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Relazioni, motivazioni, dubb

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 105-135)

Le motivazioni che spingono ad intraprendere quella che diventerà una ricerca attivista sono varie come sono varie- gati i rapporti che si generano nella indagine militante. La rassegna che segue è centrata sulle molteplici modalità con cui etnografe ed etnografi si sono relazionati e hanno intera- gito con i contesti osservati, sia per offrire esempi concreti a chi si avvicina ad una ricerca analoga, sia per contrastare l’idea di una compattezza delle etnografie militanti per ciò che concerne le motivazioni e le simpatie. In questo capitolo diventerà evidente la complessità e imprevedibilità con cui possono a volte evolvere i legami tra ricercatori e attivisti.

Il processo che porta un etnografo a selezionare un ambi- to di interesse, a decidere le modalità con cui entrare in re- lazione, a posizionarsi nelle dinamiche generate dalla ricerca e a restituire il proprio sapere in un modo utile per il conte- sto studiato implica sempre e comunque scelte complicate che intrecciano questioni metodologiche ed etico-politiche. Quando l’etnografia assume una dimensione militante, le interazioni tra ricercatore e contesto assumono spesso una intensità peculiare, dando luogo a riflessioni esplicite che si ritrovano in diverse pubblicazioni. Questo ampio spazio di interrogazione sulle implicazioni etiche, metodologiche e teoriche della ricerca è anche giustificato dal fatto che re- lazioni rese intense dal coinvolgimento politico, generano

spesso sperimentazioni e proposte innovative. In questo ca- pitolo si prendono in rassegna le parti delle pubblicazioni che trattano le motivazioni iniziali, i dubbi, le simpatie che accompagnano la ricerca. I lavori pubblicati dai ricercatori permettono, è bene ricordarlo, uno sguardo alle relazioni generate dalla etnografia militante nell’ottica del ricercatore piuttosto che da quella dei suoi interlocutori. Come questi ultimi valutino la sua presenza e il suo lavoro non è tratta- to esplicitamente, se non quando emergono evidenti e gravi dissonanze (ad esempio Saitta 2018) e potrebbe essere og- getto di una ricerca specifica. La sensazione provata come etnografi spesso comprende, tra le altre, quella descritta da Sopranzetti: “la problematicità di questa posizione, davvero di traduttore/traditore, è la frequenza con cui […] persone con cui conduciamo ricerca scherzano sul nostro ruolo da spione, osservatore, o più semplicemente persona che na- viga nei pettegolezzi” (comunicazione personale, dicembre 2019). Una sensazione che ricorda la distinzione dei ruoli ma che scema quando si accentua una partecipazione attivista.

1. Entrare in relazione

Spesso si presuppone che l’etnografia militante sia pro- dotta da una viscerale e totale identificazione tra ricercatori e movimento studiato, riproponendo l’immaginario di un intellettuale organico, connesso integralmente al contesto su cui scrive. Ciò comprometterebbe o perlomeno perturbe- rebbe l’autonomia analitica del ricercatore. Sebbene alcune indagini contemporanee siano leggibili in quest’ottica, le mo- tivazioni che avvicinano gli etnografi alle dinamiche politiche oggetto di indagine sono spesso complesse e cangianti così come può essere varia l’accoglienza accordata dal contesto di lotta al ricercatore. La sintonia non è sempre scontata, so- prattutto all’inizio della indagine.

A volte infatti gli attivisti negano l’accesso all’etnogra- fo e la relazione sfuma prima di iniziare. Il contesto a cui

si chiede l’entrata per condurre l’indagine si può mostrare riluttante perché nel gruppo di militanti ci sono posizioni contrarie alla presenza di un ricercatore o semplicemente perché ci sono questioni più urgenti da affrontare e quindi la discussione slitta ripetutamente, rendendo i tempi di attesa incompatibili con la ricerca. Alcuni ambienti si oppongono esplicitamente alla ricerca o perché percepiscono una scarsa stima del posizionamento politico del ricercatore oppure, soprattutto in alcuni settori libertari, perché si rifiuta l’idea di delegare all’etnografo la descrizione del gruppo, anche se si tratterebbe soltanto di una tra le molteplici rappresenta- zioni circolanti. In atri casi, come quello di Irene Peano, la difficoltà è dovuta alla sfiducia degli interlocutori verso mo- dalità ritenute “estrattiviste” o paternaliste: “Conquistarsi la fiducia dei soggetti con cui portiamo avanti la lotta [lavora- tori agricoli, prevalentemente migranti in Italia meridionale] in quei contesti è stato molto difficile, proprio perché sono sottoposti a pratiche di ‘safari’ da parte di ricercatori, giorna- listi, organizzazioni umanitarie etc., da cui loro giustamente si sentono sfruttati” (comunicazione personale, Irene Peano, giugno 2019). Entrare non è sempre facile, soprattutto se non si hanno credenziali e contatti fidati attraverso cui passare.

La maggior parte dei contesti attivisti non ha preclusioni a priori rispetto alle indagini etnografiche. Una volta stabilita, la relazione che si crea può generare la progressiva assunzio- ne di un ruolo esplicitamente politico da parte dell’etnogra- fo: ciò può essere indotto da un progetto ritenuto inquinante o inquietante nei pressi del proprio domicilio, come, nel caso di Alliegro (2014, p. 25) che si interessa delle trivellazioni petrolifere del ENI e delle resistenze dei residenti nelle pros- simità delle località estrattive.

A partire da una frequentazione diretta di molti degli eventi e dei luoghi descritti, prima in qualità di semplice residente, poi di persona interessata dei fatti, poi di studioso-attivista dei comitati civici di protesta, le pagine che seguono rappresenta- no il prodotto di un percorso di studio che è anche concepibile

come itinerario ‘politico’ […] vale a dire di concorso alla de- finizione simbolica del campo di discussione e delle contese.

Un processo simile, di progressiva politicizzazione dell’et- nografo, è raccontato da Herzfeld (2005) riguardo la sua ri- cerca sugli sfratti a Roma:

ho dovuto riflettere su quale avrebbe dovuto essere il mio atteggiamento. Sono arrivato al punto di allearmi con loro [gli sfrattati] perché credevo (e continuo a credere) che il diritto alla casa sia un diritto fondamentale, per cui l’evoluzione del mio pensiero da un atteggiamento seccamente accademico a un coinvolgimento etico, pratico e politico ha più valore piuttosto che se avessi voluto fare dell’antropologia applicata.

La prassi etnografica può essere mossa da motivazioni personali, intime o scientifiche, piuttosto che politiche; as- sume una dimensione più chiaramente militante quando entra esplicitamente e praticamente nelle interazioni di po- tere che riguardano il contesto studiato. Questa assonanza tra ricercatore e attivismo può avvenire gradualmente, man mano che le pratiche di mobilitazione prendono corpo e che l’etnografo prende confidenza con il contesto.

Mimmo Perrotta, ad esempio, racconta come la sua ri- cerca abbia contribuito a produrre una trasformazione po- litica dal basso rafforzando l’autonomia del lavoro agricolo migrante liberato dal controllo del caporalato:

Siccome non riesco a separare il lavoro di ricerca dal lavoro di intervento sociale e politico, insieme ad altri abbiamo mes- so su l’associazione Fuori dal Ghetto Venosa, che fra le varie attività organizza una scuola d’italiano… Ci siamo accorti che per coinvolgere davvero i braccianti in un progetto produttivo bisognava fare più sul serio, cercando di organizzare la produ- zione in modo da dare almeno due mesi di lavoro […] Così nella stagione 2015 è nato il progetto Funky Tomato.1

1 Cfr. www.lamacchinasognante.com/intervista-a-mimmo-perrot-

Ci sono quindi percorsi etnografici che non partono da una volontà trasformativa ma questa prende corpo gradual- mente spesso in seguito alla constatazione delle sofferenze, del disagio, della marginalità, della discriminazione subi- te dal circuito che si mobilita. È il caso, ad esempio, della ricerca di Agata Mazzeo (2013, pp. 11, 12) sull’attivismo delle vittime da amianto. La vicinanza con le esperienze di coloro che fanno parte delle associazioni di chi è stato o rischia di essere danneggiato dall’esposizione all’amianto si consolida, da un lato, attraverso interviste che trasuda- no malattia e morte, dall’altro, con il riconoscimento del rischio subito dalla stessa ricercatrice, accentuato dal fare ricerca nei siti contaminanti. Il posizionamento schierato di Mazzeo è anche dovuto, come quello di molti altri et- nografi ed etnografe, al fatto che la ricerca in un contesto caratterizzato da forti tensioni tra vittime dell’amianto e aziende produttrici non ammette posizionamenti intermedi o ambigui. Ciò innesca una crescente consapevolezza del- la irresponsabilità del sistema produttivo, una progressiva empatia con le ragioni della mobilitazione e infine un espli- cito sostegno alla lotta, fino a sostenere che: “lavoro risolu- tamente per rendere i risultati della mia ricerca accessibili e in linea [attached] con il contesto osservato”.

A volte il ricercatore ha già un ruolo operativo nel con- testo attivista che diventerà oggetto di riflessione (Graeber 2009; Russell 2014; Olmos Alcaraz e altri 2018). In tali situazioni l’inizio dell’indagine aggiunge un nuovo piano operativo, quello appunto legato alla raccolta di documen- tazione, a quelli di pratica militante. Quando il ricercato- re è già attivo nella mobilitazione è in genere scontato il consenso alla ricerca. Ad esempio il gruppo che scrive sul movimento, Stop Desahucios, contro gli sfratti a Grana- da ha un interesse che “sorge da motivazioni, impegni ed esperienze di militanza varie di quelli che scrivono queste pagine”. Alcuni del gruppo di ricercatori non solo sono già conosciuti ma hanno una marcata identità attivista, si parla di “persone con le quali stiamo lottando/facendo ricerca”:

di conseguenza l’intento della indagine è di sperimentare una “etnografia collaborativa” (Olmos Alcaraz e altri 2018, pp. 150, 143, 142, vedi capitolo 7).

Gli etnografi e le etnografe militanti nella maggior parte dei casi entrano nel contesto di studio senza avere già svilup- pato e senza neanche cercare un allineamento così totale ed intimo con gli attivisti. In alcuni casi si intensificano relazioni pregresse (Saitta 2018), in altri c’è bisogno di una presenta- zione politica che passa, in alcuni circuiti, dalla illustrazione del progetto di ricerca all’assemblea degli attivisti (ad esem- pio Olmos Alcaraz e altri 2018) o da contatti con alcune figu- re di spicco della lotta (ad esempio Semenzin 2019, p. 178). L’atteggiamento dell’etnografo all’inizio della ricerca spesso combina una disponibilità alla collaborazione militante con la salvaguardia dell’autonomia metodologica ed analitica. Per molti giovani ricercatori l’avvicinamento ad un particolare contesto attivista significa innanzitutto aprire un campo, im- mergersi in un ambiente per cui si nutre spesso interesse e simpatia ma su cui si hanno notizie frammentarie. L’eventuale immersione militante dell’etnografo deve quindi tener con- to sia di questioni metodologiche (l’attivismo in che modo facilita e danneggia la ricerca?) e politiche (man mano che l’indagine prosegue la sintonia politica prospettata all’inizio si consolida o si sfalda?). L’estraneità dell’etnografo rispetto al contesto di indagine che è stato uno dei presupposti della etnografia, si trova quindi anche in molte ricerche militanti.

Viola (2015, p. 21) parte da un chiaro posizionamento politico: “ciò che più profondamente mi ha spinta a stu- diare l’omofobia è stata l’urgenza, personale e politica, di comprendere a fondo il ‘nemico che opprime’ con il fine di decostruirlo, problematizzarlo e così contribuire in qualche modo alla lotta contro l’omofobia”. Nonostante una sinto- nia con gli attivisti clandestini LGBT che studiava in Africa Orientale, il progetto di ricerca prevedeva inizialmente di confrontare due ambienti: da un lato l’ottica di “interlocuto- ri supposti eterosessuali” sarebbe stata vagliata tramite inter- viste semi-strutturate; dall’altro sarebbero stati presi “con-

tatti con il mondo semi-clandestino del movimento LGBT” grazie all’osservazione partecipante e a colloqui informali. All’inizio della indagine, l’intenzione era di evitare il coinvol- gimento in attività militanti per motivate ragioni metodologi- che ed epistemologiche. Due omicidi, tentativi di linciaggio e minacce di morte contro attivisti LGBT generavano una paura generalizzata e quindi una mancanza di fiducia verso l’etnografa. Quando però un membro ha urgente bisogno di appoggio il gruppo chiede alla ricercatrice un posizionamen- to attivo e non solo contemplativo. Così, solo dopo diversi mesi di indagine Viola diventa

militante, attivista di una piccola associazione LGBT […] di- venni parte del gruppo, condivisi con loro i successi e soffrii le sconfitte, elaborai strategie e tentai di imparare a essere parte di qualche cosa di molto delicato e complesso […] finché la mia posizione restava quella di ricercatrice esterna al movimento non potevo sentire quella condivisione data dal vivere esperien- ze comuni, dal militare per la stessa causa andando insieme in- contro a simili (ma non identici) rischi (Viola 2015, pp. 22, 23).

Una dinamica analoga coinvolge Portelli (2015, p. 122) nella sua immersione etnografica presso i residenti di un quartiere sotto sgombro a Barcellona. In una ricerca finan- ziata dalla Ethnological Heritage Inventory of Catalonia (IPEC), la dimensione militante prende forma compiuta ad un certo punto, quando si crea, come nel caso di Viola, una collaborazione politica. I ricercatori appoggiano

alcuni residenti che erano in difficoltà nel contrastare gli sgom- bri. Non avremmo più potuto mantenere il ruolo di osservatori oggettivi e imparziali, un ruolo che probabilmente non avevamo avuto neanche nei primi contatti con Bon Pastor [il quartiere studiato]. Questo, dall’inizio, ha posto la nostra ricerca in linea con quello che viene definito globalmente come antropologia impegnata [engaged]: uno stile di ricerca che non pretende di simulare imparzialità – che ormai da un po’ di tempo è ritenuta impossibile – ma invece rende esplicito il posizionamento che si prende e il ruolo che si ha nel contribuire a rafforzare le relazioni

nel quartiere […] La collaborazione, germogliata dal conflitto, è servita a ridurre la distanza che ha storicamente separato i quar- tieri delle Casas Baratas [l’edilizia popolare del quartiere sotto sgombro] dai posti dove si produce il discorso sulla città.

L’intenzione di praticare un tipo di etnografia che possa essere una risorsa offerta agli attivisti oggetto di indagine è quindi presente anche in chi non ha inizialmente intenzio- ne di politicizzare la ricerca ma, avvicinandosi, trova una spiccata, seppur a volte problematica, sintonia con alcune azioni, strategie o pratiche. Ad esempio Pitzalis (2015, p. 37) racconta: “Sono stata mossa verso questo progetto di ricerca dal desiderio (forse irrealistico) che la mia etnografia potesse dare un contributo pratico alla causa promossa dal Comitato [Sisma 12 in Emilia]”. Breda (2017, p. 42, corsivi in origina- le), in modo analogo, presenta la sua ricerca, finalizzata, tra l’altro, a fermare la costruzione di una autostrada in Veneto, sollevando questioni tipiche di un posizionamento militante caratterizzato da una forte identificazione con le motivazioni dell’attivismo. La sua antropologia si propone

come “ascolto delle voci che sono messe a tacere dall’esterno da coloro che hanno maggior potere”, come modello di impe- gno critico con il mondo e non come modello di distanziata e accademica spiegazione del mondo, poiché era con quel mondo che provavo a costruire la convivenza. Ho spinto verso dire- zioni di ricerca al cui apice c’era (ma sia chiaro, non è affatto obbligatorio) una posizione di dichiarato e legittimo “amore” per il proprio oggetto di studio, c’era tensione etica, dedizione totale, posizionamento politico dichiarato e rivendicato.

Gli stimoli emersi nel corso della ricerca trasformano gli etnografi e le etnografe a volte spingendoli verso una spiccata empatia con il contesto studiato. Nella sua ricerca su movi- menti neorurali e reti di produzioni alimentari di piccola sca- la, Koensler (2018, p. 65) riconosce la dimensione di crescita personale che l’etnografo ha immergendosi nel contesto di movimento: “mediante la mia partecipazione, ho fatto espe-

rienza, seppur parziale, della importanza di pratiche emotive quotidiane che implicano tuttavia degli elementi utopici in una società basata sulla codificazione e standardizzazione”. Nel caso di Claudio Sopranzetti e Giacomo Pozzi è l’immer- sione etnografica a generare l’impellenza morale che sfocia in un posizionamento attivista più esplicito. Secondo Pozzi

Paradossalmente nella mia esperienza la militanza è stretta- mente accademica, o meglio, nasce da un interesse accademico […] Iniziando a lavorare in Portogallo sui movimenti per la casa è iniziata una forma diversa di partecipazione e quindi di militanza vera e propria… c’è stato un cambiamento radicale nella mia percezione dell’attivismo politico nel momento in cui ho cominciato a lavorare con i movimenti sociali per studiarli […] [Entrare come etnografo] costruisce una forma molto pe- culiare di attivismo che […] è sicuramente attenta ad entrambi i posizionamenti perché li costruisce insieme […] ti forma sia in quanto etnografo, antropologo, accademico, sia in quanto attivista […] (comunicazione personale, dicembre 2019):

Altre volte è proprio la distanza morale o politica ad essere la molla per addentrarsi in un contesto “ostile”: la constata- zione della lontananza, anche radicale, di posizionamenti tra ricercatore e soggetto studiato è una consapevolezza con cui si inizia il percorso di indagine (Barnao e Saitta 2014). Cammelli (2015) sceglie di far ricerca tra gli attivisti di Casa Pound:

Quando ho deciso di spostarmi a Roma per incontrare gli attivisti [di Casa Pound], la prima questione che ho dovuto affrontare è stata come entrare in contatto con loro in modo sicuro […] Sia per ragioni etiche sia per proteggere la mia incolumità personale, ho deciso di non occultare il fatto che le mie convinzioni politiche non erano in linea con l’ideolo- gia fascista […] Come un pugile sul ring, negli incontri con i fascisti del terzo millennio […] avrei dovuto imparare a non reagire quando avrei ascoltato commenti che avrei fatto diffi- coltà a condividere […] Dovevo imparare ad ascoltare, evitare di reagire, cambiare la mia espressione o esprimere un giudizio. Dovevo imparare ad andare oltre la mia paura (comunicazione personale, marzo 2020)

Per chi cerca di trovare spazi per dare un senso militante a lavori nelle istituzioni, come ad esempio nella recente ondata di assunzioni di antropologi nell’accoglienza e gestione dei richiedenti asilo o anche per chi è coinvolto in progetti di cooperazione allo sviluppo, l’accesso alle relazioni etnogra- fiche è vincolato da incarichi professionali. In tali contesti la sovrapposizione dei ruoli (lavoratore dipendente, etnografo, militante) appare ancora più marcata: il protagonismo poli- tico del ricercatore si gioca sulla sottile linea, faticosamente conquistata, della parziale autonomia permessa dal proprio ruolo professionale. Questi margini di indipendenza possono essere usati per trovare spazi e crepe per piegare, modificare, adattare, evitare la macchina progettuale-istituzionale o usarla per finalità che prescindono da quelle intese, restituendo così protagonismo a chi è concepito come passivo bersaglio delle politiche (migranti, utenti dei progetti di sviluppo). In questo caso l’etnografia militante permette a chi dovrebbe seguire procedure burocratiche o offrire servizi, di sviluppare, anche in ambiti professionali, una parziale agency (AA.VV. 2017).

2. Gradi di identificazione e allineamento

In questi ultimi anni gli etnografi militanti hanno mo- strato un variegato grado di identificazione con il contesto studiato. Staid vede l’eccessiva vicinanza come un proble- ma difficilmente sormontabile: “Non ho mai lavorato come etnografo nel mio mondo di attivista perché credo che il coinvolgimento profondo non mi avrebbe fatto orientare al meglio sul campo” (comunicazione personale, marzo 2020). Per Dematteo (2007), Gretel Cammelli (2015), Bar- nao e Saitta (2014) l’interesse non nasce dalla sintonia ma dalla distanza. Per altri il processo di identificazione è sta- to mutevole, ovvero in diverse fasi della ricerca si è stretto o allentato, e ambivalente, generando simpatie ma anche tensioni o incomprensioni. Viola (2015, pp. 19, 20-21) ad esempio racconta la problematicità della

scelta, da me compiuta durante il dottorato, di divenire attivi- sta LGBT mentre svolgevo una ricerca sulla violenza omofoba e la discriminazione delle minoranze sessuali in Africa orien- tale […] divenire militanti sul campo non è l’esito scontato di un percorso personale di attivismo politico o di una vicinanza empatica con la lotta dei propri interlocutori, ma piuttosto una scelta complicata e altamente problematica, soprattutto da un punto di vista etico.

Per altri ancora, al contrario, la preferenza per un posizio- namento schierato è apparsa non solo proficua ma ovvia, frutto di una comune visione di militanza, che prevede una sintonia anche sull’operato del ricercatore, teso a far avanzare la lotta.

La ricerca dovrebbe confermare e rafforzare la sintonia morale, risultando in quello che Hale (2006) chiama “alli- neamento” tra ricercatore attivista e soggetto studiato (Sergi 2011; Pitzalis 2015; Senaldi 2016). Quando ciò avviene la ricerca viene spesso concepita innanzitutto come una cassa di risonanza delle voci di militanti le cui ragioni, va detto, vengono spesso sistematicamente ignorate o travisate dai media egemonici. Pitzalis (2015, p. 30) ritiene la sua condi- visione con la “ideologia politica dei partecipanti” una scel- ta metodologica proficua, “dovuta alla necessità di mettere l’antropologia al servizio degli obbiettivi degli interlocutori”.

La scelta metodologica in questi casi cade, quasi natu- ralmente, sulle interviste piuttosto che sull’osservazione e il

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 105-135)