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Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi

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Academic year: 2021

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Direzione

AndreA StAid (Naba, Milano)

Comitato editoriale

AndreA StAid (Naba, Milano); MASSiMiliAno GuAreSchi (Naba, Milano);

MAurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano)

Comitato scientifico

MArco AiMe (Università degli Studi di Genova); Bruno BArBA (Università

degli Studi di Genova); Piero zAnini (École Nationale Supérieure

d’Architecture de Paris la Villette); FrAnco lA ceclA (Naba, Milano);

Vincenzo MAterA (Università degli Studi di Milano-Bicocca); MAtteo

MeSchiAri (Università degli Studi di Palermo); VAlentinA PorcellAnA

(Università degli Studi di Torino); GiuSePPe ScAndurrA (Università degli

Studi di Ferrara); eMAnuele FABiAno (Pucp, Pontificia Universidad Católica

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Stefano Boni, Alexander Koensler, Amalia Rossi

Etnografie militanti

Prospettive e dilemmi

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www.meltemieditore.it redazione@meltemieditore.it

Collana: Biblioteca / Antropologia, n. 44 Isbn: 9788855192415

© 2020 – meltemipresssrl

Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano

Sede operativa: via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 22471892 / 22472232

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7 Ringraziamenti Introduzione

9 La stagione delle etnografie militanti?

I. Relazioni e ricerca

Capitolo primo

21 Dalla “crisi della rappresentazione” all’etnografia militante, pubblica e applicata Capitolo secondo

33 Verso un’autocritica dell’antropologia critica e dell’etnografia militante

Capitolo terzo

65 Un delicato equilibrio

tra distanziamento e coinvolgimento Capitolo quarto

89 Ricerca e militanza: un’imperfezione inevitabile II. Dilemmi e pratiche

Capitolo quinto

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135 La moltiplicazione delle modalità di restituzione Capitolo settimo

155 I dilemmi della ricerca collaborativa Capitolo ottavo

169 La prassi della restituzione tra istituzionalizzazione e militanza

III. Casi ed esperienze di restituzione

Capitolo nono

187 Il “Peasant Activism Project”:

restituire attraverso documentari etnografici

di Alexander Koensler

Capitolo decimo

204 Metodo militante nel contrasto

alla dispersione scolastica dei minori sinti

di Amalia Rossi

Capitolo undicesimo

217 Dubbi, collaborazioni e sperimentazioni

di Stefano Boni

Appendice 231 Questionario 233 Bibliografia

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Gli autori desiderano ringraziare, per il loro supporto e per la condivisione di idee e riflessioni, Andrea Staid, Cri-stina Papa, Fabrizio Loce Mendez e gli attivisti del “Peasant Activism Project”, Giuseppe Bolotta, Giorgio Bezzecchi e la comunità Sinti di Pavia. Un particolare ringraziamento va inoltre a Nadia Breda, Agata Mazzeo, Irene Peano, Giacomo Pozzi, Andrea Staid, Alessandro Senaldi, Claudio Sopranzet-ti e Mauro Van Aken, che hanno accettato di rispondere alla nostra intervista-questionario e il cui contributo è riportato nel testo in forma di “comunicazione personale”.

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con i multipli di 3 sono state redatte da Stefano Boni, quelle seguen-ti, (4, 7, 10 etc.) da Alexander Koensler, quelle successive (5, 8, 11 etc.) da Amalia Rossi.

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La stagione delle etnografie militanti?

Le stagioni della militanza intellettuale ritornano, sempre. Dopo l’inverno arriva la primavera, dopo il disimpegno a fa-vore di una scienza che si presenta come neutra, si torna ad intrecciare sapere e politica. La militanza prende spunto dal-la voglia di capire, di provocare, di cambiare. Oggi i ricordi dei lunghi anni Settanta sembrano sfumare, ma quegli anni hanno segnato la storia della militanza intellettuale contem-poranea: Hans-Markus Enzensberger e Jean-Paul Sartre in viaggio di solidarietà a Leningrado, quest’ultimo e Michel Foucault che si alternano ad un megafono durante le ma-nifestazioni parigine del Sessantotto, Said di ritorno in Pa-lestina, gli insegnanti che si presentavano al confine afgano con tesserino del PCI sono alcune immagini delle pose degli intellettuali engagé. Che cosa è rimasto oggi, o meglio, che forme ha preso oggi l’impegno nelle scienze sociali?

Passata la grande stagione in cui sembrava quasi che si po-tesse scrivere soltanto per cambiare il mondo e impegnarsi sul presente, Umberto Eco, nell’introduzione del 1980 a Il nome

della rosa, tira un sospiro di sollievo: “[…] è ora consolazione

dell’uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amore di scrivere. Sono finiti i tempi in cui per poter scrivere serviva la militanza” (2012, p. 14). Negli anni Ottanta si faceva spazio anche il cinismo e il ripie-gamento su sé stessi. Ma più di recente il disinteresse e

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l’in-differenza sembrano attenuarsi in molti progetti intellettuali. Sembrano emergere nuove scintille di indignazione, di impe-gno, di militanza. In Italia, solo per menzionare le più note, la voce di Zerocalcare in difesa degli spazi autogestiti e per la democrazia partecipativa nelle zone curde della Siria, quella di Michela Murgia per il salvataggio dei migranti o quella di Roberto Saviano per l’affermazione della legalità e dello sta-to di diritsta-to sono soltansta-to alcuni dei possibili esempi di una nuova generazione di intellettuali e artisti in cui si mescola l’esplorazione in prima persona di situazioni critiche, con il desiderio di capire e di provocare un’indignazione in grado di scuotere le coscienze e attivare reazioni concrete. Queste posizioni dimostrano che la militanza in prima persona, sul campo, non è morta, non lo è mai stata.

All’interno di quel vasto mondo dell’impegno intellet-tuale, la ricerca sul campo in antropologia, l’etnografia, as-sume un ruolo centrale. Probabilmente nessun’altra pratica scientifica come l’etnografia si espone così profondamente al coinvolgimento in prima persona. Probabilmente anche per questo motivo questioni di posizionamento e responsabilità sono emerse con particolare forza in campo antropologico. Infatti, la consapevolezza che ogni indagine e riflessione vie-ne condotta a partire da uno specifico posizionamento del ricercatore ha decretato da tempo il definitivo abbandono della pretesa oggettività del sapere. La rilevanza della sog-gettività di chi fa ricerca è particolarmente evidente nell’ela-borazione di etnografie, sia per ciò che concerne la scelta del tema che per l’impostazione dell’indagine. Ogni percorso di approfondimento etnografico è condotto da una specifica collocazione assunta dal ricercatore, una collocazione ne-cessariamente soggettiva: cosa muove il ricercatore? Cosa si aspetta dalla sua ricerca? Come interagisce la sua specifica identità con quella della collettività che studia? Che dina-miche di potere presuppone e scatena la presenza dell’etno-grafo? Le complesse interazioni tra ricercatore e contesto hanno conseguenze innegabili e rilevanti sulle dinamiche investigative, sui risultati della indagine e spesso anche sul

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circuito studiato: non esistono quindi etnografie politica-mente asettiche, la stessa dichiarazione di imparzialità è un posizionamento politico. Con l’abbandono della pretesa di offrire rappresentazioni neutre e oggettive si è riconosciuto che ogni ricerca è prodotta dall’incontro tra soggettività con proprie motivazioni e tensioni che generano relazioni politi-che sia durante la ricerca politi-che nel corso della sua diffusione.

La storia della disciplina, con i risultati in termini di ela-borazione teorica e produzione di documentazione, è inne-stata sugli specifici (e spesso controversi) posizionamenti degli antropologi. Solo per fare alcuni esempi, alcuni clas-sici dell’antropologia (ad esempio Evans-Pritchard 1975; Benedict 1993) sono stati il risultato di ricerche condotte in ambito militare; i testi (anche quando non lo riconosco-no) testimoniano le preoccupazioni e le conseguenze delle attività belliche o coloniali. Altre indagini invece (Mead 2009; Clastres 2003) hanno avuto l’esplicito intento di rap-presentare la diversità culturale come modo per innescare trasformazioni nella società in cui gli antropologi stessi sono cresciuti. Più recentemente alcune antropologhe hanno sele-zionato temi di indagine inediti per contribuire a riconoscere il protagonismo femminile e rafforzare le rivendicazioni di parità dei generi (Campani 2016). L’intenzione che soggiace alla ricerca è centrale per capire come è stata applicata la metodologia etnografica e i risultati che ha prodotto. L’etno-grafia militante, oggetto di questo testo, è un peculiare po-sizionamento che emerge con prepotenza negli antropologi e nelle antropologhe che si formano all’inizio del terzo mil-lennio, parte di una più ampia tendenza alla ricerca attivista che investe altri ambiti delle scienze umane e sociali quali la pedagogia, la sociologia e la geografia.

In un recente testo Berardino Palumbo (2018) sostiene che uno dei tratti caratterizzanti la storia degli studi demoetno-antropologici nazionali sia stata una prospettiva critica che ha alimentato un impegno pubblico, a tratti esplicitamente politico. Questo tratto costitutivo della disciplina subisce una battuta di arresto dalla metà degli anni Ottanta fino ai primi

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anni del nuovo millennio ma, come mostriamo in questo testo, la pausa è stata momentanea. Nella seconda metà della prima decade del terzo millennio prende forma, nell’ambito dell’an-tropologia italiana, una nuova ondata di politicizzazione della pratica etnografica di notevole interesse. Essa si nutre di una genealogia intellettuale e di impegno pubblico, di un partico-lare intreccio tra rigore scientifico e vocazione morale (vedi capitolo 2). Si tratta di una prospettiva di pratica e azione raf-forzata e legittimata dai dibattiti epistemologici dell’antropo-logia mondiale che avevano chiarito non solo la rilevanza ma anche l’ineludibilità del posizionamento del ricercatore:

[…] la recente ricerca antropologica nel nostro paese ha infatti fatto propria la consapevolezza del nesso costitutivo tra poteri, saperi, critica etnografica e posizionamenti politici degli stessi studiosi che connota la scienza sociale nella scena globale della tarda modernità […] Spesso la ricomparsa di un’attitudine impegnata e politica tra gli antropologi italiani, pur inscrivendosi negli scenari globali della disciplina, si lega ad esigenze di comprensione e di critica di dinamiche proprie della contemporaneità, anche nazionale […] si iscrive [nella] problematizzazione spesso radicale dell’economia politica e della economia morale del tardo capitalismo neoliberista (Pa-lumbo 2018, pp. 180, 181, 243)

Abbiamo partecipato a questo rinnovato interesse per ri-cerche finalizzate anche ad intervenire sugli equilibri politici esistenti, spesso condotte con, per, e su movimenti sociali o mobilitazioni informali dal basso. Questi canali emergenti di

agency politica sono stati sperimentati negli ultimi anni in

buona parte da giovani studiosi che riflettono il mutato con-testo dell’azione politica con una crescente sfiducia nelle for-me di rappresentanza istituzionale. Molti di quelli che non si rassegnano a concepire la propria dimensione politica nella passività della delega, hanno trovato nelle scienze umane la possibilità di coniugare studio e impegno. In questo quadro, crediamo che nell’ambito delle scienze umane, l’interesse per l’antropologia non sia tanto legato all’acritica ricezione

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di un insieme di teorie critiche, ma alle possibilità offerte dalla metodologia etnografica, per la sua capacità di narrare storie minute, marginali, dimenticate ma significative. L’et-nografia può essere uno strumento potente nel contrastare le mistificazioni e banalizzazioni delle rappresentazioni mas-smediatiche e le semplificazioni e virtualizzazioni dei social network, attraverso una forma narrativa in grado di restituire la complessità dell’attivismo politico, l’umanità delle ragioni delle mobilitazioni e la potenziale forza trasformativa di chi si muove al di fuori degli steccati istituzionali.

La sinergia tra lotte politiche non istituzionalizzate e ri-cerca qualitativa è ulteriormente consolidata dal fatto che il posizionamento prevalente dei giovani antropologi si orienti tra la sinistra informale e la galassia anarchica: attivismo e sapere accademico condividono una sensibilità controcor-rente che risponde alla deriva neo-autoritaria globale con un paziente lavoro di relazioni, riflessioni e divulgazione. Il posizionamento politico degli etnografi militanti, spesso ma non sempre, miscela in dosi diverse marxismo e anarchismo nella simpatia mostrata per forme di orizzontalità libertaria elaborata nei margini, nel sostegno alla sperimentazione cul-turale e alle lotte degli oppressi, nella diffidenza verso orga-nizzazioni gerarchiche, nella condanna della disuguaglianza e della mercificazione. Sebbene sia diffuso tra gli etnografi militanti uno scetticismo verso la burocrazia e il tecnicismo istituzionale, la pratica di trasformazione politica spesso pas-sa per lavori svolti per l’università o nella offerta di servizi. Inevitabilmente, in Italia come altrove, si crea un’affinità tra studiosi e attivisti che sperimentano modelli di azione collet-tiva e spunti di riflessione critica contro la dilagante miscela tra sfruttamento neoliberista e muscolare xenofobia caratte-ristica della congiuntura politica istituzionale odierna. All’in-terno di questo quadro, emerge una proposta, quella della etnografia militante, che si nutre di decenni di dibattiti sul ruolo e sulla responsabilità pubblica dell’antropologia, ma che aggiorna annose questioni, presentando caratteri inediti (cfr. Severi 2019, pp. 161-167).

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L’idea di questo volume è nata dal nostro coinvolgi-mento in prima persona a vario titolo non soltanto in ri-cerche etnografiche, ma anche nell’organizzazione di una serie di eventi accademici e non che hanno segnato questa rinnovata attenzione per una etnografia impegnata. Ricor-diamo, senza la pretesa di essere esaustivi, i seguenti: due convegni Engaged Voices? Ethnographic approaches toward

social movements (Münster 2009 e Milano 2010); il

semi-nario Movimenti Sociali in America Latina (Modena 2010); il Workshop Anthropology and social movements (Perugia 2013); il convegno Ricerca Attivista ed Etnografia

militan-te: Nuove sperimentazioni nello studio socio-antropologico dei movimenti sociali, promosso da LEMS-Laboratorio di

Etnografia dei Movimenti Sociali (Modena, 2014) e altri convegni successivi1. Oltre ad una molteplicità di

artico-li scientifici pubbartico-licati su riviste e a vari saggi usciti per Ombre Corte, alcune delle riflessioni di questi convegni si trovano in Comprendere il dissenso. Etnografia e

antropolo-gia dei movimenti sociali (a cura di Koensler e Rossi 2012)

e nel numero monografico dell’Archivio Antropologico Mediterraneo, Leggere la protesta. Per un’antropologia dei

movimenti sociali (a cura di Matera 2015). L’obiettivo del

presente volume è anche quello di offrire una lettura sin-tetica di alcuni filoni di discussione emersi in questi eventi. Sebbene questo elenco di eventi e pubblicazioni, tutti in ambito accademico, testimoni che il nesso tra ricerca etno-grafica e attivismo si sia sviluppato in buona parte in seno

1 Tra cui, il seminario organizzato da studenti e giovani ricercatori

Esplo-rare politiche. Per una comprensione delle produzioni politiche dal basso: ap-procci, metodologie e apporti teorici (Bologna, 2014); il seminario Sguardi e riflessioni sui movimenti sociali odierni in America Latina (Modena 2015); l’incontro Riflettere e coordinarsi. Giornata di studio per la tutela della libertà di ricerca e dell’etnografia (Modena 2016); le tre edizioni del Political Ima-gination Laboratory. Visualizing and Contextualizing Ethnographies of Social Movements (Perugia 2016, 2017 e 2019); il panel Abitare le crisi. Cittadinan-za attiva, dissenso e nuove forme di welfare al convegno SIAA (Trento 2016); i convegni Il fallimento dell’efficacia, l’efficacia del fallimento. Per una com-prensione delle produzioni politiche dal basso (Milano 2016), Emancipatory Social Science Today (Parma 2019).

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alle attività universitarie, il fenomeno, come vedremo, rispet-to ad altri ambiti di indagine antropologica, si proietta con più decisione al di fuori delle istituzioni del sapere ufficiale. L’etnografia militante viene elaborata in una cruciale intera-zione politica con il contesto osservato: la documentaintera-zione raccolta è utilizzata non solo in ambito universitario ma vie-ne restituita in sivie-nergia con pratiche sociali e politiche ex-tra-accademiche. Inoltre tracce di etnografia militante sono portate avanti da persone che si sono formate in università ma che lavorano nel sociale, spesso con i migranti, portando lo sguardo etnografico nelle relazioni in cui si trovano ad agi-re come attivisti o professionisti.

Questo testo intende approfondire le dimensioni e i dilemmi di questa esplicita e recente trasformazione nella politicizzazione della disciplina che ha generato quelle che abbiamo chiamato etnografie militanti. Ci rendiamo conto che stiamo introducendo in Italia una denominazione che sembra voler designare un sotto-campo della ricerca etno-grafica. Questa etichetta, che peraltro rispecchia l’esplicito posizionamento di molti dei lavori qui discussi anche se non di tutti, è riduttiva e si può prestare a malintesi. Non voglia-mo costringere tutti i lavori che citiavoglia-mo sotto un marchio che dia una falsa idea di omogeneità, né catalogare in ma-niera banale e schematica esperienze irriducibilmente pecu-liari, né classificare ricerche con modalità che i protagonisti delle stesse non sentono proprie. Anzi uno degli obbiettivi di questo testo è riconoscere appieno la varietà possibile del connubio tra militanza ed etnografia, mostrando i molteplici modi in cui essa può essere intesa e praticata, per questo nel titolo abbiamo usato il plurale: le etnografie militan-ti convergono nell’affrontare cermilitan-ti dilemmi anche se sono differenziate nelle risposte. Abbiamo bisogno di un termine generalizzante perché ci pare che molti degli interrogativi e delle problematiche che emergono in percorsi di ricerca etnografica che hanno un elevato tasso di coinvolgimento politico sia per il ricercatore che per il contesto studiato, siano ricorrenti; sebbene le soluzioni adottate siano a volte

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divergenti. Proporre una rassegna ragionata, come faccia-mo in questo testo, permette quindi di sfatare la presunta omogeneità di questo stile di ricerca etnografica: gli autori discussi formano un campo di riflessione polifonico, che prende posizioni diverse su questioni che emergono con fre-quenza dall’intreccio etnografia-militanza. Proprio perché il nesso tra impegno etnografico e politico offre uno spettro di posizionamenti possibili, ha senso confrontarli in modo che ciascun ricercatore possa scegliere come collocarsi, consa-pevole delle scelte di chi ha fatto un percorso simile.

Una precisazione terminologica è necessaria. C’è chi ritiene il termine militanza sia “legato […] ad un modo di fare politica, anche se antagonista, vecchio e […] superato” (Braun 2013, p. 35). C’è invece chi tende a distinguere in maniera netta i termini attivista e militante, in base alla radi-calità della collocazione politica e alla intensità dell’impegno. In questo scritto non adottiamo una distinzione netta tra i due concetti perché ci interessa mettere a confronto l’inte-ra gamma di posizionamenti tl’inte-ra impegno politico e ricerca. Usiamo quindi attivismo e militanza come sfumature diverse, dai confini imprecisi, di un unico campo, caratterizzato da una tensione trasformativa. Crediamo anche che la fluidità delle azioni dal basso contemporanee richieda di evitare clas-sificazioni nette. Il titolo del volume avrebbe potuto essere

Etnografie Attiviste o Etnografie Partigiane.

Ad esempio l’antropologa Cinzia Greco (2016) leva una voce in favore di diverse forme di impegno antropo-logico: come quelle espresse dall’etnografia militante (in cui la ricerca risulta politicizzata a priori e comunque già durante l’indagine su campo), da quella attivista (orienta-ta all’azione emancipatoria in senso più situazionale) e da quella che lei stessa definisce “partigiana” (orientata

all’a-dvocacy politica dei soggetti studiati specialmente in fase

di analisi e restituzione). La studiosa, le cui ricerche sono caratterizzate da un approccio partigiano, invoca una pro-gressiva estensione degli spazi di legittimazione disciplinare che conduca ad una maggior tutela di quelle ricercatrici e

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di quei ricercatori che decidono di “prendere le parti” dei soggetti delle proprie investigazioni. Gli approcci militanti, attivisti e partigiani, secondo la studiosa, andrebbero inco-raggiati in quanto permettono di illuminare le asimmetrie di potere che portano al perpetrarsi di ingiustizie nel mon-do contemporaneo. Questi approcci, inoltre, sono parte in-tegrante della pratica antropologica e contribuiscono come altri orientamenti, allo sviluppo di questa disciplina e delle altre scienze sociali, come altresì dimostrato dall’esistenza di approcci sociologici politicamente impegnati già dagli anni Sessanta in poi (Hillyard 2004).

Il presente volume non ha l’obiettivo di essere esaustivo. Le etnografie militanti assumono tante sfumature e la lette-ratura negli ultimi anni è diventata sterminata. Di seguito esaminiamo il processo di immersione etnografica – la ri-cerca, le relazioni, la restituzione – di un insieme consisten-te di indagini senza avere la preconsisten-tesa o l’illusione di essere completi. Per delimitare un campo che rischia di sfuggirci di mano per la sua vastità, si darà priorità alle ricerche svol-te in Italia o da ricercatori italiani nell’ambito della espe-rienza etnografica2. Prendiamo in rassegna le pubblicazioni

che ci paiano al contempo esemplificative e intriganti nel suscitare interrogativi importanti per comprendere le ten-denze recenti della rinnovata politicizzazione delle scienze sociali. Nella relazione tra etnografo e contesto attivista, sebbene le due figure come vedremo diventino spesso poco distinguibili, nel complesso privilegiamo la prospettiva del ricercatore, anche perché le pubblicazioni adottano prevalentemente tale posizionamento. Riteniamo peraltro fondamentale evidenziare che l’etnografia militante si nutre dei contributi di ricercatrici donne quanto di ricercatori e che molte etnografie “di genere” si fondano su prospettive militanti, affrontando criticamente la questione della

par-2 Abbiamo scelto di offrire soltanto accenni fugaci, per ragioni di spazio

e di opportunità, su riflessioni analoghe in corso in altri contesti; ad esempio nel mondo anglosassone e in America Latina.

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tecipazione femminile e dei soggetti LGBT alla forgia dei movimenti sociali, politici e religiosi contemporanei (Koen-sler e Rossi 2012, Mattalucci 2012, pp. 7-11, Viola 2015)3.

Il fatto che i lavori riconducibili a questo ambito abbiano una spiccata sensibilità per una auto-riflessione sulle implica-zioni epistemologiche, metodologiche e politiche del lavoro, discusse minuziosamente in diverse pubblicazioni, permette questa operazione di analisi comparativa. Il vaglio della lette-ratura è stato accompagnato da interviste ad alcuni colleghi e colleghe che hanno condotto indagini che rientrano nella nostra definizione di etnografia militante; il loro contributo è stato determinante per il consolidamento della riflessione su questi temi nel panorama intellettuale italiano degli ultimi venti anni, così come lo è stata la loro collaborazione alla realizzazione di questo lavoro con le loro risposte al nostro questionario semi-strutturato che abbiamo loro proposto tra la primavera e l’estate del 2019 e che compaiono nel testo come “comunicazione personale” (si veda il questionario alle pp. 231-232). L’intento principale di questo volume è quello di illustrare le questioni epistemologiche e metodologiche emerse nel corso degli ultimi due decenni ma, allo stesso tempo non ci limitiamo a discutere i lavori altrui: in alcuni passaggi prendiamo posizioni su come, secondo noi, vadano intese le etnografie militanti e su quali siano le conseguenze e i limiti delle diverse scelte metodologiche.

3 Riguardo alla questione del gender, è doverosa una precisazione di

natu-ra stilistica. In fase di stesunatu-ra del volume abbiamo pensato di adottare forme di scrittura gender-sensitive (ad esempio utilizzando asterischi per evitare di connotare in modo rigido il genere degli autori e autrici trattati). Tuttavia, alla fine si è deciso di attenerci agli usi della lingua italiana (ad esempio, ove il plurale maschile sussume anche il femminile), perché le soluzioni alternative ci sembrava rappresentassero un ostacolo alla lettura fluida del testo.

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Dalla “crisi della rappresentazione”

all’etnografia militante, pubblica e applicata

Le crepe nella fiducia di una presunta oggettività delle ri-cerche antropologiche hanno dato vita ad un profondo rinno-vamento nel modo in cui si intende la missione antropologica. Il positivismo, con la sua autorevolezza e fiducia in chi “scopre i fatti” oppure “descrive le realtà” è stato largamente supera-to e soppiantasupera-to da approcci più ausupera-tocritici e relazionali. In questo primo capitolo partiamo dalla crisi della rappresenta-zione etnografica per mostrare come una parte dell’antropo-logia risponda rafforzando il connubio tra pratica etnografica e impegno etico e politico. Inoltre, distinguiamo l’etnografia militante da altre forme di coinvolgimento pubblico.

A partire dagli anni Ottanta, alcuni limiti della scrittura dell’antropologia classica sono stati discussi, attraverso una riflessione critico-letteraria, a partire dai saggi editi da James Clifford e George Marcus (1986) in Scrivere le culture.

Poli-tiche e poePoli-tiche in etnografia. Attraverso una critica letteraria

di testi chiave dell’antropologia classica, gli autori mettono in luce le strategie di costruzione dell’autorità etnografica che tende a nascondere la soggettività e la fragilità delle analisi. In questa prospettiva, la monografia classica di Evans-Pri-tchard I Nuer. Un’anarchia ordinata (1940) offrirebbe più spunti sulla vita personale di chi scrive che non sulla gente e le situazioni di cui parla. La presunta oggettività, l’analisi di-staccata e l’uso della terza persona nelle monografie classiche

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occultano e mascherano quindi gli intrecci personali con la biografia dell’autore e la sua soggettività alla base dell’anali-si. Note in antropologia come “crisi della rappresentazione”, queste riflessioni critiche sui tentativi di oggettivare gli stessi soggetti della oggettivazione nei testi antropologici aprono un nuovo spazio di sperimentazione che assorbe la certezza delle verità positiviste delle scienze sociali classiche. In altre parole, la critica al modus operandi dell’antropologia classica evoca il comportamento di Nan-in, maestro Zen, quando fu visitato da un professore universitario per interrogarlo sul-lo Zen. Nan-in servì del tè, ma continuò a versarsul-lo anche quando la tazza era già ricolma. Il tè traboccò. “Come que-sta tazza, disse il maestro al professore, tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se non vuoti la tua tazza?” (Sensaki e Repo 1973, pp. 67-70). In modo analogo al tè che traboccò, le conseguenze della “crisi della rappresentazione”hanno quindi stimolato un rin-novamento delle questioni epistemologiche relativo a come il sapere si intrecci con la soggettività della ricercatrice o del ricercatore. In breve, lo slittamento dei paradigmi conosciti-vi dell’antropologia classica è diventato ineconosciti-vitabile.

1. Dalla “crisi della rappresentazione” a nuove sperimentazioni Questo slittamento ha dato vita a varie risposte e modi di intendere l’impresa antropologica. In primo luogo, esso ha portato a una serie di esperimenti di scrittura con approcci riflessivi, autobiografici o dialogici (Behar 1996; Crapanzano 1980), che hanno posto in risalto le relazioni intersoggettive in atto durante la ricerca sul campo. Nate negli spazi intersti-ziali tra letteratura e ricerca qualitativa, e dallo sfondamento dei confini tecnici e ideologici della rappresentazione – grazie agli sviluppi dell’antropologia visuale e al consolidarsi e rin-novarsi dell’antropologia femminista e di genere –, l’etnogra-fia narrativa si basa sulla consapevolezza che l’esperienza di indagine implichi anche, o soprattutto, relazioni vissute, una

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conoscenza intima quanto un sapere incorporato. Tra i lavori più conosciuti, Vincent Crapanzano (1980, p. 108) sceglie di trascrivere i suoi lunghi ed intimi colloqui con Tuhami, un uomo del Marocco, invece di spiegare una volta per tutte il funzionamento della cultura marocchina in generale: “Dob-biamo rispettare nell’Altro lo stesso mistero che vorremmo gli altri rispettassero in noi. E questo è anche un fatto sociale”: così l’antropologo di Chicago spiega la sua scelta. Approcci come questo cercano di intendere la ricerca sul campo come un’esperienza umana totale, che coinvolge oltre le capacità analitiche anche le emozioni, l’intuizione e la biografia del-la ricercatrice o del ricercatore. Un approccio narrativo può contribuire ad approfondire o a rendere più complessa la di-mensione intima della conoscenza e dell’identificazione reci-proca tra sé e gli altri (Rossi 2008), ma l’abbandono completo di ogni pretesa di scientificità ha lasciato perplessi molti.

La fortuna che ha avuto l’antropologia di carattere inter-pretativo e riflessivo non può essere compresa senza ricono-scere il ruolo giocato della crisi della rappresentazione. L’an-tropologia interpretativa offre una teorizzazione dei rapporti intersoggettivi largamente assente negli approcci narrativi, ma condivide con essa l’enfasi sulla complessità delle relazioni sul campo. La celebre definizione di cultura come testo da inter-pretare proposto da Clifford Geertz (1987), il padre fondato-re dell’antropologia interpfondato-retativa, costituisce probabilmente l’esempio più lampante. Per Geertz, l’uomo è “sospeso tra ragnatele di significato” e impegnato in un continuo esercizio di interpretazione della realtà; di conseguenza, l’antropologia non può essere una scienza in grado di scoprire delle leggi immutabili, ma è piuttosto una scienza ermeneutica o “semi-otica”, in cerca di significati da decifrare e tradurre. Questi approcci hanno preparato il terreno anche per l’avvento del pensiero postmoderno, che più radicalmente rifiuta quadri di riferimenti totalizzanti e rimane caratterizzato, nell’espressio-ne di uno dei suoi massimi esponell’espressio-nenti, Jean-François Lyotard (1991), per il suo costante scetticismo nei confronti delle “grandi narrazioni”. In un certo senso, molte di queste

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pro-spettive dell’antropologia venivano criticate da autori come Robert Borofsky (2010) e dai promotori dell’antropologia pubblica negli Stati Uniti e altrove in quanto troppo incen-trate su aspetti della vita quotidiana largamente irrilevanti. In questa ottica, l’enfasi sulla specificità delle “ragnatele di in-terpretazioni” porterebbe ad un eccessivo peso conferito alle dinamiche locali, considerate in qualche modo relativamente distaccate dai grandi processi che danno forma al mondo contemporaneo globalmente intrecciato.

Come abbiamo visto, questo tentativo di leggere i feno-meni locali indagati etnograficamente in relazione a grandi quadri interpretativi, per così dire, è caduto in disuso con l’affermazione degli schemi dell’antropologia interpretati-va e riflessiinterpretati-va, ma non è del tutto sconosciuto nella storia dell’antropologia. L’antropologia ha sempre avuto, almeno in alcuni suoi rappresentanti, di cui la storia della disciplina è punteggiata, una dimensione etica oltre che scientifica. Per esempio, ai tempi in cui predominavano in antropologia gli schemi interpretativi dell’antropologia marxista ortodossa si cercava di relazionare fenomeni locali al determinismo strutturale, in cui ogni elemento specifico assumeva una sua funzione in un grande disegno unitario di trasformazione politica. Con lo sgretolarsi delle speranze di trasformazione di stampo socialista e l’affiorare dello scetticismo postmo-derno, nei confronti della validità e dell’universalità delle grandi narrazioni, l’etnografia, non soltanto quella ispirata alle correnti interpretative e riflessive, si è spesso limitata a descrivere situazioni o vicende sconnesse dalle grandi dina-miche socio-politiche, di sovente rafforzando l’immagine di una scienza ripiegata su sé stessa.

Fare etnografia con un intento militante non deve essere necessariamente soltanto una semplice espressione sogget-tiva di uno sdegno di fronte alle prevaricazioni e ai drammi del mondo contemporaneo. La connessione tra un focus su situazioni ordinarie e spesso periferiche, osservata dal basso con una sensibilità per le auto-rappresentazioni degli agenti, coniugata con un inquadramento delle macro-dinamiche che

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generano violenza, disuguaglianza e marginalità, porta la pra-tica etnografica a interrogativi e impegni morali che hanno accompagnato in diversi modi l’ottica più propriamente ac-cademica, centrata sulla descrizione e sull’analisi. In un cer-to senso, l’etnografia militante qualifica l’antropologia come pratica di vita piuttosto che come mero ambito disciplinare caratterizzato da una neutralità e da un distacco oggettivo nei confronti dei soggetti coinvolti nella ricerca. La ricerca, sentita e partecipata, di risposte a ingiustizie e violenze cerca così di relazionare nuovamente le vicende quotidiane e le micro-poli-tiche a dinamiche di potere in atto a livello più generale.

2. Il connubio tra pratica etnografica e impegno politico La stagione delle etnografie militanti, in questo conte-sto, rappresenta un nuovo slancio, un tentativo di inserire le esperienze di ricerca in quadri più ampi, anche se i suoi riferimenti sono decisamente meno chiari rispetto agli anni Settanta e Ottanta in cui predominavano gli schemi interpre-tativi marxisti classici. Dopo un lungo periodo di scetticismo verso le grandi narrazioni, si fanno sentire con più forza, nel-le paronel-le di Franco La Cecla (2005, IX) nell’introduzione a

Cocaina: Per un’antropologia della polvere bianca di Michael

Taussig, una “disciplina capace di narrare i piccoli mondi quotidiani nel loro rapporto con i grandi sistemi di potere”. Michael Taussig, così come Nancy Scheper-Hughes (1995) e Anna Tsing (2005), appartiene agli esponenti più conosciuti di questa corrente di antropologia che si intende come attivi-sta e militante in quanto inquadra la realtà osservata in con-siderazioni etiche. Secondo Hale (2006, p. 100) il processo è una logica conseguenza del ripensamento teorico complessi-vo degli ultimi decenni del Novecento:

Una volta che mettiamo da parte l’oggettività e affermiamo il carattere intersoggettivo della ricerca delle scienze sociali, ci si potrebbe attendere che si aprano a un interesse crescente

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ver-so metodologie di ricerca attivista e il loro riconoscimento nella disciplina come attività accademica legittima. Per quelli che affermano che la conoscenza è prodotta da un dialogo tra attori situati politicamente, dovrebbe essere un passo relativamente semplice e logico incorporare questo processo più integralmen-te all’inintegralmen-terno dei propri metodi di indagine, specialmenintegralmen-te se ci si condivide un allineamento politico con i soggetti studiati.

L’applicazione di un bagaglio teorico di ampio respiro nell’etnografia militante, sicuramente più eclettico rispetto agli anni della predominanza marxista classica, si potrebbe inseri-re in un quadro che Erik Olin Wright (2010) ha disegnato nel suo progetto di vita sulle “utopie reali” che cerca di estendere gli spazi di alternative, delineando gli elementi di una “scienza sociale emancipatoria” in cui la diagnosi si combina con la cri-tica alle condizioni dell’esistente per elaborare e promuovere una società o, più semplicemente forme di vita, caratterizzate da un maggior livello di giustizia sociale e politica.

3. Etnografia militante, pubblica e applicata: distinzioni e

sfumature

Il concetto di etnografia militante e attivista, così come è stato definito nel corso dell’ultimo decennio da alcuni espo-nenti dell’antropologia contemporanea, si sovrappone ad al-tre dimensioni dell’antropologia che l’hanno preceduta e con cui convive. In alcuni casi, etnografi che sostengono di fare ricerca-azione, antropologia pubblica, ricerca attivista fanno etnografia militante nella nostra accezione, almeno in alcuni passaggi della loro ricerca, quelli in cui intervengono autono-mamente in un campo di poteri conflittuale applicando nel concreto la metodologia e il sapere antropologico con, per o contro il tessuto sociale studiato. Ci sono evidenti analogie con modi di fare etnografia classificati sotto altre denomi-nazioni. Quello che si può fare in poche pagine è accennare alle linee di continuità e discontinuità rispetto a queste altre modalità applicative dell’antropologia.

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Due evidenti discordanze distinguono le etnografie mi-litanti dall’antropologia applicata: la ricerca di una marcata autonomia e le finalità meno istituzionalizzate. Buona parte delle ricerche dell’antropologia applicata da un lato defi-niscono in maniera stringente i confini e le modalità della ricerca attraverso il mandato al ricercatore e i suoi terms of

reference stabiliti dal committente, dall’altro lato

l’antropo-logo spesso delega alle istituzioni per cui ha lavorato l’appli-cazione della sua ricerca. Come spiega bene Herzfeld (2005):

Non voglio dire che l’antropologia applicata rappresenti ide-ologie contrarie all’antropologia stessa, però l’idea è che quando un antropologo lavora per un’impresa o per un governo sarà co-stretto ad accettare l’autorità di quell’ente. Quando invece lavo-ra da accademico, con tutto quello che l’idea dell’indipendenza accademica implica, ha anche la libertà di arrivare a quel tipo di coinvolgimento che potrebbe consentire di scegliere l’approccio eticamente e praticamente più adatto alla situazione.

Nell’antropologia “coinvolta” di Herzfeld come nell’et-nografia militante, la direzione e l’obbiettivo della ricerca dovrebbero scaturire autonomamente nella relazione tra etnografo e contesto studiato e l’impatto del rapporto do-vrebbe essere immediatamente tangibile ed esercitato di-rettamente ovvero, senza deleghe a strutture istituzionali. Rispetto all’antropologia applicata che è spesso gestita in maniera gerarchica e pre-determinata, le etnografie militanti mirano esplicitamente ad essere collaborative, dialogiche e polifoniche. Nonostante l’impegno chiaramente militante di molti antropologi che lavorano con e per i richiedenti asilo e sebbene tale impegno porti una tensione politica nel lavoro istituzionale, la militanza, quando è sovrapposta ad un ruolo istituzionale non accademico va necessariamente contenuta, per lo meno nel periodo dell’impiego retribuito (cfr. AA.VV. 2017). Spesso si rimanda un approccio più esplicitamente militante a momenti della quotidianità extra-professionale.

Alcune etnografie militanti assomigliano a quel filone della ricerca-azione – ad esempio la participatory action research –

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che prevede la centralità del confronto fra ricercatori e atto-ri, sia nella fase di pianificazione dell’indagine che nella sua conduzione; che si riconosce come agente di una emancipa-zione sociale; che prevede una circolarità fra sapere astratto e pratica. Le divergenze, in questo caso, consistono nella me-todologia di indagine di tipo prevalentemente sociologico o pedagogico della ricerca-azione lontane dalle dinamiche che emergono quando si utilizza il metodo etnografico; inoltre, di fatto, molte indagini che si descrivono come ricerca-azione lavorano in stretto rapporto con finanziamenti e finalità del committente (spesso istituzionale), riproponendo, in quei casi, le discordanze illustrate sopra per l’antropologia applicata.

Il concetto di etnografia militante differisce anche da come è stata recentemente definita l’antropologia pubblica, ovvero un’antropologia che

dimostra l’abilità dell’antropologia e degli antropologi di affron-tare efficacemente i problemi oltre la disciplina, illuminando su questioni sociali rilevanti dei nostri tempi nonché incoraggiando confronti pubblici e di ampia portata su questi con la finalità esplicita di stimolare il cambiamento sociale (Borofsky 2004). È noto che molti antropologi hanno preso posizioni pub-bliche controcorrente, finalizzate a “produrre conoscenza emancipatoria” (cfr. Fassin 2013, 2015). Rispetto a posiziona-menti certamente politici che hanno investito diversi ambiti delle scienze umane, tra cui, come ricorda Hale (2006, p. 103), la critica culturale, l’etnografia militante si differenzia per una più decisa impronta pratica. Il posizionamento nel dibattito intellettuale espresso principalmente nella partecipazione a incontri pubblici o in interventi scritti o orali, pur importante, non esaurisce la tensione politica di molti degli etnografi più giovani. Ciò non vuol dire ripudiare la possibilità di parlare al grande pubblico tramite libri, riviste, blog, documentari o interventi su quotidiani come hanno fatto nomi importanti dell’antropologia italiana intervenuti, ad esempio, contro il razzismo, in difesa del relativismo (Remotti 2008) o di una

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idea delle interazioni culturali che trascenda schemi riduttivi, come il multiculturalismo (Aime 2006). La restituzione della etnografia militante spesso coinvolge l’etnografo in maniera più profonda e poliedrica rispetto allo sguardo speculativo dell’antropologia pubblica; sperimenta forme di intervento eterogenee e immediate (capitoli dal 5 in poi). Per questo anche l’invito ad una antropologia di testimonianza, indipen-dente e disinteressata che produce narrative di “sofferenza, vittimizzazione e ingiustizie […] testimoniare nel nome del danno provocato alle vittime e a chi è relativamente senza po-tere, ed è attivismo solo per questo aspetto, senza essere atti-vismo” (Marcus 2005, p. 43), appare lontano dalle intenzioni immanenti, contingenti e concrete dell’etnografo militante. A metà tra l’antropologia pubblica e l’etnografia militante è la proposta di Herzfeld (2005, p. 54) di una antropologia, rite-nuta “disciplina politica per eccellenza”, che pratichi una

via media militante […] non applicata, ma coinvolta, nel senso che l’antropologia possa influire con il suo coinvolgimento nei processi politici della quotidianità e sia capace di dare risposte formate alla [sic] base dell’esperienza dell’etnografo a certe ge-neralizzazioni fatte da politici della nostra epoca.

Le etnografie militanti possono avere una dimensione pubblica ma possono prevedere anche forme di restituzione privata, riservata: l’utilizzo dell’indagine può essere calibrato su dibattiti di nicchia o essere inteso come strumento per offrire alternative alle narrazioni egemoniche.

Rispetto alla idea di “intellettuale organico” che ha a lungo interessato l’antropologia italiana, ci sono affinità in particolare con la visione di una intellettualità diffusa, non separata dal contesto in cui si muove politicamente il ricerca-tore (cfr. Koensler e Papa 2011, p. 16). Ad esempio, Gramsci (1975, pp. 1550-1551) sostiene:

Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente

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alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persua-sore permanente” perché non puro oratore e tuttavia supe-riore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica sto-rica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).

In linea con la visione gramsciana, nelle etnografie mili-tanti l’intellettuale combina spesso tecnica-lavoro (sebbene intellettuale e non operaia), tecnica-scienza e una concezione umanistica storica realizzando l’auspicio gramsciano. In mol-ti contesmol-ti di lotta sociale il ricercatore, soprattutto i giovani etnografi militanti, non sono né oratori, né l’élite, né sono gli unici “intellettuali” attivi ma condividono per molti versi il vissuto degli ambienti in cui si muovono (Apostoli Cappello 2017; Koensler 2015; Olmos Alcaraz e altri 2018).

Tra le diverse discontinuità, tre invece appaiono parti-colarmente rilevanti per mettere a fuoco la distanza tra l’o-dierna etnografia militante e la visione gramsciana. Primo, Gramsci crede che l’intellettuale debba stringere una siner-gia con una classe, mentre la nozione appare desueta per rappresentare gli attuali rapporti di forza (infatti Graeber propone con successo lo slogan “siamo il 99%” per indicare un attivismo che miscela identità molteplici). Secondo, nel-la prospettiva gramsciana nel-la mediazione partitica è centrale (l’intellettuale dovrebbe esserne un dirigente) mentre oggi le forme di militanza gerarchica e istituzionalizzata vengono spesso vissute con crescente scetticismo. Gli etnografi mili-tanti spesso rigettano esplicitamente ogni avanguardismo del ricercatore rispetto al contesto attivista (vedi ad esempio Co-lectivo Situaciones 2001; Olmos Alcaraz e altri 2018, p. 142). Melucci (1982, p. 145) aveva già messo in guardia dall’assu-mere un ruolo di “missionario da parte del ricercatore […] [che] entra nel campo dell’azione per portare agli attori una coscienza che essi non sono in grado di produrre”. Terzo, se ad inizio Novecento rappresentare implicava l’esercizio di potere e autorità nel terzo millennio questo “monopolio della narrazione” si sta perdendo anche a causa della

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molti-plicazione dei canali di rappresentazione in mano agli stessi attivisti (canali social, libri autoprodotti, siti internet, docu-mentari, blog). L’intellettuale semplicemente non ha più il modo, in contesti di movimento, di agire da avanguardia of-frendo rappresentazioni esclusive e quindi più apertamente autoritarie: produrre narrazioni non è più un privilegio eli-tario. Come sostengono Juris e Khasnabish (2013b, pp. 370, 376; cfr. Braun 2013):

[…] piuttosto che essere un arbitro di ‘verità’, l’etnografo è uno di vari produttori di conoscenza in un ‘campo affollato’ […] tanti altri partecipanti al movimento portano avanti la loro ricerca quasi-etnografica e scrivono, pubblicano e distribuisco-no le loro riflessioni e analisi orientate dal movimento.

Van Aken esemplifica un sentire diffuso quando illustra la sua relazione con gli ambienti politicamente attivi con cui ha collaborato: “ho certamente portato il mio sguardo di antropologo in quei contesti, ma accanto al falegname, all’agricoltore, o altri attivisti. Artigiano o cittadino tra altri” (comunicazione personale, Mauro Van Aken, luglio 2019).

Queste discontinuità rispetto alla prospettiva gramsciana permettono oggi una maggiore libertà di azione, un posizio-namento metodologico e politico da costruire con il contesto studiato. Foucault aveva delineato modi di intendere il rap-porto tra investigatore e contesto studiato che rivelano una sensibilità più vicina a quella degli etnografi e delle etnografe militanti. Alla domanda su quale sia “il ruolo dell’intellettua-le nella pratica militante”, Foucault risponde (1977, p. 144):

L’intellettuale non deve più svolgere il ruolo di colui che dà consigli. Spetta a coloro stessi che lottano e si dibattono di trovare il progetto, le tattiche, i bersagli che bisogna darsi. Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi, e questo è oggi essenzialmente il ruolo dello storico. Si tratta infatti di avere del presente una percezione spessa, di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa si sono legati i poteri […], dove si sono im-piantati. In altri termini, fare un rilievo topografico e geologico

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della battaglia. È questo il ruolo dell’intellettuale. Ma quanto a dire: ecco cosa dovete fare, questo certamente no.

Le intuizioni di Foucault sulle dinamiche relazionali feconde tra attivismo e ricerca formano il presupposto di molte relazioni di etnografia militante, sebbene non sup-portino la credenza che il contributo sia possibile principal-mente da una prospettiva storica. L’etnografia, nell’analisi sociale e culturale della contemporaneità, offre una mentazione abbondante e intima su dinamiche non docu-mentabili altrimenti che costituisce una ricchezza specifica nella mappatura delle complesse topografie delle relazioni di potere contemporanee.

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Verso un’autocritica dell’antropologia critica

e dell’etnografia militante

È utile, quando si riflette sui limiti e le possibilità della tensione politica connaturata alla pratica etnografica, inter-loquire con autori che hanno cercato di mettere a nudo le contraddizioni di un’antropologia, e più in generale, di una “scienza”, di un’”attività intellettuale” militanti. Per chi, nel fare ricerca etnografica, si accorge di (volere, potere, essere costretto a) rivestire un ruolo anche apertamente politico, tale riflessione vuole essere funzionale a incoraggiare i prati-canti ad una più profonda introspezione, ad una accresciuta consapevolezza dell’esercizio esplorativo e di quello speri-mentale, ad una maggiore sofisticatezza dell’analisi e dell’in-tenzione etnografica. Un critico culturale deve saper fare au-tocritica e ponderare il valore delle obiezioni di intellettuali più moderati o conservatori scettici rispetto all’approccio militante, per lasciarsi ispirare, correggere, consigliare.

È particolarmente stimolante, volendo prendere la que-stione – per così dire – alla lontana, interpellare intellettuali progressisti-moderati come il politologo statunitense Mi-chael Walzer (1988) che, alle soglie della caduta del muro di Berlino, con la pubblicazione del volume L’intellettuale

militante: critica sociale e impegno politico nel Novecento

pro-poneva una riflessione sulla costante alienazione, lontananza, incomprensione reciproca tra gli intellettuali militanti del Novecento e “il popolo”, le masse che questi stessi

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intellet-tuali avevano inteso emancipare. Significativamente, almeno per il nostro discorso, tra gli intellettuali citati e discussi nel volume di Walzer spiccano Antonio Gramsci e Michel Fou-cault, a cui molti antropologi critici ed etnografi militanti contemporanei si riferiscono in modo quasi rituale nei loro lavori e nei loro ragionamenti teorici.

La critica sostanziale di Walzer a questi due intellettuali – che può risultare a tratti tendenziosa e discutibile in termini storiografici – prende spunto dalla rilettura delle loro biogra-fie e delle concrete forme di contatto e co-implicazione che questi hanno, o non hanno, effettivamente intrattenuto con i lavoratori e la classe operaia, nel caso di Gramsci, e con i soggetti detenuti e psichiatrici, nel caso di Foucault.

Gramsci era, e promuoveva l’emergere storico di, un “nuovo tipo di filosofo” che ambisce a guidare le masse alla loro emancipazione fino a che queste non siano sufficiente-mente preparate, formate e istruite su come farlo da sé. Tut-tavia tale visione impone un distacco esistenziale del filosofo stesso dalla massa proletaria. Walzer (1988, p. 119) è quasi provocatorio, e pare talvolta dimenticarsi del fatto che il ri-voluzionario sardo passò la vita in carcere, quando scrive:

Egli sembra aver conservato per tutta la vita tanto una sal-da concezione dei compiti del proletariato quanto una scarsa stima dei suoi membri. Essi non avevano lesioni cerebrali, ma erano culturalmente ritardati, e l’arretratezza era conseguenza pratica della subordinazione. […] Egli credeva che “il ruolo dell’intellighenzia è quello di rendere superflui i capi speciali provenienti dalle fila dell’intellighenzia stessa” . Per il momen-to però niente era più necessario dei capi speciali. […] Dal momento che la classe operaia non produce tali persone al suo interno, esse possono provenire soltanto dal corpo degli “in-tellettuali tradizionali”, reclutati in gran parte, come Gramsci stesso, dalle fila della piccola borghesia.

Walzer (1988, p. 131) sostiene che Gramsci sognasse una “avanguardia legata alla retroguardia, non con la forza dell’acciaio, ma con la persuasione delle parole. Un sogno da

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intellettuale, messo in pericolo, tuttavia, dalla sicurezza da parte dell’intellettuale di marciare, quando marciava, sempre in testa alla fila”. Per Walzer, il distacco paternalistico dai soggetti delle sue più intense speculazioni rende inefficace e irraggiungibile la dimensione dell’immedesimazione con le classi subalterne per Gramsci, rendendo così incompiu-to il suo intenincompiu-to rivoluzionario. Una critica aspra quella di Walzer, ma non aspra come quella formulata nei confronti dell’atteggiamento intellettuale militante di Foucault.

In Foucault tale immedesimazione con “gli oppressi” ri-sulta altrettanto incompiuta, ma è conseguente ad un atteg-giamento morale diverso da quello di Gramsci, ideologo di un movimento e di un partito di cui si presumeva rappresen-tante d’avanguardia. Foucault, secondo Walzer, assume un atteggiamento anarchico e nichilistico verso i destinatari dei suoi discorsi di liberazione ed emancipazione.

Gli scritti di Foucault suggeriscono […] qualcosa di più simile all’insubordinazione che al dissenso politico. Non esi-ste alcun riferimento duraturo ad idee morali o a un impegno prolungato per sostenere persone e istituzioni, in base al quale si potrebbero misurare dei risultati. Il suo distacco favorisce l’impotenza; quando la distanza del critico si allunga all’infini-to, l’impresa critica fallisce (Walzer, 1991, p. 263).

Foucault viene rappresentato da Walzer come radicale, abolizionista, disinteressato ai sovvertimenti di sistema sulla base della sua concezione del potere. Il potere, secondo il filosofo francese, si esprime in relazioni diffuse, ramificate e avvolgenti; e in effetti secondo tale concezione le resistenze locali, la lotta di “intellettuali specifici”, in particolari sno-di delle reti del potere e delle istituzioni, possono produrre parziali sovvertimenti. A questi però lo stesso Foucault si sarebbe per gran parte della sua vita clamorosamente disin-teressato nella vita pubblica cercando, solo verso la fine della sua carriera, di sperimentare pratiche intese a rimodellare le relazioni di potere. Inoltre, questi esperimenti sono rimasti poco conosciuti nella rappresentazione di Foucault, noto

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prevalentemente come teorico astratto. Pur avendo favorito dibattiti su possibili riforme e avendo criticato i modelli car-cerari e psichiatrici, incoraggiando l’effettivo cambiamento di alcune prassi, protocolli procedure nelle istituzioni pub-bliche francesi, Foucault “ha poco da dire su questo tipo di cose ed è ovviamente scettico sulla loro efficacia. Nonostante il risalto da lui dato alla disciplina e alla lotta locale Foucault si disinteressa ampiamente alla vittoria locale” (ibidem: 256).

Le osservazioni di Walzer sono di una certa utilità per comprendere i limiti dell’attività critica e delle ricerche mili-tanti. Fino a che punto i percorsi esistenziali degli intellettuali devono mostrare una coerenza con quanto predicato pubbli-camente? Fino a che punto la discontinuità, il disimpegno, l’incoerenza privata possono vanificare la tensione politica dell’esercizio critico? Secondo Walzer, atteggiamenti pater-nalistici spesso non permettono di ripensare il rapporto tra lavoro intellettuale e cambiamento storico in senso simme-trico e consensuale. Si tende a riprodurre una scissione in-tellettule-massa sia interpretando l’avanguardia intellettuale, con Gramsci, come un agente necessario affinché il popolo riemerga dalla nebbia del senso comune e venga instradato verso i sentieri della propria emancipazione, sia nel vedere il ruolo dell’intellettuale, con Foucault, come quello di chi formula una critica distaccata.

Torniamo ora al problema dell’antropologia come scien-za critica e della ricerca etnografica come pratica intellet-tuale militante. Se, come mostrato da Walzer, i principali filosofi di riferimento per la teoria radicale in antropologia (Gramsci e Foucault) hanno mostrato eccessivo distacco e disengagement pratico nei confronti dei soggetti per cui hanno preteso di prendere la parola, abbiamo recentemen-te assistito ad una inversione di recentemen-tendenza: gli antropolo-gi radicali vengono criticati dai loro stessi colleghi per la loro eccessiva vicinanza ai soggetti della ricerca, accusati di indulgere nella fusione degli orizzonti della indagine con le istanze e rivendicazioni degli informatori. La questione, come messo in luce dal professore statunitense Herbert

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Lewis (2009) non è indolore nel panorama scientifico in-ternazionale, tanto che alcuni ambienti accademici hanno sollevato preoccupazione per il radicalizzarsi della teo-ria antropologica. Prendendo in rassegna i convegni e le pubblicazioni dell’Associazione Antropologica Americana (A.A.A.) dagli anni 50 in poi, Lewis traccia una genealogia del pensiero radicale nell’antropologia statunitense presen-tando in ordine cronologico i titoli e i programmi delle con-ferenze del convegno annuale del A.A.A. e commentando il progressivo slittamento da approcci funzionalisti e strut-turalisti ad approcci radicali, critici, militanti; la trasfor-mazione a cui la disciplina sarebbe andata incontro viene illustrata come una deriva dai temi istituzionali (e apolitici/ depoliticizzanti/ depoliticizzati) che contraddistinguevano gli studi classici. Scrive Lewis (2009, p. 201):

Gli antropologi prima degli anni Sessanta sono stati cri-ticati per aver fallito nel rendere conto delle dimensioni del conflitto e dell’inuguaglianza; ma l’antropologia contempora-nea è ossessionata da questi temi. Il prevalere di discorsi sulla dominazione, l’oppressione, la resistenza, la condizione delle vittime, la violenza e il dolore è un fatto inevitabile in antro-pologia al giorno d’oggi. […] L’accusa ai discorsi e alle discus-sioni egemoniche sulla razza, il genere, la sessualità, il corpo, l’identità, risultando nello smascheramento del dispiacere e della felicità, è stata elevata a posizione dominante. L’ubiquità di dominazione ed oppressione è divenuta fondazionale per buona porzione dell’antropologia sociale e culturale; così il nostro campo di studi si presta a divenire un nuovo spazio per l’”ermeneutica del sospetto”, accanto ad altre analoghe tendenze nei campi della teoria letteraria, della teoria critica, degli studi culturali, degli studi post-coloniali, così come certe forme di teoria femminista.

Secondo l’emerito studioso statunitense, l’ostinata ricer-ca del “male” nelle società contemporanee sembra orientare buona parte del lavoro etnografico nord-americano degli ultimi 30-40 anni e, in questa polemica ininterrotta con gli

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economi-co-finanziarie) di mezzo globo, gli etnografi U.S.A. tendono ad appoggiarsi sull’autorità di pensatori radicali europei, a cominciare da Foucault appunto. A giustificare la progres-siva radicalizzazione dell’etnografia nord-americana vi sa-rebbe il puro e semplice fatto che alcuni temi fondamentali come la guerra del Vietnam, la lotta per l’emancipazione de-gli afro-americani, la crescita ipertrofica dede-gli slums e delle periferie delle metropoli, la definitiva marginalizzazione e assimilazione dei nativi americani dalla fine degli anni Ses-santa in poi hanno coinvolto l’intero ceto intellettuale statu-nitense; Lewis crede che tale trasformazione per certi aspetti non si potesse scongiurare perché inevitabilmente in quegli anni gli antropologi furono considerati veri e propri esper-ti, chiamati in molti casi a posizionarsi negli accesi dibattiti pubblici che infiammavano la società nord-americana. Pro-segue Lewis (2009, p. 219):

La sollevazione, in antropologia è stata motivata da preoc-cupazioni politiche ed etiche […]. Fin dall’inizio, la maggior parte di questa ribellione si diresse contro quelli che erano percepiti come fallimenti etici e politici della disciplina stes-sa, così come contro i mali più generali della società ameri-cana, come il razzismo, la guerra in Vietnam, il trattamento iniquo delle donne, il capitalismo e la piaga dei lavoratori migranti e dei poveri. Le più significative influenze esterne su questa fase iniziale della grande trasformazione arrivò dalle teorie marxiste e femministe, ma poco dopo ci sarebbe stata una profusione di nuove idee tratte direttamente dall’Eu-ropa o dall’importazione di queste nozioni da altri campi delle università americane, e in modo particolare dagli studi letterari. Entro la fine degli anni settanta le preoccupazioni “coltivate in casa” dagli antropologi furono fertilizzate da influenze dall’estero e dal “literary turn”, dalla svolta let-teraria, in un’atmosfera di accettazione di generi sfuocati; era cominciata l’era dei “post” in antropologia. Un discorso dopo l’altro era sospinto a sfidare l’”establishment” e tutte le istituzioni. Gli approcci iniziali, irruenti ed arrabbiati, del discorso anticoloniale e antirazzista furono succeduti da idee più formali: marxiste, struttural-marxiste, antropologia criti-ca, teoria della dipendenza, e dei sistemi globali.

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L’oblio delle radici dell’antropologia, del lavoro di autori classici come Malinowski e Boas, è quanto secondo Lewis andrà progressivamente a verificarsi attraverso la “grande trasformazione” radicale dell’antropologia statunitense. L’imperare delle correnti marxiste e neo-marxiste e degli ap-procci materialisti allo studio delle culture rappresenta l’a-spetto più controverso della deriva che, con il radicarsi degli ex-studenti ribelli nelle posizioni universitarie come docenti e ricercatori, si traduce in quei decenni in una forma di isti-tuzionalizzazione dell’antropologia radicale, qualcosa che Lewis saluta con malumore e sospetto. Infatti, dall’antropo-logia radicale all’antropodall’antropo-logia militante e ad altre forme par-tigiane della ricerca, il passo non è poi troppo lungo, perché la teoria antropologica radicale – e questo è forse uno dei timori degli studiosi più conservatori – dischiude un ampio spazio di legittimazione epistemologica e deontologica delle ricerche etnografiche orientate alla trasformazione politica dei contesti studiati. Lo dimostra il dibattito post-moderno suscitato da Scheper-Hughes (1995) nel suo duello con Roy d’Andrade, dove la prima promuove la necessità impellente, incontrovertibile, di un’antropologia militante, ove l’etno-grafa/o si possa configurare senza mezzi termini come “com-pagna/o” (compañera/o) della lotta quotidiana dei gruppi marginalizzati del “Terzo Mondo”, mentre d’Andrade pro-pone un atteggiamento più distaccato in nome dell’oggetti-vità scientifica del lavoro etnografico, che deve ispirarsi al metodo delle scienze esatte. Il problema dell’utilità, della funzione sociale e morale del sapere antropologico costitui-sce il fulcro della discussione condotta in modo quasi aggres-sivo da Scheper-Hughes; non si può lasciare il “campo” a sé stesso, non si possono lasciare i propri informatori al proprio destino, non si può costruire una carriera sulla comprensione dei dilemmi senza spendersi per la loro risoluzione, ancora una volta “sul campo”1. In questa prospettiva la ricerca deve,

1 Addirittura, nel pathos della descrizione, Scheper-Hughes assimila

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anthropo-e non può non anthropo-essanthropo-eranthropo-e così, costituiranthropo-e un manthropo-ezzo panthropo-er l’anthropo-eman- l’eman-cipazione degli oppressi, deve essere strumento per l’azione politica. Provocanti e suggestive (ma i critici dell’antropo-logia critica non esiterebbero forse a definirle patetiche) le parole conclusive di Scheper-Hughes (1995, p. 420) in The

Primacy of the Ethical, dove parafrasando il Franco Basaglia

di Crimini di pace (1975), asserisce:

Il lavoratore negativo è una specie di traditore di classe – un medico, un insegnante, un avvocato, uno psicologo, un so-cial-worker, un manager, o anche uno scienziato sociale – che collude con chi non ha potere per identificare i suoi bisogni contro gli interessi dell’istituzione borghese: l’università, l’o-spedale, la fabbrica […] Anche gli antropologi possono essere lavoratori negativi. Noi possiamo praticare un’antropologia con un piede a terra, un’antropologia impegnata, fondata sul terreno, addirittura “a piedi scalzi”. Possiamo scrivere libri che vanno controcorrente evitando la prosa impenetrabile (che sia post-moderna o lacaniana) in modo da essere accessibile alle persone che diciamo di rappresentare. Possiamo disgregare i ruoli e gli status accademici attesi nello spirito carnevalesco brasiliano. Possiamo renderci disponibili non solo come amici o “patroni” nel vecchio senso colonialista, ma come compagni [comrades](con tutte le responsabilità che questa parola impli-ca) alle persone che sono l’oggetto della nostra scrittura e dalle cui vite e miserie traiamo noi stessi di che vivere.

Il contributo di Scheper-Hughes mostra peraltro debolez-ze che verranno messe a fuoco solo nel nuovo millennio: l’ap-pello rimane confinato in buona parte alla denuncia pubblica, non contempla una collaborazione pratica; le relazioni con il contesto militante con cui l’autrice interagisce rimangono sullo sfondo della rappresentazione; il posizionamento mora-le dell’etnografa viene sussunto dalmora-le rivendicazioni portate avanti dal basso e ciò non permette di problematizzare la

po-logist), un’immagine che evoca la Cina maoista, dove medici rivoluzionari assistevano nelle risaie e dunque a piedi scalzi la popolazione rurale. Un’im-magine forte, rivendicata da Scheper-Hughes anche in recenti interviste (Kle-pal, Szénássy 2016; Brice 2017).

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tenziale fecondità della distanza, anche politica, che si trova in molta etnografia militante tra etnografo e contesto studiato.

1. La critica dell’antropologia critica in Italia

Per certi versi le tensioni tra approcci critici post-moder-ni e approcci interpretativi classici conosce repliche anche nell’antropologia italiana. Volendo esplorare le declinazio-ni nostrane della critica di Lewis, dobbiamo rivolgerci ad un recente contributo di Fabio Dei, che, con la sua critica dell’antropologia critica, fornisce nuovi spunti agli etnografi militanti interessati alla critica pratica dell’ingiustizia socia-le. Nella Premessa e nel primo capitolo dell’opera collettiva curata con Caterina di Pasquale Stato, Violenza Libertà. La

critica del potere e l’antropologia contemporanea

(pubblica-to a segui(pubblica-to di un convegno organizza(pubblica-to presso l’Università di Pisa nel 2017), Dei afferma, citando la filosofa Barbara Carnevali, che buona parte delle scienze umane sono oggi sproporzionatamente influenzate da quell’insieme eteroge-neo di teorie che viene definita a volte Theory, ovvero da stili e argomentazioni univocamente ispirate ad alcuni autori radicali (come Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Said, Spivak, Butler, Žižek, Benjamin, Latour), delle cui nozioni – conviene Dei (2017, pp. 11,12), esten-dendo la riflessione di Carnevali all’antropologia – sono per-meati anche i caotici bricolage intellettuali dell’antropologia radicale, incentrata oltremodo sulla critica dello stato e delle sue istituzioni, e su temi come il genere, il potere, la violen-za, il desiderio, la soggettività, lo spettacolo. L’antropologo sta dalla parte dei dannati della terra e dei gruppi che vivono qualche condizione di subalternità, come il dominio colo-niale e neo-colocolo-niale, l’oppressione di classe e di genere la discriminazione etnica e quella di orientamento sessuale. Ha bisogno dunque di una teoria critica del sistema di dominio di cui i suoi interlocutori (i colonizzati, i migranti, i proleta-ri, le donne, i neproleta-ri, le persone Lgbt) sono vittime: un sistema

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identificato da etichette come ‘neoliberismo globale’, ‘capi-talismo finanziario’, ‘impero’ e analoghe.

Il ragionamento di Dei ricalca per certi aspetti quello di Lewis quando riassume il repertorio di autori e tema-tiche imperanti nell’antropologia critica. Dei è certo che l’impostazione dell’antropologia critica fallisca nel ren-dere conto – con linguaggio chiaro e piano – della com-plessità storica e simbolica dell’oggetto che si va critican-do, perché troppo impegnata a smontarlo e contestarlo. Secondo questa visione, se è vero che l’analisi del potere e delle istituzioni costituisce parte significativa del progetto conoscitivo della disciplina antropologica (e dunque un percorso comune tra antropologie classiche – funzionali-sta, strutturalifunzionali-sta, interpretativa – e antropologia militan-te di fatto già sussismilitan-te), la deriva anti-sismilitan-temica, iper-poli-ticizzante e antagonista degli approcci radicali distanzia l’antropologia critica da quella interpretativa. Scrive Dei (2017, p. 28): “Da queste premesse l’antropologia critica ricava un determinismo economico politico che riporta la disciplina ai tempi precedenti la svolta interpretativa e riflessiva”. Gli approcci interpretativi anziché concen-trarsi sulla dimensione repressiva e violenta dello stato, la cui indagine impone agli antropologi radicali di scon-finare continuamente nell’ambito degli studi politici ed economici, ne indaga anche e soprattutto la dimensione costitutiva, scongiurando la possibilità di lasciar precipi-tare nel riduzionismo politico ogni fenomeno culturale e riservandosi un ambito epistemologico che Dei (2017, pp. 11, 22-31) ritiene più netto di quanto non faccia l’an-tropologia critica, poiché privilegia l’analisi simbolica e testuale del reticolato culturale rappresentato dal pote-re statale. Il linguaggio criptico, esoterico e la tendenza all’abuso di neologismi, impiegati spesso a sproposito e senza sensibilità epistemologica né etimologica, secondo Dei (che nella sua discussione esamina l’emergere e l’im-porsi di termini come forclusione e nuda-vita), non fanno che danneggiare ulteriormente la disciplina, rendendola

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