• Non ci sono risultati.

Ricerca e militanza: un’imperfezione inevitabile

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 89-105)

Non a caso L’etnografo imperfetto, di Leonardo Piase- re (2002) apre con il racconto L’etnografo perfetto di Jorge Luis Borges: Un giovane etnografo dell’Università di Yale, molto devoto alla sua professione, riesce ad integrarsi alla perfezione nei nativi americani che studia. Sogna nella loro lingua, apprende i loro segreti. Si integra talmente bene che non riesce più a comunicare ciò che osserva: infatti, decide di non rivelare mai i segreti dei suoi informatori. Più si “im- pregnava” dei “suoi ‘indiani’”, scrive Piasere (2002, p. 188), “meno aveva da dirne”. Così l’etnografo perfetto è costretto a rimanere in silenzio; alla fine diventa bibliotecario.

In questo capitolo si indagano alcuni delle assunzioni di base date frequentemente per scontate nell’ambito delle et- nografie militanti svolte su e con i movimenti sociali. Come nel caso dell’etnografo perfetto, la sovra-identificazione con i soggetti della propria ricerca può portare a un maggiore “si- lenzio” piuttosto che ad una più intensa capacità di comuni- cazione, ma questo non deve essere sempre un male. Questo cortocircuito paradossale diventa particolarmente importante per una comprensione accurata dei fattori che portano alla nascita o all’esaurimento di una certa forma di mobilitazione, al significato della trasgressione e alla funzione che assume l’identità di un certo movimento o rete di attivismo. Le etno- grafie militanti, infatti, possono trarre un grande beneficio dal

campo di studi consolidato degli studi sui movimenti. Un con- fronto con l’orizzonte interdisciplinare di questo campo infatti può attingere ad una storia di dibattiti proficui. Tuttavia, essa viene spesso ignorata oppure considerata irrilevante per la pratica etnografica, ma in questo modo si tende a riprodurre il cortocircuito dell’etnografo perfetto ripreso da Piasere.

L’etnografo imperfetto, invece – per Piasere –, è quello che è costretto ad elaborare interpretazioni in grado di co- municare tra mondi diversi, passare le soglie delle traduzioni e dei limiti della comprensione altrui. Questa tensione tra distanza e perdita completa qualifica l’antropologia come una pratica di vita, ma rinvia anche ad alcuni problemi me- todologici specifici. In questo contesto, è fondamentale fare alcune considerazioni preliminari sull’uso di alcuni concetti. Per esempio, il concetto forme di mobilitazione è applicato nel campo di studio sui movimenti sociali non come qualcosa di equivalente all’attivismo in generale, ma sposta l’attenzio- ne alle modalità e alle pratiche con cui agiscono i movimen- ti all’interno del loro contesto (Della Porta 2009). Si tratta quindi di un concetto utile per discernere questioni di strate- gia o le strategie di azione ed i loro effetti, da questioni di tipo identitario e simbolico. Il termine azione collettiva1, invece, si

riferisce all’insieme delle azioni intraprese da un determinato gruppo oppure una rete con obiettivi politici. Proposto in origine da Mancur Olson (1965), il termine ha portato nel corso dei decenni ad una comprensione approfondita delle motivazioni e delle dinamiche dell’attivismo. Rispetto ai ter- mini più generici di attivismo o militanza, una distinzione tra forme di mobilitazione e azione collettiva aiuta a collocare l’analisi in maniera più specifica, spostando l’attenzione per esempio alle singole modalità (forme di mobilitazione) in cui si evolve l’attivismo oppure alle trasformazioni delle dinami- che di gruppo (azione collettiva).

1 In questo caso, il termine azione collettiva è utilizzato dagli studi sui

movimenti, ma a volte è anche usato come una traduzione di class action che invece si riferisce più specificamente all’azione legale condotta da uno o più soggetti che chiedonola soluzione di una questione comune.

1. Sofferenza e disagio: una spiegazione incompleta

Una delle semplificazioni più comuni è quella di cercare le cause della nascita di un certo movimento esclusivamente nel disagio, nella sofferenza oppure nell’ingiustizia a cui il movimento conferisce voce; in questo modo il ricercato- re prende alla lettera quella che è l’auto-rappresentazione degli attivisti in prima fila. L’etnografo perfetto piaseriano, in questo modo, tende ad assumere il ruolo di “megafono” delle cause del movimento stesso. Questo non deve neces- sariamente essere un problema, ma nel campo di studi sui movimenti esiste un raffinato dibattito decennale sui fattori, le condizioni necessarie e quelle non necessarie che con- tribuiscono alla formazione di movimenti, che ripensano profondamente le dinamiche di come vediamo la nascita o l’esaurimento di forme di attivismo. Uno dei paradigmi in- terpretativi più in vista al riguardo è quello delle cosiddette “opportunità politiche”. In una delle accezioni originarie, quella di Sidney Tarrow (2011) formulata nel volume clas- sico Power in Movement, i soggetti si mobilitano in risposta a delle opportunità politiche apertesi nel contesto in cui agiscono. Ma successivamente, attraverso l’azione colletti- va, si creano nuove opportunità politiche, innescando una dinamica che può portare alla nascita di un movimento di larga scala. Questa prospettiva, nota anche come teoria dei processi politici, cerca innanzitutto di esaminare i fattori che spiegano “quando” piuttosto che “perché” un certo movimento sorge o sparisce. Uno dei dibattiti su questo paradigma si articola intorno al problema di come definire esattamente le opportunità politiche. Da un lato, una defini- zione troppo ampia diventerebbe tautologica, dall’altro una troppo ristretta si limiterebbe ai fattori politico-istituzionali e quindi decisamente non esaurirebbe il quadro.

Doug McAdam (1996, pp. 26-27) considera i quattro fattori seguenti come le dimensioni centrali delle oppor- tunità politiche: (1) la relativa apertura o la chiusura di un sistema politico; (2) la stabilità o instabilità dell’alli-

neamento delle élite nei circuiti del potere sovrano; (3) la presenza o l’assenza di alleati nelle élite; (4) le abilità o le propensioni degli apparati statali alla repressione quan- do prende corpo l’azione collettiva. È ovvio che questa definizione richiede una specificazione caso per caso. Per esempio, con “abilità di repressione” qui non è inteso il semplice scontro con le forze di polizia, che di fatto in molti casi contribuisce alla creazione di ulteriori opportu- nità politiche di mobilitazione, come è accaduto per esem- pio nelle mobilitazioni con cui si è innescata la cosiddetta primavera araba al Cairo (Rutland 2013). Gli scontri con la polizia, in questo senso, riguardano l’instabilità dell’al- lineamento delle élite. Nell’insieme, la prospettiva delle opportunità politiche ha sostituito a sua volta il paradig- ma della “mobilitazione delle risorse” che ha posto l’ac- cento sulla capacità di un movimento di attingere a delle risorse economiche, sociali e culturali necessarie per la sua creazione (McAdam, McCarthy e Zald 1996; Tarrow 2006). Gli studi che ponevano l’attenzione sulle dinami- che materiali e immateriali legate alle abilità di mobilitare delle risorse hanno messo chiaramente in evidenza che la disponibilità di queste è una condizione necessaria senza la quale un movimento non può nascere. Per esempio, i movimenti del ‘68 non sono stati soltanto una risposta alla staticità culturale e politica delle società del dopoguerra, ma rimangono inevitabilmente intrecciati con gli effetti del boom economico che ha prodotto una generazione che aveva accesso alle risorse culturali ed economiche per organizzarsi. Da molti studiosi questa formula viene considerata ai giorni nostri troppo limitata (Diani 2003) e si è sviluppato un ampio dibattito su come mettere in relazione la disponibilità delle risorse con le forme di mo- bilitazione (Goodwin e Jasper 2004).

È quindi importante tenere presente che né la presenza di un certo livello di disagio o sofferenza, né la disponibilità di risorse sono delle condizioni sufficienti oppure necessarie per la nascita di un certo movimento. In questa prospettiva,

diventa possibile evitare il corto-circuito dell’etnografo perfetto. Per esempio, considerare il movimento No-Tav come una mera conseguenza meccanica del disagio pro- dotto dai lavori della linea ad Alta Velocità nella valle li- miterebbe notevolmente l’indagine delle dinamiche del movimento. Invece, l’attenzione alle opportunità politiche offerte dal contesto, dalla relativa incapacità delle autorità di affrontare il dissenso, costituirebbe uno studio di carat- tere più relazionale, e anche molto meno scontato. In modo simile, Aime (2016) mette l’enfasi sulla decennale costru- zione di comunità resistente come una risorsa cruciale per capire la tenacia del movimento. Inoltre, la ricerca di Caru- so (2010) mette in luce come una certa incapacità di gestire la protesta da parte delle autorità locali abbia dato vita a processi di aggregazione che hanno coinvolto ampi strati di cittadini solitamente poco inclini alla protesta.

È utile, quindi, recuperare la classica distinzione bour- dieuana tra “categorie di prassi” e “categorie di analisi” (Bourdieu e Wacquant 1992). Questa distinzione raffina quella che in antropologia viene si definisce come distin- zione tra “emico” e “etico”, cioè la separazione tra il pun- to di vista e i valori degli attori sociali e quello “esterno”, attinente alle scienze sociali, coniata in origine dal lingui- sta Pike (1982). È attraverso lo studio della dialettica tra categorie di prassi attraverso le quali emerge l’esperienza dei soggetti di ricerca e categorie di analisi distinte da tali esperienze che si svelano i processi di oggettivazione dei saperi e delle pratiche di dominio. Questa distinzione ha avuto una certa fortuna negli studi sull’etnicità e ha il pre- gio di smascherare il funzionamento delle dinamiche che portano alla costituzione di identità collettive e alla loro naturalizzazione (Brubacker 2004). In breve, considerare l’esperienza di disagio o di sofferenza come una condi- zione non necessaria per la nascita di una certa forma di azione collettiva può costituire una lente euristica partico- larmente proficua per la comprensione dei processi politi- ci retrostanti (cfr. Aime 2016).

2. L’ambivalenza della trasgressione

Il corto-circuito dell’etnografo perfetto può investire an- che la valutazione di che cosa sia considerato trasgressivo e che cosa invece no. Molte forme di mobilitazione sembrano in apparenza trasgressive, ma di fatto tendono a riaffermare lo status quo. In Francia, per esempio, le forme di mobilita- zione degli agricoltori assumono spesso forme violente, ma le loro richieste non sono necessariamente trasgressive (Jordan 2003). Spesso si tratta di appelli collocabili perfettamente all’interno delle relazioni di potere esistenti, come la richie- sta dell’estensione temporale di un certo tipo di sovvenzioni agrarie oppure l’aumento delle quote di produzione. Alcune forme di mobilitazione possono portare a scontri di piazza violenti e a eventi mediatici spettacolari, ma in fin dei conti tendono ad esercitare soltanto una pressione su questo o quel rappresentante del governo, senza richiedere un cam- biamento nella struttura del governo stesso. Dall’altro can- to, la tradizione di azione diretta non violenta applica spesso forme di mobilitazioni assolutamente non trasgressive, ma mira ad un cambiamento profondo delle relazioni di potere. Gandhi era indubbiamente un maestro di questa strategia: marciare collettivamente per le strade non è trasgressivo in sé, ma l’obiettivo di archiviare il dominio coloniale britanni- co nel cestino della storia lo era.

La trasgressione, inoltre, è di solito considerata un ingrediente indispensabile per la costituzione di un mo- vimento, come è evidente in molte definizioni in uso ne- gli studi sui movimenti sociali. Secondo alcuni studiosi esiste un ampio consenso nell’individuare la capacità di estendere lo spazio di ciò che sembra fattibile e pensabile come uno degli elementi indispensabili nella definizione di movimento (Della Porta e Diani 2009; Edelman 2001). La propensione a rompere in qualche modo con l’esisten- te è iscritta nell’azione collettiva, ma non sempre ciò che si propone di trasformare richiede cambiamenti politi- co-sociali profondi. Si tratta quindi di un’ambiguità che

percorre molte storie di mobilitazioni. In Azione diretta, Tim Jordan (2003, p. 38) analizza le richieste avanzate dal movimento zapatista in Messico. Il movimento proclama la sua opposizione alle politiche economiche neoliberiste come la privatizzazione dei sistemi di produzione pubbli- ca, ma richiede anche un adeguato accesso alle strutture sanitarie e formative. Jordan individua qui la co-presenza di due registri diversi: uno che chiede cambiamenti alle istituzioni esistenti (per esempio, l’accesso adeguato a servizi terapeutici ed educativi), e quindi implicitamente accetta la legittimità di tali istituzioni. Su un altro livello invece, il movimento zapatista avanza richieste che punta- no a una completa ristrutturazione dei sistemi sociali (per esempio, l’opposizione alle politiche neoliberiste).

In linea con questo esempio, Jordan (2003, p. 37) de- finisce l’azione collettiva trasgressiva quella che si colloca “in contraddizione con le strutture sociali esistenti, le isti- tuzioni e l’etica attuali. L’etica del futuro potrà nascere soltanto dalla trasgressione, dal travalicamento delle mo- dalità correnti di negoziazione del conflitto sociale e di risoluzione delle divergenze”. Si può facilmente osservare come molte forme di attivismo si collocano su vari registri allo stesso tempo. Ciò che si presenta come trasgressivo di fatto può risultare poco pericoloso per le strutture esisten- ti e, viceversa, ciò che si presenta come innocuo e accomo- dante può risultare di fatto sovversivo. Vale quindi la pena di andare oltre l’auto-rappresentazione. È questa una del- le distorsioni in cui rischiano di imbattersi molte ricerche etnografiche militanti: considerare trasgressivo ciò che di fatto non lo è o viceversa. È quindi utile partire da una distinzione analitica tra forme di mobilitazione e obiettivi della mobilitazione: le forme possono essere trasgressive (ad esempio distruggere proprietà privata), ma gli obietti- vi non necessariamente lo sono (ad esempio, un aumento delle quote latte). In ogni caso, le dinamiche dell’azione collettiva sono spesso imprevedibili, come peraltro ha mo- strato la recente ondata nota come “primavere arabe”.

2.1 Le conseguenze molteplici dell’attivismo

Un altro azzardo comune è quello di limitare la compren- sione delle conseguenze di un certo tipo di azione collettiva a quanto dichiarato dagli stessi attivisti come obiettivo della mobilitazione. Molte etnografie sono tentate dal rendersi in- terpreti di questo approccio. Tuttavia, limitando lo sguardo a quegli obiettivi, difficilmente si può dimostrare che essi ri- escano a cogliere gli effetti indiretti, le ripercussioni culturali di lunga durata oppure l’impatto sulle bibliografie individua- li dei protagonisti. Se giudicassimo il movimento operaista degli anni settanta in base al suo obiettivo dichiarato, ovvero di abbattere il capitalismo, la valutazione di quell’insieme di azioni collettive risulterebbe inevitabilmente in un misero fallimento. Tuttavia, ricerche recenti dimostrano come il pa- trimonio culturale dei movimenti operai ha potuto dare un contributo centrale alla cultura e consapevolezza dei diritti civili, oltre ad avere un impatto sulle biografie dei protago- nisti (Beckwith 2015). Dall’apparente fallimento, quindi, possono nascere varie conseguenze: gli attivisti potrebbero consolidare le proprie convinzioni, riformulando strategie di azione con più successo nel futuro.

Studi longitudinali con una profondità storica sulla mo- bilitazione a piazza Tahir al Cairo all’inizio della cosiddetta “primavera araba” hanno messo in evidenza come l’azione collettiva nella piazza centrale della città sia stata anche il risultato di anni di mobilitazioni nelle fabbriche che erano rimaste invisibili (Sika 2015). Kalb e Mollona (2019) mostra- no come è in parte anche l’eredità del movimento operaio ad aver dato una linfa di vita alle mobilitazioni che portaro- no ai cambiamenti di regime in Tunisia e Egitto. È stato un cambiamento di strategia dopo un primo fallimento, quindi, a portare al clamoroso impatto successivo. Inoltre, in par- ticolare durante una ricerca di lunga durata è normale che gli attivisti si defilino, cambino direzione; coalizioni nascono per poi frammentarsi; spesso una ONG o rete di attivismo si scioglie anche prima che la ricerca sia stata pubblicata (ad

esempio, Edelman 1999, Saitta 2018). È ovvio che gli etno- grafi con il loro contatto immediato sono molto più esposti a queste dinamiche rispetto ad altri studiosi che intrattengono un rapporto molto più indiretto con i soggetti dell’attivismo. Questa fluidità e fragilità viene prevalentemente considerata una debolezza. Invece, in molti casi sarebbe ben più proficuo spingere l’analisi oltre la misurazione del raggiungimento o meno rispetto agli obiettivi dichiarati degli attivisti. Nella sua rassegna della letteratura sulle pratiche delle ONG e delle loro reti, Fischer (1997) osserva che, da una prospettiva an- tropologica, è inappropriato considerare la costante evoluzio- ne delle reti dell’azione collettiva come una semplice debolez- za: “Sarebbe preferibile cercare le tracce della continuità del processo di ribellione dal quale molte ONG emergono e nel quale alcune ONG rimangono impegnate. ONG e movimen- ti sociali vanno e vengono, ma lo spazio che hanno creato nel loro transitare potrebbe contribuire a nuove forme di attivi- smo” (Fischer 1997, p. 459; cfr. Edelman 1999). È anche la capacità di mettere in luce queste traiettorie complesse che può aggiungere prospettive importanti alla ricerca militante che rimangono a volte invisibili agli attivisti stessi.

In una recente rassegna di studi interdisciplinari sul tema,

The Consequences of Social Movements, Bosi, Giugni e Uba

(2016, pp. 4-5) distinguono tre grandi ambiti nello studio delle conseguenze dell’azione collettiva: (1) conseguenze personali e biografiche del coinvolgimento in movimenti; (2) cambiamenti di carattere culturale oppure trasformazioni a lungo o breve termine nelle norme sociali e nei comporta- menti all’interno dei quali gli attori operano; (3) trasforma- zioni politiche oppure gli effetti delle attività dell’azione col- lettiva sul contesto politico circostante. L’ultima dimensione è ovviamente quella che suscita spesso il più grande interesse pubblico (Uba 2009), ma non si può dare per scontato che sia quella più significativa. Uno studio approfondito sui per- corsi biografici che incrociano certi movimenti può offrire comprensioni più profonde sulle dinamiche di successo e fal- limento dell’azione collettiva. Un’analisi delle conseguenze

delle mobilitazioni femministe degli anni settanta incentrata esclusivamente sugli obiettivi al tempo dichiarati risultereb- be estremamente limitante; tale prospettiva manterrebbe all’oscuro le più ampie e ben più importanti conseguenze socio-politiche di tale ondata di mobilitazioni. A distanza di più di cinquanta anni sono diventate evidenti le profonde trasformazioni nelle relazioni di genere al quale le mobilita- zioni femministe hanno contribuito in maniera sostanziosa.

Nel suo interessante studio sul coinvolgimento biografico negli scioperi contro la chiusura di miniere britanniche negli anni ottanta, Beckwith (2015) mette in evidenza l’importan- za di alcune conseguenze indirette ed inaspettate. Mentre gli scioperi sono finiti con un evidente fallimento e la chiusura delle miniere è stata inevitabile, il suo sguardo dietro le quin- te degli obiettivi dichiarati (“mantenere aperte le miniere”) mette in luce l’impatto di lunga durata della partecipazione agli scioperi sui soggetti coinvolti e sulle loro comunità. L’au- trice mostra che si sono creati nuovi legami di solidarietà che nei decenni successivi hanno portato una serie di cambia- menti positivi negli assetti locali. Sono anche queste visioni dietro le quinte degli obiettivi dichiarati che permettono ad una ricerca di produrre uno sguardo che potrebbe rifuggire una prospettiva di militanza immediata.

3. Identità, pluralità, individualità

Esistono ovviamente una serie di altre dinamiche in cui una maggiore distinzione nel senso bourdieuano tra catego- rie di prassi e categorie di analisi può diventare proficua al fine di evitare il cortocircuito dell’etnografo perfetto borge- siano. In questo paragrafo si accenna brevemente ad alcune delle altre semplificazioni più frequenti. Una di queste è quella di intendere il movimento studiato come una comuni- tà tendenzialmente ripiegata su se stessa piuttosto che come una rete aperta. In altri ambiti della ricerca antropologica, lo studio di comunità ha esaurito il suo dinamismo esplicati-

vo. Il modo in cui si intende l’ambito di ricerca etnografico si è infatti modificato notevolmente sotto l’influenza degli studi sul transnazionalismo e del loro tentativo di superare il “nazionalismo metodologico” (Wimmer e Schiller 2003; Koensler 2016). Questa prospettiva ha dato luogo a una se- rie di stimoli di rinnovamento noti come la “ricerca multisi- tuata” (Coleman e Collins 2007; Marcus 1995) oppure, più recentemente, lo studio di “connessioni parziali” e frizioni articolate su scale diverse (Tsing 2006; Strathern 2005). Ap- plicando quindi uno studio che non dà per scontata l’esi- stenza di una comunità, ma insegue flussi di persone, oggetti o relazioni all’interno del campo di tensione tra socialità e località, come afferma Nieswand (2007), queste prospettive cercano di evitare una concezione culturalista e statica delle rappresentazioni sociali.

In questo senso l’etnografia militante multi-situata si può coniugare con forme di collaborazione esistenti o incipienti tra vari contesti di mobilitazione uniti dalla resistenza ad un

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 89-105)