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Gli strumenti processuali della Corte costituzionale per la gestione delle questioni "politiche" nel giudizio in via incidentale

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Academic year: 2021

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Nel corso della presente indagine ci si propone di affrontare il tema dei rapporti tra questione “politica” e sindacato della Corte costituzionale attraverso la lente degli strumenti processuali, per indagare quali siano gli orientamenti della Corte e per metterne in luce gli eventuali risvolti problematici che ne derivano. Preliminarmente, occorre evidenziare che la prospettiva entro la quale la ricerca si muove è quella del rapporto tra sfera politica e sfera giuridica e, in considerazione di ciò, si tenterà di analizzare quali siano le modalità di intervento della Corte costituzionale ai “confini” delle scelte discrezionali del legislatore.

La ricerca seguirà, in primo luogo, un approccio formale, con analisi del dato normativo e dei dati giurisprudenziali di volta in volta rilevanti per il contesto di riferimento, ma non si esaurirà in essa, che piuttosto si pone solo come momento iniziale per poter meglio cogliere le implicazioni sostanziali che ne derivano per l’oggetto in esame.

Prima di valutare le linee di sviluppo di tale percorso è necessario fare un’altra notazione metodologica: l’interazione tra sindacato della Corte e questione “politica” sarà analizzata dall’angolo visuale del solo giudizio in via incidentale. La scelta di un tale campo di elezione è collegata a taluni aspetti che risultano in stretto collegamento tra loro. Un primo, strutturale, relativo alla eterogeneità delle esperienze della giustizia costituzionale, con la conseguente necessità di concentrare l’attenzione solo su un settore omogeneo (o tendenzialmente tale) per indagarne le dinamiche. Pertanto, la scelta non poteva che porsi1 tra i giudizi sulle leggi e i conflitti di attribuzione, per le caratteristiche tendenzialmente analoghe che le diverse forme di sindacato costituzionale entro tali ambiti presentano. L’opzione successiva si muove nel solco della ritenuta preferibilità dell’ambito del giudizio sulle leggi, in quanto il lavoro vuol essere funzionale a valutare se in tale sede la Corte disponga o meno di “selettori” nell’analisi delle questioni di legittimità sollevate. L’ulteriore aspetto che ha indotto a focalizzare la ricerca sul giudizio incidentale è rappresentato dal fatto

1 Volendo tralasciare le peculiari funzioni esplicate dalla Corte nei giudizi sulle accuse o

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che la problematica della gestione di una questione “politica” non può che avere una portata differente nelle due sedi di controllo della legittimità delle leggi. Difatti, è, per così dire, consustanziale al giudizio in via principale l’esistenza di forti margini di politicità che renderebbero “falsata” la ricerca che si intendesse sviluppare in tale terreno. Basti, a tal proposito, porre attenzione al fatto che è inevitabile che il ricorso proveniente dallo Stato o dalla Regione possa presentare e presenti carattere politico, sicché le valutazioni alle quali sarebbe chiamata la Corte per gestire la q.l.c. sollevata non possono ritenersi pienamente assimilabili a quelle ricorrenti nella via incidentale.

Chiarite le ragioni che sorreggono tale scelta, occorre segnalare che la prima tematica che risulta opportuno prendere in considerazione è quella relativa all’individuazione della categoria di questione “politica”, per tentare di definire cosa si possa intendere con tale sintagma e quali correlativamente siano i limiti che la Corte costituzionale incontra nell’effettuare il proprio sindacato di legittimità al riguardo. Si cercherà, a tal fine, di evidenziare che il carattere politico-discrezionale della questione, nonostante il dato normativo dell’art. 28 delle legge n. 87 del 1953, non impedisce sempre e per qualunque direzione un sindacato costituzionale. Difatti, si tenterà di dimostrare l’attualità della nozione di eccesso di potere legislativo e la tendenza della Corte a scrutinarlo, pur non facendovi un diretto riferimento. In tale percorso risulterà, pertanto, di rilievo il richiamo alla ragionevolezza del legislatore e alle modalità di esplicazione del controllo della stessa.

Per avallare ulteriormente la possibile sindacabilità, a dati presupposti e condizioni, dell’eccesso di potere legislativo, potrà risultare utile il riferimento all’esperienza amministrativa ed in particolare ai limiti incontrati dalla giurisprudenza al cospetto di un atto politico, in quanto, alla luce soprattutto delle recenti prese di posizione della stessa Corte costituzionale, emerge una “nuova” fisionomia dell’atto politico stesso che potrebbe, con gli opportuni e dovuti adattamenti, riverberarsi nell’ambito costituzionale.

Individuati i limiti del sindacato costituzionale ed evidenziato in che termini quest’ultimo possa scandagliare nel merito una questione politico-discrezionale, si rende necessario spostare l’analisi su quelle modalità di gestione

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che consentono di effettuare un vaglio preliminare sulla “giustiziabilità” della questione “politica”. In assenza di previsioni normative che riconoscano un simile potere alla Corte, occorrerà, quindi, vagliare come quest’ultima abbia utilizzato o creato “momenti valutativi” preliminari a quelli di merito (e dunque processuali).

A tal fine si prenderanno in considerazione gli strumenti processuali utilizzati dalla Corte, e tra quest’ultimi si differenzierà in relazione alla circostanza che riguardino più propriamente le modalità di gestione dei tempi processuali o le tecniche decisorie di carattere processuale. Nel primo caso vengono in rilievo, da un lato, il modo in cui il Presidente della Corte costituzionale può servirsi dei propri poteri per incidere sull’andamento dei lavori e, dall’altro, in generale, le modalità di realizzazione di una modulazione dei tempi processuali in termini di dilazione o contrazione in relazione al tasso di politicità che connota la singola questione di legittimità.

Relativamente al secondo gruppo di strumenti, pur rendendosi necessaria una ricostruzione della generale categoria delle decisioni processuali, si è inteso limitare l’indagine alle sole pronunce di inammissibilità sub specie del rispetto della discrezionalità del legislatore. Il che è riconducibile a due ordini di considerazioni. In primis, lo si deve all’esigenza pratica di concentrare la ricerca sulle sole decisioni costituzionali nelle quali figuri espressamente il richiamo alla discrezionalità del legislatore e quest’ultima sia assunta come “causa” della mancata analisi nel merito. In secundis, per un’esigenza teorica (“sostanziale”), perché la categoria assunta come termine di riferimento è quella che meglio di altre è idonea a rendere evidente la scelta della Corte nel rapportarsi ad una questione politico-discrezionale. Si cercherà, quindi, di esaminare le variegate forme che assume l’inammissibilità pronunciata per salvaguardare la discrezionalità degli organi politici, mediante una catalogazione connotata da una liminare bipartizione tra decisioni nelle quali la discrezionalità rileva tout court, in modo “secco”, perché la Corte costituzionale riconosce semplicemente che la questione proposta coinvolge valutazioni e scelte politiche spettanti al legislatore, e decisioni nelle quali il richiamo alla discrezionalità viene variamente “articolato” e/o motivato.

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Si tenterà, attraverso esemplificazioni tratte dalla giurisprudenza più recente, di analizzare singolarmente i vari tipi di inammissibilità in ragione della discrezionalità del legislatore per individuarne gli aspetti caratteristici e trarne considerazioni di sintesi sulla categoria. Tale percorso potrà, quindi, consentire di affrontare due peculiari tematiche: una relativa alla possibile ricostruzione degli strumenti processuali quali indiretti selettori delle questioni di legittimità costituzionale, e l’altra attinente alla possibile individuazione del requisito di un “tono costituzionale” che la questione di legittimità deve possedere per poter superare il vaglio processuale.

Nell’ultimo capitolo si metteranno in luce taluni aspetti problematici che, in considerazione delle caratteristiche del modello di giudizio incidentale, possono originarsi dall’incontro tra strumento processuale e questione politica, analizzando non solo le reciproche influenze che di fatto si realizzano tra sfera politica e sfera giuridica, ma prendendo in considerazione le implicazioni derivanti sia sul ruolo della Corte stessa sia rispetto al giudice a quo. In secondo luogo, occorrerà interrogarsi su quando il ricorso alla non giustiziabilità della questione politica possa reputarsi congeniale al ruolo al quale la Corte costituzionale è chiamata per sistema e quando, invece, ciò possa tramutarsi in una ipotesi di denegata giustizia costituzionale; ciò che, naturalmente, richiederà di interrogarsi su quando una siffatta ipotesi possa ritenersi integrata.

Per meglio valutare la delicata posizione complessiva della Corte costituzionale nel sistema sarà necessario spostare l’analisi sull’incidenza delle dinamiche processuali ed in particolar modo sul grado di operatività e di vincolatività delle regole processuali.

Infine, la riflessione si sposterà sul giudice a quo in considerazione delle scelte che lo stesso è chiamato ad effettuare dopo l’adozione di una pronuncia processuale motivata in relazione al rispetto della discrezionalità legislativa: si cercherà di evidenziare che l’interazione tra questione politica e sindacato costituzionale finisce con il riverberarsi in chiave problematica proprio sulla posizione di quel giudice che aveva richiesto l’intervento della Corte.

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Una volta chiarito l’oggetto della presente indagine e lo sviluppo che alla stessa si intende dare, risulta necessario effettuare un’ulteriore precisazione metodologica.

Difatti, si è ritenuto opportuno non affiancare all’analisi del sistema italiano quella di esperienze straniere, sebbene il tema potesse prestarsi a forti suggestioni provenienti dagli ordinamenti stranieri; soprattutto in relazione al sistema statunitense, in quanto l’elaborazione della doctrine of political question che si è affermata in quest’ultimo sistema viene solitamente accostata alla tematica delle “questioni politiche” ed al modo di rapportarsi dell’organo di giustizia costituzionale a queste questioni. E ciò in ragione delle profonde differenze che connotano il sistema italiano di giustizia costituzionale rispetto a quello americano, che hanno indotto a ritenere preferibile la non percorribilità della via della comparazione per evitare due rischi: da un lato, un approccio superficiale al sistema americano e, dall’altro, una selezione dei soli aspetti dell’esperienza italiana che potessero essere utilizzati per evidenziare differenze o analogie tra i due modelli. Pertanto, si considera che il mantenere l’analisi dentro le “mura” del nostro ordinamento sia, almeno rispetto alle tematiche oggetto di attenzione, più funzionale a coglierne gli sviluppi senza – nei limiti del possibile – un preorientamento nella direzione di indagine.

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LA CATEGORIA DI QUESTIONE “POLITICA” E I LIMITI DEL SINDACATO COSTITUZIONALE

Sommario: 1. Notazioni introduttive - 2. I confini della giurisdizione costituzionale e la portata dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953 - 3. Delimitazione e classificazione della “sfuggente” nozione di questione politica - 4. L’operatività del sindacato costituzionale in presenza di una questione politica - 4.1 (Segue) … e la sindacabilità dell’eccesso di potere legislativo - 5. Confronto con i limiti della giurisdizione amministrativa al cospetto di un atto politico.

1. Notazioni introduttive

Per poter affrontare l’analisi dell’aspetto centrale del presente lavoro – id

est gli strumenti processuali dei quali si è servita e si serve, nel giudizio in via

incidentale, la Corte costituzionale per la “risoluzione” di una questione politica –, assume un carattere pregiudiziale in senso logico la perimetrazione dell’estensione del sindacato costituzionale. L’effettuazione di una simile operazione richiede, da un lato, la valutazione del dato normativo e, dall’altro, la definizione di una categoria – quella di questione politica – dai contorni sfumati ed evanescenti.

Dal primo angolo visuale discende l’opportunità di concentrare l’attenzione sul disposto dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953 e sulla interpretazione dello stesso fornita, per individuare i limiti che connotano il sindacato di legittimità costituzionale e che si estrinsecano nella preclusione per la Corte costituzionale di valutare eventuali vizi di merito, nonché di sostituirsi al legislatore nella scelta politica tra più alternative tutte egualmente compatibili con il dato costituzionale1.

1 Cfr. A. P

IZZORUSSO, Sui limiti della potestà normativa della Corte costituzionale, in

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Il secondo aspetto richiede, invece, una preliminare notazione sul concetto di questione “politica”, mediante il richiamo ad una possibile articolazione interna, fondantesi sulla distinzione tra questione politica in senso lato e questione politica stricto sensu, rispetto alle quali occorrerà vagliare se il sindacato della Corte assuma una differente articolazione e come di fatto la giurisprudenza abbia inteso una siffatta categoria.

Per compiere un simile percorso può risultare utile far riferimento alle soluzioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza amministrativa rispetto al problema dell’insindacabilità degli atti politici, anche alla luce dei dati positivi che emergono da talune pronunce della stessa Corte costituzionale.

Questo parallelismo con l’ambito amministrativo risente dei dovuti adattamenti di principi o istituti affermatisi in un’esperienza differente da quella della giustizia costituzionale e che non rendono possibile un trapianto automatico da un settore ad un altro2.

Le predette tematiche si inscrivono nel quadro del delicato rapporto tra politica e diritto o meglio tra potere politico e diritto costituzionale che può essere riguardato da plurimi punti prospettici in relazione all’osservatore prescelto: la Corte costituzionale, il legislatore o la sfera pubblica.

Lungi dal pretendere di compiere una esaustiva analisi a 360 gradi di tale rapporto si è preferito assumere come prospettiva quella della Corte costituzionale e, quindi, valutare come quest’ultima si sia variamente rapportata al legislatore nell’attuazione di un bilanciamento tra diritto e politica; ciò nondimeno si tenterà di dare atto, sia pur incider tantum, delle altre due prospettive.

D’altronde, una scelta siffatta deve armonizzarsi con l’articolazione plurima dei legislatori che interloquiscono con la Corte costituzionale3: a livello nazionale non solo il Parlamento, ma anche il Governo, in quanto entrambi tali attori politici concorrono all’implementazione dell’indirizzo politico; a livello

2 Su tale necessità di adattamento cfr. A

A.Vv., I principi generali del processo comune ed

i loro adattamenti alle esperienze della giustizia costituzionale, a cura di E. Bindi - M. Perini - A.

Pisaneschi, Torino, 2008.

3 P. C

OSTANZO, Legislatore e Corte costituzionale. Uno sguardo d’insieme sulla

giurisprudenza costituzionale in materia di discrezionalità legislativa dopo cinquant’anni di attività, in www.giurcost.org.

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regionale i legislatori delle nostre Regioni; a livello locale i legislatori delle due Province autonome; ed a livello sovranazionale il legislatore europeo.

Ne discende che l’analisi del rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento cela, come è stato osservato in dottrina, «la relazione tra le due grandi prospettive; quella della giustizia costituzionale e quella della politica in tutte le componenti coinvolte nel processo legislativo»4.

2. I confini della giurisdizione costituzionale e la portata dell’art. 28 della

legge n. 87 del 1953

L’individuazione del “perimetro” del sindacato compiuto dalla Corte costituzionale sulle leggi e gli atti aventi forza di legge consente di valutare come si articoli il rapporto tra la Corte stessa ed il legislatore allorquando oggetto del giudizio sia una questione avente natura politica.

Assumendo quest’ultimo aspetto come lente focale si rende necessario concentrare l’attenzione non sulla qualificazione formale dell’oggetto del sindacato di costituzionalità in termini di legge o di atto avente forza di legge5, quanto piuttosto, ritenendo risolta positivamente quest’ultima operazione logica, sulla natura e sulle caratteristiche stesse della questione.

Per l’effettuazione di una simile analisi assume una portata dirimente, unitamente al disposto dell’art. 134 della Costituzione e alla sua lettura alla luce dei lavori preparatori6, l’art. 28 della legge n. 87 del 1953 e come tale articolo “vive” nell’interpretazione fattane dalla Corte costituzionale.

4 P. C

OSTANZO, Legislatore e Corte costituzionale. Uno sguardo d’insieme sulla

giurisprudenza costituzionale in materia di discrezionalità legislativa dopo cinquant’anni di attività, cit.

5

Per un’analisi sull’oggetto del giudizio e sulla tipologia degli atti impugnabili, tra i tanti, v. G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 101 ss.; A. CERRI, Corso di

giustizia costituzionale, Milano, 2007, 95 ss.; A. RUGGERI - A. SPADARO,Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2009, 78 ss.; E. MALFATTI - S. PANIZZA - R. ROMBOLI, Giustizia

costituzionale, Torino, 2011, 99 ss.

6 L’analisi dei lavori preparatori risulta essere importante per cogliere la ratio sottesa alle

disposizioni normative e per individuare un ulteriore criterio ermeneutico idoneo a fornire un ausilio per una completa e corretta lettura della disposizione stessa.

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Innanzitutto, è lo stesso dato costituzionale che costruisce il sindacato di costituzionalità in chiave di legittimità, fornendo le linee guida per determinare i confini del controllo costituzionale delle leggi.

La formulazione dell’art. 134 della Costituzione cela il dibattito svoltosi in sede di Assemblea costituente sul ruolo e sulle funzioni della Corte costituzionale, che condusse alla contrapposizione tra due modi di intendere il costituendo nuovo organo di garanzia costituzionale. Da un lato, coloro che qualificavano la Corte come «organo che ha funzioni strettamente giurisdizionali, limitate al controllo della costituzionalità delle leggi, ma non estensibile ad apprezzamenti che implicano l’esercizio di poteri discrezionali»7; e dall’altro, la sua qualificazione come «organo eminentemente politico»8.

Come è noto, la prima di tali due impostazioni fu quella prevalente, nonostante la problematica sulla natura giurisdizionale o politica di tale organo di garanzia abbia continuato per lungo tempo ad alimentare il dibattito dottrinale9. In Per una ricostruzione del rilievo del c.d. argomento “originalista”, del suo carattere ausiliario nell’interpretazione e per i connessi risvolti problematici, tra i tanti, v. A.M. POGGI,

L’“intenzione del costituente” nella teoria dell’interpretazione costituzionale. Spunti per una sua definizione alla luce della dottrina americana dell’“original intent f the Framers”, in Dir. pubbl.,

1997, 53 ss.; C. PINELLI, Il dibattito sull’interpretazione costituzionale fra teoria e giurisprudenza, in Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, III, 1665 ss.; R. GUASTINI, Teoria e ideologia

dell’interpretazione costituzionale, in Giur. cost., 1/2006, 743 ss., ora anche in ID., Lezioni di

teoria del diritto e dello Stato, Torino, 2006; M. LUCIANI, Interpretazione costituzionale e testo

della Costituzione. Osservazioni liminari, in AA.Vv., Interpretazione costituzionale, a cura di G. Azzariti, Torino, 2007, 41 ss.; AA.Vv., Lavori preparatori ed original intent nella giurisprudenza

della Corte costituzionale, a cura di F. Giuffrè e I. Nicotra, Torino, 2008; M. LUCIANI, L’interprete

della Costituzione di fronte al rapporto fatto-valore. Il testo costituzionale nella sua dimensione diacronica, in Dir. soc., 2009, 1 ss.; A. CARIOLA,La “tradizione” costituzionale: contro l’original intent nell’interpretazione della Costituzione, in Studi in onore di L. Arcidiacono, Milano, 2010, II, 521 ss.; P. BIANCHI, Le trappole dell’originalismo, in Studi in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, I, 281 ss.

7

Intervento di C. MORTATI nella seduta pomeridiana del 28 novembre 1947, in La

Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, a cura del

Segretario generale della Camera dei deputati, Roma, 1970, V, 2646, nonché in www.legislature.camera.it.

8

Intervento di F. GULLO nella seduta pomeridiana del 28 novembre 1947, in La

Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, cit., 2643. 9 Basti pensare all’iniziale tesi che contrapponeva la qualificazione della Corte come

organo para-legislativo (v. ad es. P. CALAMANDREI, La illegittimità costituzionale delle leggi nel

processo civile, Padova, 1950) o come organo giurisdizionale [tra gli altri, C. ESPOSITO, Il

controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia (1950), in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 269 ss.]; o a quella successiva che oscillava tra il riconoscimento

alla Corte di un ruolo di codeterminazione dell’indirizzo politico (v. F. MODUGNO, Corte

costituzionale e potere legislativo, in AA.Vv., Corte costituzionale e sviluppo della forma di

governo in Italia, a cura di P. Barile, E. Cheli e S. Grassi, Bologna, 1982, 19 ss.) e quello di una

natura prevalentemente giurisdizionale (G. ZAGREBELSKY, La Corte costituzionale e il legislatore, in AA.Vv., Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, cit., 103 ss.). Tale

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particolar modo, si avvertì sin da subito che il giudizio di costituzionalità, articolantesi in chiave di legittimità, si doveva muovere in una duplice direzione: formale, quale controllo del procedimento di formazione dell’atto, e materiale, quale controllo di conformità della legge alla Carta costituzionale dal punto di vista sostanziale, del suo contenuto10.

Tuttavia, l’esigenza che l’introduzione della Corte costituzionale non interferisse con l’equilibrio istituzionale intercorrente tra i poteri dello Stato ed in particolar modo con la sfera politica, ed anzi, meglio assicurasse il rispetto di quell’equilibrio stesso, ha reso necessario l’individuazione dei margini di estensione del sindacato di costituzionalità delle leggi.

Il problema del mantenimento del sindacato della Corte entro i confini della legittimità costituzionale, per evitare che il controllo fosse volto ad accertare il merito della disposizione legislativa, aveva indotto alcuni membri dell’Assemblea costituente a ritenere necessario che si introducesse espressamente l’esclusione di un sindacato di merito per meglio determinare l’ambito delle competenze del giudice costituzionale11. Una simile esigenza era volta a rendere maggiormente palese l’intento di «escludere dal sindacato materiale della legge quelle norme, rispetto a cui il giudizio di costituzionalità non potrebbe compiersi se non ponendo a criterio precetti e norme di convenienza politica, che non è possibile ed è sconveniente far formulare ad organi giurisdizionali»12.

diatriba sostanzialmente riprende la contrapposizione tra le posizioni rispettivamente di C. Schmitt [Il custode della costituzione (1931), trad. it., a cura di A. Caracciolo, Milano, 1981] e H. Kelsen (nella raccolta di scritti La giustizia costituzionale, a cura di C. Geraci, Milano, 1981), sulla quale, tra gli altri, v. C. MEZZANOTTE, Corte costituzionale e legittimazione politica, Roma, 1984.

10 La distinzione dei vizi di legittimità in vizi formali e sostanziali ed il loro scrutinio ad

opera della Corte costituzionale è avallata dalla dottrina maggioritaria: per una ricostruzione di sintesi v. A. RUGGERI - A. SPADARO,Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 98 ss.; nonché per

le critiche mosse all’impostazione, sviluppata da Kelsen, secondo la quale tutti i vizi di legittimità avessero carattere formale v. P. BARILE, La costituzionalità delle leggi e degli atti equiparati emanati dopo l’entrata in vigore della Costituzione e il sindacato dei giudici ordinari, in Giur. it.,

1949, II, 74 s.; L. PALADIN, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del

legislatore ordinario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 994 ss. e la bibliografia ivi citata; C.

ESPOSITO,La validità delle leggi, Milano, 1964, 162 s.; A. CERRI,Sindacato di costituzionalità, in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1992, 21 s.

11 L’emendamento proposto da Mortati e Tosato, nella seduta antimeridiana del 28

novembre 1947, era il seguente: «La Corte costituzionale giudica dei ricorsi per violazione di legge costituzionale, escluso qualsiasi sindacato di merito contro gli atti legislativi delle Camere, del Governo e delle Regioni», in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori

dell’Assemblea Costituente, cit., 2620.

12 Intervento di C. Mortati nella seduta antimeridiana del 28 novembre 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, cit., 2620.

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Nonostante il mancato recepimento di una simile precisazione, la competenza della Corte, che ai sensi dell’art. 134 Cost. concerne il giudizio «sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni», risulta essere indicativa di un controllo giuridico e di una sindacabilità degli atti solo in termini di legittimità, esulando dalle maglie di un simile scrutinio valutazioni attinenti al merito.

Le problematiche che hanno alimentato il dibattito in sede di redazione dell’art. 134 Cost. rinvengono un’eco nei lavori preparatori della legge 11 marzo 1953, n. 87, “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”, ed in particolar modo nella formulazione di quello che sarà l’art. 28 di tale legge. Infatti, la delimitazione del confine tra legittimità e merito non è altro che la ricerca del delicato equilibrio tra sindacato costituzionale delle leggi e rispetto dell’area riservata alle scelte politiche ed alla discrezionalità del legislatore.

La valutazione del grado di incidenza del sindacato costituzionale sulla sfera discrezionale del legislatore è tutt’altro che agevole e risulta ab imis acuita dall’ambiguità insita nel disposto dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, al quale si rende necessario far riferimento per l’analisi dei confini della giurisdizione costituzionale.

L’art. 28, pur costituendo il diretto referente normativo in ordine ai limiti del sindacato di legittimità che la Corte è abilitata ad effettuare nei confronti delle leggi, è tutt’altro che lineare nella sua formulazione ed ha creato maggiori problemi interpretativi di quanti ne abbia voluto eliminare. Infatti, la difficoltosa opera interpretativa risulta aggravata dal riferimento alla discrezionalità, in quanto, prima della stessa configurabilità di un possibile sindacato della Corte su una materia rientrante nella sfera discrezionale del legislatore, il nodo centrale da sciogliere è costituito dalla possibilità di riportare all’attività legislativa l’aggettivo “discrezionale”, che è già ontologicamente non riconducibile ad una definizione unitaria ed univoca.

L’analisi di questo articolo rappresenta, pertanto, un imprescindibile tassello per una corretta individuazione del quis e del quantum dei “limiti” ai quali la Corte risulta essere sottoposta nel suo operare o, quanto meno, di possibili linee

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tendenziali in tal senso. Bisogna, innanzitutto, prendere atto del fatto che la formulazione dell’art. 28 ha posto notevoli problemi definitori sin dalla sua comparsa sulla scena e, come ha osservato Zagrebelsky, nessuno dei commentatori che si sono interessati di tale articolo ha raggiunto dei risultati apprezzabili nel tentativo di fornire la definizione più adeguata dei concetti in esso contenuti13. D’altronde, numerose sono state le valutazioni di ordine negativo effettuate in riferimento a tale articolo, qualificato talvolta come norma di «infelice formulazione»14, talaltra come norma «equivoca e contraddittoria»15, o ancora come norma «inopportuna ed incostituzionale»16.

Per comprendere la portata e le critiche mosse a tale articolo, è necessario innanzitutto cogliere quanto emerge dal dato testuale: «il controllo di legittimità

della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento».

L’incipit evidenzia un elemento di particolare pregnanza, in linea con l’orientamento maggioritario affermatosi nel corso dei lavori preparatori che hanno condotto alla legge n. 87 del 1953, in quanto è volto a valorizzare il carattere giurisdizionale dell’attività della Corte. Il giudizio che la Corte è chiamata ad effettuare non può oltrepassare l’ambito della legittimità e, conseguentemente, non può giammai risolversi in un controllo di merito. Tale precisazione potrebbe apparire superflua alla luce del fatto che era già evincibile dal disposto degli artt. 134 e seguenti della Costituzione, ed in tale evenienza può indubbiamente essere ravvisato un indice della “marginale” attenzione riservata all’articolo preso in considerazione.

L’oggetto del controllo di costituzionalità, in conformità a quanto risultante dalla lettera dell’art. 28, è identificabile nella «legge o in un atto avente forza di legge». Pertanto, attenendosi al mero dato letterale ne dovrebbe conseguire la non operatività dei “limiti” ai quali tale articolo fa riferimento, qualora vengano in rilievo le ipotesi diverse da quelle per le quali vi è un’espressa

13

G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1977, 31.

14 F. P

IERANDREI, Corte costituzionale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 906.

15 C. M

ORTATI, Le leggi provvedimento, Milano, 1968, 224.

16 G. G

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menzione in tal senso, ma per le quali la Corte è comunque legittimata a pronunciarsi: i conflitti tra poteri e tra enti e il giudizio d’ammissibilità del referendum. Tuttavia, una tale soluzione non risulta condivisibile, in quanto dalla sistematica generale del nostro ordinamento emerge, come dato incontrovertibile, il carattere unitario del giudizio di costituzionalità: il disposto di tale articolo va, quindi, accuratamente “reinterpretato” alla luce del carattere generale che possiede e che ne comporta l’applicazione «in ogni sede di giudizio per la Corte»17.

Nell’effettuazione del controllo di legittimità costituzionale, l’art. 28 postula due divieti: il compimento di valutazioni di natura politica e il sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento.

Occorre valutare se tali due divieti presentino effettivamente una sfera di autonoma configurazione o se di fatto si ricongiungano in un limite unitario del sindacato di legittimità costituzionale.

Il primo dei due limiti preclude con valenza “assoluta” alla Corte di compiere valutazioni di natura politica, come si evince dall’uso del termine «ogni». Tuttavia, tale divieto, pur avendo quale finalità quella di ricondurre nell’alveo del giuridico le valutazioni che la Corte può “legittimamente” effettuare in sede di sindacato sulle leggi, non fornisce in realtà indicazioni precise sulla consistenza delle valutazioni vietate alla Corte. Infatti, il mero richiamo al carattere politico che le valutazioni stesse dovrebbero possedere per essere incluse nel primo dei due divieti dell’art. 28 non assolve una funzione delimitatoria in senso proprio, per almeno due ordini di ragioni: da un lato, la locuzione «valutazioni di natura politica» è indicativa di una categoria di difficoltosa definizione, data l’ampia genericità che la connota e, dall’altro lato, occorre considerare che la Corte non può esimersi, nell’adottare una determinata soluzione, dal valutare gli effetti, anche politici, della scelta da effettuare18.

17

A. RUGGERI - A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 95 (corsivo

aggiunto).

18 Valutazione che pressoché in modo unitario è riconosciuta come necessaria dalla

dottrina; cfr., ad es., A. RUGGERI - A. SPADARO,Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 95.

Infatti, pur rimettendo alla valutazione della Corte stessa la garanzia del “rifuggire” da giudizi che si risolvano in considerazioni di merito, prettamente politiche, non risulta possibile impedirle di effettuare delle considerazioni lato sensu politiche; in quanto simili valutazioni sono di fatto strettamente connesse al tipo di sindacato che la Corte è chiamata ad effettuare, dal momento che

(14)

Tenendo presenti tali due notazioni, si può osservare che con il divieto di compiere «valutazioni di natura politica» si sia voluto escludere un sindacato politico, o meglio che la Corte costituzionale nel giudicare della legittimità delle leggi non effettuasse valutazioni sull’opportunità delle leggi stesse.

Nel tentativo di delimitare il concetto di valutazione politica e, conseguentemente, vagliare ciò che alla Corte costituzionale non è precluso valutare nel giudizio di legittimità, si è fatto ricorso, quale criterio di selezione, al modo di intendere il rapporto tra l’attività legislativa e la Costituzione ed alla soluzione reputata prevalente o preferibile rispetto a tale tematica di teoria generale.

Si può notare che proprio l’uso di un simile criterio palesa la stretta vicinanza con l’altro divieto al quale l’art. 28 fa riferimento, tanto da determinare un ricongiungimento tra valutazione politica e scelta discrezionale del legislatore, di modo che la prima si concretizzi proprio nell’area della seconda.

Per comprendere, comunque, come sia possibile, almeno astrattamente, tale opera di selezione occorre fare riferimento ai due principali orientamenti sulle modalità attraverso le quali l’attività legislativa si rapporta alla Costituzione. Secondo una prima impostazione l’attività legislativa viene concepita come mero svolgimento delle prescrizioni costituzionali, il cui compito si esaurisce in una semplice prosecuzione/attuazione di quanto previsto a livello costituzionale19; l’altro orientamento ritiene, invece, che l’attività legislativa non si riduca a mera attuazione del dettato costituzionale, ma si presenti come «essenzialmente libera» ed in quanto tale politica20.

Tali due differenti ricostruzioni dell’attività legislativa si muovono sul delicato sfondo della contrapposizioni sulla qualificazione o meno della Costituzione in termini di “sistema di fini compiuto ed autosufficiente”21

, di “tavola di valori chiusa”22

.

nell’assumere la decisione in relazione ad un determinato caso concreto non sarà possibile disancorare dalla valutazione complessiva quegli aspetti concernenti l'influenza che la pronuncia stessa avrà sull’ordinamento giuridico.

19

F. MODUGNO, L’invalidità delle leggi, Milano, 1970, I, 323 ss.

20 G. Z

AGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 159.

21 F. M

ODUGNO, L’invalidità delle leggi, cit., II, 616 ss.

22 C. M

(15)

L‘adesione all’una o all’altra ricostruzione presenta significative ricadute sulla stessa possibile operatività del disposto dell’art. 28 della l. n. 87 del 1953, in quanto se l’attività legislativa è funzionalizzata rispetto alla Costituzione, non risulta possibile individuare delle aree esenti dal controllo di costituzionalità. Se, quindi, l’attività legislativa è mero sviluppo del dato costituzionale, non vi sono spazi per scelte politiche libere, sicché qualunque valutazione dell’oggetto di tale attività afferisce pur sempre alla legittimità costituzionale e rende possibile l’esplicazione del giudizio della Corte, senza che quest’ultima incorra in valutazioni alla stessa “vietate”. Ne discende che in tal modo si rende sostanzialmente vano il disposto dell’art. 28, che risulta privo di margini di operatività.

Di contro, se si conviene sul fatto che l’attività legislativa non si riduca a mera attuazione del dettato costituzionale, è possibile individuare la presenza di “spazi vuoti” e, conseguentemente le eventuali valutazioni della Corte che incidano su questi spazi non potranno che essere considerate come politiche ed in quanto tali vietate ex art. 28 della l. n. 87 del 1953. In tal modo la dottrina giunge a configurare la presenza di uno «spazio vuoto di diritto costituzionale»23, caratterizzato dal fatto che il potere legislativo in determinati “contesti” risulta essere privo di parametro costituzionale24. Indubbiamente, una tale situazione non può che attestare un ampliamento della libertà del legislatore, in linea con il disposto dell’art. 28 che preclude alla Corte il compimento di talune valutazioni, e una contestuale riduzione dell’area dei vizi sindacabili25

.

D’altronde, pur intendendo in tale prospettiva l’espressione “valutazioni di natura politica”, permangono dei problemi, in considerazione del fatto che è tutt’altro che agevole l’individuazione della linea che consente di discernere tra scelte costituzionalmente vincolate e scelte costituzionalmente libere. Infatti, non si può escludere dal giudizio che la Corte è chiamata ad effettuare ogni valutazione di natura politica in quanto è necessario, per stabilire la legittimità o

23 G. Z

AGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 159.

24 Occorre, tuttavia, osservare, come fatto notare in dottrina, che in realtà è difficile non

individuare alcun parametro costituzionale, in considerazione del frequente richiamo operato dalla giurisprudenza costituzionale all’art. 3 Cost.; cfr. P. COSTANZO,Legislatore e Corte costituzionale. Uno sguardo d’insieme sulla giurisprudenza costituzionale in materia di discrezionalità legislativa dopo cinquant’anni di attività, cit.

25 A. R

(16)

meno di una legge, assumere come elemento di raffronto «non solo la lettera della Costituzione ma il suo spirito, non solo le sue disposizioni precettive ma anche i suoi principi programmatici, che sono niente di più e niente di meno che le grandi linee di un programma di opinione politica»26.

Il secondo divieto codificato dall’art. 28, concernente l’esclusione per la Corte costituzionale di «ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento», è stato quello sul quale maggiormente si è concentrata l’attenzione dei commentatori. Inizialmente, a tale disposto è stata riconosciuta una portata riduttiva dell’ambito di estensione del sindacato di legittimità costituzionale, in quanto veniva interpretato come divieto per la Corte costituzionale di giudicare sul c.d. vizio di eccesso di potere27. Una tale lettura era avallata dall’adozione di una definizione di discrezionalità alla luce delle ricostruzioni effettuate in ambito amministrativo e caratterizzate dal ravvisare l’eccesso di potere quale risvolto patologico di un “cattivo” esercizio della discrezionalità.

D’altronde, dalla stessa analisi dei lavori preparatori della legge n. 87 del 1953 è possibile notare che era presente in taluni l’esigenza di escludere la sindacabilità del vizio di eccesso di potere nella sua interezza. In tale direzione va, infatti, letta la proposta di sopprimere dal testo di quello che sarebbe stato l’art. 28 la parte finale del secondo divieto che risultava del seguente tenore: «sindacato sull’uso del potere discrezionale conferito al Parlamento per la determinazione dei fini da perseguire nello svolgimento della sua funzione». La parte finale espunta dal testo vigente è stata ritenuta foriera di possibili equivoci perché la formula utilizzata evocherebbe quella peculiare forma di eccesso di potere sub specie di sviamento, con il rischio di ritenere che le altre manifestazioni di tale vizio possano essere sindacate dalla Corte, come evidenziato dall’on. Lucifredi nella discussione svoltasi nella seduta pomeridiana del 14 marzo 1951 presso la Camera dei Deputati28.

Tuttavia, questa lettura del divieto del sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento è stata in parte superata da quella volta ad

26 P. C

ALAMANDREI, Corte Costituzionale e autorità giudiziaria, in Riv. dir. proc., 1956, I, 51.

27 G. G

UARINO,Abrogazione e disapplicazione delle leggi illegittime, cit., 356 ss.

28 Cfr. Atti parlamentari -Camera dei deputati, seduta pomeridiana di mercoledì 14 marzo

(17)

evidenziare che il vero oggetto del divieto dovrebbe essere generalmente individuato nel sindacato sul merito della legge29, lungi dal ricorrere alla figura dell’eccesso di potere. Infatti, ciò che l’art. 28 preclude è «la possibilità di un sindacato politico e di un’indagine sui fini perseguiti nello svolgimento della funzione legislativa»30.

L’espressione “potere discrezionale del Parlamento” ha dato luogo a numerose critiche, sostanzialmente riconducibili alla difficoltà di individuare il significato da attribuire al termine “discrezionale” nell’ambito del rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento, vale a dire in un contesto differente da quello amministrativo nel cui alveo il termine ha assunto un’autonoma concretizzazione31. Pur riconoscendo l’influenza della elaborazione della dottrina amministrativistica nell’individuazione del concetto di “discrezionalità” con riferimento all’attività normativa – e d’altronde non potrebbe essere altrimenti in un ordinamento la cui struttura dovrebbe evitare una mera suddivisione in compartimenti stagni –si deve considerare che non è possibile un amorfo trapianto dal campo amministrativo a quello lato sensu legislativo, per le peculiarità connotanti i due diversi ambiti.

Innanzitutto, il concetto di discrezionalità presuppone, da un lato, la funzionalizzazione del potere da esercitare e, dall’altro, l’assenza o l’incompletezza di disposizioni giuridiche circa i comportamenti da adottare per

29

A. PIZZORUSSO,Il controllo della Corte costituzionale sull’uso della discrezionalità

legislativa, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1986, 799 (da cui si cita), ora anche in AA. VV.,

Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano, 1988, 71 ss.

30 Intervento di Tesauro, relatore della Commissione parlamentare, Atti parlamentari -

Camera dei deputati, nella seduta pomeridiana di mercoledì 14 marzo 1951, cit., 27101.

31

La ricostruzione del concetto di discrezionalità nell’ambito amministrativo è strettamente ancorata alla realizzazione dell’interesse pubblico: infatti, è indicativo di quello spazio di scelta della disciplina concreta, riconosciuto al titolare dell’interesse, in considerazione di una valutazione d’opportunità effettuata dall’ordinamento che reputa più confacente al miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico il riconoscimento di un simile potere di determinazione dell’attività, sia pur nel rispetto dei fini stabiliti per quell’interesse stesso. Pertanto, come evidenziato dal Giannini, l’essenza della discrezionalità risiede nella «ponderazione» comparativa dei vari interessi secondari in relazione all’interesse pubblico, quale fine da perseguire, nell’assunzione di una determinazione concreta. Si può, quindi, notare che il termine discrezionalità evoca un’attività libera, ma è una libertà che non si atteggia in modo assoluto in quanto incontra dei limiti positivi: il perseguimento dell’interesse pubblico; l’attenersi alla causa del potere; il rispetto del principio di logica; il rispetto del principio d'imparzialità. Ne discende che le scelte discrezionali sono orientate da un obiettivo finale – realizzare l’interesse pubblico – e dai principi che presiedono l’esercizio del potere amministrativo: cfr. M.S. GIANNINI,Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetti e problemi, Milano, 1939, ora in Scritti, I,

(18)

esercitare il potere stesso; sicché il «carattere ibrido della discrezionalità deriva appunto dalla commistione dell’elemento del vincolo derivante dalla funzione, con quello della libertà nella ricerca dei mezzi attraverso cui essa deve trovare soddisfazione»32. Da una tale commistione ne è stata fatta discendere una duplice accezione della discrezionalità quale attività non interamente libera, ma almeno in parte vincolata o viceversa quale attività non interamente vincolata, ma almeno in parte libera33.

Definizioni che sono state utilizzate anche in relazione alla possibile riconducibilità del carattere discrezionale all’attività legislativa, conducendo all’individuazione di una duplice dimensione della c.d. discrezionalità legislativa34: come attività libera nelle valutazioni d’opportunità da effettuare, ma priva del carattere della libertà in relazione alla “direzione” da seguire, in quanto volta al perseguimento dei fini individuati dal dettato costituzionale; e come attività libera le cui valutazioni sono espressione di opportunità politica e non valutabili in termini di aderenza alle norme costituzionali.

Si può, quindi, notare che le due predette accezioni dell’attività discrezionale riproducono, con talune variazioni di intensità, la distinzione precedente sul rapporto tra la fonte legislativa e quella costituzionale. La prima di tali due accezioni palesa il possibile parallelismo intercorrente con l’attività amministrativa, alla luce del fatto che in entrambi i casi il potere da esercitare “deve” essere orientato alla realizzazione di un dato fine, con la conseguenza che l’eventuale inosservanza dà luogo al configurarsi di un eccesso di potere. Il

32 C. M

ORTATI,Discrezionalità (voce), in Noviss. dig. it., V, Torino, 1960, 1100. 33

A. PIZZORUSSO,Il controllo della Corte costituzionale sull’uso della discrezionalità

legislativa, cit., 796. 34 Cfr. L. P

ALADIN, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, cit., 993 ss.; A. PIZZORUSSO,Il controllo della Corte costituzionale sull’uso

della discrezionalità legislativa, cit., 795 ss.; I. MASSA PINTO, La discrezionalità politica del

legislatore tra tutela costituzionale del contenuto essenziale e tutela ordinaria caso per caso dei diritti nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1998. 1309 ss.;

AA.VV.,La discrezionalità del legislatore nella giurisprudenza della Corte costituzionale (1988-1998), a cura M. Scudiero - S. Staiano, Napoli, 1999; A. SPERTI,La discrezionalità del legislatore,

in AA.VV.,L’accesso alla giustizia costituzionale: caratteri, limiti, prospettive di un modello, a cura di R. Romboli, Napoli, 2006, 627 ss.; A. RUGGERI, La discrezionalità del legislatore tra teoria e prassi, in Dir. e soc., 1/2007, 1 ss., ora in ID., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle

fonti, X, Studi dell’anno 2006, Torino, 2007 ; E. ROSSI,Corte costituzionale e discrezionalità del legislatore, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta. Atti del seminario

svoltosi a Stresa il 12 novembre 2010, a cura di R. Balduzzi, M. Cavino, J. Luther, Torino, 2011, 333 ss.

(19)

secondo significato, comportante la configurazione di una attività praeter

constitutionem35, evidenzia un ambito rispetto al quale non è possibile un controllo di legittimità.

La prospettata duplice valenza del termine discrezionalità non è altro che il “risvolto” teorico di un’articolazione binaria nell’ambito pratico: l’una e l’altra strettamente congiunte nel tentativo di fornire una soluzione “ragionevole” dell’articolato rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento.

Indubbiamente nell’interpretazione dell’art. 28 di notevole rilevanza è stata la riportabilità dell’aggettivo “discrezionale” all’uno o all’altro dei suoi due significati prevalenti, in quanto dal modo di intendere tale termine dipende la stessa ampiezza del sindacato costituzionale.

D’altronde, pur nella prevalenza dell’accezione di discrezionalità quale attività libera, occorre tener presente che ciò non può comportare sic et simpliciter l’abbandono della configurabilità dell’altro significato: ben è possibile la coesistenza di entrambi i significati di discrezionalità. Infatti, se è pur vero che nella maggior parte delle situazioni non è possibile individuare dei veri e propri limiti positivi, quanto piuttosto dei “vincoli negativi” per la legislazione36

, tuttavia non mancano situazioni nelle quali l’attività legislativa presenta margini di doverosità nell’attuazione di un dato fine individuato in Costituzione37

.

Per valutare la portata dell’art. 28 della l. n. 87 del 1953 e delle problematiche ad esso sottese, non si può prescindere dal riprendere le motivazioni che hanno condotto all’adozione di tale articolo. L’aspetto più pregnante che emerge dalla relazione della Commissione speciale della Camera dei deputati sul disegno di legge concernente norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte38 è la valorizzazione del carattere giurisdizionale del controllo svolto dalla Corte, un controllo che permane tale anche quando l’oggetto del sindacato è l’attività legislativa. Ne discende che con la dizione dell’art. 28 non si intendeva far altro che escludere il sindacato nel merito della legge per

35 A. P

IZZORUSSO,Il controllo della Corte costituzionale sull’uso della discrezionalità legislativa, cit., 797.

36

L. PALADIN,Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore

ordinario, cit., 993 ss.

37 Basti pensare all’art. 14, ult. comma, all’art. 16, all’art. 41 e all’art. 42 Cost. 38 Camera dei Deputati, Documenti, 1950, n. 469-A.

(20)

prevenire eventuali interferenze con il legislatore, sebbene la sua formulazione poco chiara abbia dato luogo ad una pluralità di interpretazioni39. A fronte della direzione del divieto dell’art. 28, si possono ricavare due ordini di considerazioni. In primo luogo, alla Corte non è precluso il controllo di rispondenza della legge ad un dato fine costituzionalmente delineato, allorquando il raggiungimento di questo fine si ponga come vincolo per la legge stessa. In secondo luogo, l’assenza di un siffatto fine e, quindi, la non possibilità di ravvisare una “direzione” indicata dalle disposizioni costituzionali non impedisce che un controllo possa essere effettuato, in quanto la portata dell’art. 3 della Costituzione, dapprima sub specie del rispetto del principio di eguaglianza e successivamente anche del principio di ragionevolezza, è tale da consentire – e forse da imporre –, in date circostanze, alla Corte di scrutinare, sia pur in relazione a tele peculiare parametro, anche le scelte discrezionali del legislatore.

3. Delimitazione e classificazione della “sfuggente” nozione di questione

politica

L’individuazione dei confini del sindacato della Corte costituzionale nell’ambito del giudizio sulle leggi ed in particolar modo nella via incidentale presuppone la corretta delimitazione della nozione di “questione politica”, in quanto la portata di una simile nozione rende più o meno ampia l’estensione del giudizio costituzionale. Tale crescita inversamente proporzionale discende dal disposto dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953 che espressamente esclude che la Corte costituzionale possa effettuare valutazioni politiche e sindacare l’uso del potere discrezionale del Parlamento. Occorre valutare, quindi, in presenza di quali condizioni e/o presupposti la questione di legittimità costituzionale che viene sottoposta al giudizio della Corte costituzionale possa essere qualificata come questione “politica”.

(21)

Tuttavia, il tentativo di definire il quid dell’espressione “questione politica” risulta tutt’altro che agevole non solo in considerazione del carattere sfuggente che connota l’aggettivo “politico”, ma anche per la molteplicità di angoli visuali da cui può essere osservato.

La ricostruzione necessita, innanzitutto, di una sia pur breve disamina dell’evoluzione che ha interessato il termine “politica” e, successivamente, si potrà procedere all’individuazione della definizione più opportuna ed idonea per le finalità che sorreggono il presente lavoro.

Occorre, innanzitutto, considerare che il termine “politica” può essere utilizzato con un duplice intento: uno estensivo, in modo tale da ricomprendere tutte le molteplici interazioni sotto l’ombrello della politicità, in ossequio ad una visione panpolitica; ed uno riduttivo, tale da limitare a pochissime manifestazioni i fenomeni riconducibili alla politica. Entrambe queste visioni vanno rigettate in quanto condurrebbero a risultati distorti ed inidonei a comprendere il reale atteggiarsi del termine nel nostro sistema. Pertanto, escluso che tutto possa essere considerato come politica o che eccezionali siano le manifestazioni della stessa, occorre valutare quale sia il criterio per mezzo del quale sia possibile limitare e selezionare le manifestazioni della politica, individuandone i caratteri specifici. Per effettuare un simile compito è opportuno risalire all’origine del fenomeno politica e, sia pur nei limiti consentiti dal presente lavoro, prendere in considerazione l’evoluzione subita dal termine.

In tale percorso occorre tener presente che il termine politica, sebbene unitariamente inteso, può essere riguardato da tre angoli visuali: la «dimensione

storico-istituzionale entro cui si organizza un tipo determinato di relazioni», la

«modalità determinata di azione» e le «discipline che studiano quella dimensione

storico-istituzionale e/o questo genere di prassi»40.

Sono in particolar modo le prime due prospettive quelle che rilevano per la determinazione della nozione di questione “politica”.

In tale tentativo definitorio è necessario considerare che, trattandosi di una nozione complessa rispetto alla quale molteplici sono le definizioni fornite – e non potendo ripercorrerle esaustivamente in considerazione della sede nella quale ci si

40 R. G

(22)

trova –, si effettuerà una selezione, sia pur sommaria, di quelle impostazioni che possono presentare maggiori margini di interesse. Pertanto, pur essendo nota la “magmaticità” del termine politica e lungi dal pretendere di fornirne una unitaria sistematizzazione, occorre individuare una possibile definizione o comunque coglierne gli aspetti maggiormente identificativi.

Il concetto di politica è indubbiamente uno dei più antichi ed è strettamente collegato all’instaurarsi delle prime relazioni tra gli esseri umani, collegandosi ad un modo di essere dello stesso individuo ed alle modalità di riconduzione ad unità delle varie relazioni. Si deve, infatti, ad Aristotele la qualificazione dell’uomo come animale politico (ζώoν πολιτικόν) che evidenzia la necessità che l’individuo viva organizzandosi all’interno della comunità di cui fa parte, in quanto solo quest’ultima garantisce la piena esplicazione dell’uomo consentendogli di «vivere in modo felice e bello»41.

Nella sua accezione originaria e più alta il termine politica indica, pertanto, la cura della polis, dell’interesse generale. Una simile finalità viene realizzata attraverso la comunità politica dei consociati che costituiscono quell’organizzazione del potere mediante la quale vengono discusse ed adottate le decisioni sulle questioni di maggiore importanza relative alla polis stessa. Ne discende che la politica si identifica con la decisione che viene assunta nello spazio pubblico e che consente di contemperare le opinioni eventualmente conflittuali per assicurare la realizzazione del bene comune per la polis; esprime, pertanto, una forma di mediazione nello spazio pubblico.

Tuttavia, dalla sua declinazione di “amministrazione” della società per il bene comune, la nozione di politica ha subito significativi mutamenti, tali da evidenziarne una progressiva “degenerazione”: da cura dell’interesse generale quale finalità propulsiva ed effettiva a cura dell’interesse generale quale finalità propulsiva ma non effettiva, in quanto spesso volta a mascherare la cura di interessi particolari42.

41 A

RISTOTELE, Politica, III, 9, 1281 a 2-3, in Opere, trad. it di R. Laurenti, vol. IX, Roma-Bari, 1983, 88.

42

D’altronde, la preoccupazione che la politica si proietti in una visione parziale delle cose era già rintracciabile nella posizione di un ateniese del V sec. A.C. che reputava «difficile partecipare all’amministrazione dello Stato rimanendo onesto», come evidenziato nella Lettera

(23)

Nel tentativo di far recuperare gli originari margini di “nobiltà” a un concetto che evoca nell’immaginario collettivo una visione ormai distorta, taluni autori hanno cercato di ricostruire il concetto di politica, spesso analizzandolo in una duplice prospettiva. In particolar modo, secondo una prima impostazione43 al termine politica dovrebbe essere ricondotto un doppio significato: come sistema politico in generale e come politica dei partiti. Nella prima accezione indicherebbe «tutte le interazioni che in quanto tali contribuiscono al formarsi di decisioni collettivamente vincolanti», mentre con la seconda si alluderebbe alla «creazione di potere politico in vista di decisioni ancora indeterminate». Pertanto, solo la prima definizione corrisponderebbe alla politica nel senso alto del termine, mentre la seconda coglierebbe i rapporti tra le forze politiche nel tentativo di affermare il loro potere.

Una seconda ricostruzione bipartisce la nozione di politica attraverso due definizioni risalenti di fatto al pensiero giusnaturalistico: il pactum societatis e il

pactum subiectionis44. Con la prima espressione si coglie la politica come cooperazione, in quanto si estrinseca in una «attività rivolta a produrre convivenza, unione»45 mentre la seconda individua l’aspetto conflittuale della politica, quale «competizione tra le parti, lotta per il sopravvento che ha il governo come posta in gioco»46.

La valorizzazione dell’aspetto conflittuale quale dato caratteristico di una delle possibili accezioni della politica era già presente nell’elaborazione schmittiana che aveva individuato quale criterio per distinguere la politica dagli altri settori della vita umana la contrapposizione amico/nemico. Tale coppia concettuale consente di capire che «il ‘politico’ può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo; esso infatti non indica un settore concreto particolare ma solo il

43

N. LUHMANN,Stato di diritto e sistema sociale, Napoli, 1990, 52. 44

Il pactum societatis era, infatti, considerato come un accordo per vivere in società, idoneo a trasformare una «moltitudo in populus»; mentre il secondo pactum determinava la sottomissione della società ad un determinato potere politico, con conseguente trasformazione del «populus in civitas». Per la ricostruzione di tali concetti v. il pensiero di J. LOCKE, ad es., in Due

trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. Pareyson,Torino, 1982. 45 G. Z

AGREBELSKY,Principî e voti. La Corte costituzionale e la politica, Torino, 2005,

38.

46 G. Z

(24)

grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini»47. La distinzione amico/nemico serve per comprendere le azioni politiche che possono essere colte nel momento «critico», in quanto nel caso in cui vi sia un conflitto, nella «lotta reale» occorre comprendere chi sia il nemico per assumere le decisioni idonee a proteggere l’amico. In particolar modo, il concetto di politico finisce con il sovrapporsi con quello di omogeneità di un dato popolo e con il richiamare la stessa nozione di democrazia48. Infatti, «lo Stato in quanto unità politica si basa sull’unione di due principi strutturali opposti, il principio dell’identità (cioè del popolo presente con se stesso in quanto unità politica, se in forza di una propria coscienza politica e volontà nazionale ha la capacità di distinguere fra amico e nemico), e il principio della rappresentazione in forza del quale l’unità politica è impersonata dal governo»49.

Nonostante l’ambiguità linguistica del termine politica è possibile trarre elementi utili dai predetti tentativi definitori per individuare il proprium delle cc.dd. questioni politiche.

Infatti, la nozione di questione politica50 può essere paragonata, per la labilità ed evanescenza che la contraddistingue, ad un grande contenitore al cui interno sono individuabili varie tipologie di questione politica, connotate da una

47

C. SCHMITT, Il concetto di ‘politico’ (1932), in Le categorie del ‘politico’. Saggi di

teoria politica, trad. it., a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, 1972, 121. 48 Per tali connessioni v. C. S

CHMITT,Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles. 1923-1939, trad. it., a cura di A. Caracciolo, Milano, 2007, 93: «ogni effettiva democrazia si basa sul fatto che non soltanto l’uguale è trattato egualmente (Gleiches gleich), ma con conseguenza inevitabile il non-eguale è trattato in modo non-eguale (Nichtgleiche nicht gleich

behandelt wird). Della democrazia fa parte quindi necessariamente in primo luogo l’omogeneità ed

in secondo luogo – all’occorrenza – l’espulsione o l’annullamento dell’eterogeneo. (…) La forza politica di una democrazia si dimostra nel fatto che essa sa eliminare o tener lontano lo straniero, il non-uguale, quelli che minacciano l’omogeneità».

49 C. S

CHMITT, Dottrina della costituzione, trad. it., a cura di A. Caracciolo, Milano, 1984, 283.

50

Locuzione che, sia pur con le dovute differenze riconducibili alle peculiarità del sistema di giustizia costituzionale americano e di quello italiano, evoca la c.d. dottrina delle political

questions di matrice statunitense per indicare un ambito sottratto alla giustiziabilità. E così, ad es.,

una pregnante differenza attiene allo stesso presupposto che connota la categoria delle political

questions, poiché nel sistema americano tali controversie non risultano collegate alla sussistenza

di spazi “liberi” per il legislatore, quanto piuttosto sono funzionali a garantire il rispetto del principio della separazione dei poteri. Infatti, il rifiuto della Corte suprema di esaminare una

political question è volto ad impedire che i giudici costituzionali «si pronuncino su questioni che

potrebbero coinvolgerli in affari appartenenti alla sfera di competenza degli altri poteri dello Stato». Cfr. L. ELIA, La guerra di Spagna come “fatto ideologico”: un caso di “political question”, in Giur. cost., 1968, 1749 ss.; C. PIPERNO,La Corte costituzionale e il limite di political

(25)

differente intensità, con conseguente graduabilità delle medesime e differente rilievo del rapporto con il sindacato della Corte costituzionale.

Il ricorso ad una nozione unitaria di questione politica presenta nel contempo un aspetto negativo e positivo, in quanto vi è, da un lato, il rischio di determinare la creazione di un insieme non omogeneo nel quale finiscono con il confluire ipotesi tra loro notevolmente distanti e, dall’altro, vi è il vantaggio di tentare di individuare un minimo comun denominatore della c.d. questione politica. Il collante delle varie ipotesi riconducibili all’etichetta “questione politica” può essere ravvisato nella effettuazione di una scelta mediante una decisione che incide sulla c.d. sfera pubblica51: aspetto che può assumere intensità diversificate in relazione alla tipologia di questione politica che viene in rilievo.

Innanzitutto, è possibile distinguere due macroaree dell’insieme “questione politica”: le questioni politiche in senso lato e le questioni politiche in senso stretto. Mentre le prime afferiscono all’area della politica in senso alto, in quanto indipendentemente dall’operatore concretamente considerato sono volte a “produrre convivenza”, le seconde, invece, non possono prescindere dal riferimento all’operatore politico ed alla scelte da questi effettuate per gestire la porzione di potere.

Pertanto, le questioni politiche in senso lato sono questioni che presentano una rilevanza politica, che sono intrise di elementi di politicità, che sono idonee ad incidere sui processi di decisione politica, ma che non afferiscono a scelte riservate al legislatore.

All’interno della seconda macroarea, volta a ricomprendere quelle questioni politiche che si caratterizzano per il rilievo che la decisione degli organi politici assume, è possibile distinguere le questioni politiche concernenti l’indirizzo politico e le questioni politiche riguardanti la discrezionalità del legislatore. Tali due species dell’unitario genus di questione politica in senso stretto sono accomunate dall’afferenza alle scelte del legislatore. Tuttavia, tale elemento non può essere assunto come dirimente per l’individuazione del

proprium della categoria in quanto ogni legge, sindacabile dalla Corte, è frutto

comunque di una scelta politica. Occorre, quindi, valutare se a priori sia possibile

51 Per una ricostruzione v., per tutti, l’ormai classico J . H

ABERMAS, Storia e critica

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