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L'ARTE COME MEZZO DI TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI analisi teorica, progettazione e best practice di interventi di creative peacebuilding nelle zone di conflitto nell'area NENA

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Scienze per la Pace: trasformazione dei conflitti e cooperazione allo sviluppo

TESI DI LAUREA

L'ARTE COME MEZZO DI TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI analisi teorica, progettazione e best practice di interventi di creative peacebuilding

nelle zone di conflitto nell'area NENA

RELATORE

Prof. Fulvio VICENZO

CORRELATORE

Prof.ssa Enza PELLECCHIA

CANDIDATO Pierluigi GRECO

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INDICE

INTRODUZIONE

I. IL RUOLO DELL'ARTE NELLA TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI

1. Conflitto, conflitto sociale, militare, nonviolenza e peacebuilding . . . .10

2. Creative peacebuilding, la trasformazione dei conflitti attraverso l'arte . . . .24

3. Creatività e trasformazione dei conflitti . . . 37

4. Il Teatro come mezzo sociale nelle zone di conflitto e la drammaterapia . . . 41

5. Linee teoriche di definizione dell'arte e della cultura come mezzo di riconciliazione e di resistenza, metafora e trauma . . . 52

6. Il superamento del trauma in psicologia e creative peacebuilding . . . 59

7. Case Studies . . . 65

II. PROGRAMMI DI FINANZIAMENTO E PROGETTAZIONE DI INTERVENTI DI CREATIVE PEACEBUILDING NELL'AREA NENA 1. Programmi tematici, istituti e fondazioni . . . 82

2. Programmi generici di finanziamento . . . .106

3. Il lavoro dell'International Theatre Institute e di Astragali Teatro . . . 117

4. Roads and Desires e Walls separate worlds, come esperienze di successo . . . 123

5. Freedom Theatre, arte-resistenza e il progetto “Il Sentiero degli Ulivi” . . . .132

6. Intervista al prof. Fabio Tolledi . . . .149

III. RICERCA INTERNAZIONALE “CONFLICT TRANSFORMATION THROUGH ART” E BEST PRACTICE DI PROGETTI DI CREATIVE PEACEBUILDING NEI PAESI DEL NENA 1. Introduzione alla ricerca internazionale . . . 163

2. La lettera di presentazione e le domande strutturate “Conflict Transformation through art” . . . 164

3. Association Forum Hermaea El Haouaria – Tunisia . . . .168

4. DPNA - Development for People and Nature Association . . . .171

(4)

6. Fighters for Peace . . . 179

7. Syrian Women Network (SWN) . . . .183

8. Seenaryo . . . 184

9. Women Now for Development . . . .186

10. Association jeunesse de Segangane pour la création artistique et le développement durable . . . 188

11. Egyptian association for educational resources . . . .189

12. Fragments Theatre Association . . . .190

13. I-Dare For Sustainable Development . . . 192

14. iEARN-Israel . . . .193

15. Merchavim – The Institute for the Advancement of Shared Citizenship in Israel . . . 195

16. Egyptian Democratic Academy . . . .197

17. Creativity for Peace . . . .198

18. Féderation de la Ligue Démocratique des Droits des Femmes – FLDDF . . . 200

19. Interfaith Encounter Association . . . .203

Conclusioni

Bibliografia

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INTRODUZIONE

L'argomento di questa tesi di laurea è l'arte come mezzo di trasformazione dei conflitti, analisi, best practice e progettazione di progetti di creative peacebuilding nell'area NENA. In questo scritto accademico si presenta un tema spesso sottovalutato. È necessario

considerare la grande influenza ed ispirazione da parte del team e della storia di Astràgali Teatro che da trentanni lavora con il teatro nelle zone di conflitto, ma non solo. L'idea di correlare, accostare, collegare e far interagire arte, geopolitica, psicosociologia,

antropologia, filosofia dell'arte e progettazione ha nel percorso di chi ora vi scrive

un'origine ben più lontana, pregressa a tal punto da risalire ai primi approcci alla musica ed alle percussioni. L'intenzione di presentare uno studio che analizzi la relazione tra

trasformazione dei conflitti e progettazione di interventi di costruzione della pace attraverso l'arte e la cultura, e giunga profondamente all'uomo ed alle sue complessità psicosociali e culturali, deriva dal grande dubbio di chi vi scrive se effettivamente l'arte possa mettersi a disposizione della resistenza culturale al dominio ed alla repressione, mettersi a disposizione della pace. Saranno presentati gli argomenti attraverso un percorso caratterizzato da passaggi logici e non cronologici e storici. Verranno a susseguirsi le realtà descritte, contestualizzate all'interno di determinati momenti storici, politici, sociali ed economici. Saranno presentate diverse best practice rilevate nella ricerca dall'ottica

mondiale e non regionale, le loro caratteristiche principali, i principi sulle quali si basano le loro azioni sociali, le attività svolte, le risorse utilizzate, l'identificazione dei beneficiari e degli indicatori, i risultati attesi ed ottenuti. Una volta chiariti i vari contesti all'interno dei quali si inseriscono attività progettuali basate sull'arte come mezzo di trasformazione dei conflitti, si presenterà il momento di definire uno spazio d'azione delimitato e di introdurre alla ricerca sul contesto storico, politico e socioeconomico della determinata area. La regione mondiale scelta è il NENA, Near East and North Africa. L'idea di racchiudere la ricerca scientifica all'interno di questa zona del mondo deriva in primis da un interesse personale di chi vi scrive, in secondo luogo dall'urgenza di intervento da parte di tutte le forze possibili, della società civile, della politica interna, da parte della diplomazia, non solo politica ma anche culturale. L'area del NENA è purtroppo, nella maggior parte dei suoi stati nazionali, soggetta a conflitti sociali, economici, armati, che devastano il territorio ed il tessuto sociale. Senza dover per forza essere tacciati di orientalismo e

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culturalismo, l'idea che dal Marocco all'Iran la regione non abbia bisogno di integrare il lavoro fondamentale che le organizzazioni della società civile già conducono sul territorio con l'arte e la creatività come mezzi per trasformare i conflitti producendo grandi risultati rilevabili ed esemplari, è un'idea tutt'altro che onesta. La ricerca accademica e scientifica in generale, già lavora per comprendere maggiormente, de-costruire e ricostruire, l'idea che muove questo studio ma, ad ogni modo, questa ricerca ha la necessità di essere continuata. Inoltre, la regione del NENA ha la caratteristica di essere logisticamente più accessibile per il sottoscritto, sia dal punto di vista geografico, sia dal punto di vista del reperimento delle informazioni. La grande sorpresa è stata l'approccio positivo ed aperto delle società arabe private e pubbliche coinvolte nella ricerca che hanno risposto prontamente e

repentinamente al bisogno di accumulare le esperienze lavorative condotte. La grande sorpresa è che la risposta è forte e c'è grande fermento a riguardo, perché, come si è già accennato, è un'urgenza fare ricerca e definire delle linee guida che arricchiscano le attività di cooperazione allo sviluppo nella costruzione della comunità, nel lavoro con essa nelle zone di conflitto.

Questo studio cerca di rispondere al problema della gestione violenta dei conflitti, proponendo una gestione nonviolenta dei conflitti attraverso la trasformazione della conflittualità in energia positiva, creativa e creatrice di opportunità di risoluzioni

nonviolente, di soluzioni creative, caratterizzate da stati win-win. La ferocia, la collera, le escalation di violenza, i traumi, i disturbi post-traumatici da stress, la depressione, la rabbia, l'alienazione, la difficoltà ad avere relazioni pacifiche con gli altri, sono solo alcune delle gravi conseguenze di condizioni di difficoltà in cui possono trovarsi civili e militari in zone di conflitto, detenuti in celle sovraffollate, fisicamente e psicologicamente reclusi, esclusi, perseguitati per la propria religione, per la propria ideologia politica, rifugiati, relegati in devastati e devastanti campi profughi. La tesi qui proposta pone un accento forte sulle attività laboratoriali, artistiche e creative, svolte in situazioni contestuali depresse quali zone in prossimità di conflitti armati, luoghi caratterizzati da estrema povertà e da alti livelli di conflittualità sociale, periferie criminali, territori occupati da forze militari, campi profughi, città e/o paesi che vivono condizioni post-guerra e/o dove si respirano reali o pilotate ostilità inter-religiose o inter-etniche. La ricerca condotta risponde a tali problematiche proponendo un'ulteriore modalità d'azione, cercando di introdurre allo studio dell'arte e della creatività come mezzo possibile per la trasformazione dei conflitti e

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ricordando che il nostro apporto parte da una definizione sempre più precisa dei problemi e da un'individuazione accurata, in questo caso accademica, di alcune possibili soluzioni pratiche ed operative. La nostra grande occasione è quella di poter essere presenti, vivi e storicamente testimoni di pratiche che hanno e stanno facendo la storia della

trasformazione nonviolenta dei conflitti, la storia della pace e dei suoi metodi, fornendo un ulteriore mezzo di diffusione delle pratiche nonviolente. Questa tesi accademica si colloca nel più vasto settore degli studi sulla pace e di cooperazione allo sviluppo. Saranno indicati gli aspetti più prettamente logici dei processi di trasformazione nonviolenta dei conflitti, in relazione alle teorie più diffuse e condivise dagli scienziati sociali. La ricerca ha

un'importante aspetto non trascurabile, ma anzi centrale, cioè lo studio degli approcci artistici alla trasformazione dei conflitti in relazione alla progettazione alla cooperazione allo sviluppo. La ragione per la quale è stato indicato un percorso che vede relazionarsi il creative peacebuilding con la progettazione alla cooperazione allo sviluppo è di stampo utilitaristico: mantenere forte la relazione tra studio e fattibilità, tra teoria e progettazione, tra idea e azione. Il lavoro proposto ha come base teorica una serie di testi fondamentali per la trattazione del argomento. Indubbiamente vanno citati in prima istanza: Theatre for

Peacebuilding, the Role of Arts in Conflict Transformation in South Asia di Nilanjana

Premaratna, dal quale è partita la ricerca bibliografica, presente nella collana di Studies in International Performance, Political Performance in Syria: From the Six-Day War to the

Syrian Uprising, Immersions in Cultural Difference – Tourism, War, Performance di

Natalie Alvarez. La ricerca di Arild Bergh e John Sloboda dell'University of Exeter (Regno Unito) e dell'Oxford Research Group Music and Art in Conflict Transformation è senza stata un punto di partenza per la questione musicale. Centrali sono stati anche i testi di Augusto Boal (The Aesthetics of Oppressed, Legislative Theatre_Using Performance to

Make Politics, Theatre of the Oppressed), di Baz Kershaw The Politics of Performance – Radical Theatre as Cultural Intervention, Applied Drama – The Gift of Theatre di Helen

Nicholson e Applied Theatre: Bewilderment and Beyond e Performance Affects-applied

theatre and the end of effect entrambi di James Thopson. Da aggiungere alla bibliografia

centrale all'interno del testo sono Music and Conflict di John Morgano O'Connel and Sawa El-Shawan Castelo-Branco, The Moral Imagination-The Art and Soul of Building Peace (John Paul Lederach), il manuale Music, Music Therapy and Trauma (Sutton), War As

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Performance di Micheal Balfour e sempre della Palgrave Macmillan sia il manuale

Peacebuiding – critical developmenta and approaches di Oliver P. Richmond sia Aesetics and World Politics di Roland Bleiker. Questi testi largamente affrontano il tema della tesi

attraverso un cono ottico globale, difatti citano diverse esperienze sparse nel mondo e danno una chiara impostazione teorica agli approcci di peacebuilding creativo. Il libri che sono stati elencati sono la base sulla quale ho fondato la prima parte della ricerca in quanto forniscono delle chiare linee teoriche. Essi sono frutto della ricerca bibliografica. Ma prima ancora che si arrivasse a questi testi, ci si è approcciati all'argomento seguendo gli esempi di vivace attivismo, presa di posizione e pacifismo di intellettuali italiani quali Aristide Donadio e Luisa Morgantini. Il testo Danzare tra le fauci del drago – il teatro come mezzo

di trasformazione dei conflitti è stato fondamentale per la costruzione della ricerca

scientifica. Il Prof. Donadio è stato così gentile da fornire a chi vi scrive numerosi materiali didattici, link e spunti di riflessione. Egli ha avuto il compito non facile di curare un testo che riassumesse delle importanti esperienze di peacebuilding creativo. Danzare tra le fauci

del drago è stato il testo che è riuscito a creare il ponte tra la mia esperienza lavorativa ed

operativa con Astràgali Teatro e la teorizzazione del peacebuilding creativo, a rendere possibile il viaggio di andata e ritorno dall'azione alla teoria. Andando sempre a ritroso quindi possiamo rilevare fondamentale, per l'idea, per la percezione concreta del tema trattato, per la mia preparazione intellettuale e lavorativa, tutta la grande esperienza di Astràgali Teatro. Sono stati essenziali il mentoring nel lavoro di progettazione,

organizzazione, amministrazione e logistica di Ivano Gorgoni, l'apporto teorico, artistico, poetico, musicale ed intellettuale del maestro Fabio Tolledi e dei sui scritti, tra i quali sono da citare Teatro e Guerra, Un Teatro in Palestina, Erotica del Corpo Sociale e Walls

separate worlds, e la mia altra grande guida, la dottoressa Roberta Quarta, che mi ha

seguito lavorativamente, emotivamente, poeticamente, nel lavoro di progettazione e di relazioni internazionali. L'esperienza trentennale di Astràgali Teatro è perfettamente centrale all'interno dello studio sulle realtà societarie di creative peacebuilding attive nel mondo. Il testo è strutturato in tre capitoli: Il ruolo dell'arte nella trasformazione dei conflitti, programmi di finanziamento e progettazione di interventi di creative

peacebuilding nell'area NENA, ricerca internazionale “Conflict transformation through art” e best practice di progetti di creative peacebuilding nei paesi del NENA. Ogni capito è suddiviso in paragrafi che scansionano i passaggi logici e le varie differenziazioni tra un

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argomento e l'altro. All'interno del capitolo sul ruolo dell'arte nella trasformazione dei conflitti saranno affrontate questioni quali le definizioni di arte, conflitto, trasformazione dei conflitti, nonviolenza, peacebuilding. Nel capitolo successivo verrano ripresi gli aspetti più pratici, cercando di passare dalla teoria alla pratica. Il capito avrà come tematica principale la questione della progettazione culturale, di come si possono inserire iniziative di peacebuilding creativo all'interno del grande mondo della progettazione indirizzata alla cooperazione allo sviluppo. Saranno elencate, definite e riassunte alcune caratteristiche delle più note ed importanti fondazioni che supportano economicamente progetti di creative peacebuilding, gli istituti che hanno introdotto modalità ed approcci interculturali nei loro lavori nelle zone depresse del mondo. La ricerca prosegue con l'individuazione di best practice di progetti di trasformazione dei conflitti attraverso pratiche artistiche nei paesi del Nord Africa e Vicino Oriente. È stato condotto uno studio “Conflict

transformation through art” sulle realtà associative e societarie che lavorano con il creative peacebuilding nei paesi arabi. Sono presenti dei paragrafi dedicati al prezioso lavoro dell'International Theatre Institute e di Astragali Teatro, con un focus su due progetti rilevanti: “Roads and Desires” e “Walls separate worlds” e sulla relazione tra

peacebuilding creativo e il lavoro sul patrimonio culturale. Questo lavoro verrà concluso con la presentazione del progetto “Il Sentiero degli Ulivi” che propone attività di

peacebuilding creativo in Palestina. La scrittura del progetto è stata contemporanea al lavoro di ricerca delle realtà societarie di creative peacebuilding e rientra nel mio lavoro presso il Centro Italiano dell'International Theatre Institute ed Astragali Teatro.

Lecce, aprile 2019

P. G.

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IL RUOLO DELL'ARTE NELLA TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI

1. Conflitto, conflitto sociale, conflitto armato, nonviolenza, arte e peacebuilding L'obiettivo di questo capito è di chiarire il concetto di conflitto e di porre le basi per poterlo relazionare con l'idea di trasformazione dei conflitti ed il peacebuilding creativo. La necessità di definizioni chiare ed esaustive nasce dalla grande confusione che c'è riguardo il concetto di conflitto ed il concetto di violenza, i problemi che nascono dalla confusione tra conflitto sociale e militare. Inoltre, l'importanza di porre come fondamenta di un discorso una nomenclatura, più o meno condivisa o in qualche modo condivisibile, ricorre nella maggior parte delle discussioni sul tema perché, sempre più spesso, diventata difficile condurre un ragionamento, un discorso, sul conflitto senza avere una grande percentuale di incomprensione, di malinteso, di equivoco. Numerosi, anzi numerosissimi, filosofi, sociologi, storici, politologi, antropologi, hanno dedicato importanti studi sul conflitto. L'importanza che ricopre la chiarezza di concetti quali conflitto, pace,

peacebuilding, mediazione, cooperazione, è stata carpita dalla direzione accademica della facoltà di Civiltà e Forme del Sapere ed è uno degli obiettivi comuni e persistenti nella quasi totalità dei corsi che hanno composto il percorso di studio intrapreso di scienze per la pace: trasformazione dei conflitti e cooperazione allo sviluppo. In questa sede non

verranno tratte le definizioni proposte nella loro interezza scientifica e storica, ma, senza dubbio, è essenziale sottolineare quanto ad ogni modo sia importante possedere una precisa idea del concetto di conflitto in relazione al concetto di pace e di nonviolenza per poter intraprendere il percorso proposto in questo studio sull'arte come mezzo di trasformazione dei conflitti. Per tale motivo verranno trattate delle definizioni che si sono incontrate nello studio delle molteplici materie del corso accademico, partendo dal fondamentale lavoro del Prof. Pierluigi Consorti del corso di Approccio interculturale alla trasformazione dei conflitti, nonché dirigente del Master in <<Gestione dei conflitti interculturali ed interreligiosi>>, e seguendo l'opera di studiosi dell'Università di Pisa quali Andrea Valdambrini, Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, Pino De Sario, di importanti sociologi come Johan Galtung e l'apporto di autori di manuali internazionali come Oliver

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Sono tantissime in effetti le definizioni di conflitto prodotte, da Aristotele a Machiavelli, da Hobbes, Hume, Ferguson, Malthus, Darwin, Lorenz a Marx ed Engels, da Collins, Luhmann, Freud, Fisher, Morineau, Glasl a Galtung (l'importante sociologo e matematico norvegese considerato uno dei padri dei peace studies), ma ognuna delle definizioni proposte è molto ancorata al contesto storico nella quale è stata formulata.1

Il conflitto è una caratteristica universale della società umana.2 Prende origine dalla

differenziazione economica, dal cambiamento sociale, dalla formazione culturale, dallo sviluppo psicologico e dall'organizzazione politica, tutti intrinsecamente conflittuali, e diventano palesi attraverso la formazione di parti in conflitto, che vengono ad avere, o sono percepiti come aventi, obiettivi reciprocamente incompatibili.3 Sono costituiti da una

complessa interazione di atteggiamenti e comportamenti che possono assumere una realtà diversa in quanto diverso è il punto di vista.4 È probabile che siano coinvolte parti terze

mentre il conflitto si sviluppa e le fa diventare così parti in conflitto. Il conflitto è una componente fisiologica dell'uomo.5

Il conflitto non è negativo o positivo, semplicemente è un dato imprescindibile dell'umano, come sostenevano anche Park and Burgess.6 Affinché ci sia conflitto c'è bisogno che ci sia

una diversità, composta da relazione ed ostacolamento. Trasformare i conflitti presuppone una correzione della percezione del conflitto, un abbattimento della paura di affrontare un conflitto. Per la gestione e trasformazione dei conflitti, è necessario l'accettazione del conflitto come risorsa relazionale, separando il concetto di conflitto dal concetto di

violenza. Pierluigi Consorti, sottolinea come il pluralismo culturale, etico e religioso, che è fonte di situazioni conflittuali, risulta sia base del conflitto sia opportunità di crescita, a patto che si impari a gestirlo.7

Ma dove il concetto di violenza si aggiunge al concetto di conflitto? Da tale domande partiamo per definire la differenza nelle caratteristiche tra conflitto sociale e conflitto

1 CONSORTI, P., Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 10 2 CONSORTI, P., Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 10 3 RAMSBOTHAM, O., WOODHOUSE, T., MIALL, H., Contemporary conflict resolution. 4th edition,

Polity Press, 2016, p. 10 4 Ibid.

5 Ibid.

6 CONSORTI, P., Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 9 7 Ibid.

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militare. Il conflitto sociale è caratterizzato dal fatto che le diverse componenti della società - classi sociali, gruppi, istituzioni, etnie - perseguono obiettivi diversi, dove due o più forze perseguono differenti fini. Generalmente i conflitti sono originati da gruppi con scarso potere in termini formali che sfidano le autorità statali costituite. L'asimmetria è una caratteristica comune alla maggior parte dei conflitti sociali. Cioè esiste una differenza fondamentale tra il gruppo A e il gruppo B. Questa disparità può essere di diverso tipo: la posizione economica, la posizione sociale, la differenza nella possessione o meno di risorse. Possiamo suddividere i conflitti sociali in due ampie categorie: conflitti di classe, che si basano sull'antagonismo tra classi sociali causato da differenti interessi legati al loro ruolo nel sistema economico, e i conflitti tra movimenti sociali. Essi sono entrati

stabilmente nella scena politica dei paesi occidentali a partire dagli anni 60 ponendo l'accento sulla soddisfazione di bisogni primari quali sussistenza, benessere, sicurezza economica. I conflitti dei movimenti sociali vertono spesso intorno a bisogni non materiali come l'autorealizzazione e il riconoscimento nel caso del movimento delle donne, la pace, il bene pubblico, l'ambiente. Di base il conflitto sociale è un fenomeno collettivo, in cui gli individui svolgono un'azione comune e avanzano spesso pretese in nome di ampie

categorie sociali, quali classi, comunità o gruppi religiosi. Diversi sociologi hanno affrontato la questione del conflitto sfociando nella definizione di conflitto sociale, analizzandone le caratteristiche e fornendo diverse teorie. Chi tratta il conflitto come una vera e propria malattia è Parsons, egli introduce il conflitto sociale come una malattia della società alla quale sopperire attraverso un impegno volto alla risoluzione attraverso la cura terapeutica della malattia. L'orientamento generale di Parsons lo ha portato a considerare il conflitto “disfunzionale e dirompente e a ignorare le sue funzioni positive. Il conflitto gli appare in parte evitabile, in parte forma inevitabile e "endemica" di malattia nel corpo sociale”. Alla visione disfunzionale di Parsons, si aggiunge George A. Lundberg che tratta il conflitto sociale come una dissociazione, una reale sospensione della comunicazione tra le parti avversarie, dando grande valore alla comunicazione come essenza delle situazioni di conflitto. Anche Lloyd Warner e Mayo danno un'accezione negativa al conflitto, come delle distorsioni della struttura democratica, così definiscono il conflitto sociale – il conflitto di classe – un fenomeno corrosivo e dirompente. Ad essi si aggiunge Kurt Lewin con l'idea che il sociologo militante debba aiutare il gruppo a superare il conflitto, a risolverlo, al fine di assicurare l'esistenza del gruppo. Raggruppati nel saggio di Lewis A.

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Coser “the Functions of Social Conflict”, i sociologi appena citati tendenzialmente si concentrarono nella propria attività di ricerca sul conflitto sociale partendo sempre da una dicotomia tra bene e male, tra pace e guerra, tra zero e guerra, tra pace e conflitto, facendo sempre rientrare il concetto di conflitto, e quindi di conflitto sociale, all'interno di quel lato oscuro associato alla violenza e alla devianza. Contrariamente, Simmel giustifica in

qualche modo l'esistenza del conflitto definendola parte integrante dell'esistenza, in quanto sostiene che nessun gruppo in definitiva può essere completamente armonioso, in quanto sarebbe a quel punto privo di processo e struttura. Definendo i conflitti non come fattori di disturbo ma anzi come elementi essenziali per la crescita della società. Il conflitto quindi è parte integrante della nascita e crescita di una società. Il conflitto e quello che ne deriva, la cooperazione, hanno funzioni sociali importantissime. Un certo livello di conflitto è essenziale nella formazione dei gruppi e nelle loro vite. A tal proposito, Johan Galtung ha introdotto il concetto di "violenza strutturale" - cioè le ingiustizie perpetrate ai danni delle persone dalla struttura di potere esistente - in riferimento proprio a situazioni di questo genere. In questo caso una teoria del conflitto sociale può essere ritenuta una teoria

generale non solo della vita sociale esistente, ma anche delle possibili forme di vita sociale alternative. Per contro, in quest'ampia accezione, ogni teoria politica generale è anche una teoria del conflitto sociale. Come esempi di conflitti sociali potremmo citare gli scontri tra movimenti fascisti e comunisti negli anni 70' in Italia o gli scontri tra NOGLOBAL e polizia durante il G8 di Genova, gli scontri violentissimi tra musulmani e induisti in India e Pakistan, le lotte sociali tra proletariato e borghesia. Il conflitto militare non è il

corrispettivo conseguenziale del conflitto sociale. Esistono conflitti sociali che non

sfociano in conflitti militari. Non solo, il conflitto militare presuppone un'asimmetria tra le parti che non raggiunge l'asimmetria completa, anche se la pratica del bombardamento dei civili ci può far immaginare si tratti di un'asimmetria potenziale totale, ma i civili, in questo caso, come nella maggior parte dei casi, non rappresentano il soggetto A o B in conflitto, ma una terza parte fuori dal conflitto che ne paga le conseguenze. Il conflitto armato è uno stato di conflitto aperto, armato, spesso prolungato, tra nazioni, stati o partiti. Il conflitto militare è quello che noi generalmente chiamiamo guerra, cioè la violenza organizzata, collettiva, personale, di solito tra stati, ma possibile anche all'interno di una nazione. Prendiamo ad esempio il conflitto militare in Siria ed Iraq, tra forze governative, ribelli dello stato islamico, curdi ed altre formazioni minori, esso è un conflitto militare tra

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eserciti, regolari ed irregolari. Il conflitto in Yemen è anche esso un conflitto tra eserciti, tra la coalizione saudita e la coalizione con gli Huthi. Tra le grandi differenze rinvenibili percorrendo la storia militare del 900' tra prima e dopo abbiamo quella della diminuzione drastica dei conflitti tra stati e il proliferarsi invece dei conflitti intrastatali, cioè i conflitti domestici. La guerra tra stati nella forma è praticamente scomparsa, ma ne rimane una buona sostanza. A partire probabilmente dal libro “lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” del 1996 dello scienziato politico statunitense Samuel P. Huntington, che ha per primo introdotto la dottrina dello scontro tra civiltà e culture, partendo dall'assunto che la fine dell'ordine internazionale bipolare (“guerra fredda”) conseguita alla crisi e alla

dissoluzione dell'Unione Sovietica, porterà a uno scontro nel mondo tra identità culturali e religiose. La maggior parte dei conflitti armati sono combattuti all'interno delle nazioni tra comunità divise per etnia, lingua, religione o geografia. Quasi tutte le operazioni militari, le operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, e le missioni per la

costruzione della pace negli ultimi decenni si sono svolte a impostazioni di conflitto intrastato. Il fatto di parlare di guerre civili non ci deve depistare nel credere che i decessi siano diminuiti, anzi, sono aumentati. Dei 166 conflitti verificatisi tra la fine della guerra fredda e l'inizio del ventunesimo secolo, 89 erano puramente intrastatali (guerre civili) e altri 20 erano coinvolti organizzazioni regionali e più di 200 partiti non governativi. Molti di questi conflitti sono guerre etniche o comunali - guerre in cui i belligeranti si

definiscono in parte secondo linee culturali come la lingua, la religione. Altre sono guerre rivoluzionarie in cui i combattenti si dividono lungo linee ideologiche che sono

socialmente costruite intorno a simboli, miti e ricordi. Un esempio sicuramente molto importante è il genocidio in Ruanda. Le due parti in conflitto, gli Hutu e i Tutsi, sono stati differenziati, all'interno del insieme totale degli abitanti del Ruanda, dalle forze militari belga, attraverso nessun criterio logico o scientifico valido, ma solo attraverso differenze estetiche di poco conto in Tutsi e Hutu. Messi l'uno contro l'altro, i due gruppi hanno iniziato una guerra devastante che aveva come obiettivo ultimo quello di eliminare

completamente il gruppo avversario dalla faccia della terra. Ma in realtà gli Hutu e i Tutsi non avevano e non hanno alcuna differenza tra loro, tanto che prima dell'acuirsi delle tensioni, vivevano insieme in armonia, facendo parte dello stesso gruppo sociale di cittadini e abitanti del Ruanda. I metodi del terrore, la pulizia etnica e il genocidio sono strategie deliberate per colpire i civili. Il risultato è che più dell'80% delle vittime dei

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conflitti armati sono civili e il numero dei rifugiati e degli sfollati sono aumentati

bruscamente. Attualmente i conflitti armati sono in: Egitto (guerra contro militanti islamici ramo Stato Islamico), Libia (guerra civile in corso), Mali (scontri tra esercito e gruppi ribelli), Mozambico (scontri con ribelli RENAMO), Nigeria (guerra contro i militanti islamici), Repubblica Centrafricana (scontri armati tra musulmani e cristiani), Repubblica Democratica del Congo (guerra contro i gruppi ribelli), Somalia (guerra contro i militanti islamici di al-Shabaab), Sudan (guerra contro i gruppi ribelli nel Darfur), Sud Sudan (scontri con gruppi ribelli), Afghanistan (guerra contro i militanti islamici), Birmania-Myanmar (guerra contro i gruppi ribelli), Filippine (guerra contro i militanti islamici), Pakistan (guerra contro i militanti islamici), Thailandia (colpo di Stato dell’esercito Maggio 2014), Cecenia (guerra contro i militanti islamici), Daghestan (guerra contro i militanti islamici), Ucraina (Secessione dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk e dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Lugansk), Artsakh ex Nagorno-Karabakh (scontri tra esercito Azerbaijan contro esercito Armenia e esercito del Artsakh (ex Nagorno-Karabakh), Iraq (guerra contro i militanti islamici dello Stato Islamico), Israele (guerra contro i militanti islamici nella Striscia di Gaza), Siria (guerra civile), Yemen (guerra contro e tra i militanti islamici), Colombia (guerra contro i gruppi ribelli), Messico (guerra contro i gruppi del narcotraffico). In totale nel 2018 gli Stati coinvolti nelle guerre nel mondo sono stati 68, e le milizie guerrigliere e i gruppi

terroristici-separatisti-anarchici coinvolti 801. Nell'attraversare queste categorie del conflitto (conflitto sociale e conflitto militare) è di vitale importanza definire genericamente da dove parte il conflitto e qual è il processo che porta un conflitto ad un conflitto violento, un conflitto sociale ad un conflitto armato.

I conflitti nascono da una scarsità di quelli che un dato sistema di valori percepisce come beni desiderabili. Più in generale, riprendendo la categorizzazione proposta da Arielli e Scotto, i tipi di incompatibilità degli obiettivi possono essere classificati in: “a) controllo su determinate risorse; b) valori o sistemi di valori, per esempio in campo politico ideologico e religioso; c) credenze: se il conflitto sui valori verte sul “dover essere”, nel conflitto sulle credenze l'incompatibilità si basa su come “è” la realtà, o meglio sulle assunzioni in base alle quali le parti interpretano; d) natura delle relazioni tra le parti: persone o gruppi possono entrare in conflitto perché hanno differenti aspettative e aspirazioni riguardanti la propria relazione; e) sopravvivenza di uno degli attori, sia in senso fisico, sia per attori

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collettivi in termini di organizzazione sociale (Israele-Palestina), i conflitti in cui è in gioco la sopravvivenza presentano un grado assai alto di intensità e di violenza e sono tra quelli più difficili da trasformare in senso costruttivo ; f) conflitti irrealistici ;va ricordata la possibilità che il conflitto divampi su una questione apparentemente minore, mentre può esistere una contraddizione alla base, di cui conflitto è soltanto un effetto, anche il caso del capro espiatorio.”8

Alla base della trasformazione di un conflitto, inteso come caratteristica universale della società umana, in un conflitto violento c'è l'escalation.9 La conoscenza delle forme della

violenza può contribuire ad un migliore quadro conoscitivo del processo di trasformazione di un conflitto in conflitto violento. Tradizionalmente vengono distinte due forme

principali di manifestazione della violenza: come coercizione volta a mantenere l'ordine sociale e come rottura di quello stesso ordine.10 Nel primo caso, quella della violenza

conservativa, la finalità è evidente: stabilizzare e difendere un determinato status quo. La seconda categoria comprende invece sia le azioni violente dichiaratamente rivoluzionarie, sia la violenza caotica all'interno della società. Nell'evoluzione storica la nascita dello Stato moderno ha significato la creazione di un monopolio della violenza legittima: l'autorità statale si fa garante della soppressione della violenza come strumento di conduzione dei conflitti al suo interno rivendicando allo stesso tempo per se l'uso dei mezzi coercitivi. Un importante innovazione concettuale sta nell'idea di violenza strutturale di Galtung che definisce violenta ogni situazione in cui la possibilità di autorealizzazione degli esseri umani è inferiore al suo potenziale. Questa differenza tra sviluppo potenziale ed effettivo può essere ricondotto non solo ad atti di violenza diretta, ma anche agli effetti di strutture sociali, economiche e politiche. Galtung ha aggiunto un'altra categoria alla violenza, la violenza culturale, cioè quelle caratteristiche di una cultura che giustificano, coprono, presentano come ragionevole e inevitabile le prime due forme di violenza. La violenza non è caratteristica imprescindibile del conflitto, questo sta a significare che il conflitto non è da intendersi come momento di separazione, distruzione, devastazione, guerra che invece caratterizza totalmente il conflitto militare, ma come un elemento intrinseco nella vita, un componente di cui, a livello logico, non si può farne a meno. Il distacco tra il concetto di violenza e il concetto di conflitto è fondamentale al fine di comprendere le caratteristiche

8 ARIELLI, E., SCOTTO, G., Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori Editori, Milano, 2003 p. 12 9 Ibid.

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che definiscono le differenze tra conflitto sociale e conflitto armato, in quanto il primo non presuppone che siano presenti atti di violenza all'interno del suo protrarsi, mentre il

secondo ha la necessità che vengano usate armi di qualsiasi genere affinché si possa parlare di conflitto armato e quindi di guerra. Ma allo stesso tempo, il concetto di violenza

strutturale di Galtung modifica la percezione di conflitto sociale come conflitto che non presuppone la presenza di violenza, in quanto, essendo la violenza strutturale una violenza persistente nel sistema economico, sociale, politico di una determinata collettività, rientra come caratteristica presente all'interno del concetto di conflitto sociale.

Pace

A violenza, conflitto, conflitto sociale e conflitto militare, è necessario iniziare ad

approcciarsi a nuove concezioni, o meglio, più precise definizioni di concetti quali Pace e Nonviolenza.11 Come sostiene Pierluigi Consorti, citando Daniele Novara ed il suo libro

contributo in Il coraggio di mediare, a cura di F. Scapparo, “ci sono dei miti duri a morire, quello della pace come bontà, come armonia, come volersi bene è uno dei più duri in assoluto. È un mito sostanzialmente antodistruttivo, che contiene al suo interno un'impossibilità operativa che lo rende del tutto inutile sul suo piano pratico e storico. L'educazione alla pace è un movimento che parte da lontano, il cui obiettivo si limitava al rafforzamento dele <one di luce dell'essere umano e quindi di tutto ciò che riguardava il miglioramento deibuoni sentimenti. Controcorrente rispetto a tale cultura che elegge la pace ad assenza di conflitto, alcuni studiosi tra cui Novara, L'Abate, Galtung, Cheli introducono una prospettiva nuova. La proposta è di accettare che il concetto di pace contenga in sé quello di conflitto, in quanto permette di mantenere la relazione anche nella divergenza.”12

Nonviolenza

La nonviolenza è un metodo di lotta politica consistente nel rifiuto di ogni atto che porti a ledere fisicamente i rappresentanti e i sostenitori del potere cui ci si oppone, limitando l’azione a forme di non collaborazione, di boicottaggio e simili. Teorizzato e applicato da M.K. Gandhi, che lo ricollegava al principio di origine induista e buddhista dell’ahimṣā,

11 CONSORTI, P., VALDAMBRINI, A., Gestire i conflitti interculturali ed interreligiosi. Approcci a

confronto, Pisa University Press, Pisa, 2013 P. 38

12 NOVARA, D., L'alfabetizzazione al conflitto come educazione alla pace, in Il coraggio di mediare, a cura di F.Scaparro, Guerrini e associati, Milano, 2001

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ebbe peso notevole per il successo del movimento indipendentistico indiano. All’esempio di Gandhi si sono richiamati esplicitamente M.L. King e diversi movimenti pacifisti, ecologisti o per i diritti civili, soprattutto a partire dagli anni 1960 del 20° secolo. La Nonviolenza è la capacità di trasformazione costruttiva e creativa dei conflitti, dal micro al macro conflitto, al fine di ridurre il più possibile ogni forma di violenza.13 Il

lavoro di teorici della nonviolenza come Gene Sharp e la persistenza di tradizioni storiche e pratiche di pacifismo come quelle contenute nelle credenze dei Quaccheri e Mennoniti o nelle idee di Gandhi, si sono incrociate con gli studi accademici per migliorare la

comprensione dei conflitti politici violenti e le alternative ad esso.14 L'obiettivo del

satyagraha (lotta per la verità) di Gandhi era quello di rendere manifesto il conflitto latente sfidando le strutture sociali che innescavano una spirale di violenza - il valore

complementare della nonviolenza (ahimsa).15 Nel modello di conflitto di Gandhi, che

contiene al suo interno inibitori della violenza, l'obiettivo non è vincere ma "raggiungere un nuovo livello di verità sociale e una relazione più sana tra gli antagonisti.16 Le

campagne nonviolente di maggior successo sono state le resistenze anti-regime. Le campagne nonviolente per espellere gli occupanti o raggiungere l'autonomia sono state marginalmente più efficaci delle campagne violente. Le campagne violente volte alla secessione hanno avuto più successo delle campagne nonviolente, sebbene il tasso di successo del primo sia stato molto basso. C'è tuttavia anche una certa tensione creativa tra la risoluzione del conflitto e l'azione diretta nonviolenta. Ad esempio, come abbiamo visto, alcuni sostengono che la risoluzione dei conflitti è problematica in situazioni di elevata asimmetria tra avversari, dove strategie più impegnate all'azione diretta nonviolenta possono migliorare la consapevolezza e rendere più equilibrate le relazioni di asimmetria, punto in cui la mediazione e altre forme di intervento third-party diventano più legittime e più efficaci. Le straordinarie fasi iniziali delle rivoluzioni arabe dopo il dicembre 2010 hanno drammaticamente illustrato il potere dell'azione nonviolenta diretta quando è giunto il momento - riecheggiando precedenti risultati come quello che ha fatto crollare i regimi sostenuti dall'Unione Sovietica nell'Europa dell'Est nel 1989, spingendo all'uso diffuso

13 http://www.treccani.it/enciclopedia/non-violenza/

14 RAMSBOTHAM, O., WOODHOUSE, T., MIALL, H., Contemporary conflict resolution. 4th edition,

Polity Press, 2016 p. 44 15 Ibid.

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dell'espressione “primavera araba” prima dello scoppio della violenza in Libia, Yemen e Siria. Gene Sharp, fondatore dell'Albert Einstein Institution, ha condotto un lavoro molto interessante sul tema della nonviolenza e dei metodi della nonviolenza. Nel libro From

Dictatorship to Democracy, A Conceptual Framework for Liberation, la sua traduzione in

italiano è Come Abbattere un Regime, Gene Sharp propone un'analisi accurata dei metodi nonviolenti e una lista con ben 198 armi nonviolente.17

Nello scritto, nell'appendice “Appendix One - The Methods Of Nonviolent Action The Methods of Nonviolent Protest and Persuasion, Gene Sharp presenta un elenco di tutte le azioni nonviolente possibili immaginabili, tra cui nella sezione Symbolic public acts abbiamo:

21. Delivering symbolic objects 22. Protest disrobings

24. Symbolic lights 25. Displays of portraits 26. Paint as protest 27. New signs and names 28. Symbolic sounds 29. Symbolic reclamations nella sezione Drama and music: 35.Humorous skits and pranks 36.Performance of plays and music 37.Singing

e nella sezione social intervention: 178. Guerrilla theater18

Gene Sharp, come rilevato sopra, include anche azioni prettamente creative tra i metodi di protesta nonviolenta.19 È proprio dalle pratiche nonviolente che bisognerebbe partire per

iniziare ad analizzare la relazione potenzialmente esplosiva tra l'arte, la nonviolenza e la trasformazione dei conflitti. Citando la sinossi di Danzare tra le fauci del drago di Aristide Donadio, <<La nonviolenza può trovare nell'azione scenica uno strumento efficace per

17 https://www.youtube.com/watch?v=CVqgde1We8E

18 SHARP, G., From Dictatorship to Democracy: a conceptual framework for liberation, The Albert Einstein Institution, 2003, Appendix One - The Methods Of Nonviolent Action The Methods of Nonviolent Protest and Persuasion, p. 87-94

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mitigare gli odi (peacekeeping), per riconciliare le parti in lotta (peacemaking), per rigenerare le relazioni sociali (peacebuilding), per trasformare i conflitti in modo

nonviolento. Il teatro può aiutare le persone coinvolte in conflitti “intrattabili” o di lunga durata a guardare il mondo con altri occhi, a ridurre l'ansia e la paura, a guarire la memoria traumatica della guerra, a rigenerare il corpo alienato dall'oppressione, dall'abuso, dalla violenza>> e aggiungerei io, a far emergere il conflitto, ad incrementare l'intensità della sua consapevolezza, e a contribuire alla resistenza, come Gene Sharp si auspicherebbe.20

È ancora dubbia la relazione tra nonviolenza, arte come mezzo di trasformazione dei conflitti ed il peacebuilding, nella sua declinazione operativa. Perché il passaggio da peacebuilding per come è inteso genericamente (La re-integrazione di ex combattenti nella società civile (Disarmament, demobilisation and reintegration - DDR), La riforma del settore della sicurezza (Security sector reform - SSR), Il rafforzamento dello stato di diritto, Il miglioramento del rispetto dei diritti umani, La fornitura di assistenza tecnica per lo sviluppo democratico, la promozione della risoluzione dei conflitti e delle tecniche di riconciliazione) a peacebuilding creativo non si può dire semplice.21 Michael Shank e Lisa

Schirch hanno condotto importanti studi a riguardo, che saranno al centro del prossimo capitolo. Ad ogni modo, come racconta Rocco Altieri in “Un'Accademia delle arti per la pace”, la domanda che essi si sono posti è stata: come mai il peacebuilding è ancora così lontano dalla pratica delle arti?22 Il peacebuilding è un concetto globale, in italiano “il consolidamento della pace”, che comprende la trasformazione dei conflitti, la giustizia transizionale, la riconciliazione delle parti, lo sviluppo, e la leadership. Ma come afferma Oliver P. Richmond, il peacebuilding è ora diventato una specie di chiesa molto ampia, <<with all of the attendant advantages and disadvantages of its becoming an institution and a dogma – in this case the liberal peace framework and its close association with the recently emerged practice of ‘statebuilding’. However, the original and sophisticated agenda of ‘conflict resolution’ survives, even if it may be in need of rescue and submerged

20 DONADIO, A., (a cura di), Danzare tra le fauci del drago. Il potere del teatro per la trasformazione nonviolenta dei conflitti, Quaderni Satyagraha, Centro Ganghi, Pisa, 2014

21 https://it.wikipedia.org/wiki/Peacebuilding

22 DONADIO, A., (a cura di), Danzare tra le fauci del drago. Il potere del teatro per la trasformazione nonviolenta dei conflitti, Quaderni Satyagraha, Centro Ganghi, Pisa, 2014

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by the dogmatic practices associated with institutions and supporters of liberal peacebuilding and statebuilding approaches>>.23

La parola ha acquisito significato sostanziale attraverso le azioni di organizzazioni come la Commissione delle Nazioni Unite per il consolidamento della pace (UN Peacebuilding Commission)24 o l'Istituto degli Stati Uniti per la Pace (United States Institute of Peace).25

Un certo numero di organizzazioni internazionali descrivono le loro attività in zone di conflitto come peacebuilding. Ad ogni modo, nella definizione di Johan Galtung proposta sul portale Alliance for Peacebuilding, il peacebuilding è il processo di creazione di strutture autosufficienti che "rimuovono le cause delle guerre e offrono alternative alla guerra in situazioni in cui potrebbero verificarsi guerre".26 I meccanismi di risoluzione dei

conflitti "dovrebbero essere incorporati nella struttura ed essere lì presenti come riserva dal quali il sistema stesso può attingere, proprio come un corpo sano ha la capacità di generare i propri anticorpi e non ha bisogno di un'esterna somministrazione di farmaci ".27 Ma come

afferma la definizione dell'United State Institute of Peace, il termine peacebuilding, che ha assunto un significato più ampio, include aiuti umanitari, diritti umani, sicurezza e

l'instaurazione di metodi nonviolenti per risolvere i conflitti, promuovere la riconciliazione, fornire servizi di cura per i traumi, ed è proprio su questo punto che il peacebuilding creativo, l'arte come mezzo di trasformazione dei conflitti, può inserirsi e consolidarsi in una posizione di ruolo all'interno dei processi di costruzione e/o mantenimento della pace.28

Consideriamo la classificazione proposta da Emanuele Arielli e Giovanni Scotto in

conflitti e mediazione, cioè di un peacebuilding divisibile in quattro fondamentali

categorie:

1. misure di natura militare 2. misure di natura politica 3. misure di natura economica

23 RICHMOND, O., Palgrave Advances in Peacebuilding: Critical Developments and Approaches, 2010th Edition, Palgrave Macmillan UK, 2010

24 https://www.un.org/peacebuilding/

25 https://www.usip.org/

26 https://allianceforpeacebuilding.org/2013/08/selected-definitions-of-peacebuilding/

27 Ibid. 28 Ibid.

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4. misure di natura sociale

Il peacebuilding creativo lo possiamo posizionare nella quarta categoria, quella delle misure di natura sociale, che possono dividersi in misure di trasformazione dei conflitti, di promozione della cultura dei diritti umani, dello sviluppo di comunità (interventi volti ad evitare la “polarizzazione dei gruppi sociali lungo le lineedi frattura del conflitto”).29

Ma anche di prevenzione. La comunità internazionale si è dotata di strumenti per il monitoraggio di possibili escalation con l'idea di prevenirli. I meccanismi di allarme, cioè gli early warning, ossia gli allarmi tempestivi, fanno parte della strategia di prevenzione

che ha come come passaggio successivo la early action, cioè l'intervento concreto sul campo. Gli strumenti internazionali di prevenzione e quindi programmazione e pianificazione di attività di peacebuilding sono il Forum for Early Warning and Early Response (FEWER), una rete di monitoraggio in cui collaborano ONG, istituti di ricerca, governi e organizzazioni internazionali, che forse non è più attivo, e il Conflict Prevention Network (CPN).30

Un'altra importante realtà nella prevenzione dei conflitto e nel peacebuilding planning è

l'AGENCY FOR PEACEBUILDING, un'organizzazione non-profit che promuove condizioni per risolvere i conflitti e ridurre le violenze, è un'agenzia italiana ed è la prima specializzata sul peacebuilding. Con una visione assolutamente coerente con il tema di questa tesi, l'Agenzia per la Pace auspica ad un mondo dove i conflitti possano essere appunto trasformati, per tale motivo, grazie al loro importante lavoro, il peacebuilding creativo bottom-up, proveniente dal basso, dal terzo settore, possiede una vetrina importante di ricerca, diplomazia preventiva e peacebuilding plan.31 Il peacebuilding, ad ogni modo, come termine ha molteplici connotazioni.

Secondo la paci fista Lisa Schirch, c'è un crescente senso di confusione riguardo il concetto di costruzione della pace. Alcuni usano "peacebuilding" come termine generico per coprire le vaste dimensioni del cambiamento sociale a tutti i livelli della società e in tutte le fasi del con flitto; altri lo usano solo riferendosi al post con flitto; alcuni usano parole come il mantenimento della pace o la prevenzione dei con flitti, che sono simili ma non lo sono sinonimi.32

29 ARIELLI, E., SCOTTO, G., Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori Editori, Milano, 2003 p. 183 30 Ivi p. 180 ; https://www.gppac.net/

31 http://www.peaceagency.org/ap/

32 SCHIRCH, L., Strategic Peacebuilding - Stato del campo, Peace Prints: South Asian Journal of Peacebuilding 1, no. 1 (2008): 2-3

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In fine, le agenzie usano "peacebuilding", ma con de finizioni diverse. Il peacebuilding è

generalmente inteso come intervento esterno destinato a ridurre il rischio che uno stato esploda / ritorni in guerra.33 C'è anche un accordo diffuso attraverso le istituzioni nazionali e internazionali che il peacebuilding non è solo la promozione di un'ipotetica stabilità. Lo scopo sarebbe realmente quello di creare una pace positiva, di concentrarsi sulle cause alla radice dei con flitti e consentire alle società di sviluppare mezzi stabili per ottenere cambiamenti paci fici. Per le Nazioni Unite e le agenzie governative, il peacebuilding è per lo più inteso come un processo di alto livello che coinvolge le élite politiche in attività come lo sviluppo di capacità formali e negoziati (accezione diplomatica). Nel 2001, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha iniziato a vedere la costruzione della pace in termini più complessi e più ampi. Il peacebuilding ha lo scopo di prevenire lo scoppio, la ricorrenza o la prosecuzione del con flitto armato e quindi comprende una vasta gamma di politiche, programmi e meccanismi di sviluppo, umanitari e di diritti

umani. Questo richiede azioni a breve e lungo termine su misura per rispondere all'esigenze particolari di società che scivolano in un con flitto o ne emergono. Queste azioni dovrebbero concentrarsi su promuovere lo sviluppo sostenibile, l'eliminazione della povertà e delle

disuguaglianze, governance trasparente e responsabile, la promozione della democrazia, il rispetto per i diritti umani e per lo stato di diritto ed la promozione di una cultura di pace e nonviolenza. Per la NATO il peacebuild è un'operazione di sostegno alla pace che impiega diplomatici, civili e quando c'è n'è bisogno anche mezzi militari per affrontare le cause profonde dei con flitti. Al di fuori delle istituzioni di alto livello, il peacebuilding è generalmente visto come un coinvolgimento impresa che richiede più processi a tutti i livelli della società, compresi quelli di base. Il manuale di International Peace building offre la seguente de finizione: "Peacebuilding rappresenta un modo per ottenere la guarigione della società, è un rapporto centrato sulla gente, basato sulla relazione e processo partecipativo".34

Ad ogni modo, secondo un rapporto della Banca Mondiale condotto da Paul Collier, quasi il 50% di tutti i paesi che ricevono assistenza tornano in con flitto entro cinque anni e il 72% delle operazioni di costruzione della pace lasciano al potere regimi autoritari.35

Tali risultati suggeriscono che strumenti di alto livello verso la costruzione della pace si sono dimostrati piuttosto inef ficaci fino ad oggi. Per tale motivo esiste un reale desiderio di un peacebuilding che vada al di là degli interventi già visti e rivisti, inef ficaci e costosi, iniziando a implementare misure di peacebuilding più creativo ed umano. Le iniziative artistiche

contribuiscono alla costruzione della pace attraverso mezzi creativi come poesia, pittura, narrazione, musica e danza. Tali iniziative si svolgono in gran parte, se non esclusivamente a

33 Ibid.

34 Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità S.E.P.M.(a cura di), Costruzione

della pace: un manuale di formazione sulla Caritas, Città del Vaticano: Caritas Internationalis, 2002 35 COLLIER, P., et al., Breaking the Conflict Trap: Civil War and Development Policy, A World Bank Policy Research Report, Oxford University Press and World Bank, NY, 2003; Barnett et al., “Peacebuilding: What Is in a Name?”

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livello di base e seguono un approccio dal basso verso l'alto (bottom – up) piuttosto che dall'alto verso il basso (top – down).36

2. Creative peacebuilding, la trasformazione dei conflitti attraverso l'arte

All'interno del settore del peacebuilding non è diffuso l'utilizzo delle arti come strumenti per la trasformazione dei conflitti. Il peacebuilding creativo offre la possibilità di

trasformare conflitti di vario genere, in linea di massima conflitti: interpersonali,

intercomunitari, nazionali, transazionali, internazionali, globali. Le arti creano spazi dove le persone in conflitto posso esprimersi, comprendersi e riconciliarsi attraverso le arti. Il peacebuilding creativo ricopre ancora un ruolo marginale all'interno del settore del peacebuilding. Questa asserzione parte dalla percezione dello stesso come metodo

dall'approccio troppo leggero e probabilmente fuori luogo nelle situazioni dove la violenza fa da padrone. Esiste uno scontro relativo alla provenienza accademica dei professionisti dei due rami implicati, i professionisti del peacebuilding, delle ONG e in generale delle organizzazioni della società civile nella maggior parte dei casi provengono dalle scienze sociali e politiche, al contrario i musico-terapeuti, agli arte-terapeuti, gli artisti, provengono maggiormente dal campo umanistico e/o artistico. Questo scontro di visioni spesso blocca le opportunità di nascita di progetti di peacebuilding creativo. Dall'altra parte, non è scontato che gli artisti ritengano giusto un utilizzo dell'arte, un utilitarismo nell'arte, un'interpretazione socioculturale dell'arte. L'arte come mezzo di comunicazione

dell'esperienza umana ha a volte favorito la violenza, a volte la pace. L'idea di un'arte non prettamente funzionale può essere filosoficamente accettata e considerata come assunto base per definire il punto di partenza dal quale partire per affrontare il discorso sul peacebuilding creativo. Ma se rinunciassimo per un attimo a definirne la natura, senza dubbio non possiamo non rilevare che l'arte storicamente ha ricoperto un ruolo con delle funzioni sociali. L'arte, il teatro, la musica hanno trasformato il pensiero umano, la sua storia, le sue tendenze. L'idea, dal risvolto filosofico rilevante, di accostare al

peacebuilding uno, o più, strumenti complessi ed umani come possono essere le arti,

36 LANCE, KATHRYN M., Breakin' Beats & building peace: exploring the effects of music & dance in

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rimane il nostro punto di partenza.

Partiamo dall'accenno di Michael Shank nel suo testo “Peace building strategico basato sulle arti” al “cosa strategico”, al “quando stategico e al “come strategico” del

peacebuilding di John Paul Lederach. Vengono citati per chiarire l'importanza di definire un cosa, quando, come per poter integrare progettisticamente le attività di peacebuilding. Micheal Shank, in un secondo passaggio parla di Cynthia E. Cohen e della sua ricerca A

poetics of reconciliation: the Aesthetic mediation of conflict del 1997. Ricondotti a questa

tesi di laurea preparata per il Master in City Planning presso il Massachusetts Institute of Technology, si è cercato di carpire il nucleo della ricerca e di riportarne alcune sezioni ritenute fondamentali. Cynthia E. Cohen cerca di rispondere a questa domanda: qual è la

natura della riconciliazione e qual è la natura del dominio estetico, quali forme e processi estetici dovrebbero essere eccezionalmente adatti ai compiti educativi e alle sfide inerenti il lavoro di riconciliazione?37

Cynthia Cohen nella prima sezione della sua dissertazione identifica la "riconciliazione" come concetto etico ed educativo. I compiti educativi della riconciliazione sono resi difficili dalle sfide create dal conflitto violento. Nella seconda propone una concezione originale di dominio estetico, basato su teorie filosofiche occidentali e sulle critiche

femministe e africane. Il dominio estetico è definito dalla reciprocità tra l'organizzazione di elementi in una struttura formale, le capacità percettive e le sensibilità dei percettori. La terza sezione della dissertazione dimostra che le forme e i processi estetici sono

particolarmente adatti a svolgere compiti educativi e ad affrontare le sfide educative inerente la riconciliazione. Cynthia E. Cohen crede che le arti - e i processi coinvolti nella loro creazione e apprezzamento - possono essere particolarmente utili a riunire le persone oltre tutte le possibili barriere costruite socialmente, comprese le differenze create dai conflitti politici, le incomprensioni esacerbate da dinamiche di oppressione, e persino l'inimicizia prodotta dalla violenza.38

Cynthia Cohen ha cercato con la sua tesi di proporre l'utilizzo delle arti nelle scuole e nelle prigioni come pratica istituzionalizzata, che integri i programmi educativi al fine di

prevenire proattivamente le sempre più diffuse violenze. Il suo è uno sforzo direzionato al

37 COHEN, C., A Poetics of Reconciliation: The Aesthetic Mediation of Conflict, Dissertation, University of New Hampshire, 1997

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legislatore. Propone di guardare alle arti e per aiutare gli studenti americani, e non solo, a confrontarsi in modo costruttivo e a coltivare le sensibilità richieste per la tolleranza, il rispetto reciproco e la riconciliazione. Il lavoro di Cynthia Cohen offre un ricco

fondamento concettuale per comprendere l’interazione tra l’estetica e le azioni di peacebuilding.39La concezione riportata di dominio estetico si basa “on the pleasurable

reciprocity that can be established between the organization of elements in expressive forms and the perceptual capacities and sensibilities of those who behold and participate in them. The pleasure of aesthetic engagement results from (1) the integration of the sensuous and the rational; (2) an intensity of engagement with bounded forms; and (3) tendencies towards the mean along several different dimensions, including, for instance, a balance between chaos and rigidity and between innovation and tradition, and between the impulses of individuals and the imperatives of collectivities.”40

Seguendo l'analisi, lega concettualmente "estetica" e "riconciliazione", illustrandone come forme e processi estetici possano essere creati per ulteriori tre obiettivi generali di

riconciliazione, contribuendo a (1) il ripristino di capacità; (2) all'immaginazione e alla convalida di una futura relazione morale; e (3) alla conoscenza di se stessi e del proprio nemico. A concetti quali estetica, riconciliazione, peacebuilding e conflitto, Cynthia Cohen associa il concetto di “poetica della riconciliazione” che nella sua definizione più ampia, si affianca alle convenzioni che governano implicitamente le dimensioni poetiche, letterarie o estetiche di fenomeni non tipicamente estetici (come "la poetica dell'occupazione militare", "la poetica del bisogno", "la poetica del disastro, "la poetica della resistenza", "la poetica dell'esperienza", ecc.). Nel chiamare questo studio A Poetic of Reconciliation, attinge a tre significati correlati del parola. Dalla Poetica di Aristotele alla poetica di Gaston Bachelard per trarne basi teoriche sulla creazione dell'emozione. La Poetica di Aristotele è una teoria prescrittiva sulla natura del dramma, Aristotele esamina le strategie

poetiche/drammaturgiche per evocare sentimenti allo scopo di generare azioni morali. La teoria di Aristotele enfatizza la mimesi, o il modo in cui il dramma ritrae in modo

convincente l'azione umana; analizza in particolare come le tragedie raffigurino personaggi umani che "mancano il bersaglio" – che non riescono a raggiungere la bontà morale a causa di azioni non etiche, per le quali possono o meno essere biasimati. Lo scopo di tali

39 COHEN, C., A Poetics of Reconciliation: The Aesthetic Mediation of Conflict, Dissertation, University of New Hampshire, 1997

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tragedie, secondo Aristotele, è evocare sentimenti pietà e paura nel pubblico; questi sentimenti hanno lo scopo di ricordare alla gente le loro stesse vulnerabilità. Come Aristotele, tuttavia, Cynthia E. Cohen teorizza su come le arti aiutino le persone a conoscere e a sentire la sofferenza altrui, in modi che generano sensibilità morale e diminuiscono gli impedimenti all'azione morale. Condivisibile con Aristotele è l'uso del termine "poetica" come mezzo di invocazione di scopi morali.41

Secondo il fenomenologo francese Gaston Bachelard (1994 [1958]), per “poetica” intende le immagini che creano riverberi nelle persone che le ascoltano o le sentono, l'atto poetico è l'immagine improvvisa, la "flare-up of being " nell'immaginazione.42 Al livello di

l'immagine poetica, la dualità del soggetto e dell'oggetto è incessantemente attiva nelle sue inversioni, apprendere qualcosa poeticamente significa essere ricettivi, aprirci ai riverberi che la poetica crea in noi. Non possiamo capire un'immagine poetica senza badare a come essa riverbera nei nostri esseri. Questa tipologia di "trans-soggettività" Bachelard identifica nella comprensione della sofferenza dell'altro quando la sentiamo dentro noi stessi o quando abbiamo paura per le nostre vite. Ed è questo tipo di comprensione, di se stessi e dell'altro, che è centrale per il lavoro di riconciliazione. Le mediazioni estetiche del conflitto si sforzano di generare di ricettività, in modo tale che nemici possono sentire le proprie storie e quelle degli altri riverberate all'interno dei loro esseri. Giustapposizione di storie, poesie e immagini, opere teatrali e murali, canzoni e danze, invitano il pubblico a processi di riconciliazione, attraverso il riverbero profondamente sentito dei ritmi e delle armonie, immagini e trame, tensioni e risoluzioni. Alle due poetiche Cynthia Cohen aggiunge la Poetica Antropologica alla basa della Poetica della riconciliazione su come la parola è invocata da antropologi e folkloristi per riferirsi alle dimensioni poetiche,

letterarie ed estetiche della rappresentazione delle culture.43 La poetica antropologica

fondamentalmente è quella poetica alla quale è associata una conoscenza, o un modo di conoscere, poetica di un determinato argomento studiato etnograficamente o in generale antropologicamente e rielaborato poeticamente. Quindi proprio come gli antropologi possono usare forme poetiche per capire e rappresentare ciò che loro hanno imparato a conoscere nelle culture diverse dalla loro, coloro che sono impegnati nel lavoro di

41 COHEN, C., A Poetics of Reconciliation: The Aesthetic Mediation of Conflict, Dissertation, University of New Hampshire, 1997

42 Ibid. 43 Ibid.

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riconciliazione, come partecipanti e facilitatori, possono utilizzare un'intera gamma di forme estetiche per esprimere ed interpretare contesti culturali ed eventi storici in modi che siano unicamente "efficaci".44

Micheal Shank riassume in la gamma di approcci in: • attivisti nonviolenti che lottano per i diritti umani;

• peacekeepers che separano i gruppi in conflitto e smobilitano i combattenti;

• leader religiosi che incoraggiano i loro seguaci a costruire la pace coi propri vicini; • operatori che lavorano per i soccorsi e forniscono aiuti; mediatori nelle comunità e praticanti della giustizia ristorativa che facilitano il dialogo tra le parti in conflitto; • uomini d’affari che forniscono aiuto materiale alle vittime;

• capi di governo che innescano il cambiamento attraverso le politiche pubbliche.45

Shank, questi approcci li raggruppa in quattro diverse categorie con delle funzioni particolari:

1. condurre il conflitto in maniera nonviolenta 2. ridurre la violenza diretta

3. trasformare le relazioni, 4. costruire le capacità

Queste funzioni in seguito le potremo correlare ad alcune delle priorities che alcuni donatori/finanziatori, istituti che supportano economicamente progetti di cooperazione, inseriscono nelle call for participation.

1. Conduzione nonviolenta dei conflitti

44 COHEN, C., A Poetics of Reconciliation: The Aesthetic Mediation of Conflict, Dissertation, University of New Hampshire, 1997

45 DONADIO, A., (a cura di), Danzare tra le fauci del drago. Il potere del teatro per la trasformazione

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Nella maggior parte dei conflitti moderni, il conflitto lo possiamo rilevare sbilanciato, il potere è sbilanciato e esistente basilarmente una consapevolezza diffusamente bassa, per tali motivi spesso la parti non sono agevolate da questo status delle cose a negoziare. Per sopperire a questi lacks, servirsi di metodi nonviolenti può essere una strada da percorrere. Shank si rifà alla nonviolenza strategica, definendola non passiva, ma attiva, diretta e assertiva.46

La Nonviolenza, i suoi metodi e le sue azioni, hanno come obiettivo l'innalzamento della consapevolezza e della comprensione del pubblico, “incrementano la conoscenza di quanto i gruppi in conflitto sono interdipendenti e riequilibrano il potere convincendo o

costringendo gli altri ad accettare i bisogni o i desideri di tutti coloro coinvolti”. 47

L'idea è quella di ottenere supporto per la trasformazione dando un incremento al potere del gruppo svantaggiato, supportandolo nell'affrontare i problemi e sviluppare nuove condizioni che sarà la base dalla quale partire iniziare il percorso di trasformazione delle relazioni. Gli artisti potrebbero costruire una piattaforma artistica stimolante e attrattiva dall'altissimo livello immaginativo per poter portare a un livello di consapevolezza maggiore riguardo i problemi alla base delle conflittualità. Per fare questo c'è la necessità che gli artisti incrementino il conflitto, o meglio ne incrementino l'intensità. Qui abbiamo di fronte una situazione non facilmente identificamìbile come peacebuilding, d'altronde in questo metodo, ripreso dalla classificazione di Lisa Schirch, gli artisti non contribuiscono ad un affievolimento iniziale del conflitti, ma, contrariamente, al suo sviluppo e al suo acuirsi, ovviamente intervenendo nella sfera concernente la consapevolezza. L'obiettivo della categoria della “conduzione nonviolenta dei conflitti” è quella di aumentare l'intensità del conflitto affinché non venga ignorato.48

Lisa Schirch e Shank individuano queste diverse forme d'arte che potrebbero rientrare nella categoria di azioni di peacebuilding creative:

• teatro invisibile

46 Ibid.

47 SHANK, M., SCHIRCH, L., Strategic Arts-based Peacebuilding, Peace & Change, 2008 48 Ibid.

(30)

• reinterpretazione simbolica • spoken word • hip-hop • film-documentari • murales • agitprop • installazioni • canti

2. Ridurre la violenza diretta

Fermare, frenare, ridurre, prevenire, la violenza è un altro grande e difficilissimo obiettivo al quale il peacebuilding creativo può in teorici svariati modi auspirare a conseguire. Costruire occasioni nelle quali la riduzione della violenza sono possibili e spazi per lo svolgimento di successive attività di peacebuilding. Per raggiungere tale obiettivo, la norma e la Storia ci rimandano ad azioni giuridiche dal grande impatto, processi di peacebuilding giuridico e militare, peacekeeping civile e la costruzione delle zone cuscinetto e dei campi profughi da parte delle organizzazioni internazionali dell'ONU. Il cessate-il-fuoco o qualsiasi altra forma di interruzione del ciclo della violenza sono dei punti di partenza per le azioni di peacebuilding, queste azioni devono avere come obiettivi iniziali:

• la prevenzione della vittimizzazione

• arrestare che propone e perpetra la violenza

• la creazione di spazi per iniziare ad intraprendere ulteriori azioni

Shank e Lisa Schirch si rifanno a forme artistiche artistiche visive, letterarie, di spettacolo e/o di movimento come mezzi per ridurre il ciclo della violenza, o peacebuilders e artisti possono essere coordinati per un lavoro di gruppo che porti alla costruzione di luoghi sociali, location, idonei dove le vittime possono stare al sicuro e distrarsi dal grande dolore,

(31)

ove possibile, trovando tregua e dal conflitto. All'interno del libro “Danzare tra le fauci del drago” è riportato l'esempio del toyi-toyi, una forma innovativa e creativa di peacekeeping civile, in parte danza, in parte resistenza civile alla violenza diretta, è una potente danza che si basa sullo sbattere i piedi a terra a ritmo.49 Essa fu introdotta da alcuni esiliati

dell'African National Congress nella lotta per contro l'Apartheid in Sud Africa. La toyi-toyi si è diffusa velocemente, copiata da chi lottava in Zimbabwe e iniziò ad essere molto praticata nei campi profughi, essa faceva parte integrante delle manifestazioni, potremmo dirla centrale all'interno delle dimostrazioni. La toyi-toyi interrompeva il brutale ciclo di violenza, essa ha protetto centinaia di persone dalla violenza immediata dei poliziotti bianchi del servizio di sicurezza del Sud Africa che intervistati sulla danza toyi-toyi “militare” nonviolenta, descrivono quanto fosse intimorente “per i giovani soldati bianchi la folla in canto e quanto fosse arduo incitare le giovani reclute a non abbandonare il terreno. Era l’incubo della nazione bianca: un’immensa folla nera… voci e piedi battenti, che avanzavano impetuosamente, come fossero loro a detenere il potere.”50

49 DONADIO, A., (a cura di), Danzare tra le fauci del drago. Il potere del teatro per la trasformazione nonviolenta dei conflitti, Quaderni Satyagraha, Centro Ganghi, Pisa, 2014

50 DONADIO, A., (a cura di), Danzare tra le fauci del drago. Il potere del teatro per la trasformazione nonviolenta dei conflitti, Quaderni Satyagraha, Centro Ganghi, Pisa, 2014 p. 26

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