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restituire attraverso documentari etnografic

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 187-200)

di Alexander Koensler

Del resto le farò una confessione: i film et- nologici mi annoiano.

Claude Lévi-Strauss, 2005, pp. 19-20

La noia di uno degli più autorevoli antropologi di fronte ai film etnografici è forse oggi ancora più comprensibile: la noia qui deriva probabilmente dalla rappresentazione statica di pratiche esotiche fuori da una dimensione temporale che creano un senso di ripiegamento su sé stesso. Qui si trovano pochi spunti di una necessità etico-politica. Diversamente stanno le cose con quei film che le cui storie incidono diretta- mente nelle nostre vite. In questo capitolo propongo una ri- flessione critica sulla prassi di forme di restituzione realizzate insieme ad alcuni attivisti neo-rurali nell’ambito del progetto triennale di ricerca “Peasant Activism Project”1 ospitato alla

Queen’s University Belfast, dove al tempo avevo lavorato. Vorrei mettere in evidenza qui come il percorso della col- laborazione ha portato sia i membri del team della ricerca che i protagonisti di essa alla realizzazione di risposte che

1 Il “Peasant Activism Project” (www.peasantproject.org, codice ES/

M011291/1) è stato finanziato dall’Economic and Social Science Research Council (ESRC), uno dei principali finanziatori di ricerche nel Regno Unito.

trascendevano i vincoli diretti e indiretti imposti dagli enti di finanziamento istituzionale e ha portato a un percorso di formazione reciproca. Insieme, abbiamo lavorato a un pro- getto che è si è inciso nelle nostre vite. Tuttavia, sono emersi anche alcuni limiti della prassi di restituzione in relazione al lavoro di ricerca. In breve, il progetto è stato concepito come una ricerca sul campo di lunga durata con reti di attivismo neo-rurale in Italia Centrale per indagare le politiche della trasparenza e l’evoluzione della governance neoliberalista at- traverso il prisma delle pratiche e tecniche di certificazioni alternative dei prodotti agro-alimentari elaborate dalle reti di attivismo come una forma di resistenza all’agribusiness domi- nante. Quello che propongo qui è riflettere sugli imprevisti e le contraddizioni emersi nella traiettoria di implementazione di tale progetto, ma anche sul potenziale della sperimentazio- ne che ha caratterizzato il processo di restituzione militante.

1. La militanza vincolata

Concepire una forma di restituzione militante all’interno dei vincoli che impongono la maggior parte dei finanziamenti pubblici disponibili in Europa può diventare una sfida, un percorso ad ostacoli caratterizzato da opportunità ma anche dal rischio di creare delle distorsioni della libertà accademica. Come strumento di restituzione, il documentario etnografi- co continua ad esercitare un grande fascino; esso costituisce anche una modalità di restituzione che si presta particolar- mente ad interagire con il mondo dell’attivismo. A differenza di documentari di stampo giornalistico oppure prodotti da cineasti, esso permette un’attenzione alla complessità del- le pratiche quotidiane, alla dimensione processuale (Faeta 2011), offrendo in un certo senso uno sguardo dietro le quin- te di ciò che sembra ovvio nell’attivismo. Il film etnografico, in questo senso, non è inteso come uno strumento per dare semplicemente voce, per riportare il punto di vista dei sogget- ti della ricerca, ma per “fondere orizzonti interpretativi con

l’effetto di creare immagini inedite del sé e dei protagonisti a tutti i livelli” (Padiglione 2008, p. 101). Per questi motivi, come coordinatore del progetto ho immaginato di utilizzare il documentario etnografico per sessioni di proiezione e di- battito come uno strumento sia auto-riflessivo che divulgati- vo-critico. In questo modo era possibile combinare il lavoro di ricerca sul campo con una restituzione ritenuta utile dai soggetti della ricerca, mantenendo tuttavia la possibilità di una certa distanza e autonomia accademica. Tuttavia, i vin- coli del finanziamento, un bando con una selezione altamente rigida e competitiva richiedeva un particolare intreccio in cui la “eccellenza” scientifica si applica in maniera immediata in una cosiddetta “strategia d’impatto” nell’arco del progetto (vedi capitolo 8). È questo il concetto che sta alla base della maggior parte dei finanziamenti importanti. Così penetra una logica mercantilista nella ricerca in quanto essa è concepita come una forma di investimento della società. L’effetto di questa dinamica è che ogni prassi di restituzione, necessaria- mente, si riduce a una trasformazione socio-politica imma- ginata in termini piuttosto meccanicistici. Per poter vincere un finanziamento, quindi, diventa preferibile concepire la restituzione come un “miglioramento misurabile” oppure la soluzione di un dato problema socio-politico entro un certo arco di tempo. A questo proposito, l’ente finanziatore mette a disposizione una cosiddetta “scatola degli attrezzi” virtuale (Impact Toolkit) al fine di “potenziare l’impatto” con l’obiet- tivo di tradurre l’eccellenza scientifica in applicazioni rivolte al mainstream del policy-making e concepito in termini tec- nocratici di best practices etc. Inoltre, l’implementazione del progetto veniva misurata in base ad un certo equilibrio tra le risorse richieste e le ricadute previste; bisognava quindi an- ticipare in un certo senso il valore delle ricadute applicative, prima di aver di fatto iniziato la ricerca.

La diffusione di un documentario etnografico in cine- forum che coinvolgono attivisti, consumatori e produttori è stato una delle poche soluzioni possibili in quanto lascia una certa libertà di movimento. La cosiddetta “strategia di

impatto” del progetto è quindi stata concepita intorno a una serie di proiezioni e dibattiti in vari luoghi in Europa, spa- ziando dai centri sociali fino ai festival di film etnografico. Il cineforum in questo senso non è inteso come un semplice strumento di “diffusione”, ma si inserisce invece in una tra- dizione militante di forme di formazione informale al fine di creare spazi di autonomia in cui diventa possibile formare la coscienza politica dei partecipanti (Freire 1973). Il format del cineforum, quindi, aspirava a sensibilizzare la coscien- za critica di tutti i soggetti coinvolti negli eventi, mirando a creare uno spazio di pensiero libero e creativo come avviene soltanto in un contesto di relazioni umane dirette. Inoltre, le relazioni tra attivisti e soggetti interessati non si sarebbero de-personalizzate. Il progetto stesso, infatti, si incentra sul ricupero di relazioni personali in un mondo standardizzato e quindi pareva poco compatibile con discussione via social media, se non per attirare l’attenzione. Il format del cine- forum rimane anche estremamente flessibile e in grado di evolversi, adattandosi a situazioni e contesti molto diversi tra loro, sia in eventi grandi come festival che piccoli come i gruppi di lavoro in un determinato centro sociale.

Curiosamente, nella fase di approvazione un valutatore del progetto aveva criticato l’impiego esclusivo dei cineforum come divulgazione-formazione in quanto secondo lui una pratica “troppo limitata” per poter coinvolgere un’ampia au- dience mainstream, come invece richiesto dai criteri di finan- ziamento. Egli auspicava la pubblicazione di “brevi video clip di 3-4 minuti in modo da poter raggiungere un’audience più ampia”. Egli quindi, non del tutto a caso, cercava di portare il progetto in una direzione che avrebbe svuotato la ricerca della sua capacità di impegnarsi in maniera più critica e ap- profondita, invitandoci a concentrarci sugli aspetti più futili, riducendo la comunicazione del progetto a frasi ad effetti che sarebbero circolati a vuoti nell’etere. Al tempo avevo respinto questa proposta sulla base che l’enfasi del progetto era sul ricupero della relazionalità intersoggettiva oltre i format stan- dardizzati di massa; fortunatamente questa obiezione venne

riconosciuta dalla commissione di selezione dell’ESRC che ha approvato il design del progetto nonostante questa critica.

2. Sul campo, un percorso ad ostacoli

Con la realizzazione dei nostri due documentari, ovvia- mente, tutto è diventato diverso da come era stato immagi- nato. Nel percorso della ricerca si sono rivelati molte sorpre- se, sicuramente utili per riflettere sulla prassi militante della restituzione. Fin dalla concezione, l’obiettivo non era quello di produrre un documentario che esaltasse semplicemente gli obiettivi politici del movimento. Immaginavo un lavoro più complesso, in grado di offrire uno sguardo dietro le quinte. Un lavoro di antropologia visuale, come spiega Padiglione (2008, p. 105) in grado di “contrastare le illusioni di traspa- renza e neutralità del medium e di lasciare tracce per rendere riconoscibile le mediazioni”. In questo modo non ci sarebbe stato il rischio di cadere in lotte settarie all’interno del movi- mento neo-rurale. Per esempio, alcuni nodi territoriali appar- tenenti alla rete “Genuino Clandestino” interagiscono con i produttori di prodotti biologici certificata dagli enti accredi- tati, mentre altre se ne oppongono. È quindi facile, per un et- nografo militante cadere nella trappola etnografica e politica di essere identificato con una corrente particolare, col rischio di precludere l’interazione con altre fazioni del movimento.

Inoltre, gli esponenti dei movimenti contemporanei ra- ramente hanno bisogno di un sostegno per farsi sentire, avendo a disposizione strumenti tecnologici e professionali come mai prima. I nostri documentari, quindi, non aveva- no il compito di fare da megafono alle cause dell’attivismo. Infatti, esisteva già prima che noi iniziassimo la ricerca un bellissimo documentario sul movimento “Genuino Clan- destino” e la problematica dell’agricoltura industriale. Nel 2016, un gruppo di attivisti prevalentemente bolognesi ha prodotto un impressionante libro fotografico affiancato da testi. Inoltre, durante la fase di ricerca un gruppo di giovani

attivisti pugliesi ha iniziato un viaggio per l’Italia per creare un altro documentario su alcune delle esperienze più signi- ficative della rete nazionale (“Scarpe grosse, cervello fino”). Tutti questi documenti assolvevano benissimo al compito di ampliare e far conoscere la voce del movimento; noi come etnografi, per quanto militanti, non ci potevamo quindi limi- tare a ripetere le posizioni del movimento stesso. Inoltre, un aspetto particolare della ricerca è stata la partecipazione alla vita quotidiana degli attivisti che permetteva di documentare le dinamiche micro-politiche della loro (e della nostra) ricer- ca di autonomia, libertà e individualità in un mondo sempre più standardizzato. Sul fondo di questa visione, il compito del nostro documentario era inteso come quello di offrire uno stimolo di riflessione in più, una voce anche critica che fosse in grado di situare le rivendicazioni della rete a fronte delle dinamiche neoliberiste di potere.

Per questo motivo avevo deciso nel momento della con- cezione del progetto di focalizzare l’attenzione sulla tensione tra attivismo e pratiche quotidiane. Ci siamo limitati a seguire soltanto quattro personaggi chiave attraverso una minuziosa osservazione partecipante, ponendo l’accento sui modi in cui le loro vite si intersecavano con l’attivismo neo-rurale. I primi mesi della ricerca erano dominato dal tentativo di gestire le pratiche dell’assunzione di un post-dottorando in Antropolo- gia Visuale che poi è stato coinvolto nel lavoro di ricerca in modo orizzontale, anche se ovviamente il progetto aveva già il suo impianto di base. Abbiamo quindi insieme partecipato a molti mercati alternativi nell’Italia centrale, ma anche a molti eventi in centri sociali o spazi alternativi. La partecipazione ai ritmi della vita in campagna, ai festival nazionali e la condivi- sione del lavoro hanno creato un particolare intreccio in cui la ricerca non era distinguibile dalla militanza; si sono create del- le relazioni di amicizia in cui le dimensioni personali, politiche e professionali si sono intersecate su molteplici livelli. In que- sto quadro, il nostro compito di creare uno o due documentari ci conferiva un certo ruolo riconoscibile, distinto da quello di semplici simpatizzanti del movimento. La telecamera in mano,

in questo senso, ha funzionato come un veicolo per aprirci la strada. Frequentando in maniera sistematica tutti i mercati al- ternativi, diventava possibile tracciare una mappa relazionale dei soggetti neo-rurali. Man mano che passava il tempo, sem- pre più attivisti e contadini ci invitavano a casa loro. Ma non di rado la pesante grande camera del mio collaboratore non sem- pre ispirava fiducia. Quindi nei primi mesi la abbiamo accesa piuttosto raramente. Se invece ci fossimo presentati in primo luogo come quelli che semplicemente cercavano di amplificare le ragioni del movimento, l’”entrata sul campo” sarebbe stata ben più facile, ma l’insistenza veniva ripagata non soltanto da uno sguardo più profondo dietro le quinte dell’attivismo, ma anche da amicizie più durevoli in quanto eravamo interessati, per così dire, alla vita nella sua completezza.

3. Convivere con la tensione tra prassi e ideali

L’individuazione dei quattro personaggi del principale documentario è stato un processo graduale, non sempre facile, anche perché avevo una certa debolezza per le per- sone più eccentriche e pittoresche che non necessariamente erano rappresentative, portando in luce anche una certa diffidenza del postdottorando per delle scelte forse troppo stravaganti. Per esempio, in un mercato a Roma abbiamo incontrato Pedro. Emanava l’aura di chi aveva vissuto inten- samente, di qualcuno che aveva qualcosa da dire. Nel suo viso scuro brillavano due occhi vivaci, pieni di entusiasmo. Non ci saremmo pentiti di averlo contattato. Aveva una bancarella piena di piccoli oggettini colorati, bottiglie di olii essenziali e cuscini profumati con etichette in stile psichede- lico disegnate a mano. Il suo banco trasmetteva una poesia tutta sua; era ricavato da una cassa di legno antico decorato con varie stoffe indiane ed era talmente pesante che Pedro doveva chiedere aiuto a qualcuno, in genere a me, per rimet- tere la cassa nel suo vecchio furgoncino scassato. Come era da immaginare, Pedro è stato subito disposto ad accoglierci

a braccia aperte a casa sua. “Venite quando volete, anche domani” ci diceva sempre. Ma quando lo chiamavamo il giorno dopo non rispondeva al telefono per ore; era uscito in campagna per cercare delle erbe selvatiche dimenticando il suo telefono sul tavolo della cucina. La nostra insistenza era ripagata, quando riuscivamo ad incontrarlo con la sua generosità e singolare apertura. Anche per queste qualità è diventato uno dei personaggi chiave del film.

Abbiamo incontrato per caso anche altre persone cen- trali per la ricerca. Per esempio, un giorno abbiamo girato in un piccolo mercato di provincia: una serie di bancarelle piuttosto abituali, verdure, conserve, formaggi, qualche for- ma di pane. Ad un certo punto notavamo un piccolo tavolo in fondo alla fila delle bancarelle. Sul tavolo c’era esposto soltanto un piccolissimo cesto che conteneva quattro uova; niente altro. Ma come era possibile? Anche stimando l’i- dealismo e la trascendenza dalle logiche di profitto su cui si fonda il modello dell’agribusiness dominante, la banca- rella con quattro uova sembrava al limite. Così cercando il proprietario o la proprietaria, abbiamo conosciuto un altro personaggio chiave della nostra ricerca. Soltanto dopo ore qualcuno ha saputo indicarci una ragazza seduta su una panchina a fumarsi una sigaretta. Era immersa in una con- versazione fitta e, a differenza di molti degli espositori e venditori neo-rurali, era vestita in maniera abbastanza co- mune: non portava nessun segno di appartenenza al mon- do alternativo né a quello rurale, sembrava una qualsiasi giovane cittadina. Lei, Martina, per anni aveva promosso una radio alternativa incentrata su questioni neorurali. Da poso, insieme al suo compagno Gerolamo, avevano preso da poco in affitto una stalla precedentemente abbandonata in cui gestivano una quarantina di capre. La stalla si trovava in una zona di montagna molto isolata al termine di un sen- tiero dissestato; era perfino difficile arrivarci in macchina. “Minimo 200 capi, altrimenti non c’è la fai mai a vivere”, commentava incredulo un esperto agrario quando gli ho racconto del nostro incontro. Negli anni successivi siamo

diventati amici stretti con Martina ed il suo compagno; fre- quentavamo la loro stalla con insolita insistenza: lei ed il suo compagno si rivelavano dei veri avventurieri inarresta- bili. Durante la nostra presenza, dovevano affrontare delle difficoltà inimmaginabili: trattare con dei soggetti loschi e para-mafiosi, affrontare epidemie animalesche dei loro animali e gestire volontari ancora più eccentrici dei nostri soggetti di ricerca. Diverse volte sono stati intenzionati a lasciare perdere il loro progetto di costruirsi un’esisten- za neo-rurale. Ad un certo punto Martina aveva iniziato a lavorare in una pizzeria e ragionava su come rivendere il gregge delle capre. Ma molti capi erano malati e quindi valevano una piccolissima parte di ciò che i due allevatori avevano investito nel loro acquisto. Quando erano dispe- rati, parlavano di come cambiare strada, iniziare qualcosa di diverso. Peresempio si immaginavano di trasferirsi in un altro comune che permetteva l’utilizzo di pascoli gratuiti ai residenti il pascolo gratuito in delle zone montuose e anco- ra più isolate. Ma queste idee mi sembravano campate in aria. A volte capitava di discuterne insieme al postdottoran- do e perfino insieme ai genitori che cercavano di spingere i loro figli a scelte meno idealiste. Nei tre anni della ricerca abbiamo assistito insieme alla giovane coppia alla realizza- zione della loro utopia neo-rurale. Ad un certo punto riu- scirono a dominare il gregge, ad imporre la loro volontà. Non erano più loro che correvano dietro alle capre, gri- dando, aggrappandosi ai cespugli dei versanti rigidi della montagna per tornare esausti a casa. Ora erano le capre che seguivano loro e ci potevamo permettere anche di portarci panini e vino per una pausa. Si era istaurato un certo ritmo. Mesi dopo la loro crisi, abbastanza inaspettatamente, era- no riusciti ad acquistare perfino un piccolo appartamento trasandato pagando un piccolo mutuo pur potendo offrire ai creditori poche garanzie. Abbiamo quindi assistito all’e- sperienza straordinaria di superamento della crisi e ora la coppia si colloca tra i protagonisti neo-rurali della zona con un’esperienza faticata sul terreno.

È stato quindi quell’interesse alla vita quotidiana, alle persone nella loro dimensione completa che ha portato a una comprensione più profonda e meno presuntuosa di quello che significa mettere in pratica l’attivismo neo-rurale. Una limitazione ai momenti di attivismo politico in sé avrebbe portato a una visione più parziale. In questo periodo ho potuto osservare come gli ideali neo-rurali potessero essere usati anche, per esempio, per un avanzamento di carriera oppure si limitavano a un gesto vuoto contraddetto dalle pratiche quotidiane. Un’attivista particolarmente atroce, per esempio, attaccava verbalmente nelle riunioni chiunque non fosse abbastanza “alternativo”, ma scoprimmo con stupore che si faceva mantenere dal marito dentista, spaziando con

non chalance tra la sfera dei valori alto-borghesi e la vita atti-

vista dei centri sociali. Un’altra attivista proclamava discor- si ad alta voce sulla coerenza attivista, attaccando persone in tono polemico che avevano a sua opinione fatto troppi “compromessi con il sistema”, ad esempio mettendosi in re- gola come azienda agricola oppure accettando finanziamenti pubblici. Pochi mesi dopo notavo come la stessa attivista si presentasse in altri contesti come vincitrice di un concorso pubblico da funzionario al ministero dei beni culturali in veste ufficiale e poco critica rispetto a prima. Sicuramente si tratta di un caso estremo, ma queste tensioni tra coerenza idealistica e pratica quotidiana sono ovviamente una questio- ne più universale e sono ritrovabili in molti ambiti.

La ricerca di lunga durata con attivisti quindi ci ha inse- gnato come quasi nessuno può fuggire alle contraddizioni e alle vie inaspettate della vita. Quindi un atteggiamento più umile appare spesso più utile rispetto a pose politiche e re- toriche di coerenza. Molti attivisti neo-rurali, come Martina e Gerolamo erano impegnati in un costante tentativo di co- struirsi una sfera di autonomia gestionale e economica, ma era una sfera di autonomia contingente, a volte effimera, che tuttavia aveva il suo fascino e il suo potenziale innovativo nei sensi della svolta post-anarchismo (Newman 2015). A proposito della tensione tra ideali e pratica, scrive l’attivi-

sta neo-rurale e scrittore Sergio Cabras (2016, p. 35): “La vita neo-contadina è una realtà che si costruisce giorno per giorno, non un discorso astratto, non una teoria da applicare

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 187-200)