta Orientale, parrocchia di San Pietro all’Orto, e la sua biblioteca personale, in vista della fondazione delle scuole che da lui presero il nome di Scuole Piattine3. Il testamento dettato dal Piatti assai

anziano e «aliquantulum egrotus corpore» stabiliva anche il luogo di sepoltura nella chiesa di nuova costruzione di Santa Maria della Passione, dal 1485 seconda sede milanese dei canonici lateranensi di Sant’Agostino. Con questo testamento il Piatti si colloca nel mondo dei nobili benefattori milanesi che, in relativa autonomia, gestivano l’Ospedale Grande voluto dagli Sforza negli anni Cinquanta del Quattrocento, uniti da alcuni valori comuni, civili e culturali, sentiti come identificativi della condizione nobiliare milanese4.

Dal nucleo originario della famiglia, dal quale il Piatti si affacciava alla vita pubblica già coinvolto in una trama di molteplici relazioni vicinali, professionali, di ceto, altre relazioni sociali e attività contribuirono a formare e a consolidare la sua identità di nobile. Una di queste dimensioni è la gestione della proprietà terriera: nello studio di Luisa Chiappa Mauri sui mulini ad acqua nel Milanese il Piatti compare nelle vesti di proprietario oculato e intraprendente, pronto a sfruttare le opportunità derivanti dal lucroso affare degli impianti molitori e la debolezza di gestione di alcuni enti ecclesiastici5. La gestione del patrimonio terriero del Piatti è inoltre testimoniata da numerosi

rogiti provenienti dal suo archivio personale, conservato presso l’archivio dell’Ospedale Maggiore, che è stato oggetto di una accurata tesi di laurea di Giovanna Menicatti6; e vari altri atti notarili e

giudiziari si possono aggiungere a partire dalle filze degli innumerevoli notai milanesi di cui il Piatti fu, per certi periodi o in modo solo occasionale, cliente. Vedremo anche che i notai, i causidici e i giuristi milanesi costituirono un importante ambito relazionale nella vita del Piatti. Un’ulteriore dimensione della biografia del nostro nobile milanese - un altro tassello di un puzzle ricco di coloriture - sono i suoi interessi culturali e intellettuali, la sua appartenenza a un circuito di dotti di varia provenienza accomunati dai legami con le cancellerie ducali e dall’amore per le belle lettere7. La sua carriera di cancelliere durò circa trent’anni, dal 1453 al 1482 circa, e si

concluse presso la cancelleria del senato ducale. Il Piatti era, a detta dei suoi amici, un raffinato

1 P. CANETTA, Elenco storico-biografico dei benefattori dell’Ospedale Maggiore di Milano (1456-1886), Milano 1887,

p. 147, scheda relativa al Piatti; SIMIONI, p. 10-11.

2 Cfr. infra, nota .

3 Cfr. la breve scheda biografica di C. SANTORO, Gli uffici del dominio sforzesco, Milano 1948, p. 86, e P. MORIGIA,

Historia dell’antichità di Milano, in Venetia, appresso i Guerra, 1592, p. 623 e p. 407: all’epoca del padre Morigia le scuole erano nella strada che aveva preso nome della Sozza innamorata, «e fino al dì d’oggi quivi si fanno cinque lettioni ogni giorno, una di Geometria, l’altra di Astrologia, la terza di Aritmetica, la quarta di Logica e l’ultima di Greco».

4 G. ALBINI, Città e ospedali nella Lombardia medievale, Bologna 1993, p. 197 e cap. 9, Gli «amministratori» dei

luoghi pii milanesi nel ‘400: materiali per future indagini, pp. 212 ss.; F. LEVEROTTI, Ricerche sulle origini

dell’Ospedale maggiore di Milano, «Archivio storico lombardo», CVII (1981), pp. 77-114; M. FERRARI, L’Ospedale

Maggiore di Milano e l’assistenza ai poveri nella seconda metà del Quattrocento, «Studi di storia medievale e di diplomatica», 11 (1990), pp. 257-283, e, di recente, M. GAZZINI, Patriziati urbani e spazi confraternali in età

rinascimentale: l’esempio di Milano, «Archivio storico italiano», a. 158 (2000), pp. 491-514.

5 L. CHIAPPA MAURI, I mulini ad acqua nel Milanese (secoli X-XV), Milano 1998 (rist.anast. della prima edizione,

1984), pp. 130-132, e MENICATTI, passim.

6 Cit. alla nota 13. Sull’archivio dell’Ospedale e sul fondo Origine e dotazione, Eredità e legati cfr. P. PECCHIAI,

L’Ospedale Maggiore di Milano nella storia e nell’arte con notizie documentate su le origini e su lo sviluppo della organizzazione spedaliera milanese dall’evo medio ai tempi nostri e con altri vari studi ed appunti di storia milanese e lombarda, Milano 1927; e più sinteticamente A. PIAZZA, L’Archivio, «La maggior cosa ch’habbi l’Ospitale» in La Cà

Granda, Catalogo della mostra, Milano 1981, pp. 57-60 e ID., L’Archivio dell’Ospedale Maggiore, «Archivio storico

lombardo», 1978, pp. 208-216.

7 Cfr. varie menzioni dell’iniziativa del Piatti a partire da F. ARGELATI, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, seu

Acta, et Elogia virorum (…) illustrium, Mediolani, in ædibus Palatinis, 1745, t. I, pp. XL e 208; to. II, col. 1106-7; SIMIONI, p. 9-11; E. MOTTA, Demetrio Calcondila editore, «Archivio storico lombardo», XX (1893), pp. 145-147; P.O.

KRISTELLER, Iter italicum, I, London-Leiden 1963, p. 116; II, London-Leiden 1967, p. 527; V, London 1990, p. 572;

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scrittore, autore di orazioni e poemi: ma di suo non è rimasto altro che il prologo del testamento del 1499. In mancanza di scritti, tanti aspetti della sua esistenza e del suo modo di pensare restano inevitabilmente sconosciuti: perciò, più che mirare a una ricostruzione biografica inevitabilmente costellata da «vuoti» riempibili solo con artifici narrativi1, vorremmo proporci - grazie a una serie

di fonti diverse che lo riguardano - di collocare con maggior precisione il Piatti negli ambienti sociali della Milano del tempo e mostrare come egli si inserì in circoli relazionali diversi e molteplici: la famiglia d’origine, il vicinato, la cancelleria ducale, l’ambiente dei giuristi e dei notai, i circoli umanistici, gli enti assistenziali e le assemblee vicinali, senza dimenticare la piccola società locale delle campagne del Seveso - notai, proprietari, contadini - dove egli possedeva la maggior parte dei suoi beni.

1. Un ambito relazionale primario: la famiglia

In una vicenda biografica lunga e variegata, in cui lo scorrere del tempo muta impercettibilmente contesti sociali e politici e identità individuali2, il posto di Giovan Tommaso Piatti nella società

milanese è in primo luogo stabilito dalla sua appartenenza famigliare.

I Piatti, come tante altre famiglie emerse a Milano in epoca comunale, si erano molto presto inseriti nella vita cittadina provenendo dalla località originaria di Cesano Maderno, un centro abitato a Nord della città lungo il corso del Seveso e presso la via per Como, ai confini tra le pievi di Desio e di Seveso. Ancora alla fine del XIII secolo alcuni rami dei Piatti avevano radici in quella regione, dove un tempo avevano ampliato le loro proprietà a danno del monastero milanese di Santa Maria di Aurona3. In città, alcuni membri della famiglia si fecero strada nella vita politica

cittadina ed entrarono a far parte del ceto eminente comunale, rivestendo cariche municipali4 e poi

1 Sulle difficoltà della biografia di «maîtriser la singularité irriducible de la vie d’un individu», G. LEVI, Les usages de la

biographie, «Annales E.S.C.», 44 (1989), pp. 1325-1336; V. SGAMBATI, Le lusinghe della biografia, «Studi storici», a. 36 (1995), pp. 397-413. Sono due scritti che aiutano a capire come nel dibattito storiografico recente si ragiona sulla legittimità e sui rischi della ricostruzione biografica, sugli «usi», sulle «lusinghe» e sulle insidie della biografia. La recente rivisitazione del genere si ricollega al ritorno della storia narrata e all’interesse per le motivazioni individuali, le scelte, gli aspetti volitivi e comportamentali. Il maggior rischio connesso alla biografia sembra essere la tentazione di fare del biografato un archetipo, di estendere indebitamente le osservazioni sul comportamento sociale di un individuo a un gruppo professionale, a un ceto, a un raggruppamento sociale. D’altro canto, una biografia non avrebbe significato se non per questa possibilità di aprire una prospettiva sul sociale a partire da una vicenda individuale. È poi facile correre rischi di altro genere quando la biografia si appiattisce su canoni banalmente descrittivi, miranti alla ricostruzione di un microcosmo quale esso sia. Di fronte a questi rischi, è confortante la conclusione che «gli individui sono senza dubbio un legittimo e necessario oggetto di studi storici»: SGAMBATI, ibid., p. 403 n, che cita da J. TOSH,

Introduzione alla ricerca storica, Scandicci, 1989, p. 156. E lo sono in vari ambiti sociali, dal «vinaio» a Pietro il Grande: M.L. SALVADORI in La teoria della storiografia oggi, a cura di P. Rossi, Milano 1983, p. 241.

2 Sull’individuo come processo e come partecipe di un sistema di relazioni che cambiano nel tempo, contro l’idea di

homo clausus, N. ELIAS, Che cos’è la sociologia? Torino 1990, p. 138-143 e A. ROVERSI, Introduzione a N. ELIAS, Il

processo di civilizzazione, Bologna 1988, pp. 25 ss. Ancora meglio la letteratura sa leggere i cambiamenti dell’identità personale e sociale degli individui in relazione al trascorrere del tempo e dei contesti sociali: quanti Charlus, quanti Saint-Loup compaiono nelle pagine della Recherche?

3 Ampie notizie sulle origini della famiglia in SIMIONI e inMENICATTI. Cfr. C. MANARESI, Gli atti del comune di Milano

fino all’anno MCCXVI, Milano 1919, n. 121, 31 dic. 1179 (Alberto Platus de Cixano con Martino e Ambrogio Piatti è uno dei rustici che si oppongono alla pretesa del monastero di Aurona di esercitare il districtus); Gli atti del comune di Milano nel XIII secolo, IV, a cura di M. F. Baroni, Alessandria 1997, doc. n. 369, 23 nov. 1282 (Oliverio e Gallo Piatti di Desio subiscono un sequestro) e n. 250, 22 feb. 1277 (in un atto relativo al monastero di Meda, tra le coerenze è citato un Platus de Platis); Gli atti dell’arcivescovo e della curia arcivescovile di Milano nel sec. XIII. Ottone Visconti (1262-1295), a cura di M.F. Baroni, Milano 2000, n. 184, 31 ago. 1283, p. 146, coerenza dei Piatti per una pezza di terra a Desio «ubi dicitur in barazia».

4 Nel 1186 Otto Piatti fu tra i rappresentanti della città che stipularono la pace con Cremona: MANARESI, Gli atti del

comune di Milano cit., n. 151; MENICATTI, pp. 13-14. Uno dei più famosi esponenti della famiglia fu Ottobello, nel 1246

membro del consiglio del comune di Milano (BARONI, Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, I, Milano 1976,

doc. 469, p. 686),console della società dei capitani e valvassori nel 1246 (ibid., doc. 470); vassallo del monastero di Sant’Ambrogio, membro della commissione ad vendendum pascua Comunis nel 1251 (cfr. P. GRILLO, Milano in età

comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto 2001, scheda a p. 559). Nel 1227 Anselmo Piatti fu scelto dal podestà di Milano tra i conciliatori della città per comporre la lite tra Asti e Genova. Un Lantelmo Piatti era console di giustizia nel 1279: Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, III, n. 95, pp. 100-102. Altri atti segnalano la presenza e la proprietà ad Arese nel 1288 di ser Rolando Piatti e dei suoi figli Corrado e Protasio, oltre a un altro

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nel secolo XIV assunsero incarichi pubblici nei ranghi del dominio visconteo. Immancabile inoltre fu l’ascrizione alla matricola degli Ordinari del Duomo che collocò i Piatti senza ambiguità «tra le nobili (famiglie) di questa città, le quali potevano senza dispensa ottenere canonicati nella detta chiesa»1. Nell’anno 1300 i Piatti davano il nome alla «contrata ubi dicitur ad Turnum sive ad

clausum de Platis», sita nei pressi dell’Ospedale dei Crociferi e del monastero delle Vergini sulla Vettabbia2, mentre più tardi risultano legati anche a un quartiere un po’ più centrale, tra le

parrocchie di San Giorgio al Palazzo e di San Pietro in Corte, probabilmente in corrispondenza con l’attuale via dei Piatti. Fuori dalle mura di Porta Ticinese, nei pressi dei grandi monasteri di Santa Croce e nelle pregiate terre dei Corpi santi, erano situate parecchie proprietà della famiglia, tutti terreni di alto valore fondiario, costellati di mulini e attraversati da una fitta rete di corsi d’acqua, con coerenze che facevano riferimento alla basilica di Sant’Eustorgio, al corso della Vettabbia, alle parrocchie di San Pietro in Corte e San Pietro in Campolodigiano, e al borgo di San Celso esterno alle mura cittadine, zone di elezione delle scelte fondiarie dello stesso Giovan Tommaso nel corso del XV secolo. Alla fine del Trecento, alcuni dei Piatti erano stati abati nel monastero di San Vittore al Corpo, partecipando allo spossessamento di fondi e terre del monastero localizzati in prevalenza nella zona di Albairate. Il ramo di Guidetto restò sostanzialmente estraneo a questa vicenda, pur mantenendo vari legami con i rami dei parenti e avendo proprietà situate nelle stesse zone, sia cittadine sia comitatine3.

Alla fine del XIV secolo l’avo di Giorgio e di Giovan Tommaso, Guidetto di Ivano, commerciava in cereali e fu uno dei Dodici di Provvisione - la magistratura che governava la città - prima in rappresentanza di Porta Romana, poi di Porta Ticinese4. Il figlio Antonio continuò ad operare nel

settore del commercio di cereali e nel 1412 fu nominato ufficiale straordinario sulle vettovaglie e sui fornai di pane bianco ed esattore delle multe per le frodi in questo settore; quattro anni più tardi era abate del paratico dei farinari milanesi5, con una caratteristica osmosi tra interessi privati

e competenze utili al publicum. In due orazioni dedicate all’amico Teodoro di Giorgio Piatti, Francesco Filelfo attribuì a Guidetto anche incarichi nobilitanti, come il cingolo della milizia ottenuto dal re d’Ungheria in occasione di un viaggio in Palestina e l’appartenenza alla corte di Giovanni Maria Visconti6. Entrambe le informazioni non si possono né confermare né smentire,

ma essendo coloriture perfettamente funzionali all’intento celebrativo del Filelfo non aggiungono fratello o figlio, Bellino o Vercellino, che pure conservavano lo status di cittadini milanesi di Porta Ticinese: ibid., p. 482-484, doc. 450 e 451. Negli anni Settanta è attestato un Giacomo di Otto: ibid., n. 104, 30 ago. 1279 e un Paxiliano di Ottobello, ibid., pp. 653, 656, forse quello stesso Passibano Piatti, uomo di «grande animo e somma prudenza» che nel 1239 aveva comandato gli uomini d’arme milanesi contro i Cremonesi e i tedeschi di Federico II: CORIO, Storia di

Milano, p. 375.

1 MORIGIA, Historia della antichità di Milano cit., p. 622; cfr. C. CASTIGLIONI, Gli ordinari della metropolitana

attraverso i secoli, in Memorie storiche della diocesi di Milano, Milano 1954, I, pp. 11-56, p. 15.

2 Alla presenza di un notaio nominato dal Comune, la priora del monastero sito extra Pusterlam de la Clusa si accorda

dopo lunga controversia con tale Bianco Mirono al quale Guidetto del quondam Ottobello Piatti aveva investito a livello certa terra nella zona di Milano così delimitata: BARONI, Gli atti del comune di Milano nel XIII secolo cit., IV,

atto n. 774, 1300 aprile 28, pp. 654-658. Tra le coerenze si cita anche un Ambrogio Piatti e si fa riferimento al ponte in costruzione sulla Vettabbia.

3 Cfr. MENICATTI, pp. 18-28 e documenti attinenti. 4 MENICATTI, p. 29.

5 MENICATTI, p. 31 e C. SANTORO, I registri delle lettere ducali del periodo sforzesco, Milano 1961, reg. 7, n. 213. Un atto

del notaio Arasmino Cairati del 28 dic. 1416 relativo ad Antonio è segnalato nell’Indice Lombardi del FN.

6 F. FILELFO, Oratio pro Theodoro Plato iureconsulto, in ID., Orationes et nonnulla alia opera, Brixiae per Iacobum

Britannicum, 1488; e, in occasione delle nozze del 1464, Oratio nuptialis habita in sponsalitiis Theodori Plati iureconsulti et Elisabetae Vicecomitis. Il Filelfo celebrava gli «eruditissimi viri» della famiglia tra i quali si annoveravano anche, a suo dire «equites auratos, et fortissimos belli duces, et urbium dominos, ac Pontifices». Riprendono il Filelfo P. MORIGIA, Della nobiltà di Milano divisa in sei libri, Milano, Pacifico Pontio, 1595, l. III, cap.

IX, Huomini letterati di casa Piatti, p. 141 ss. e G.P. CRESCENZI, Corona della nobiltà d’Italia ovvero Compendio

dell’istorie delle Famiglie illustri di Gio.Pietro de’ Crescenzi Romani, parte prima, in Bologna, per Nicolò Tebaldini 1639, pp. 44-45. Il Morigia ricorda Guidetto Piatti per la posizione elevata alla corte di Giovanni Maria; celebra poi Teodoro «fiscale, dottore di leggi, anzi il primo dei letterati» e consigliere di Ludovico Maria Sforza duca; attribuisce a Teodoro, anziché a Giovan Tommaso, la fondazione delle scuole Piattine; ricorda anche Pietro Antonio, poeta, e Anastasio giurista, e ancora Piattino, che non identifica con Pietro Antonio; e di seguito altri membri di casa Piatti, appartenenti ad altri rami, come il canonico Leonardo, fino al suo contemporaneo, il cardinale Flaminio Piatti.

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molto al profilo nobiliare dei Piatti convalidato da una presenza eminente in città e presso i duchi, dalle ricchezze e dagli interessi civili e culturali.

Giovan Tommaso, come vediamo da un suo precoce testamento, era molto legato al fratello maggiore Giorgio e ai suoi figli, cinque dei quali maschi e quasi suoi coetanei. Tra di essi, il già ricordato Pietro Antonio detto Piattino, singolare figura di cortigiano, poeta e soldato1; Anastasio, iuris utriusque doctor, teorico e trattatista2; Teodoro, giurista e ambasciatore ducale; Innocenzo,

che proseguì l’attività famigliare del commercio di cereali3, e Giovan Battista. Se altri rami dei

Piatti esplorarono la via delle carriere ecclesiastiche, il ramo di Guidetto si connota per il profilo elettivamente laico, fatta eccezione per i legami con alcune fondazioni milanesi: le due sedi dei canonici lateranensi, Santa Maria Bianca di Casoretto e Santa Maria della Passione, il convento di Sant’Eustorgio e alcuni monasteri femminili dove furono collocate le donne di casa Piatti. Queste ultime restano un po’ nell’ombra: Guidetto aveva sposato una certa Agnese da Monza4 e Antonio

ebbe in moglie una Ambrogina da Monza non meglio identificata. Giorgio Piatti sposò la figlia di Maffeo da Muzzano, segretario e ambasciatore di Filippo Maria Visconti5, mentre Giovan

Tommaso si maritò con una Bartolomea Landriani il cui nome rinvia a una potente famiglia milanese di area ghibellina. Una sorella di Giorgio e Giovan Tommaso ebbe per marito un Francesco Fagnani, un’altra si fece monaca. Delle due figlie di Giorgio, una, Apollonia, fu data in moglie a un nobile di origini pavesi, Guido Eustachi, fratello del potente castellano ducale di Porta Giovia.

Dopo la cooptazione di Giorgio Piatti nei ranghi delle magistrature ducali, i riconoscimenti ai due fratelli piovvero abbondanti dalla corte di Milano: nel 1451 Giorgio ottenne dal duca ampia esenzione fiscale per i beni che possedeva a Cesano Maderno e a Segrate6 (queste ultime

recentemente acquistate dagli eredi del suocero Maffeo da Muzzano7), e nel 1453 i privilegi furono

estesi a Giovan Tommaso in quanto fratello di Giorgio e cancelliere ducale. Nel 1459, per volere del duca, i Comaschi conferirono a entrambi i fratelli la cittadinanza8. Giorgio possedeva certe terre

nella giurisdizione di Como, e anche Giovan Tommaso acquistò terre a Canzo da un Ferrari suo vicino9.

Tra i figli di Giorgio, Teodoro fu l’ideale continuatore del padre nella professione giuridica e nel servizio a corte («patris imaginem prosequens» nella lettera ducale di nomina ad avvocato fiscale). Coltivava anche interessi letterari, possedeva una biblioteca non insignificante, era allievo di Francesco Filelfo, che nel 1460 gli dedicò due orazioni, una in occasione all’ammissione del

1 Su di lui si v. l’ampio studio cit. di SIMIONI e infra, nota 49. 2 Cfr. infra, nota .

3 Cfr. infra, nota per Teodoro e nota 57 per Innocenzo.

4 MENICATTI, p. 3-4 e AOM, Testatori, 169, n. 1, 4 febb. 1362: Guidetto del quondam Ivano detto Suzo Piatti, ab. a porta

Nova parrocchia S. Martino ad Nosigiam, riceve da Locarnolo da Monza del q. Pietro 960 lire per la dote di Agnese del quondam Tommasolo da Monza, fratello di Locarnolo. Guidetto abitava nel 1392 in Porta Ticinese, parrocchia di San Giorgio al Palazzo, come appare da una transazione relativa a 250 moggia di grano: ibid., 169, n. 5, 15 apr. 1392 (MENICATTI, p. 14-15; un moggio valeva 146,23 lt).

5 SIMIONI, p. 8. Scheda in M.F. BARONI, I cancellieri di Giovanni Maria e di Filippo Maria Visconti, «Nuova rivista

storica», 50 (1966), pp. 367-428, p. 405.

6 RD 134, c. 117, 17 genn. 1451 e c. 254, 17 febb. 1454, Exemptio d. Georgi de Platis et Iohannis Thome fratris eius.

Come di consueto la concessione ricorda i meriti del Piatti nei servizi ducali, e concede ex certa scientia ampia esenzione da oneri straordinari, reali, personali e misti, compresi oneri di carreggi, guastatori, dazi eccettuati pedaggi, gabelle e imbottature; esenzione estesa anche a massari e coloni per i loro beni presenti e futuri in locis et territoriis Segrate capite plebis et Cixani de Maderno plebis Sevexii ducatus nostri Mediolani.

7 FN 730, Giorgio Piatti acquista dagli eredi di Maffeo da Muzzano, con riferimento a precedenti patti (forse relativi

alla dote della moglie) un sedime con brolo e orto a Segrate di 24 pertiche, già dei Brugora, e vari appezzamenti, vigne e campi, tra cui uno di 70 pertiche e parte di un fontanile con tutti i diritti di acque e di accesso, in parte gravati di un fitto livellario di 73 fiorini spettante ai Brugora. La pertica milanese misurava 654,52 mq, 12 tavole costituivano una pertica.

8 AOM, Diplomi governativi, n. 1482, 11 dic. 1459 (MENICATTI, p. 131, n. 81) e AOM, Diplomi Sforzeschi, n. 1199 per la

conferma di Francesco Sforza del 1° sett. 1462 (ibid., p. 142, n. 92).

9 Tra le lettere di licenza di condurre grani dal capit. della Martesana una del 1457, 7 marzo, Sforzesco 667, fu rilasciata

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collegio dei giureconsulti, l’altra per le sue nozze con Elisabetta Visconti1. Fedele a un saldo

lealismo sforzesco, fin da quando nel 1454 dedicò un’orazione encomiastica a Francesco Sforza e alla duchessa Bianca Maria2, Teodoro si distinse anche, come vedremo, tra i nemici del primo

segretario Cicco Simonetta. Avvocato fiscale dal 1464, dal 1468 ebbe incarichi in diplomazia e negli anni 1468-70 compì alcune rilevanti missioni presso i governi Svizzeri. Da due testamenti del 1471 e 1474 apprendiamo che era rimasto vedovo, che aveva solo una figlia naturale che si era fatta monaca, e che nominò erede universale dei suoi beni il monastero di Santa Maria di Casoretto dei canonici agostiniani lateranensi, al quale volle lasciare anche i suoi libri. Fece nuovamente testamento nell’ottobre 1486, a favore del priore e dei frati del monastero domenicano di Sant’Eustorgio, a cui donava la sua casa a Porta Ticinese, parrocchia di San Pietro in Campolodigiano sulla Vettabbia, confinante con altri suoi fondi, e due sedimi, uno con corte, pozzo, orto e brolo3, stabilendo che il monastero avrebbe dovuto vendere questi beni entro due

mesi dal decesso (avvenuto probabilmente nel marzo 1487) e con il ricavato ampliare e ordinare la cappella gentilizia. I beni furono acquistati da un confinante, il ricco daziere Dionisio Ghiringhelli detto da Castronno, per 1475 lire imperiali, ma la vendita spiacque molto ai Piatti; in seguito Giovan Tommaso si impegnò in un lungo braccio di ferro con i da Castronno per riacquistare i fondi, disputa che ha lasciato una documentazione tra le suppliche al duca4; e vi riuscì prima del

1492, grazie a un prestito del nipote Innocenzo e all’appoggio di Ludovico il Moro5.

Un altro figlio di Giorgio, Anastasio, era giureconsulto, dottore in ambo i diritti, attivo nella professione e anche nella riflessione dottrinale6. Pierantonio, che ricevette il lezioso nome di Piattino secondo l’uso frequente tra i paggi di corte e i galuppi7, è il personaggio più romanzesco e

singolare di questa famiglia. La notorietà dipende anche dalla sua vicenda errabonda e inquieta, che viene ricostruita in un meticoloso studio di Attilio Simioni. A teneris annis era stato collocato a corte, come compagno di studi e di svaghi del giovane principe Galeazzo Maria Sforza; in questo gruppetto di adolescenti della nobiltà milanese c’era anche Giangiacomo Trivulzio. Diventato duca, Galeazzo Maria non mancò di favorire questi suoi condiscepoli, procurando loro le doti più ragguardevoli o promuovendoli a cariche militari nell’ambito della sua «famiglia d’armi». Il duca amava mescolare i ranghi della corte con le cariche militari (dando così un segno di indipendenza

1 SIMIONI, p. 12-13 e passim; sulle due orazioni del Filelfo in onore di Teodoro Piatti cfr. supra, nota 32. Su Teodoro,

scheda in L. CERIONI, La diplomazia sforzesca nella seconda metà del Quattrocento e i suoi cifrari segreti, I, Roma

1970, p. 208. Morì nel 1486, poco prima era stato consultore dei mercanti di Milano, eletto dal duca: cfr. Sforzesco 1090, Ludovico Sforza a Bartolomeo Calco, 9 nov. 1486.

2 Oratio annua in celebritate mediolanensis imperii illustrissimorum principum Francisci Sfortiae et Blancae Mariae

Vicecomitis, in 15 carte, conservata alla Braidense. Fu recitata nel Duomo di Milano il 5 dic. 1460: cfr. la nota di I. GHIRON nell’«Archivio storico lombardo» 1882, p. 710 e KRISTELLER, Iter italicum cit., I, p. 352.

3 Cfr. un atto successivo di vendita al Castronno per 1475 lire imperiali del 27 sett. 1488 in AOM, Testatori, 171, n. 4, 27

sett. 1488 e MENICATTI, p. 236-37 n. 186.

4 Sforzesco 1491, 29 sett. 1489, supplica [di Giovanni] figlio di Dionisio da Castronno, daziere della mercanzia di

Milano, circa le lettere concesse a G.T. Piatti e seguente ordinazione di Ludovico Sforza a Bartolomeo Calco affinché mandasse due periti ad esaminare il prezzo della casa e le spese fatte; Sforzesco 1091, 28 genn. 1490, lettera di Ludovico Sforza a Bartolomeo Calco: il Piatti ha di nuovo lamentato di non avere ottenuto esecuzione delle lettere, vogliamo che la differenza sia levata e con rapidità; infine, AOM, Diplomi sforzeschi, n. 1305, 18 sett. 1489 e MENICATTI, p. 237-38: il duca Giangaleazzo accetta la supplica presentata dal Piatti e lo autorizza a ricomprare la casa

di San Pietro in Campolodigiano e le case contigue.

5 Sul prestito a Giovan Tommaso, AOM, Testatori, 171, n. 12, 7 apr. 1492 e MENICATTI, p. 243-244, atto rogato da Gio.

Ambrogio da Casorate, in casa di Antonio Zunico che figura come teste: Innocenzo Piatti abitante in parr. San Pietro in Corte riceve da Giovanni Stefano Cotta segretario ducale 1000 lire imperiali consegnate a nome di Gio. Tommaso Piatti, in restituzione del prestito; FN 1876, 28 giu. 1492, il Piatti si obbliga a dare a Tommaso de Albiate lire 228 imperiali avute in prestito nel Broletto nuovo; atto cancellato in ottobre per l’avvenuta soluzione del debito.

6 Della sua attività teorica resta una Questio sulla validità di testamenti di sodomiti che fu pubblicata a stampa,

accompagnata da un distico composto per l’occasione da Piattino e da alcune epistole dirette all’autore da dotti e umanisti: SIMIONI, p. 12. Nel 1469 era studente a Pavia, nel 1475 entrò nel collegio dei giureconsulti milanesi, nel 1482

è designato dottore in utroque e abitante in S.Pietro in Corte (FN 2060, 15 nov., il Piatti riceve un fitto da tale Feliciano da Concorezzo). Morì attorno al 1506.

7 Così Giovanni Ambrogio Cotta fu soprannominato Cottino, nomignolo che continuava a portare nel 1494, da capitano

ducale di lunghissima carriera. I galuppi erano una cavalleria leggera costituita da giovani, i cui cavalli erano ricoverati nelle stalle ducali.

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rispetto al mondo dei commilitoni del padre), e anche Piattino fu posto a capo di un reparto di

familiares. Il futuro poeta dimostrò qualche genuina attitudine alla guerra, seguì il principe in

Francia nella spedizione di soccorso al re contro la lega del Bien Public, e combatté poi in altre imprese fuori dal contesto milanese1. Il segretario-umanista Giacomo Antiquario coniò per lui il

soprannome di primipilarius, ovvero «colui che trattava parimenti le armi e le muse»2. Nel 1468

cadde rapidamente e inesorabilmente in disgrazia, sorte che incombeva su molti cortigiani che dipendevano dalla volubilità di un principe giovane e capriccioso. Non è chiaro cosa precisamente accadde: si trattò presumibilmente del mancato adempimento di un piccolo obbligo cortigiano, probabilmente un fatterello risibile, ma sufficiente a scatenare l’ira del duca e a determinare una dura punizione3. Le stesse accuse furono rivolte al suo amico di sempre, il Trivulzio, che però riuscì

a scampare le peggiori conseguenze e ad ottenere il perdono del capriccioso principe. Il povero Piattino fu travolto dalla disgrazia: imprigionato, passò due volte il Natale nelle terribili carceri di Monza, e fu liberato molti mesi più tardi in seguito alle forti pressioni congiunte dei suoi amici e parenti, con l’aiuto decisivo di un cortigiano potente, il bolognese Tommaso Tebaldi4. Il 5 agosto

1470 Bartolomeo Ratti5, dotto collega di Giovan Tommaso nella cancelleria del senato, scriveva a

Piattino per dargli avviso che nel senato era stata letta la lettera ducale che gli concedeva di uscire dalla prigione dopo sedici mesi e per esortarlo a non serbare rancore verso il principe; insieme allo zio Giovan Tommaso, gli scriveva, aveva appreso con sollievo della sua liberazione, e con loro avevano gioito tutte le maggiori famiglie di Milano6. Non sarà superfluo notare che, per la verità, il

Ratti era tortonese, ma l’impiego in cancelleria lo faceva sentire partecipe di questo ceto autoctono. Piattino si allontanò dal dominio e andò in cerca di altre protezioni; trovò rifugio alla corte estense, mentre il circolo dei suoi amici si preoccupava di evitare rotture definitive e di mantenere aperta una strada al perdono. Tornato in patria nel giugno del 14777, dopo la morte di Galeazzo Maria,

partecipò ad alcune imprese militari, poi, dal 1484, preferì ritirarsi in una sorta di esilio volontario a Garlasco, lontano dalla corte. Restò legato al Trivulzio anche quando questi abbandonò il ducato. In seguito, Piattino fece parecchi tentativi di collocarsi presso il re di Francia, e accolse con gioia la venuta dei Francesi a Milano8.

Il più facoltoso dei figli di Giorgio Piatti, Innocenzo, fu un mercante ricco e agiato, con abitazione e bottega nella parrocchia di san Fedele e con orizzonti commerciali piuttosto ampi, in Italia e Oltralpe9. Con lo zio Giovan Tommaso ebbe frequenti rapporti di interesse e di affari, e lo aiutò nel

1492 a ricomprare le case già di Teodoro10. Nel 1482 i due anticiparono a Bernardino Corio la dote

1 SIMIONI, pp. 22 e ss.; Piattino combatté nel corpo di spedizione milanese inviato in Francia nel 1465, insieme al

Trivulzio e sotto il comando di Galeazzo Maria Sforza, poi nel 1467 in Monferrato. Dal 1471 si rifugiò alla corte estense, cercò di arruolarsi con il duca di Borgogna, poi si sistemò presso il Colleoni fino al 1474; nel 1478 seguì il Trivulzio in una spedizione in Toscana seguita alla congiura dei Pazzi; combatté nella guerra di Ferrara, sempre a fianco dell’amico, assediando i castelli dei Rossi, ma non lo seguì invece al servizio di Ferdinando I, tuttavia tentò ripetutamente di farsi accettare alla corte francese di Carlo VIII e di Luigi XII: ibid., pp. 14 ss., 20 ss., 243-244, 247 ss; cfr. anche C. SANTORO, Gli Sforza, Milano 1968, p. 233.

2 Sull’amicizia tra i due, SIMIONI, p. 285-86; cfr. E. BIGI, Antiquari, Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani

(nel seguito DBI), vol. III, Roma 1961, pp. 470-472.

3 N. COVINI, L’esercito del duca. Organizzazione militare e istituzioni al tempo degli Sforza (1450-1480), Roma 1998,

p. 269-70.

4 Al quale dedicò il Libellus de carcere, edito per la prima volta nel 1483 e riedito più volte negli anni seguenti:

SIMIONI, p. 290; ARGELATI, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, I, p. DLXXIX.

5 Le patenti ducali ricordano il lungo servizio presso Francesco Sforza e Galeazzo Maria Sforza e lodano la sua

erudizione; cfr. SANTORO, Gli uffici, p. 32; nel 1490 era ancora in cancelleria con quattro colleghi cancellieri; nel 1494 era gravemente malato (Sforzesco 1119, 17 ott. 1494, Filippo de Comite).

6 SIMIONI, p. 49. 7 Ibid., p. 242. 8 Ibid., pp. 253-262.

9 Nel 1463 fu sostenuto dai duchi in una causa contro il balivo di Nieuwpoort, per danni riportati in un viaggio per cui

aveva salvacondotti ducali, Carteggi diplomatici fra Milano sforzesca e la Borgogna, I, a cura di E. Sestan, Roma 1985, I, p. 171.

10 Nel 1472 fu testimone ad un atto rogato dallo zio, nel 1478 fu suo procuratore, nel 1490 insieme i due Piatti fecero

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di Agnese Fagnani, rispettivamente nipote e cugina1. Nel testamento del 1499 Giovan Tommaso

ricordò questo nipote - già molto ricco di suo - solo con un lascito simbolico di un ducato d’oro. Nonostante fossero benestanti, colti, affermati nelle professioni, i figli di Giorgio si resero protagonisti di una clamorosa lite per la divisione dell’eredità paterna, sfociata in un grave fatto di sangue, il ferimento di Teodoro ad opera dei fratelli Innocenzo e Battista2. Il processo che ne seguì,

data la posizione eminente della famiglia Piatti nella società milanese e nel governo ducale, non mancò di suscitare scandalo. Cause come queste, che coinvolgevano persone «di qualità», difficilmente erano lasciate alla cognizione dei giusdicenti ordinari, ed erano preferibilmente affidate, sentite le parti, a commissari delegati, nella speranza di una pacificazione rapida, discreta e priva di clamore. Fu il senato ducale (nella cui cancelleria operava Giovan Tommaso) ad occuparsi della faccenda, con una sentenza che riconobbe tuttavia la colpevolezza dei due fratelli e li condannò. Forti risentimenti verso Teodoro emergono anche in alcuni scritti di Piattino, che gli rimproverava di aver recato disgrazia omnibus fratribus et sororibus nostris3.

Quando nel 1460 Giovan Tommaso Piatti fece testamento, non ancora sposato e colpito da una grave malattia, il fratello e i nipoti rappresentavano il mondo dei suoi affetti più cari e furono designati suoi eredi4. Alcuni legati allargano la cerchia affettiva alla sorella monaca, Marta, a un

parente, Giovanni Taddeo Piatti, a una fantesca, a Giovanni da Giussano, ai nipoti Ferrari (Maddalena, Elisabetta e Bartolomeo, forse figli di una sorella) e a Francesco da Adda, un fattore, che fu ricordato anche nel testamento del 1499 con un vitalizio5. I beni mobili furono destinati a domino Galeazzo Capra, un giudice amico e forse socio d’affari del Piatti. Un lascito di 1600 lire

andava alla fabbrica dell’Ospedale Maggiore e uno più modesto, di 160 lire, alla chiesa di Santa Maria Incoronata recentemente fondata dagli Sforza.

Questo testamento rimase valido e non fu modificato per quasi quarant’anni, nonostante il fattaccio del 14686. Ancora nel 1499, nel nuovo testamento7, i nipoti furono ricordati in modo più o

meno generoso: a parte il ducato d’oro simbolico lasciato ad Innocenzo, Anastasio ebbe in eredità alcuni beni fuori Porta Ticinese nel borgo di San Celso, Piattino ebbe un vitalizio, oltre alle sovvenzioni che da tempo riceveva dallo zio (cento lire l’anno in eius vita tantum); un altro legato di ottanta lire l’anno fu destinato alla nipote Illuminata, professa nel monastero di Cantalupo8. Alla

moglie Bartolomea Landriani il Piatti destinò, oltre a iochalia et zoias, i beni acquistati da lei stessa e ogni facoltà che le era riconosciuta da statuti e decreti; inoltre, una somma di 200 fiorini annuali per gli alimenti donec vixerit in habito viduale, l’usufrutto della casa e degli utensilia

domus e lo stipendio di tre servitori pagato dagli erogatari affinché non risentisse del cambiamento

di status.

di Giovan Tommaso): FN 1872, notaio A. Zunico, quaternus degli extensa, XVII, c. 17v, atti di luglio 1490. Per il prestito, supra, nota 46.

1 AOM, Testatori, 170, n. 56, 2 dic. 1482 e MENICATTI, p. 216; cfr. anche MESCHINI, Uno storico umanista cit., p. 56. 2 RM 83, c. 17, 5 apr. 1468. Ancora nel 1465-66 i cinque fratelli Piatti condividevano il possesso di un complesso di

beni a Porta Ticinese, parrocchia di S. Eufemia, affittato a Caterina de Coloni: MENICATTI, p. 74n. Episodi come questi,

nati nell’ambiente famigliare, erano tutt’altro che infrequenti; non sembra altrettanto a Venezia, G. RUGGIERO, Patrizi

e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982.

3 SIMIONI, p. 46.

4 Sulla consistenza dei legami affettivi in quest’epoca di passaggio, R. TREXLER, Public Life in Renaissance Florence,

Academic Press, New York-London 1980; una testimonianza diretta, che mette in luce una commovente intensità di rapporti affettivi famigliari in un ambiente sociale «popolare», ma vicino agli strati alti della società, è nel Diario bolognese di G. Nadi, a cura di C. Ricci e A. Bacchi della Lega, ristampa fotomeccanica dell’edizione 1886, Bologna 1969.

5 FN 1111, notaio Damiano Marliani. Tra i creditori da risarcire, vengono nominati il bresciano Lanino da Leno,

Giovanni da Trezzo, Enrico Villani.

6 AOM, Testatori, 170, doc. 6, 5 dic 1465 ed. da MENICATTI, p. 169.

7 AOM, Origine e dotazione, eredità e legati, Testatori, cart. 10/3, 17 gennaio 1499, trascritto in MENICATTI, pp.

287-300, doc. n. 216 e 217; una copia è in un fascicolo separato dalle imbreviature e dagli extensa del notaio Antonio Zunico (in FN 1890), residente in Porta Orientale, parrocchia di San Simplicianino, notaio della curia arcivescovile. Il testamento è ricordato da CANETTA, Elenco storico-biografico dei benefattori cit. p. 147, e da ALBINI, Città e ospedali

cit., p. 197.

8 Per quattro anni: alle monache chiedeva la celebrazione di un anniversario «in mercedem anime mee et animarum

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La dimensione affettiva di questo matrimonio ci sfugge completamente, e assai poco sappiamo della Landriani. Non avendo avuto figli, il Piatti si era affezionato ad alcuni giovani, suoi pronipoti o figli di amici, che aveva accolto in casa sua. Ad Antonia Eustachi, figlia di Guido e di Apollonia di Giorgio Piatti, che viveva presso di lui, lasciò il necessario per il suo mantenimento, sia che fosse vissuta presso la vedova Bartolomea o presso altri, e le destinò una dote non mediocre, di mille ducati1. I nipoti Ferrari ricordati nel testamento precedente non furono dimenticati: Bartolomeo

era morto, lasciando un figlio e una figlia. Al primo il Piatti legò un vitalizio di cento lire imperiali, alla seconda cento lire quando maritabitur; alla nipote Maddalena Ferrari, ora vedova di Antonio da Cusano, destinò un altro vitalizio, che alla sua morte sarebbe stato trasferito a Cristoforo suo figlio, avviato alla carriera in cancelleria2. La terza nipote Ferrari, Elisabetta, era morta, lasciando

una figlia, Margherita da Incino, e un figlio, Giacomo: solo alla prima il Piatti lasciò cento lire imperiali una tantum; inoltre a Giovanni Andrea Pusterla, a sua moglie Lucrezia Cusani, e al fratello Giovanni Pietro Pusterla3, un vitalizio di cento lire annuali ciascuno. Ad un altro pronipote,

l’irrequieto Ambrogio Fagnani figlio di Ambrogina Piatti, per il quale si era prodigato insieme ai parenti Corio per toglierlo dai guai in cui si era ripetutamente cacciato, lasciò solamente cento lire imperiali una tantum4. Un vitalizio fu destinato a Francesco da Adda, già ricordato nel precedente

testamento, e dopo di lui a suo figlio Bernardino «stanti nunc mecum»5. Ad Andrea de Leni o da

Leno, quasi un figlio adottivo, «per me educato et nunc stanti mecum, filio quondam Laurentii, etiam pro suis benemeritis», lasciò un complesso di beni considerevoli. L’affetto per questo giovane pupillo, figlio probabilmente di un fattore6, si misura dall’entità del lascito, costituito da

vari beni mobili e da un complesso di immobili tra Bovisio e Limbiate7.

Presso il Piatti anziano vivevano dunque almeno quattro giovani: una pronipote da maritare e tre pupilli. Forse già in casa Piatti circolavano istitutori e precettori che formavano una sorta di piccola scuola privata, anticipando le scuole Piattine e rivelando l’interesse del nostro per l’istruzione e l’insegnamento, genuino fondamento della mentalità e della cultura umanistica.

Il testamento del 1499 si conclude con alcuni lasciti ad amici e servitori: al suo omonimo e forse figlioccio Giovan Tommaso di Francesco Piatti 50 fiorini, alla servitrice Giovannina da Monza 40 lire annuatim vita natural durante; a una Giovannina, alla quale aveva procurato un matrimonio con il magister Giovanni Antonio da Castello Ferrari, un dono di 50 lire una tantum; e poi alcune remissioni di debiti a massari bisognosi e indebitati. Ad Antonello da Romagnano, fedele

negotiorum gestor, condonava gli eventuali debiti e lo invitava a collaborare con i deputati

dell’Ospedale per districare la congerie dei suoi affari.

1 Si può rapportare alle doti delle più ricche casate milanesi, che in quest’epoca si aggiravano sui 4000-4500 ducati:

esempi in F. SOMAINI, Le famiglie milanesi tra gli Sforza e i francesi: il caso degli Arcimboldi, in Milano e Luigi XII.

Ricerche sul primo dominio francese in Lombardia (1499-1512), a cura di L. Arcangeli, Milano 2002, pp. 167-220, p. 182 nota 42. Nel 1466 una dote che fece scalpore valeva 7000 ducati (Margherita Colleoni, figlia di Nicolino e di una Visconti di Brignano, data in sposa da Galeazzo Maria Sforza a Gian Giacomo Trivulzio), mentre nel 1480 la figlia di Tommaso Grassi ebbe in dote 12.000 ducati. Ludovico il Moro la fece sposare quando aveva solo dodici mesi a un suo figlio naturale: A. GIULINI, Tommaso Grassi, le sue Scuole e le relazioni sue con gli Sforza, «Archivio storico

lombardo», 39 (1912), p. 271-283, p. 274.

2 Lo riconosciamo in quel Cristoforo Cusani che negli anni Novanta compare tra i membri della cancelleria segreta:

SANTORO, Gli uffici cit., p. 63.

3 Giovan Pietro e Giovanni Andrea di Giovanni, di porta Nuova, parr. San Bartolomeo. I due fratelli erano stati

procuratori del Piatti, testimoni ad alcuni atti degli ultimi anni della sua esistenza.

4 Sulle cui vicende cfr. MESCHINI, Uno storico umanista cit., pp. 77-88. 5 Si trattava di un fitto di 300 lire a Pogliano.

6 Era in relazione con questa famiglia di Doresano già nel 1457. Nel 1484 Vincenzo del q. Giovanni de Leni pagava il

fitto al cappellano del Duomo per conto del Piatti; Lorenzo, padre di Andrea, era suo fratello. A Grazio de Leni il Piatti investì un complesso di beni nel 1486. I da Leno erano originari di Bergamo, allevatori di bestiame (pergamaschi) e si erano trasferiti nel XIV secolo nella pieve di Rosate: L. CHIAPPA MAURI, Le trasformazioni nell’area lombarda, in Le

Italie del tardo medioevo, a cura di S. Gensini, Pisa 1990, pp. 409-432, p. 429.

7 Una tenuta di 200 pertiche, altri appezzamenti a Binzago di ronco e bosco per 120 pertiche lavorati dai massari

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2. Le relazioni economiche: terra, affari, denaro

Attorno al 14451 Giorgio e Giovan Tommaso Piatti avevano ricevuto in eredità dal padre Antonio

un asse patrimoniale famigliare che si era verosimilmente incrementato con i guadagni dell’attività mercantile nel settore granario; l’eredità restò a lungo indivisa. I beni fondiari erano prevalentemente localizzati in due aree, nei Corpi Santi fuori porta Ticinese, negli immediati suburbi della città, e nel contado a Nord di Milano lungo il corso del fiume Seveso, attorno alla località d’origine di Cesano Maderno. I possessi fondiari fuori porta Ticinese erano situati in una zona particolarmente ricca di acque, lungo il corso della Vettabbia, presso l’Ospedale di San Celso2;

parte di essi, acquistati nel 1449, erano situati nella parrocchia di San Pietro in Campolodigiano3. 2.1 Le terre del Seveso

Il principale nucleo fondiario dei Piatti era situato in quel tratto dell’alta pianura milanese che segue il corso del Seveso, comprendente le località di Cesano Maderno, Bovisio Masciago, Binzago e Desio: una zona densamente abitata e collocata lungo la via di transito che collegava Milano e Como. Campi e aree coltivate erano intervallati da boschi e brughiera, ronchi e incolto. Alcuni secoli più tardi questa regione non lontana dal centro metropolitano era celebrata per l’aria salubre, il paesaggio gradevole e mosso, la fertilità del terreno capace di produrre biade, vino e frumento di buona qualità e gelsi4. Nel Quattrocento la coltivazione preminente era a grano e

cereali, intervallata da appezzamenti a prato, ma con una presenza limitata di animali e di pascolo. La gestione fondiaria era condizionata dai limiti connaturati alle caratteristiche orografiche e pedologiche del territorio: ne derivava una proprietà frammentata e una forte disomogeneità dei fondi, con piccolissimi appezzamenti, campi, prati, aratori, sedimi, vigne, che si alternavano a boschi e, in prossimità dei corsi d’acqua, a vasti perticati di incolto, ronchi e terre in baraggia. I fitti erano in prevalenza in cereali, in mistura più che in frumento. La vera strozzatura dell’economia rurale del Seveso, nonostante la relativa densità dei corsi d’acqua, era la precarietà delle risorse idriche e il ricorrere di periodi di siccità.

Anche se queste terre non erano favorite come le regioni della bassa padana dove nel secolo XV e XVI si era accesa «una vera febbre di miglioramenti agrari»5, il Piatti continuò ad acquistare fondi

laddove già suo padre, e probabilmente i suoi antenati, avevano posseduto terre, campi, boschi6.

Vediamo alcune linee di azione delle sue scelte fondiarie: il 22 agosto 1455 comprò a Lissone certi sedimi e vigne da un proprietario locale, tale Angerino Panigarola, al quale li riinvestì subito dopo a livello perpetuo7. L’impressione che all’origine ci fosse un prestito - ossia che il Panigarola

1 Antonio Piatti era vivo nel 1444 (l’Indice Lombardi del fondo Notarile segnala un atto del 1° genn. 1444, rogato da

Pietro Brenna), e quondam in un documento del 28 sett. 1448 relativo a Giovan Tommaso.

2 AOM, Testatori, 169, n. 15 e MENICATTI, n. 41, pp. 69-71, 14 nov. 1441, coram il vicario di provvisione Masino

[Tebaldi] di Bologna, dato in Broletto, Antonio Piatti fa pubblicare gride per vendere due sedimi in San Pietro in Corte, sulla Vettabbia, uno con due corti ed edifici e un grande brolo confinante con l’ospedale di S.Celso, e per vendere il civile possesso e diretto dominio di un altro sedime nella stessa località sulla Vettabbia su cui Giovanni Lazzati pagava un fitto livellario in perpetuo di 6 fiorini, capponi e uova.

3AOM, Testatori, 169, n. 20, 23 agosto 1449 e MENICATTI, doc. 48, p. 88-89: nel Broletto nuovo i fratelli de Castioni,

Antonio e Francescolo, milanesi, si obbligano a consegnare entro un mese a Giorgio e Giovan Tommaso Piatti 59 lire imperiali e 16 soldi, resto del prezzo di certi beni siti a Porta Ticinese, parr. di S. Pietro in Campolodigiano, acquistati a suo tempo dal loro padre Antonio. Roga Gabriele Bolgaroni di Porta Cumana.

4 M. FABI in C. CANTÙ, Grande illustrazione del Lombardo-veneto, ossia Storia delle città, dei borghi, comuni, castelli,

ecc. fino ai tempi moderni, I, Milano, 1858, p. 557-558.

5 G. CHITTOLINI, Un problema aperto: la crisi della proprietà ecclesiastica fra Quattro e Cinquecento, «Rivista storica

italiana», 85 (1973), pp. 353-393, p. 355; ID., Alle origini delle «grandi aziende» della bassa lombarda. L’agricoltura dell’irriguo fra XV e XVI secolo, «Quaderni storici», n. 39 (1978) (Azienda agraria e microstoria, a cura di C. Poni), pp. 828-844.

6 Cfr. un atto del 15 genn. 1417 in AOM, Testatori, 169, n. 9 e MENICATTI, p. 22-4 n. 22: Antonio Piatti investe a

Franceschino Maderni del quondam Viscardo di Cesano un sedime e vari appezzamenti di campi e vigne a Cesano. Altri atti relativi a questi beni sono datati 1427 e 1441.

7 Atto del 22 ago. 1455 in AOM, Testatori, 169, n. 28 e MENICATTI, n. 57, stipulato nel cimitero della chiesa di San

Sebastiano a Porta Ticinese. Angerino Panigarola del q. Baglino di Milano, porta Vercellina, parrocchia di San Vittore al Teatro, vendeva al Piatti (Porta Cumana, parr. di S. Maria Segreta) beni per 150 fiorini d’oro: un sedime di 10 pertiche con edifici e servizi, una vigna di 35 pertiche ad braidam; una vigna di 7 pertiche detta di S .Giorgio; un

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cedesse al Piatti dei fondi in cambio di denaro, per riottenerli in concessione livellaria - si conferma da una supplica del 1459, dalla quale risulta che il venditore era in difficoltà economiche e aveva subito un processo per debiti1. Tre anni più tardi, nel 1458, il Piatti acquistò da un Vismara

di Binzago alcune pezze di terra e vigna nella vicina terra di Bovisio, nella pieve di Desio2. Nello

stesso anno fece pubblicare una grida provvisionale per annunciare la vendita di un complesso di beni a Limbiate, Cesano, Binzago, Desio e Bovisio, ma nessuna vendita seguì. In realtà le gride erano utilizzate dal Piatti non per vendere, ma per far venire allo scoperto le eventuali ipoteche che gravavano su fondi acquisiti in tempi diversi da varie persone in difficoltà, così da poterle liquidare. Il ricorso alle gride in sostanza mirava a riorganizzare e riordinare i possessi fondiari e a definire meglio i suoi titoli di proprietà o di possesso. Dunque il Piatti dimostrò un interesse costante per questa zona nelle cui immediate vicinanze - come vediamo dalle coerenze - c’erano altri fondi dei suoi più stretti consanguinei. Tra gli altri confinanti - numerosissimi, dato l’estremo spezzettamento della proprietà - c’erano i nobili milanesi Avvocati e il monastero milanese di Santa Maria Aurona3. Poco dopo la grida, il Piatti comprò altri fondi da Antonio Birago, con il

quale aveva in corso parecchie transazioni. Anche in questo caso alcuni indizi fanno ritenere che si trattasse di un vicino in crisi di liquidità, e lo stesso si può intuire a proposito di un proprietario di Desio, confinante del Piatti, Ruffino Carcassola, che nel 1458 venne investito di un fitto livellario perpetuo di vari beni nella medesima località, con la clausola che il Piatti avrebbe avuto la prelazione, a prezzo fissato da due amici comuni, su un’eventuale vendita degli stessi fondi. L’operazione andò a buon fine visto che il Piatti ne disponeva ancora poco prima di morire4.

Negli anni successivi il Piatti continuò a comprare, a vendere, a permutare terre nella zona. Sarebbe lungo seguire nei dettagli l’andamento di una gestione molto dinamica e complessa. Facendo riferimento solo alle carte di fine secolo, tra il 1494 e il 1500, troviamo un numero considerevole di atti di acquisto di singoli appezzamenti, boschi e fondi di varia estensione e natura. Nel 1494 il Piatti comprò dai Maderni per 45 lire imperiali un bosco e ronco di cinque pertiche a Cesano Maderno, confinante con i suoi possessi5, nello stesso anno un altro bosco a

Desio da Maddalena Carcassola per 24 lire e 4 soldi6, nel 1498 un noceto da Matteo da Pergamo7,

nel 1497 un campo a Binzago di sei pertiche e dodici tavole da Marco Porri8 e dallo stesso un

campo a Cesano Maderno di dieci pertiche per 38 lire imperiali9; nel 1500 comprò dai figli del

provisionato ducale Tristano da Cabiate due campi di venti e otto pertiche a Cesano, uno dei quali coltivato a castagni, confinante con un suo fondo10. Infine, nel 1501, acquistò un campo di sedici

pertiche e dodici tavole a Cesano (coerente con un’altra sua proprietà) da Giovanni Piccinino da

campo di 9 pertiche ad campum novum; uno di 10 in campo pagano. Roga Bernardino Zerbi in luogo del padre Franceschino e contestualmente con altro atto annesso il Piatti investe a livello perpetuo i beni suddetti il Panigarola al fitto annuo di 14 lire imp. da pagarsi a San Michele. Questo fitto è ricordato nel testamento del 1460.

1 Sforzesco 1587, supplica del medesimo, 12 febb. 1459.

2 FN 515, Ambrogio Cagnola, 14 febb. 1458 (l’atto è molto deteriorato).

3 Sul monastero cfr. P. MONDINI, Comunità monastica e gestione di un patrimonio fondiario: le benedettine di S.

Maria d’Aurona (secc. VIII-XV), tesi di laurea, Università degli studi di Milano, relatore G. Soldi Rondinini, a.a. 1984-85. Nel secondo Quattrocento il monastero versava in uno stato di grave decadenza e di degrado, e nel 1473 fu soppresso e assorbito dalla casa umiliata di Santa Maria di Vedano, che seguiva la regola agostiniana; su queste vicende e sui possessi del monastero fra Tre e Quattrocento a Cesano, Binzago, Desio cfr. R. TERUZZI, Contributo allo studio delle istituzioni ecclesiastiche milanesi nel Quattrocento: l’unificazione tra S.Maria di Aurona e S. Maria di Vedano, Università degli Studi di Milano, relatore prof. E. Occhipinti, a.a. 1996-97; sui rapporti del monastero con Giovanni e Tommaso Avvocati, , cfr. ibid., pp. 37 ss.

4 Questi stessi beni (un campo di 54 pertiche presso la roggia di Desio, un campo di 25 pertiche) furono dati a fitto nel

1501 ai fratelli Bassi per tre anni, per un fitto in grano di mistura: AOM, Testatori, 171, n. 38, 20 sett. 1501.

5 AOM, Testatori, 171, n. 17 e MENICATTI, p. 248, n. 203, 21 mag. 1494, in località «ad roncum de Marbructis»,

confinante da tre parti col compratore e col monastero di S. Agostino, atto rogato a Desio da Battista Confalonieri.

6 Ibid., n. 18, 9 giu. 1494 e MENICATTI, p. 249, n. 204, terre in località ad caziam, confinanti con beni degli Avvocati e

dei Malcozati, rogato a Desio in casa di Antonio Bosco da Battista Confalonieri.

7 Ibid., n. 27 e MENICATTI, p. 256, n. 213, 17 ott. 1498. 8 Ibid., n. 23 e MENICATTI, p. 254-255, n. 210, 15 apr. 1497. 9 Ibid., n. 29 e MENICATTI, p. 260-261, n. 219, 22 apr. 1499. 10 Ibid, n. 33 e MENICATTI, pp. 262-263, n. 223, 20 nov. 1500.

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