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tra distanziamento e coinvolgimento

Nel secondo capitolo abbiamo illustrato l’intreccio tra ricerca sociale qualitativa con una sensibilità etnografica e impegno politico in Italia tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta. Le etnografie militanti del terzo millennio si ispirano più o meno esplicitamente ad alcune figure cari- smatiche di intellettuali che hanno costruito il loro sapere in un’intima interazione con gli emarginati e con quelle che venivano chiamate le “classi subalterne”. Accanto ad eviden- ti continuità nelle finalità e nell’orientamento etico degli et- nografi militanti contemporanei rispetto alle figure discusse sopra, esistono anche, come argomentiamo in questo capi- tolo, palesi discontinuità. Per esempio, per quanto riguarda l’impegno all’interno delle istituzioni rispetto a forme attivi- smo informale e “dal basso”, ma anche per ciò che concerne la specifica preparazione nella metodologia etnografica e il posizionamento assunto nel corso della ricerca.

Ogni etnografo ha proprie motivazioni e assume specifi- che posture rispetto all’oggetto della sua indagine; quelli che fanno etnografia militante hanno una curiosità e una colloca- zione, che muove da un impegno etico e politico. L’etnografia diventa quindi militante quando si genera un intreccio par- ticolarmente denso di posizionamenti politici nella relazione tra etnografo e contesto studiato. I ricercatori, magari insoddi- sfatti di un ruolo esclusivamente contemplativo e accademico,

usano il sapere etnografico a scopi anche politici, attraverso un coinvolgimento personale, nel senso che la pratica di ricerca è mossa da una tensione politica, ovvero finalizzata a contribui- re, almeno nelle intenzioni iniziali, a una trasformazione effet- tiva e concreta delle dinamiche di potere osservate: “la ricerca diventa uno strumento politico per intervenire nei processi” (Casas-Cortés e Cobarrubias 2007, p. 114).

Il posizionamento politico di chi fa etnografia risuona ed interagisce con le dinamiche politiche del contesto indagato che avrà, anch’esso, una tensione etico-politica come trat- to caratterizzante la sua identità collettiva, sebbene questa possa essere espressa in diverse maniere. Per intenderci, lo studio della parentela – anche se condotto da un etnografo particolarmente militante – difficilmente produrrà una etno- grafia militante se discendenza e affinità non sono, nel con- testo studiato, temi carichi di tensioni associate al potere e al tentativo di alterarne i dispositivi. All’inverso, una questione politicamente densa, ad esempio la costruzione della TAV in Val Susa, anche se indagata attraverso metodi partecipativi, se non suscita nel ricercatore una qualsivoglia intenzione tra- sformativa ma si limita al distaccato sguardo scientifico non è, per come la intendiamo, etnografia militante.

All’interno di questa volontà di intervenire sullo stato del- le relazioni di potere, esiste, come vedremo, una variegata gamma di potenziali impatti desiderati dai ricercatori. L’in- fluenza più ovvia e usuale auspicata dall’etnografo riguarda il consolidamento del soggetto collettivo studiato rispetto alle entità con cui questo è in conflitto o attrito (il tessuto sociale egemone, le istituzioni statali, le potenze economiche). L’im- patto prodotto dall’etnografo può però riguardare anche perturbazioni all’interno del circuito studiato, ad esempio proponendo percorsi di riflessività e consapevolezza, offren- do inediti strumenti culturali a chi fa politica dal basso, ana- lizzando criticamente la forma organizzativa del movimento sociale o dell’associazione con cui si fa ricerca (capitoli 6-8). Se nell’ultimo decennio l’etnografia militante è diventata un posizionamento che desta crescente fascino e aspettative,

in cosa consista esattamente fare una etnografia militante è ancora in corso di definizione, o meglio di specificazione, vi- sto che i tratti caratterizzanti definiti inizialmente sono stati aggiornati e ripensati in un intenso dibattito polifonico. Juris (2007, p. 165) è tra i primi a tentare una definizione di etno- grafia militante in senso stretto:

L’etnografia militante cerca di superare la divisione tra ricerca e pratica. Piuttosto che produrre direttive politiche e/o strategi- che generalizzanti, la conoscenza etnografica prodotta in modo collaborativo intende facilitare le (auto-)riflessioni in corso tra gli attivisti riguardo agli obiettivi, tattiche, strategie e forme orga- nizzative del movimento. Al contempo c’è spesso una evidente contraddizione tra il momento della ricerca e quelli della scrit- tura, pubblicazione e distribuzione. La logica orizzontale della rete associata ai movimenti contro la globalizzazione aziendale contraddice la stessa logica accademica. Gli etnografi militanti devono quindi costantemente negoziare tali dilemmi, muoven- dosi tra differenti siti di scrittura, insegnamento e ricerca.

Rispetto a questa definizione pionieristica sono necessarie alcune precisazioni e approfondimenti. Una breve rassegna di come gli etnografi abbiano connotato la loro ricerca mili- tante ci permette di integrare considerazioni successive alla proposta iniziale di Juris, di illustrare le diverse sfumature del concetto e di chiarire l’originalità della nostra proposta.

1. Posizionamenti politici

Un primo punto su cui si soffermano praticamente tutte le riflessioni sul tema è il denso intreccio di posizionamenti

politici tra ricercatore e contesto sociale studiato. Una com-

plicata miscela a lungo percepita come metodologicamente scorretta perché si sosteneva che la serietà della ricerca pre- vedesse un posizionamento etnografico nettamente distinto da quello degli agenti attivi nel contesto studiato. Melucci (1982, pp. 142, 145, 146, corsivo nostro), ad esempio, elen-

cando i “problemi” metodologici associati alle “inchieste sul militantismo” lamentava che “la relazione osservatore-osser- vato […] viene raramente messa a fuoco in modo esplicito e non diventa oggetto di riflessione metodologica”; invitava a fare di tale relazione “un oggetto esplicito di osservazione, di negoziazione e di contratto, nell’assunto della non iden- tificazione tra analisti e attori”. Melucci (1982, p. 148) sul posizionamento che ritiene lecito, è categorico:

I ricercatori […] come specialisti hanno il compito di svol- gere una funzione professionale all’interno di istituzioni che producono conoscenza. Hanno dunque la responsabilità, etica e politica, della produzione e della destinazione di risorse co- gnitive; ma non hanno il privilegio di orientare i destini della società come consiglieri del principe o ideologi della protesta.

Sebbene ci sia un filone di studi anche sui movimenti so- ciali, ad esempio i preziosi lavori di Della Porta e del suo gruppo di ricerca (Della Porta e Piazza 2008; Della Porta e Diani 2009) che assumono tuttora un posizionamento che potremo definire politicamente distaccato, le preoccupazioni di Melucci, in questi quattro decenni, sono state largamente affrontate e ripensate. Da allora il posizionamento del ricer- catore ha suscitato un’estrema attenzione, tanto che in molte etnografie militanti è riservato un passaggio, un paragrafo, o un capitolo alla complessa relazione politica e metodolo- gica che si è innescata tra etnografo e contesto studiato. Al contempo, molti ricercatori hanno di fatto preso le distan- ze dall’invito di Melucci ad una chiara distinzione dei ruoli senza peraltro voler assumere né il ruolo di “consiglieri del principe” né quello di “ideologi della protesta”. L’orienta- mento di molti etnografi militanti dell’ultimo decennio è che non solo i posizionamenti di ricercatore e attivista siano ineluttabilmente intrecciati, ma che ci si debba “assicurare che si sta conducendo ricerca come un soggetto orientato dalla lotta, piuttosto che un ‘accademico’ che produce in- formazioni disincarnate – ‘morte’ – sui movimenti” (Russell 2014, p. 6). Prendiamo ad esempio la spiegazione che dà del

proprio posizionamento Alessandro Senaldi, etnografo del movimento NO-TAV:

[…] ero lì in prima istanza come compagno e, solo dopo, come ricercatore – cosa che peraltro, non poteva darsi diversa- mente, non siamo ad uno zoo e i rapporti fiduciari con i sogget- ti si costruiscono su solidarietà e mutualismo reciproci […] mi sono sentito particolarmente coinvolto e vicino al movimento (comunicazione personale, luglio 2019)

Le pratiche etnografiche del terzo millennio hanno mo- strato che è possibile praticare una ricerca esplicitamente militante senza assumere un ruolo di guida o di rappresen- tante pubblico di una mobilitazione politica: fare etnografia militante richiede piuttosto di entrare in un campo intenso e ambivalente di collaborazioni pratiche e teoriche. Per il Co- lectivo Situaciones (2001, p. 37) “non si tratta di ‘dirigere’ o ‘appoggiare’ le lotte ma di abitare attivamente la nostra si- tuazione”. In questo senso l’etnografia militante si configura come una forma di attivismo o meglio di ricerca attivista che ha recentemente suscitato interesse non solo in ambito an- tropologico ma anche in altre aree delle scienze umane (Rus- sell 2014; Pusey 2017). Il gruppo di ricerca interdisciplinare Emidio di Treviri (2018, p. 21), esprime bene la tensione e l’intenzione di una ricerca dichiaratamente militante sulle conseguenze del terremoto che ha colpito l’Italia centrale tra il 2016 e il 2017: “sin dal suo esordio, la volontà del gruppo è stata orientata a costruire un percorso militante, basato su un continuo confronto e un attento lavoro sul campo al fianco di coloro che erano coinvolti nei processi del post-disastro”.

Rispetto a tecniche di ricerca che privilegiano legit- timamente l’elaborazione di inventari di pratiche o la sistematizzazione comparativa, la metodologia etnogra- fica, proprio per la profondità dell’immersione richiesta al ricercatore, è particolarmente propensa a generare un groviglio multiforme e composito di relazioni e tensio- ni politiche. La ricerca attivista riconosce la complessità delle dinamiche di potere in cui sia il ricercatore che il

soggetto studiato si muovono e intende svolgere un ruolo da protagonista in queste. Svirsky (2010, pp. 169, 175) sostiene che il ricercatore-militante assume una logica “interventista e operativamente iper-attiva”; non solo, secondo l’autore, il suo compito è definito in maniera più puntuale come un attivismo rivoluzionario finaliz- zato non a cambiare il mondo ma a generarne un altro. Sebbene tutti insistano sulla centralità della vocazione etico-politica, altri autori sono più cauti nel definire la direzione e l’intensità del cambiamento politico che la ri- cerca militante immagina e contribuisce a costruire. Juris e Khasnabish (2103a, pp. 8-9), ad esempio, spiegano: “il nostro interesse per l’attivismo rappresenta un impegno per una etnografia politicamente impegnata, che non solo genera sapere che speriamo possa essere utile per quelli con i quali studiamo ma che potenzialmente costituisce una forma di attivismo in sé”. Russell (2014, p. 2) si sof- ferma soprattutto sulla capacità di trasformazione stimo- lata dall’auto-riflessività (vedi capitolo 6):

Intendo l’etnografia militante – una forma della ricerca militante – come il processo attraverso il quale si identifica gradualmente e ci si sofferma su una contraddizione, inco- erenza o paradosso all’interno di un milieu dichiaratamente politicizzato, e quindi ci si impegna per capire e contribuire al superamento collettivo di questo paradosso – una combina- zione di pensiero e azione orientata verso la comprensione e la modifica di una pratica collettiva, identificando e superando i limiti di ciò che siamo ora.

Si può osservare quindi come le etnografie militanti na- scano da incontri etnografici che hanno come tratto cruciale per entrambi le parti in causa – etnografi e soggetti studiati – una esplicita carica di interrogativi che non sono solo con- templativi o accademici ma finalizzati ad una trasformazione pratica degli equilibri politici. Un buon esempio di come intendiamo la prospettiva etnografica militante è la presenta- zione che fa Alliegro (2014, pp. 25-26) della sua ricerca:

Probabilmente la realtà descritta, fortemente partecipata ne- gli ultimi due anni dal sottoscritto molto dal di dentro, ha in par- te assorbito le istanze dello stesso antropologo indigeno movi- mentista, abbattendo le solite barriere erette tra campo di studio e campo di dimora […]. Un campo, dunque, quello di studio, colto nelle sue dimensioni etiche, civili e soprattutto politiche.

È importante sottolineare che il protagonista della trasformazione politica desiderata non è solo l’etnografia, intesa come scritto accademico, né l’etnografo, ma la prassi etnografica. Nel fare ricerca e nel mobilitarsi agisce un sog- getto situato nelle dinamiche politiche come ricercatore e attivista. In questa duplice veste entra nelle dinamiche del contesto studiato, propone analisi e progetti, collabora nel- la promozione di eventi, divulga e rende accessibili dibattiti scientifici, offre una legittimazione e una protezione al movi- mento sociale tramite appelli e l’uso dei mass-media, a volte viene incaricato di interagire con le istituzioni (governative, legali, enti locali, sindacati) per conto del soggetto studiato. L’etnografia militante si realizza in questo complesso e de- licato intreccio relazionale che vede il ricercatore in campo in molteplici vesti. Queste preoccupazioni hanno implicazio- ni profonde su come la ricerca viene pensata e pianificata. Prendiamo ad esempio la posizione di Irene Peano:

Penso sia politicamente (e quindi eticamente, dove la poli- tica implica l’etica e viceversa) scorretto, o perlomeno proble- matico, entrare nel contesto attivista per ragioni esclusivamente accademiche, così come ritengo molte forme di ricerca etnogra- fica (quelle non posizionate) puramente estrattive. Nonostante si senta spesso dire, soprattutto dagli/dalle antropolog*, che il rapporto tra ricercatrice/ricercatore e soggetti della ricerca do- vrebbe essere reciproco, ma penso che nella pratica raramente lo sia. Per me, quindi, adottare una postura militante rispetto al terreno in cui faccio ricerca è il modo di rendere la ricerca real- mente reciproca, o meglio di annullare, quanto più possibile, la distinzione tra ricercatrice e soggetti e quindi fare sì che i nostri interessi tendano sempre di più alla convergenza. Cioè, non in- tendo tanto ‘studiare un movimento sociale’ quanto piuttosto

calibrare la ricerca come metodo per immaginare e costruire un futuro possibile, diverso dal presente, insieme ai soggetti interessati (comunicazione personale, giugno 2019).

La vita politica della ricerca di Sopranzetti (2018, p. 170) esprime in modo emblematico un posizionamento con in- tenzioni chiaramente militanti. Nell’illustrare l’interesse che può suscitare la sua indagine sull’attivismo politico dei mo- to-tassisti legati alle camicie rosse protagoniste delle mobi- litazioni avvenute in Thailandia nel 2010, spiega che il suo lavoro vada inteso in senso pratico, come un tentativo, ana- logo a quello di altri intellettuali “non interessati solo ad una analisi del mondo interno a loro ma impegnati a cambiarlo”. Prende le distanze da “intellettuali politici che si acconten- tano di usare le teorie radicali nelle loro analisi piuttosto che vivere una pratica radicale, fatta sia di parole che di azioni”. La ricerca si innesta in dinamiche politiche in molti modi. Alcuni paiono tesi a contribuire ad un immaginario del letto- re come ad esempio i passaggi in cui riconduce le specifiche rivendicazioni delle camicie rosse thailandesi all’interno di motivazioni in cui molti lavoratori di altre parti del globo si possono riconoscere; oppure quando illustra l’efficacia dell’azione diretta finalizzata a interrompere il flusso. Nel caso dei moto-tassisti thailandesi si tratta di un blocco stra- dale ma esistono altri tipi di interruzione degli scambi come il blocco telematico, portuale o della logistica, che si rivelano terreni di lotta percorribili e promettenti in contesti capitali- stici fondati sulla mobilità. Sopranzetti (2018, p. 171), come quasi tutte le etnografie militanti, pone l’attenzione su

azioni collettive che producono un conflitto significativo quando attuate nei posti giusti […] Omettere di riconoscere ed esplorare questi tratti pone dilemmi che vanno oltre la dimensione etnogra- fica e intellettuale […] Alla lunga saremo messi sul banco degli imputati come quelli che avrebbero potuto aiutare ma hanno de- ciso di non fare nulla. Come disciplina abbiamo già fatto questo sbaglio imperdonabile nel passato, rimanendo silenziosi e girando la testa agli orrori del colonialismo. Ripeteremo lo stesso errore?

2. Il coinvolgimento come metodologia

Un recente intervento di Favole e Allovio (2018) su un noto quotidiano ha come titolo La militanza radicale nuoce

all’antropologia. Diversi etnografi militanti, tra cui nomi il-

lustri, la pensano diversamente. Herzfeld (2010, p. 261), ad esempio, nella sua ricerca sulla comunità di Pom Mahakan a Bangkok suscita lo

scetticismo di scienziati sociali positivisti, membri del pubblico, e numerosi funzionari pubblici, che, tutti, sollevavano dubbi sul fatto che avrei avuto dati buoni, incontaminati. Come, mi chie- devano in vari modi, potevo essere oggettivo quando ero così appassionatamente coinvolto? … Ho risposto loro accettando la loro impostazione – sulla qualità dei dati. Innanzitutto, il coinvol- gimento mi ha permesso di accedere ad informazioni (una parola molto migliore di dati) che altrimenti non avrei mai acquisito, so- prattutto dopo che mi sono unito a loro nella comunità barricata il giorno che pensavano che le autorità avrebbero “invaso”, con ripercussioni potenzialmente violente e anche fatali.

Un posizionamento “interno” al contesto studiato, e quindi un coinvolgimento nelle mobilitazioni, è difeso da- gli etnografi militanti come scelta metodologica cruciale e proficua. Su questo punto c’è una convergenza generalizza- ta di chi conduce ricerca in ambienti politicamente densi; l’immersione attiva è giustificata non solo da un punto di vista morale ma metodologico: un posizionamento schiera- to (una postura dichiarata e manifesta non necessariamente appiattita sulle posizioni del soggetto studiato) è indispen- sabile per avere accesso a informazioni chiave. Juris e Kha- snabish (2103a, p. 4) sostengono:

[…] analisi e descrizioni etnografiche, particolarmente se impegnate politicamente e condotte da dentro piuttosto che da fuori movimenti dal basso per il cambiamento sociale, sono in grado di svelare importanti questioni empiriche e generare importanti stimoli teorici che sono semplicemente inaccessibili attraverso i metodi tradizionali oggettivisti.

Le etnografie militanti si basano sull’impegno diretto in una particolare lotta attraverso attività quali l’organizzazione di azioni ed eventi, la partecipazione a riunioni, illustrare e difendere posizioni durante discussioni e dibattiti, e rischiare la propria incolumità durante le azioni di massa. Questo por- ta ad una comprensione più intima e profonda e offre anche un senso delle emozioni prodotte dalla pratica politica. Juris definisce l’etnografia militante come “metodo per studiare dall’interno i movimenti sociali dal basso. Il ragionamento è che per capire la prassi quotidiana ed esperire la logica dei movimenti sociali, in pratica devi partecipare come attivista; quel tipo di conoscenza genera un sapere migliore”1. Senaldi

(2016, p. 9) spiega che sulla adozione del metodo etnografi- co nello studio del movimento No Tav “hanno pesato due fattori che sono ascrivibili al mio percorso biografico”: uno è l’intenzione di svolgere una ricerca con “espliciti fini ‘eti- co-politici’”, l’altro è riferibile ai benefici metodologici del suo “particolare status di militante politico […] [che] ha ridotto […] la gran parte delle difficoltà che un etnografo sperimenta, come quelle relative alla familiarità con il tema e il contesto trattato, all’accesso al campo”.

Altri autori sono più cauti. Agata Mazzeo ha cercato di mantenere un delicato equilibrio tra coinvolgimento e distanza ma nota, come altri etnografi, che un posiziona- mento, se non attivista, per lo meno chiaro e schierato sia cruciale nella raccolta della documentazione.

Mi sono sempre presentata ai miei interlocutori come ri- cercatrice e mai come attivista. Tuttavia sono consapevole che non avrei avuto accesso al campo se non fossi stata ricono- sciuta come una sostenitrice del movimento per la proibizione dell’amianto […]. Mai avrei avuto accesso al campo se le mie opinioni circa la pericolosità dell’amianto non fossero state chiare e la mia posizione in merito inequivocabile.2

1 Real Democracy in the Occupy Movement: No Stable Ground di Anna

Szolucha pp. 56-57; researchmatters.ssrc.org/between-scholarship-and-so- cial-movements-in-conversation-with-jeffrey-juris/

2 Agata Mazzeo, “Amianto mata: um outro mundo sem amianto é possí-

La controversa partecipazione dell’etnografo ai movi- menti sociali ci pare una conseguenza necessaria di tecni- che di ricerca etnografiche. Ciò non vuol dire presupporre che sia un percorso lineare e facile; nel caso di Sopranzetti è stata una “esperienza forte, specie negli ultimi anni, e piena di difficoltà, conflitti etici e personali, e ripensa- menti” (comunicazione personale, Claudio Sopranzetti, dicembre 2019). Una presenza partecipante, come richie- sto dai canoni della etnografia ormai da un secolo, in un contesto di attivismo politico implica prendere posizione, fare parte delle dinamiche di gruppo, collaborare e quindi rinunciare ad un posizionamento esterno, esclusivamente contemplativo. Nadia Breda racconta il suo coinvolgimen- to, notando come il contesto di movimento sia una fecon- da fucina di elaborazioni e riflessioni, in cui l’etnografa si inserisce, come ricercatrice e attivista.

A fine anni Ottanta solo il WWF si occupava dei residui di questi ambienti, oggi fondamentali per la lotta contro i cam- biamenti climatici, e da un trafiletto letto su un opuscolo del WWF ho scoperto che esisteva una palude […] e sono andata a studiarla. Per i palù, li conoscevo io di persona, abitando- ci vicino; ho segnalato al WWF […] che vi sarebbe passata sopra un’autostrada e loro hanno identificato subito i posti