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tra istituzionalizzazione e militanza

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 169-187)

La “torre di avorio” è sempre stata la metafora usa- ta per indicare un mondo accademico auto-referenziale. Pare però che nell’ultimo decennio l’idea di un sapere accademico “puro”, pensato senza applicazioni immedia- te, viene sempre più frequentemente screditata in nome di una logica imprenditoriale di investimento e ritorno finanziario o di immagine. Considerare la ricerca accade- mica come uno “spreco di risorse” è diventato un luogo comune. Queste richieste di “utilità” e di “applicabilità” non sempre si distinguono in modo netto dalle pratiche di restituzione attivista militanti. Si tratta di una sovrap- posizione di concetti e ruoli che può portare a una certa confusione. In questo capitolo si cerca di sfatare alcuni miti in relazione all’accostamento tra richiesta di utilità e prassi accademica militante, distinguendo tra forme di re- stituzione più istituzionale e quelle più militanti o attiviste che implicano un potenziale emancipatorio.

Il politologo Marcelo Svirsky (2010, p. 163), nel suo ten- tativo di definire attivismo, pone l’accento alla capacità di “generare nuovi enunciati collettivi che erodono il senso comune e fanno muovere le strutture dalle loro identità se- dentarizzate”. La sua enfasi deleuziana, per così dire, sulla potenzialità generatrice ritorna particolarmente significati- va anche per le pratiche di restituzione. Per Svirsky, queste

sperimentazioni assumono un valore se tendono a infrange- re l’equilibrio dello status quo invece di perpetuare, nell’u- no o nell’altro modo, l’equilibrio di potere egemonico. In questa ottica diventa però anche necessario sfatare il mito secondo il quale la restituzione in sé costituisca già un’atti- vità progressista o liberatoria. È quindi possibile riflettere su diverse forme di restituzione e l’importanza di una di- stinzione tra “utilità” e “necessità” accademica.

1. Il sapore sciapo dell’accademia?

Uno degli auspici di molti studiosi con intenti attivisti è quello di contrastare l’apparente inerzia autoreferenziale del mondo accademico. Molti attivisti e militanti cercano di contrastare la delegittimazione della etnografia militan- te considerata non abbastanza distante o critica nei con- fronti dell’oggetto di ricerca. Come abbiamo visto nei ca- pitoli precedenti, tale posizione impegnata prende la sua forza in gran parte dall’onda post-positivista e post-strut- turalista nelle scienze sociali. È in questo quadro in cui si collocano molti giovani studiosi che aspirano a conferire importanza, valore e sapore alla propria attività. Ci si im- magina l’utilità e una applicabilità più o meno immediata del proprio lavoro. È senz’altro seducente immaginare di lavorare in prima fila, a fianco di attivisti, organizzazioni non governative o movimenti impegnati su temi urgenti e drammatici. Non mancano cause per cui lottare: attuare politiche migratorie più umane; organizzare l’opposizione ad un qualche mega-progetto, sia esso una diga, un treno ad alta velocita o una base militare; difendere uno spazio auto-gestito; fermare conflitti e soprusi di carattere mili- tare e poliziesco in zone remote del piane. Tuttavia, anche attivisti non proprio alle prime armi, di fronte alla sfida di mettere a frutto la ricerca, si trovano non di rado travolti da ostacoli inaspettati. Si trovano in mezzo a tensioni im- prevedibili oppure calcoli sbagliati sulla platea di soste-

gno. Altre volte l’interesse da parte dei soggetti alla pro- pria ricerca viene sopravvalutato: si scopre che in realtà agli altri attivisti importa relativamente poco della rasse- gna di lettura o delle riflessioni astratte che caratterizzano spesso la scrittura di una tesi di dottorato o di laurea. Al- tre volte ancora, invece si scopre una “utilità” inaspettata della ricerca, in modi imprevisti. Ad un ricercatore viene richiesto di mediare tra diversi frangenti di un movimento oppure viene chiesto, qualche volta ad anni di distanza, di conferire legittimità alla causa di una lotta dal basso di fronte alle istituzioni. Il ri-orientamento politicamente im- pegnato sui veri drammi della vita, a prima vista, sembra in grado di offrire una soluzione alle tendenze di de-poli- ticizzazione dell’accademica, denunciato non a caso come un problema molto contemporaneo.

A prima vista, la critica militante alla “distanza” può quindi sembrare un atto dovuto: quanti ricercatori si ri- fuggono in attività che abbiano perso ogni slancio di vita, quanti manuali emanano un’asetticità che mortifica? Tut- tavia, proprio la richiesta di utilità e applicabilità può coin- cidere con gli obiettivi imposti dalle recenti politiche di finanziarizzazione e managerizzazione del mondo universi- tario, mettendo in luce una certa ambiguità. I governi della maggioranza dei paesi “avanzati” hanno infatti introdotto negli ultimi vent’anni sistemi di valutazione che rendono visibili alcune delle contraddizioni di fondo tra ricerca e restituzione. La richiesta di utilità diventa quindi facilmen- te assimilabile alla logica che misura un possibile “ritorno” tangibile. Si introduce così una logica investimento-ritor- no mirata alla promozione della “innovazione”, comunque meglio se tecnologica. In questo modo, il potenziale del cambiamento politico si esaurisce in piccole migliorie allo stato attuale delle cose. Imbevuta di una retorica mana- geriale anglofila come “leadership”, “best practices” e “policy-oriented” tale concezione del valore applicato di una ricerca mira ad accumulare prestigio nelle classifiche internazionali o a stimolare “nuovi mercati”.

2. L’istituzionalizzazione della restituzione

In questa ottica, l’accostamento tra utilità e attivismo ten- de a sovrapporsi invece che ad opporsi, facilitando una isti- tuzionalizzazione della restituzione poco problematizzata. È quindi molto importante conoscere gli effetti delle tendenze attuali della manageralizzazione della ricerca attraverso pro- cedure che valutino l’impatto della prassi accademica. Istitu- zionalizzando le pratiche di restituzione, si restringe notevol- mente il campo di azione in dei canali precostituiti, misurabili e limitati nel tempo. La crescente necessità di dover giustifica- re investimenti nel mondo accademico ha facilitato la nascita di un mondo di amministratori e valutatori impegnati nella dimostrazione della utilità degli investimenti nella ricerca pubblica. Per esempio, in Italia la VQR (“Valutazione della qualità della ricerca”) è una procedura nazionale periodica gestita dall’ANVUR (“Agenzia per la valutazione del sistema Universitario e della ricerca”) che di recente ha introdotto la valutazione della “Terza Missione” intesa come capacità della ricerca di produrre un ritorno economico dell’investimento accademico. Da alcuni anni, nei sistemi di valutazione della ricerca nel Regno Unito l’”impatto” (da non confondere con il “fattore di impatto” delle riviste scientifiche) è diventato una voce fondamentale che pesa sulla distribuzione dei finan- ziamenti ai singoli dipartimenti. Mentre in passato la valu- tazione si è limitata ai “prodotti di ricerca”, la valutazione dell’impatto socio-politico della ricerca delle procedure di valutazione nel Regno Unito prevede che ogni unità discipli- nare di un singolo dipartimento proponga dei casi di studio sull’impatto socio-politico di quelle che vengono definite “ri- cerche migliori” in relazione al loro potenziale trasformativo. Questi casi di studio vengono valutati in base al sistema di attribuzione di stelle, già applicato alle strutture alberghiere.

È noto come, nella loro concezione attuale, queste procedure di valutazione producano innanzitutto una notevole burocratizzazione. Viene richiesto di documentare, rendere misurabile e comparabile il potenziale trasformativo

sulla società; vengono prodotti documenti caratterizzati spesso da un linguaggio tecnocratico e un approccio opportunistico. Quello che a una lettura superficiale potrebbe apparire come il paradiso della militanza accademica, riduce tuttavia le com- plesse ricadute a unità misurabili e comparabili tra di loro. Il potenziale trasformativo, per essere misurato, deve diventare visibile in un arco di tempo limitato. Nel mondo universitario del Regno Unito, una valutazione positiva dell’impatto di ri- cerche precedenti è diventata un prerequisito per gli scatti di carriera. L’allocazione di fondi in bandi internazionali si basa anche sul criterio di selezione “value for money” (“valore per i soldi”): la entità di fondi investita dovrebbe essere propor- zionale al vantaggio per la società. È un criterio che si basa sul presupposto che qualsiasi utilità sia misurabile anche in termini economici. Questa operazione di riduzione favorisce una concezione della ricerca come uno strumento per elabo- rare soluzioni a problemi circoscritti e risolvibili all’interno delle cornici delle dinamiche di potere esistenti. Si tratta di una tendenza che quindi rende impensabili e irrealizzabili forme più sperimentali di ricerca, erodendo le possibilità di porre problemi e critiche radicali, cioè quelle che vanno alla radice dei problemi socio-politici.

La richiesta di un coinvolgimento più immediato della ri- cerca accademica, sia nel nome della militanza sia nel nome dell’utilità sociale, deve quindi distinguersi nettamente dalla erosione della libertà di ricerca portata avanti da molte po- litiche contemporanee di finanziamento accademico. Para- dossalmente, proprio la capacità di mettere in discussione la diffusione del senso comune che enfatizza l’utilità potrebbe costituire un primo passo per liberare la ricerca militante e attivista dalle catene ideologiche dell’utilitarismo. Soltanto superando l’impostazione dell’utilitarismo diventa possibile un percorso di ricerca che può permettersi di nuovo di ri- schiare, di sperimentare e di prendere posizioni scomode ma necessarie; soltanto fuori da processi valutativi burocratici diventa di nuovo possibile esercitare la fantasia e la speri- mentazione avventurosa.

3. “Il design ha sostituto la rivoluzione”

“Qui ci sono dei colleghi che si ammazzerebbero per un impatto da quattro stelle. Devi mirare all’impatto da quattro stelle!”, con queste parole concludeva il nuovo “impact offi- cer”, assunto appena qualche mese fa, il suo primo colloquio con me (Alexander Koensler). Nata di recente, la professione di “Impact Officer” è una delle conseguenze più contradditorie dell’introduzione di procedure di valutazione della restituzione della ricerca. Con un tono di voce vagamente cocainomane, la donna condivideva un moderno ufficio “open space” con gli altri impiegati della nuova unità “Ricerca & Impresa” dell’u- niversità di Belfast. L’obiettivo era quello di “generare entrate” per l’università in quanto sono le entrate a determinare lo sta- tus. Ogni volta che un impiegato doveva condurre un colloquio con un accademico, doveva prenotare una delle salette senza finestre predisposte al centro del ”open space”. La porticina di plastica della saletta si poteva aprire e chiudere soltanto con una carta elettronica. In questo modo rimaneva rintracciabile quanto tempo duravano i colloqui individuali tra impiegati e accademici per definire le strategie di restituzione. Un sistema di incentivi per i “successi” ottenuti completa il quadro di una misurazione il più possibile dettagliata delle spese e del ritorno economico legato alla restituzione della ricerca. Questo siste- ma, probabilmente ispirato a quello dei mediatori immobiliari, rende evidente alcune delle contraddizioni più insidiose della richiesta che la ricerca accademica non sia fine a sé stessa. Le procedure di valutazione dell’impatto nel Regno Unito si basa- no sulla compilazione di una scheda in cui il ricercatore è invi- tato a presentare un “caso di studio di impatto”, descrivendo la sua “strategia di impatto” attraverso risposte da inserire in una serie di caselle preconfezionate. Questa relativa rigidità deriva dalla necessità di comparare tipologie di impatto che di fatto sono molto diverse tra di loro. L’istituzionalizzazione della resti- tuzione pone non pochi problemi: come si possono paragonare forme di ricaduta tanto diverse tra loro? Come si possono mi- surare e documentare le ricadute in tempi relativamente brevi?

Che non sia facile eludere le trappole della restituzione istituzionale lo dimostra il caso dell’antropologo e attivista anarchico David Graeber della Goldsmiths, University of London, una delle voci più iconiche dell’attivismo radicale contemporaneo. Nel suo modulo relativo al “caso di studio di impatto” pubblicato sul sito dell’università, Graeber affer- ma in relazione all’impatto del suo lavoro: “È un contributo fondamentale che sollecita discussioni in tutto il mondo e at- traverso tutti i settori della società, un risultato singolare per un’opera antropologica. Un profilo pubblico così ampio per un testo antropologico merita un confronto con gli impatti di Mead, Lewis e Levi-Strauss”.1 Una descrizione che certamen-

te non si distingue per modestia e che mira chiaramente ad ottenere il massimo del punteggio (“quattro stelle”) in quanto si configura come un impatto ottenuto con una forte dimen- sione internazionale. Il linguaggio enfatico e manageriale può sorprendere, ma dimostra la capacità incisiva della ristruttu- razione del mondo nel nome dell’ontologia imprenditoriale. Una dinamica a cui non può sfuggire neanche l‘icona dell’a- narchismo contemporaneo. Il caso della codificazione in stel- le dell’impatto del lavoro militante di David Graeber offre un prisma per alcune domande importanti: è possibile trasmet- tere idee e concetti radicali nella società in generale attraver- so canali mainstream? Oppure dobbiamo pensare che l’icona dell’attivismo contemporaneo si sia venduto completamente al sistema? Forse entrambe gli aspetti sono parzialmente veri: I canali istituzionali non sempre precludono a priori la for- mulazione di idee sovversive, come alcuni attivisti radicali sembrano a volte lamentare, ma sicuramente richiedono l’in- quadramento del discorso in certi digeribili dalle istituzioni e il loro inserimento nei quadri interpretativi dominanti. Senza tale inquadramento il discorso radicale rimarrebbe inascol- tato, invisibile alla burocrazia valutativa. Al di là delle con-

1 Vedi: Impact case study (REF3b): Goldsmith: Graeber, David impact.

ref.ac.uk/casestudies2/refservice.svc/GetCaseStudyPDF/42646 (consultato il 2 marzo 2019, traduzione degli autori).

traddizioni ovvie che tale dinamica di istituzionalizzazione della restituzione può sollecitare, le implicazioni più assurde si trovano sul piano dei tentativi di misurare oggettivamente l’impatto della ricerca, prerequisito per la sua comparazione e valutazione. La comparazione richiede innanzitutto la stan- dardizzazione della descrizione delle varie pratiche di restitu- zione. Le impegnative procedure periodiche di valutazione non prendono in considerazione la possibilità che alcune forme di attivismo accademico si basino su decenni di attività organica e non su “progetti” limitati nel tempo.

Questo esempio mette in luce anche un altro problema cruciale: il concetto mainstream di restituzione si basa su una concezione meccanicista ed estremamente riduttiva tra input e output. Al fine di poter essere misurata, la restituzione è concepita in maniera piuttosto lineare, e limitata ad un certo arco temporale. Effetti indiretti, conseguenze inaspettate e ri- sultati che si manifestano soltanto dopo tanto tempo oppure in forma difficilmente misurabile passano quindi inosservati, non trovano spazio nella forma ufficiale di valutazione delle forme di restituzione. La concezione della restituzione come una valvola idraulica, in cui un dato input produce immedia- tamente un dato output, si pone in diretta contraddizione alle concezioni in uso nelle scienze sociali sul funzionamento dei processi socio-culturali e politici. Questi processi non posso- no mai essere intesi come se fossero uni-direzionali e lineari. Le ricorrenti forme di istituzionalizzazione della prassi di restituzione, invece, favoriscono largamente una concezio- ne e prassi che non rispecchia più la profondità e la qualità densa dei saperi accademici esistenti nelle scienze sociali. Su un piano più astratto, un crescente numero di ricerche negli studi sulle organizzazioni dimostrano come le pratiche di va- lutazione della ricerca abbiano portato al dilagare di “com- portamenti opportunistici” visibili in atteggiamenti da “gio- catore” nel tentativo di massimizzare gli esiti della valutazione (Martin 2008). Le conseguenze indirette e non intenzionali di meccanismi di valutazione presentati come oggettivi sono stati analizzati da una prospettiva antropologica come “cul-

tura dell’audit” che naturalizza delle scelte politiche precise, presentandoli come inevitabile (Strathern 2000; Shore 2008; Van Aken 2017). Una dinamica che porta a uno spostamen- to della capacità decisionale dai soggetti stessi ad una nuova élite dell’audit composta di valutatori e policy makers.

In questo contesto, la speranza in cambiamenti più sostan- ziosi o la creazione di impulsi utopici sembra diventata un so- gno con sfumature antiche oppure, come ha affermato Bruno Latour (2008) in una felice formula, “il design ha sostituto la rivoluzione”, riferendosi alla diffusione della progettazione di specialisti come forma di sublimazione dello spazio politico (Koensler e Papa 2015). È quindi evidente che le trasforma- zioni immaginate nelle forme di restituzione favoriscono un servilismo accademico camuffato da un linguaggio di mar- keting. Tutto questo quindi non è molto militante e neanche accademico. Diventa quindi importante andare oltre una tale visione riduttiva della relazione tra ricerca ed impegno.

4. Necessità etica, marginalità politica?

È diventato evidente come un’enfasi sull’importanza di una generica restituzione possa rivelarsi un’arma a doppio taglio. Ma in che modo è quindi possibile evitare gli aspetti problematici legati all’istituzionalizzazione della prassi di restituzione e recuperare il potenziale emancipatorio della militanza nell’accademia? Quali sono gli strumenti che ci possono aiutare ad eludere quelle falle? Di seguito si eviden- ziano alcuni elementi che servono per concepire una visione emancipatoria delle pratiche di restituzione. Come abbiamo visto, l’appiattamento delle pratiche di restituzione si colloca in contraddizione ad una concezione humboldtiana del sape- re come forma aperta di sperimentazione e critica. È quindi chiaro che una forma di restituzione non istituzionalizzata dovrebbe trascendere i tentativi di ridurre le ricadute ai suoi effetti misurabili e codificabili in termini direttamente o in- direttamente meccanicistici e monetarizzati. Le dinamiche di

restituzione possono assumere un’altra qualità se riescono ad andare più a fondo in una duplice direzione.

In questo senso, ricercatori o ricercatrici interessati a pra- tiche di restituzione più appropriatamente militanti e atti- viste, ma anche sperimentali in un senso lato, di solito non temono di rivolgersi ad ambiti della società ben più limitati o marginali. È in questo modo che la logica della restituzione istituzionalizzata si sovverte: attraverso l’enfasi sulla centra- lità dei margini (Malighetti 2012) che si sostituisce, per così dire, al focus marginale sulla centralità. Inoltre, forme di restituzione non istituzionalizzate si caratterizzano per l’im- possibilità di farsi incasellare negli schemi predispostiti, nelle formule di quantificazione e misurazione del loro impatto, benché questa comparabilità rimane costruita artificialmente e con grande difficoltà. La dimensione sperimentale e inde- finita assume quindi un ruolo centrale nella restituzione che intende essere parte non soltanto di “miglioramenti” cosme- tici della società, ma di quella che ha il coraggio di lanciarsi verso sperimentazioni in grado di erodere il senso comune e la staticità dell’esistente.

Tuttavia, la relazione tra militanza e sapere si configura ben più complessa di quanto spesso si crede. Essa può spaziare dalla militanza praticata fino al ripensamento di concetti di base della realtà. Oltre la militanza esplicita, come evidente nella figura di David Graeber, strategie di restituzione pos- sono mirare a fornire strategie interpretative intrecciabili con una qualche forma di prassi, come continuano a fare studiosi nella tradizione post-operaista e gramsciana come Toni Ne- gri e Michael Hardt, oppure, in altri campi, figure come Da- vid Harvey o Judith Butler. Una forma di restituzione ancora più mediata, ma non meno importante, è evidente nei lavori di figure come Michel Foucault o Karl Marx, che soltanto marginalmente hanno interagito con i soggetti interessati, ma tuttavia hanno segnato la storia dei movimenti sociali grazie alla capacità di ribaltare le categorie interpretative date per scontate. Non del tutto da trascurare, quindi, è il lavoro di approfondimento intellettuale apparentemente fine a sé stes-

so che tuttavia può rivelare una dimensione militante, per esempio attraverso la destrutturazione di alcuni concetti del senso comune, oppure attraverso la fornitura di strumenti interpretativi che eludono l’ideologia dominante. Si pensa per esempio al lavoro lacaniano di Slavoj Žižek (2016) sulla cosiddetta “fine dell’ideologia”: in breve, egli scava dietro la retorica della fine dell’ideologia che presenta le scelte politi- che contemporanee come “inevitabili” o “razionali”. Sma- scherando l’oggettivazione dell’ideologia in luoghi e concetti dove meno ce la si può aspettare, è un compito intellettuale permeato da una forte necessità militante, ma, allo stesso tempo, non ha nessun valore immediato applicativo per i militanti, non offre esplicitamente risposte su che fare, ma

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