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Verso un’autocritica dell’antropologia critica e dell’etnografia militante

È utile, quando si riflette sui limiti e le possibilità della tensione politica connaturata alla pratica etnografica, inter- loquire con autori che hanno cercato di mettere a nudo le contraddizioni di un’antropologia, e più in generale, di una “scienza”, di un’”attività intellettuale” militanti. Per chi, nel fare ricerca etnografica, si accorge di (volere, potere, essere costretto a) rivestire un ruolo anche apertamente politico, tale riflessione vuole essere funzionale a incoraggiare i prati- canti ad una più profonda introspezione, ad una accresciuta consapevolezza dell’esercizio esplorativo e di quello speri- mentale, ad una maggiore sofisticatezza dell’analisi e dell’in- tenzione etnografica. Un critico culturale deve saper fare au- tocritica e ponderare il valore delle obiezioni di intellettuali più moderati o conservatori scettici rispetto all’approccio militante, per lasciarsi ispirare, correggere, consigliare.

È particolarmente stimolante, volendo prendere la que- stione – per così dire – alla lontana, interpellare intellettuali progressisti-moderati come il politologo statunitense Mi- chael Walzer (1988) che, alle soglie della caduta del muro di Berlino, con la pubblicazione del volume L’intellettuale

militante: critica sociale e impegno politico nel Novecento pro-

poneva una riflessione sulla costante alienazione, lontananza, incomprensione reciproca tra gli intellettuali militanti del Novecento e “il popolo”, le masse che questi stessi intellet-

tuali avevano inteso emancipare. Significativamente, almeno per il nostro discorso, tra gli intellettuali citati e discussi nel volume di Walzer spiccano Antonio Gramsci e Michel Fou- cault, a cui molti antropologi critici ed etnografi militanti contemporanei si riferiscono in modo quasi rituale nei loro lavori e nei loro ragionamenti teorici.

La critica sostanziale di Walzer a questi due intellettuali – che può risultare a tratti tendenziosa e discutibile in termini storiografici – prende spunto dalla rilettura delle loro biogra- fie e delle concrete forme di contatto e co-implicazione che questi hanno, o non hanno, effettivamente intrattenuto con i lavoratori e la classe operaia, nel caso di Gramsci, e con i soggetti detenuti e psichiatrici, nel caso di Foucault.

Gramsci era, e promuoveva l’emergere storico di, un “nuovo tipo di filosofo” che ambisce a guidare le masse alla loro emancipazione fino a che queste non siano sufficiente- mente preparate, formate e istruite su come farlo da sé. Tut- tavia tale visione impone un distacco esistenziale del filosofo stesso dalla massa proletaria. Walzer (1988, p. 119) è quasi provocatorio, e pare talvolta dimenticarsi del fatto che il ri- voluzionario sardo passò la vita in carcere, quando scrive:

Egli sembra aver conservato per tutta la vita tanto una sal- da concezione dei compiti del proletariato quanto una scarsa stima dei suoi membri. Essi non avevano lesioni cerebrali, ma erano culturalmente ritardati, e l’arretratezza era conseguenza pratica della subordinazione. […] Egli credeva che “il ruolo dell’intellighenzia è quello di rendere superflui i capi speciali provenienti dalle fila dell’intellighenzia stessa” . Per il momen- to però niente era più necessario dei capi speciali. […] Dal momento che la classe operaia non produce tali persone al suo interno, esse possono provenire soltanto dal corpo degli “in- tellettuali tradizionali”, reclutati in gran parte, come Gramsci stesso, dalle fila della piccola borghesia.

Walzer (1988, p. 131) sostiene che Gramsci sognasse una “avanguardia legata alla retroguardia, non con la forza dell’acciaio, ma con la persuasione delle parole. Un sogno da

intellettuale, messo in pericolo, tuttavia, dalla sicurezza da parte dell’intellettuale di marciare, quando marciava, sempre in testa alla fila”. Per Walzer, il distacco paternalistico dai soggetti delle sue più intense speculazioni rende inefficace e irraggiungibile la dimensione dell’immedesimazione con le classi subalterne per Gramsci, rendendo così incompiu- to il suo intento rivoluzionario. Una critica aspra quella di Walzer, ma non aspra come quella formulata nei confronti dell’atteggiamento intellettuale militante di Foucault.

In Foucault tale immedesimazione con “gli oppressi” ri- sulta altrettanto incompiuta, ma è conseguente ad un atteg- giamento morale diverso da quello di Gramsci, ideologo di un movimento e di un partito di cui si presumeva rappresen- tante d’avanguardia. Foucault, secondo Walzer, assume un atteggiamento anarchico e nichilistico verso i destinatari dei suoi discorsi di liberazione ed emancipazione.

Gli scritti di Foucault suggeriscono […] qualcosa di più simile all’insubordinazione che al dissenso politico. Non esi- ste alcun riferimento duraturo ad idee morali o a un impegno prolungato per sostenere persone e istituzioni, in base al quale si potrebbero misurare dei risultati. Il suo distacco favorisce l’impotenza; quando la distanza del critico si allunga all’infini- to, l’impresa critica fallisce (Walzer, 1991, p. 263).

Foucault viene rappresentato da Walzer come radicale, abolizionista, disinteressato ai sovvertimenti di sistema sulla base della sua concezione del potere. Il potere, secondo il filosofo francese, si esprime in relazioni diffuse, ramificate e avvolgenti; e in effetti secondo tale concezione le resistenze locali, la lotta di “intellettuali specifici”, in particolari sno- di delle reti del potere e delle istituzioni, possono produrre parziali sovvertimenti. A questi però lo stesso Foucault si sarebbe per gran parte della sua vita clamorosamente disin- teressato nella vita pubblica cercando, solo verso la fine della sua carriera, di sperimentare pratiche intese a rimodellare le relazioni di potere. Inoltre, questi esperimenti sono rimasti poco conosciuti nella rappresentazione di Foucault, noto

prevalentemente come teorico astratto. Pur avendo favorito dibattiti su possibili riforme e avendo criticato i modelli car- cerari e psichiatrici, incoraggiando l’effettivo cambiamento di alcune prassi, protocolli procedure nelle istituzioni pub- bliche francesi, Foucault “ha poco da dire su questo tipo di cose ed è ovviamente scettico sulla loro efficacia. Nonostante il risalto da lui dato alla disciplina e alla lotta locale Foucault si disinteressa ampiamente alla vittoria locale” (ibidem: 256).

Le osservazioni di Walzer sono di una certa utilità per comprendere i limiti dell’attività critica e delle ricerche mili- tanti. Fino a che punto i percorsi esistenziali degli intellettuali devono mostrare una coerenza con quanto predicato pubbli- camente? Fino a che punto la discontinuità, il disimpegno, l’incoerenza privata possono vanificare la tensione politica dell’esercizio critico? Secondo Walzer, atteggiamenti pater- nalistici spesso non permettono di ripensare il rapporto tra lavoro intellettuale e cambiamento storico in senso simme- trico e consensuale. Si tende a riprodurre una scissione in- tellettule-massa sia interpretando l’avanguardia intellettuale, con Gramsci, come un agente necessario affinché il popolo riemerga dalla nebbia del senso comune e venga instradato verso i sentieri della propria emancipazione, sia nel vedere il ruolo dell’intellettuale, con Foucault, come quello di chi formula una critica distaccata.

Torniamo ora al problema dell’antropologia come scien- za critica e della ricerca etnografica come pratica intellet- tuale militante. Se, come mostrato da Walzer, i principali filosofi di riferimento per la teoria radicale in antropologia (Gramsci e Foucault) hanno mostrato eccessivo distacco e disengagement pratico nei confronti dei soggetti per cui hanno preteso di prendere la parola, abbiamo recentemen- te assistito ad una inversione di tendenza: gli antropolo- gi radicali vengono criticati dai loro stessi colleghi per la loro eccessiva vicinanza ai soggetti della ricerca, accusati di indulgere nella fusione degli orizzonti della indagine con le istanze e rivendicazioni degli informatori. La questione, come messo in luce dal professore statunitense Herbert

Lewis (2009) non è indolore nel panorama scientifico in- ternazionale, tanto che alcuni ambienti accademici hanno sollevato preoccupazione per il radicalizzarsi della teo- ria antropologica. Prendendo in rassegna i convegni e le pubblicazioni dell’Associazione Antropologica Americana (A.A.A.) dagli anni 50 in poi, Lewis traccia una genealogia del pensiero radicale nell’antropologia statunitense presen- tando in ordine cronologico i titoli e i programmi delle con- ferenze del convegno annuale del A.A.A. e commentando il progressivo slittamento da approcci funzionalisti e strut- turalisti ad approcci radicali, critici, militanti; la trasfor- mazione a cui la disciplina sarebbe andata incontro viene illustrata come una deriva dai temi istituzionali (e apolitici/ depoliticizzanti/ depoliticizzati) che contraddistinguevano gli studi classici. Scrive Lewis (2009, p. 201):

Gli antropologi prima degli anni Sessanta sono stati cri- ticati per aver fallito nel rendere conto delle dimensioni del conflitto e dell’inuguaglianza; ma l’antropologia contempora- nea è ossessionata da questi temi. Il prevalere di discorsi sulla dominazione, l’oppressione, la resistenza, la condizione delle vittime, la violenza e il dolore è un fatto inevitabile in antro- pologia al giorno d’oggi. […] L’accusa ai discorsi e alle discus- sioni egemoniche sulla razza, il genere, la sessualità, il corpo, l’identità, risultando nello smascheramento del dispiacere e della felicità, è stata elevata a posizione dominante. L’ubiquità di dominazione ed oppressione è divenuta fondazionale per buona porzione dell’antropologia sociale e culturale; così il nostro campo di studi si presta a divenire un nuovo spazio per l’”ermeneutica del sospetto”, accanto ad altre analoghe tendenze nei campi della teoria letteraria, della teoria critica, degli studi culturali, degli studi post-coloniali, così come certe forme di teoria femminista.

Secondo l’emerito studioso statunitense, l’ostinata ricer- ca del “male” nelle società contemporanee sembra orientare buona parte del lavoro etnografico nord-americano degli ultimi 30-40 anni e, in questa polemica ininterrotta con gli

co-finanziarie) di mezzo globo, gli etnografi U.S.A. tendono ad appoggiarsi sull’autorità di pensatori radicali europei, a cominciare da Foucault appunto. A giustificare la progres- siva radicalizzazione dell’etnografia nord-americana vi sa- rebbe il puro e semplice fatto che alcuni temi fondamentali come la guerra del Vietnam, la lotta per l’emancipazione de- gli afro-americani, la crescita ipertrofica degli slums e delle periferie delle metropoli, la definitiva marginalizzazione e assimilazione dei nativi americani dalla fine degli anni Ses- santa in poi hanno coinvolto l’intero ceto intellettuale statu- nitense; Lewis crede che tale trasformazione per certi aspetti non si potesse scongiurare perché inevitabilmente in quegli anni gli antropologi furono considerati veri e propri esper- ti, chiamati in molti casi a posizionarsi negli accesi dibattiti pubblici che infiammavano la società nord-americana. Pro- segue Lewis (2009, p. 219):

La sollevazione, in antropologia è stata motivata da preoc- cupazioni politiche ed etiche […]. Fin dall’inizio, la maggior parte di questa ribellione si diresse contro quelli che erano percepiti come fallimenti etici e politici della disciplina stes- sa, così come contro i mali più generali della società ameri- cana, come il razzismo, la guerra in Vietnam, il trattamento iniquo delle donne, il capitalismo e la piaga dei lavoratori migranti e dei poveri. Le più significative influenze esterne su questa fase iniziale della grande trasformazione arrivò dalle teorie marxiste e femministe, ma poco dopo ci sarebbe stata una profusione di nuove idee tratte direttamente dall’Eu- ropa o dall’importazione di queste nozioni da altri campi delle università americane, e in modo particolare dagli studi letterari. Entro la fine degli anni settanta le preoccupazioni “coltivate in casa” dagli antropologi furono fertilizzate da influenze dall’estero e dal “literary turn”, dalla svolta let- teraria, in un’atmosfera di accettazione di generi sfuocati; era cominciata l’era dei “post” in antropologia. Un discorso dopo l’altro era sospinto a sfidare l’”establishment” e tutte le istituzioni. Gli approcci iniziali, irruenti ed arrabbiati, del discorso anticoloniale e antirazzista furono succeduti da idee più formali: marxiste, struttural-marxiste, antropologia criti- ca, teoria della dipendenza, e dei sistemi globali.

L’oblio delle radici dell’antropologia, del lavoro di autori classici come Malinowski e Boas, è quanto secondo Lewis andrà progressivamente a verificarsi attraverso la “grande trasformazione” radicale dell’antropologia statunitense. L’imperare delle correnti marxiste e neo-marxiste e degli ap- procci materialisti allo studio delle culture rappresenta l’a- spetto più controverso della deriva che, con il radicarsi degli ex-studenti ribelli nelle posizioni universitarie come docenti e ricercatori, si traduce in quei decenni in una forma di isti- tuzionalizzazione dell’antropologia radicale, qualcosa che Lewis saluta con malumore e sospetto. Infatti, dall’antropo- logia radicale all’antropologia militante e ad altre forme par- tigiane della ricerca, il passo non è poi troppo lungo, perché la teoria antropologica radicale – e questo è forse uno dei timori degli studiosi più conservatori – dischiude un ampio spazio di legittimazione epistemologica e deontologica delle ricerche etnografiche orientate alla trasformazione politica dei contesti studiati. Lo dimostra il dibattito post-moderno suscitato da Scheper-Hughes (1995) nel suo duello con Roy d’Andrade, dove la prima promuove la necessità impellente, incontrovertibile, di un’antropologia militante, ove l’etno- grafa/o si possa configurare senza mezzi termini come “com- pagna/o” (compañera/o) della lotta quotidiana dei gruppi marginalizzati del “Terzo Mondo”, mentre d’Andrade pro- pone un atteggiamento più distaccato in nome dell’oggetti- vità scientifica del lavoro etnografico, che deve ispirarsi al metodo delle scienze esatte. Il problema dell’utilità, della funzione sociale e morale del sapere antropologico costitui- sce il fulcro della discussione condotta in modo quasi aggres- sivo da Scheper-Hughes; non si può lasciare il “campo” a sé stesso, non si possono lasciare i propri informatori al proprio destino, non si può costruire una carriera sulla comprensione dei dilemmi senza spendersi per la loro risoluzione, ancora una volta “sul campo”1. In questa prospettiva la ricerca deve,

1 Addirittura, nel pathos della descrizione, Scheper-Hughes assimila l’an-

e non può non essere così, costituire un mezzo per l’eman- cipazione degli oppressi, deve essere strumento per l’azione politica. Provocanti e suggestive (ma i critici dell’antropo- logia critica non esiterebbero forse a definirle patetiche) le parole conclusive di Scheper-Hughes (1995, p. 420) in The

Primacy of the Ethical, dove parafrasando il Franco Basaglia

di Crimini di pace (1975), asserisce:

Il lavoratore negativo è una specie di traditore di classe – un medico, un insegnante, un avvocato, uno psicologo, un so- cial-worker, un manager, o anche uno scienziato sociale – che collude con chi non ha potere per identificare i suoi bisogni contro gli interessi dell’istituzione borghese: l’università, l’o- spedale, la fabbrica […] Anche gli antropologi possono essere lavoratori negativi. Noi possiamo praticare un’antropologia con un piede a terra, un’antropologia impegnata, fondata sul terreno, addirittura “a piedi scalzi”. Possiamo scrivere libri che vanno controcorrente evitando la prosa impenetrabile (che sia post-moderna o lacaniana) in modo da essere accessibile alle persone che diciamo di rappresentare. Possiamo disgregare i ruoli e gli status accademici attesi nello spirito carnevalesco brasiliano. Possiamo renderci disponibili non solo come amici o “patroni” nel vecchio senso colonialista, ma come compagni [comrades](con tutte le responsabilità che questa parola impli- ca) alle persone che sono l’oggetto della nostra scrittura e dalle cui vite e miserie traiamo noi stessi di che vivere.

Il contributo di Scheper-Hughes mostra peraltro debolez- ze che verranno messe a fuoco solo nel nuovo millennio: l’ap- pello rimane confinato in buona parte alla denuncia pubblica, non contempla una collaborazione pratica; le relazioni con il contesto militante con cui l’autrice interagisce rimangono sullo sfondo della rappresentazione; il posizionamento mora- le dell’etnografa viene sussunto dalle rivendicazioni portate avanti dal basso e ciò non permette di problematizzare la po-

logist), un’immagine che evoca la Cina maoista, dove medici rivoluzionari assistevano nelle risaie e dunque a piedi scalzi la popolazione rurale. Un’im- magine forte, rivendicata da Scheper-Hughes anche in recenti interviste (Kle- pal, Szénássy 2016; Brice 2017).

tenziale fecondità della distanza, anche politica, che si trova in molta etnografia militante tra etnografo e contesto studiato.

1. La critica dell’antropologia critica in Italia

Per certi versi le tensioni tra approcci critici post-moder- ni e approcci interpretativi classici conosce repliche anche nell’antropologia italiana. Volendo esplorare le declinazio- ni nostrane della critica di Lewis, dobbiamo rivolgerci ad un recente contributo di Fabio Dei, che, con la sua critica dell’antropologia critica, fornisce nuovi spunti agli etnografi militanti interessati alla critica pratica dell’ingiustizia socia- le. Nella Premessa e nel primo capitolo dell’opera collettiva curata con Caterina di Pasquale Stato, Violenza Libertà. La

critica del potere e l’antropologia contemporanea (pubblica-

to a seguito di un convegno organizzato presso l’Università di Pisa nel 2017), Dei afferma, citando la filosofa Barbara Carnevali, che buona parte delle scienze umane sono oggi sproporzionatamente influenzate da quell’insieme eteroge- neo di teorie che viene definita a volte Theory, ovvero da stili e argomentazioni univocamente ispirate ad alcuni autori radicali (come Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Said, Spivak, Butler, Žižek, Benjamin, Latour), delle cui nozioni – conviene Dei (2017, pp. 11,12), esten- dendo la riflessione di Carnevali all’antropologia – sono per- meati anche i caotici bricolage intellettuali dell’antropologia radicale, incentrata oltremodo sulla critica dello stato e delle sue istituzioni, e su temi come il genere, il potere, la violen- za, il desiderio, la soggettività, lo spettacolo. L’antropologo sta dalla parte dei dannati della terra e dei gruppi che vivono qualche condizione di subalternità, come il dominio colo- niale e neo-coloniale, l’oppressione di classe e di genere la discriminazione etnica e quella di orientamento sessuale. Ha bisogno dunque di una teoria critica del sistema di dominio di cui i suoi interlocutori (i colonizzati, i migranti, i proleta- ri, le donne, i neri, le persone Lgbt) sono vittime: un sistema

identificato da etichette come ‘neoliberismo globale’, ‘capi- talismo finanziario’, ‘impero’ e analoghe.

Il ragionamento di Dei ricalca per certi aspetti quello di Lewis quando riassume il repertorio di autori e tema- tiche imperanti nell’antropologia critica. Dei è certo che l’impostazione dell’antropologia critica fallisca nel ren- dere conto – con linguaggio chiaro e piano – della com- plessità storica e simbolica dell’oggetto che si va critican- do, perché troppo impegnata a smontarlo e contestarlo. Secondo questa visione, se è vero che l’analisi del potere e delle istituzioni costituisce parte significativa del progetto conoscitivo della disciplina antropologica (e dunque un percorso comune tra antropologie classiche – funzionali- sta, strutturalista, interpretativa – e antropologia militan- te di fatto già sussiste), la deriva anti-sistemica, iper-poli- ticizzante e antagonista degli approcci radicali distanzia l’antropologia critica da quella interpretativa. Scrive Dei (2017, p. 28): “Da queste premesse l’antropologia critica ricava un determinismo economico politico che riporta la disciplina ai tempi precedenti la svolta interpretativa e riflessiva”. Gli approcci interpretativi anziché concen- trarsi sulla dimensione repressiva e violenta dello stato, la cui indagine impone agli antropologi radicali di scon- finare continuamente nell’ambito degli studi politici ed economici, ne indaga anche e soprattutto la dimensione costitutiva, scongiurando la possibilità di lasciar precipi- tare nel riduzionismo politico ogni fenomeno culturale e riservandosi un ambito epistemologico che Dei (2017, pp. 11, 22-31) ritiene più netto di quanto non faccia l’an- tropologia critica, poiché privilegia l’analisi simbolica e testuale del reticolato culturale rappresentato dal pote- re statale. Il linguaggio criptico, esoterico e la tendenza all’abuso di neologismi, impiegati spesso a sproposito e senza sensibilità epistemologica né etimologica, secondo Dei (che nella sua discussione esamina l’emergere e l’im- porsi di termini come forclusione e nuda-vita), non fanno che danneggiare ulteriormente la disciplina, rendendola

opaca, distante dai contesti studiati, difficilmente intel- legibile ai soggetti della ricerca, autoreferenziale, sterile, fine a sé stessa in quanto sostanzialmente anti-dialettica. È questa l’impronta di molte ricerche fondate su mistu- re epistemologiche ispirate a quella che viene chiamata “Theory”, di molte tesi di laurea e di dottorato di recen- te passate tra le mani e sotto gli occhi dei professori di antropologia nelle università italiane (Dei 2018, p. 4). Il fastidio, la stizza di Dei nei confronti:

[…] dell’esibizionismo ultraradicale di piccoli gruppi di- stintivi che si riconoscono in un gergo esoterico, disdegnano ogni mediazione col linguaggio comune e l’opinione pubblica e sono privi di ogni rapporto organico (in senso gramsciano) con i gruppi che dovrebbero difendere (Dei 2017, p. 31)

sono difficili da nascondere. Ad esempio, quando si ap- profondisce la riflessione sulle conseguenze della deriva radicale nell’antropologia medica, vede una minaccia nell’atteggiamento “antagonista e ‘romantico’ (che bello lo sciamano, che brutto il medico) che ha attratto verso l’antropologia un po’ di militanti e fricchettoni ma che tanto ha nuociuto alla sua immagine pubblica e alla possi- bilità di stabilire un rapporto reale con la scienza medica,