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I dilemmi della ricerca collaborativa

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 155-169)

Il lavoro etnografico, soprattutto in contesto militante, implica e richiede sempre una collaborazione con il circuito studiato. A volte, soprattutto quando la sinergia personale e politica tra ricercatore e contesto è accentuata, si elaborano forme di condivisione del progetto di ricerca di una intensità inusuale, mettendo in discussione alcuni degli assunti epi- stemologici fondamentali del processo di indagine, in primis la distinzione tra un soggetto che conduce la ricerca dalla posizione di ‘esperto’ competente nelle metodologie delle scienze umane ed un contesto sociale oggetto della indagine. La dicotomia tra un soggetto ricercante attivo e un gruppo studiato passivo diventa particolarmente problematico nella etnografia militante principalmente per due ragioni. La pri- ma è che questa contrapposizione riproduce un’evidente e incolmabile disparità di autorità nella generazione di rappre- sentazioni tra chi scrive e chi viene descritto che può essere ritenuta inaccettabile da chi è politicamente impegnato nel promuovere una gestione del potere orizzontale. Lo studio condotto da un cattedratico indisponibile a negoziare meto- dologie e forme di restituzione è, in contesti politicamente densi, spesso metodologicamente impraticabile e politica- mente sospetto, in quanto nega dignità agli interlocutori della ricerca. La seconda problematicità è che la divisione tra etnografo ed oggetto di indagine è già stata superata attra-

verso il posizionamento ibrido, ricercatore e militante, che se non fa collassare del tutto le distinzioni tra i due ruoli, le ibrida: la figura del ricercatore che pretende di essere il detentore esclusivo della narrazione oggettiva è stata estre- mamente rara nelle ricerche politicamente dense dell’ultimo decennio. L’esplorazione di produzioni di sapere frutto di una coinvolgente collaborazione tra ricercatore e circuito attivista non offre facili soluzioni; apre piuttosto questioni epistemologiche, politiche e metodologiche affrontate dagli etnografi militanti con diverse strategie e finalità di cui si darà conto in questo capitolo.

1. Produzioni collaborative di sapere

Avallone (2017, p. 13) nel presentare la sua ricerca su mi- grazioni e agricoltura nella Piana del Sele, ragiona su come il vissuto etnografico e politico abbia trasformato la sua conce- zione della produzione scientifica.

Quella che ho vissuto è stata un’esperienza complessiva che mi ha permesso di iniziare a superare visioni precostitui- te e pregiudizi, entrando in contatto più da vicino con la vita quotidiana, le opinioni, i sentimenti di tante persone, mentre, mano a mano, si è ridotta la separazione tra oggetto e soggetto di ricerca. La critica epistemologica a questa separazione, che riproduce un rapporto asimmetrico e di potere tra chi fa ricerca (il soggetto che parla) e chi è oggetto della ricerca (l’insieme delle persone e delle relazioni su cui si parla), mi ha aiutato a mettere in questione tale gerarchia, almeno a controllarne alcuni effetti, considerando quanto il dualismo cartesiano di oggetto-soggetto ha attraversato la mia formazione all’interno delle discipline sociali.

Queste considerazioni portano alcuni ricercatori a spe- rimentare percorsi di ricerca che sconvolgono le usuali distinzioni di ruoli. Il presupposto della collaborazione è ben spiegato da Peano: “gli obiettivi e gli strumenti di

una ricerca militante non possono essere elaborati da un individuo ma devono essere il prodotto di relazioni e ri- flessioni collettive, questo è il discrimine” (comunicazione personale, luglio 2019). La volontà di condividere non solo i risultati ma la pianificazione della ricerca, sorge in genere quando l’identificazione tra etnografo e contesto militante è più forte; l’indagine, come nel caso di Senaldi, viene con- cepita come una “con-ricerca”:

La ricerca non può aiutare a colmare la distanza tra intel- lettuali/attivisti e coloro per cui questi dicono di lottare, sem- plicemente perché non c’è distanza, l’essere militante è una questione che, se vista in modo coerente e genuina, sovrasta il resto. Non è la ricerca a colmare la distanza, ma sono impegno, dedizione e una scelta reiterata nel quotidiano (comunicazione personale, luglio 2019)

Olivieri (2016, pp. 4-5) nella sua ricerca su SOS Rosarno, una campagna per promuovere la sovranità alimentare come obiettivo e l’autogestione mutualistica della produzione come strategia d’azione, propone, in linea con altri etnografi collaborativi, una “co-produzione di sapere portata avan- ti con gli attori implicati nel progetto [in quanto] la scelta più coerente rispetto al tema di studio”. La partecipazione dei soggetti di indagine alla ricerca consiste principalmente nell’impegno del ricercatore a tenere un dialogo costante tra visione dei protagonisti e ipotesi analitiche.

Per co-produzione intendo la verifica incrociata tra ipotesi teoriche e categorie analitiche […] Da un lato, utilizzo le ipo- tesi teoriche per collocare le pratiche e i discorsi degli attori in una prospettiva sistematica, facendone emergere le assun- zioni implicite. Dall’altro lato, impiego i documenti pubblici e l’autocomprensione dei protagonisti stessi per confermare la validità delle categorie analitiche assunte.

La co-produzione di Olivieri (2016) è limitata, rispetto ad altre forme di ricerca collaborativa, in quanto rimane un’evi- dente impostazione autoriale e una finalità scientifica.

Il coinvolgimento può diventare più intimo se la selezione delle narrazioni è frutto di un paziente lavoro di negozia- zione come nel caso della ricerca di Staid e Cogni (2018) finalizzata ad una ethnographic novel.

[…] abbiamo fomentato la discussione politica con i no- stri interlocutori e interlocutrici sul campo, abbiamo creato una forte condivisione dei temi e della costruzione delle loro storie, non abbiamo intervistato, sbobinato e pubblicato, ma per quattro anni abbiamo frequentato diciotto persone, ci sia- mo raccontati vissuti, emozioni, lotte, immaginari; lo abbiamo fatto durante cene, presidi, manifestazioni, traslochi, case del rifugiato, laboratori e insieme abbiamo deciso come rappresen- tarci “noi” e “loro” nel libro […] Per essere ancora più chiaro non siamo stati noi ricercatori a decidere cosa raccontare, lo abbiamo capito tutti insieme (Andrea Staid, comunicazione personale, giugno 2019).

Anche Olmos Alcaraz e altri (2018, pp. 154, 155) parlano di “co-investigazione” corale e di “etnografia collaborativa” in termini impegnativi in quanto l’inchiesta, sia nei contenuti che nelle metodologie, viene negoziata continuamente con il circuito studiato, i comitati contro gli sfratti di Granada. Si tratta di un processo che si fonda sulla

democratizzazione della produzione di sapere […] consiste nel creare sentieri comuni tra ricercatori e gruppi studiati, cammi- nando e lavorando insieme per la ricerca e l’azione […] Questa forma di produzione di sapere implica un impegno a realizzare gli obiettivi fissati dai movimenti sociali mettendo al loro servi- zio la pratica della ricerca, la diffusione del sapere e l’insegna- mento (Sebastiani e Cota 2018, p. 57).

Questo allargamento del protagonismo nella conduzione dell’indagine richiede che il ruolo dell’antropologo come de- tentore di un “sapere esperto” sia messo in discussione fino al suo dissolvimento a favore di una costruzione polifonica di un programma di ricerca e azione mediante pazienti processi assembleari. Il gruppo di ricercatori parte dalla convinzione

che la “nostra responsabilità politico-epistemica richieda di non anteporre né progettare a priori una scaletta (piano di lavoro, anche se pensato e rappresentato come una mera ‘ta- bella di marcia’) senza conoscere e condividere prima ciò che è più appropriato e risponde meglio a ciascun gruppo” (Ol- mos Alcaraz e altri 2018, pp. 154, 155, 158). La ricerca colla- borativa viene contrapposta ad un’altra condotta nello stesso contesto di movimento e finalizzata a documentare l’impatto psicologico degli sfratti mediante oltre duecento questionari esaminati da cattedratici; sebbene abbia “obbiettivi rispetta- bili” quali “rendere pubbliche le conseguenze drammatiche degli sfratti e di rinvigorire la legittimità della lotta” viene criticata sia per i risultati, in quanto produce “narrazioni un pò ‘vittimizzanti’”, sia per l’impianto teorico, in quanto si fonda su “una conoscenza compresa e istituita dallo stesso ordine egemonico” ovvero “le relazioni di potere esistenti in università” e su “modelli scientisti di produzione di sapere”; quindi genera “un interesse limitato per ciò che concerne la democratizzazione della produzione della conoscenza” (Se- bastiani e Cota 2018, p. 60). Il gruppo di ricerca militante propone invece di coniugare la produzione di “conoscenza utile” per il movimento contro gli sfratti con una modalità di produzione del sapere “più collettiva e orizzontale possibile, cercando di mettere in discussione la dicotomia tra ‘soggetti’ e ‘oggetti’ della ricerca” (Sebastiani e Cota 2018, p. 62). Nel caso in questione, si decide di focalizzarsi sulla registrazio- ne delle narrazioni e la pubblicazione di storie relative agli sfratti per generare “materiali creativi, aperti e collaborativi” in vari formati (archivi visuali, documenti sonori, interventi pubblici, siti internet) di facile utilizzo.

Lo scopo principale non è stata la produzione di discorsi da essere analizzati unilateralmente da noi come accademici ma piuttosto la produzione di materiali sui quali il gruppo stesso potesse riflettere […] in modo da migliorare l’effica- cia organizzativa/ politica del gruppo e anche generare una ‘contro-storia’ dello stesso movimento, sorretta dalle voci dei protagonisti. Una idea, quindi, diametralmente opposta

all’approccio estrattivista che aveva caratterizzato la ricerca psicologica (Sebastiani e Cota 2018, pp. 62, 63).

Questa impostazione si prefigge l’obiettivo di sostituire il protagonismo di un sapere etnografico esperto con un’al- leanza tra partners epistemici e politici con l’intenzione di massimizzare la restituzione: “il minimo grado di collabora- zione richiede di ‘restituire i risultati’ e il massimo grado è quando la ricerca appartiene a quelli che conducono le pra- tiche collaborative e orizzontali in tutti gli stadi del processo di indagine” (Sebastiani e Cota 2018, p. 65).

2. Dissoluzione del sapere esperto?

In una prospettiva di etnografia militante allineata senza riserve sulle dinamiche del contesto studiato, la ricerca colla- borativa è non solo una opzione pensabile ma coerente con la volontà di passare da subito, anche nella produzione del sapere, da una logica specialistica e verticale ad una parteci- pata e orizzontale. La ricerca collaborativa militante è anche una risposta epistemologica e politica alla concentrazione di potere associata all’autorialità (Geertz 1990; Clifford e Marcus 1997), sperimentando rese etnografiche che, rispetto alle etnografie postmoderne (Behar 1996; Crapanzano 1980; Dweyer 1982), evitano derive personaliste permettendo di mantenere un saldo orientamento su dinamiche collettive (se sono biografie, sono un mosaico biografico) e di affrontare, al contempo, gli squilibri di potere non solo nella scrittura ma in tutte le fasi del processo di costruzione del sapere.

Sebbene teoricamente accattivante e politicamente coe- rente, l’etnografia collaborativa, intesa come dissoluzione del sapere esperto, rischia, se condotta come unica modalità di indagine, di cancellare le competenze specifiche, le intuizioni personali del ricercatore e la conoscenza approfondita di stu- di comparativi su contesti analoghi (vedi capitolo 3): Quale è il ruolo e l’apporto dell’etnografo nel corso di una indagine

se non quello di detentore di un “sapere esperto”? Se non agisce in base alle sue competenze specifiche, acquisite con un apprendistato pluriennale, quale è il suo contributo? Si limita ad essere un attivista tra gli altri anche quando è in cor- so una ricerca qualitativa? Ci si da il turno nella conduzione delle interviste o nella stesura delle note? Chi cura il mate- riale raccolto per renderlo divulgabile? In breve, quanto ha senso pianificare e condurre la ricerca con il soggetto studia- to e quanto invece è opportuno lasciare ambiti di autonomia metodologica al ricercatore? Non ci sono risposte univoche ma esperimenti in parte convergenti in parte peculiari in quanto innestati in contesti, sensibilità e relazioni variegate.

Nel percorso di indagine che affianca la lotta contro gli sfratti a Granada si fa difficoltà a non immaginare un qualche tipo di “sapere esperto” attivato dai ricercatori nel proporre possibili temi di riflessioni, nel ragionare sulla adeguatezza delle scelte metodologiche, nel tagliare, ordinare e sistema- tizzare la documentazione raccolta. Il fatto che i processi di indagine siano condotti in una continua relazione con il contesto studiato non fa venire meno le specifiche compe- tenze incorporate dai ricercatori e utili per il movimento. L’impressione è che il rifiuto del “sapere esperto” in quanto di per sé autoritario non tiene conto del fatto che in realtà le mobilitazioni dal basso delegano e utilizzano in continuazio- ne le capacità esperte degli attivisti o di professionisti: c’è chi è più portato a redigere documenti, aprire pagine web, girare documentari, attivare contatti, facilitare e mediare il lavoro del gruppo, gestire seccature legali, comprendere dati tecni- ci. In tutti questi casi mi pare che si possa tranquillamente ammettere competenze specialistiche senza che ciò comporti l’instaurarsi di gerarchie: un “sapere”, anche quello etnogra- fico, può essere esperto ma prestarsi comunque ad essere discusso e negoziato orizzontalmente.

L’obiettivo del collasso della distinzione tra ricercatore e attivisti, fin dalla fase di indagine, è un posizionamento di una parte relativamente minoritaria nel campo della etnografia militante. Juris e Khasnabish (2013b, pp. 27, 374; cfr. Russell

2014) che pur auspicano “etnografie radicalmente collabora- tive”, dichiarano “vogliamo sfidare e sconvolgere la relazio- ne tra soggetto [ricercatore] e oggetto [movimento sociale] ma non far collassare questa divisione”. Difendono infatti la specificità delle competenze del ricercatore, e quindi un suo ruolo. Non concepiscono il lavoro etnografico come guidato interamente dalle esigenze del movimento: “rinunciando alla loro autonomia, i ricercatori possono compromettere la loro abilità di produrre analisi etnograficamente documentate che possono essere sia critiche come analisi che rilevanti strategi- camente”. Tutelano quindi l’utilità di un sapere esperto nella forma di un “traduttore” e “tessitore”: colui che può “assu- mere vari ruoli partecipativi come quello di facilitatore, colui che mette in rete, mediatore, accompagnatore, produttore attivista di conoscenza, media-attivista indipendente, o inter- locutore empatico” (Juris e Khasnabish 2013b, pp. 370, 372). 3. L’etnografo militante come traduttore, facilitatore e

mediatore

Casas-Cortés, Osterwill e Powell (2013, pp. 214, 199, 224- 225) si chiedono “se i movimenti sociali (e potenzialmente altri oggetti di ricerca) producono una buona mole di conoscenza ed analisi anche su loro stessi (e forse anche sul ruolo della ricerca), come contribuisce l’etnografo?”. E si rispondono:

il ruolo della etnografia va concepita non in termini di spiegazione o rappresentazione, bensì di traduzione e tessitu- ra, processi in cui l’etnografo è una voce o un partecipante in un campo affollato di produttori di sapere […] faremo bene a valutare come gli specifici punti di forza delle nostre pratiche etnografiche possano contribuire al lavoro dei movimenti sia nel quotidiano che sulla lunga durata […] questo può voler dire agire come esperto in una procedura giudiziaria sui diritti fondiari esplicitamente a favore di un movimento sociale; in al- tre occasioni può voler dire creare, definire e generare concetti; destabilizzare l’egemonia o l’apparente solidità dei saperi degli

esperti; aiutare a sostenere la pluralità dei saperi; o essere il tessitore che costruisce conversazioni dentro conversazioni, al- largando la partecipazione e approfondendo la comprensione.

In modo simile, Breda scrive:

Non so immaginare un etnografo militante che lavori da solo e che sia lui a ispirare nuove pratiche. Le pratiche dovreb- bero essere ‘performative’, cioè ‘prefigurare’ ciò che si vuole attuandolo, così diventano ispirazione. Ciò che fa da ponte in certi contesti, tra attori in conflitto, non sono tanto le persone, quanto le scelte dei movimenti (un’assemblea, un ricorso, uno sciopero) (comunicazione personale, giugno 2019)

Pozzi converge nel proporre per l’etnografo un ruolo di connessione e impulso per alternative possibili in un conte- sto di collaborazione con gli attivisti:

[…] l’etnografo militante dovrebbe fare […] il facilitato- re. Dovrebbe, da un lato, cercare di trasmettere nella pratica quegli strumenti che promuovono il cambiamento (e non l’au- toconversazione del sistema del movimento) e dall’altro avere l’accortezza di costruire questi strumenti con il movimento stesso e quindi costruire, se non la trova, la disponibilità da parte del movimento. Costruire quella relazione di fiducia che è alla base dell’etnografia, ti permette di fare questo.

Agata Mazzeo cerca un risvolto applicativo instaurando un dialogo interdisciplinare con “tecnici” della salute (medici del lavoro, epidemiologi e professionisti della salute pubblica), avvocati e ingegneri che si occupano dei disastri provocati dall’amianto, finalizzato alla pubblicazione di articoli scientifi- ci su riviste openaccess, pensati per essere fruiti principalmente da attivisti e ricercatori impegnati nella lotta per la proibizio- ne dell’amianto1. Inoltre, ritiene cruciale per la restituzione

1 A. Mazzeo, “Amianto mata: um outro mundo sem amianto é possível”,

Le implicazioni di una ricerca etnografica condotta con gli attivisti del movimento anti-amianto in Italia e Brasile, V Convegno Nazionale SIAA, Catania dicembre 2017.

mettere in rete e divulgare saperi tecnici mediante “progetti educativi e percorsi di cittadinanza attiva presso scuole pub- bliche” e convegni intesi come occasione d’incontro fra ri- cercatori, amministratori, rappresentati sindacali e attivisti di varia provenienza nella lotta per la proibizione dell’amianto:

Inteso come assemblea pubblica, aperta a tutta la cittadi- nanza, il convegno ha rappresentato non soltanto un momento in cui si è riconosciuto il ruolo dell’attivismo nella formazione del sapere biomedico e dell’evidenza epidemiologica riguar- danti la cancerogenicità dell’amianto e la pervasività del disa- stro. L’incontro è stato esso stesso un momento di lotta, per il luogo in cui si è svolto (appartenente ad un’istituzione pub- blica) e per il coinvolgimento di esponenti di tale istituzione a cui, una volta in più, è stata ribadita la necessità di affrontare un disastro che spesso permane non riconosciuto e avvolto dal silenzio e dall’invisibilità (Agata Mazzeo, comunicazione per- sonale, aprile 2019)

Come illustra il caso di Mazzeo, il ruolo dell’antropologo militante come facilitatore del dialogo e della relazione tra at- tori e agenzie in conflitto tra loro enfatizza il lavoro costrutti- vo e non necessariamente anti-istituzionale e anti-autoritario della militanza antropologica. Mettere in luce le conseguen- ze dell’assenza di comprensione antropologica nelle logiche tecnocratiche è un compito fondamentale dell’etnografia militante. A maggior ragione, illuminare politici, tecnici e amministratori sui pregi di interventi e politiche inclusive, collaborative e antropologicamente informate costituisce un diretto riflesso dell’etnografia militante. Ovunque sia possibile, il ruolo dell’antropologo militante non è quello di proporre soluzioni di contrasto, lesive dei rapporti con le istituzioni anche perché generalmente questo non avvantag- gia coloro che con queste istituzioni sono entrati in conflitto. La soluzione degli attriti non necessariamente prevede che ci siano vincitori e vinti, come sembrano presupporre alcune azioni sociali di stampo antagonista, o viceversa, reazionario. Come verrà meglio illustrato nel capitolo 10, un contributo

significativo dell’antropologo sia sotto il profilo della ricer- ca collaborativa che sotto quello della militanza può essere quello di mediatore culturale in contesti di azione pubblica (con minoranze etniche come i rom, o anche nel lavoro con migranti, richiedenti asilo e rifugiati) per portare gli attori coinvolti nel conflitto a definire obiettivi e orizzonti comuni.

4. La restituzione come riflessività

Molti lavori di etnografia collaborativa contemplano e in- coraggiano un posizionamento riflessivo, ovvero sono tesi ad un’analisi critica del soggetto politico per individuare con- traddizioni, limiti e blocchi in modo da poterli trasformare e superare. Pitzalis (2015, p. 36) solleva anche alcune proble- matiche comuni alla restituzione militante.

L’antropologia […] come sapere critico, può essere usato come strumento auto-riflessivo dalle diverse soggettività rappre- sentate. Sviluppando una narrazione “partecipante” il ricercato- re impegnato deve essere cosciente del potere delle sue parole e deve essere in grado di usare la sua abilità di essere ascoltato per promuovere cambiamenti in alcune strategie con l’obbiettivo di rendere più efficace il processo performativo condotto dagli attori.

In modo simile Braun (2013, p. 34) crede che “l’etnografo militante ha come obiettivo principale quello di […] scrivere un testo […] per le persone con cui sta costruendo un per- corso” donando loro “i suoi strumenti teorici, oltre a quelli pratici, che ha costruito negli anni, perché li reputa fondamen- tali per poter migliorare e ridiscutere il contesto in cui parte- cipa attivamente”. Questi tentativi di stimolare la riflessività tornano però a mettere al centro l’autorialità e le competenze esperte dell’etnografo in quanto promotore di ottiche, letture, interpretazioni, critiche, frutto proprio delle conoscenze spe- cialistiche acquisite, che potrebbero e dovrebbero contribuire alla crescita del movimento non solo in termini di forza ma anche di coerenza, efficacia, capacità di coinvolgimento.

I contesti militanti vengono descritti da diversi autori come “altamente riflessivi” (Juris e Khasnabish 2013b, p. 372) ma non si può dare per scontata la loro capacità e vo- lontà di cogliere stimoli finalizzati a mettersi in discussione, ripensarsi, alterare dinamiche relazionali a volte sedimentate e sclerotizzate. Russell (2014, pp. 2, 5) ad esempio spiega che

la ricerca militante è il conscio e intenzionale tentativo di far muovere i movimenti attraverso una critica riflessiva (addirittu- ra dialettica?) delle loro pratiche […] Il processo è stato finaliz-

Nel documento Etnografie Militanti. Prospettive e dilemmi (pagine 155-169)