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Ruolo dell’infiltrato infiammatorio nel carcinoma tiroideo

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Academic year: 2021

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INDICE

INDICE ... 2

1. Introduzione ... 4

2. La tiroide ... 6

3. Neoplasie della tiroide ... 10

Variante follicolare ... 19

Variante a cellule alte ... 20

Variante a cellule ossifile ... 21

Variante Warthin-like ... 22

Variante simil-fascite nodulare ... 23

Variante cribriforme ... 24

Variante sclerosante diffusa ... 24

Variante colonnare ... 25

4. Infiltrato infiammatorio: ruolo nella patogenesi tumorale... 41

4.1.1 I macrofagi ... 42

4.1.3 I linfociti ... 45

4.2.2 Interleuchina 1 (IL1) e 6 (IL6) ... 47

4.2.3 Chemochine ... 48

6. Scopo dello studio... 56

7. Materiali e metodi ... 57

7.2.1 Immunoistochimica ... 60

7.2.2 Valutazione dei reperti immunoistochimici ... 60

7.2.3 Biologia Molecolare ... 61

8.3.1.2 Mast cell triptasi positive peritumorali ... 68

8.3.1.3 Mast cell triptasi positive extratumorali ... 68

8.4 Macrofagi CD68 positivi ... 69

8.4.1 Macrofagi CD68 positivi intratumorali ... 69

8.4.2 Macrofagi CD68 positivi peritumorali ... 69

8.4.3 Macrofagi CD68 positivi extratumorali ... 70

8.5 Espressione tumorale di CXCL10/IP10 ... 70

8.6 Espressione tumorale di CXCL1/GRO-α ... 70

8.7 Espressione tumorale di CCL2/MCP1 ... 71

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1. Introduzione

L’infiammazione è un processo fisiologico protettivo che l’organismo utilizza in risposta al danno tissutale, innescato dall’azione dannosa di agenti fisici, chimici e biologici, il cui obiettivo finale è l’eliminazione della causa iniziale di danno tissutale o cellulare. L’esistenza di una relazione tra infiammazione cronica e cancro è stata per la prima volta proposta da Virchow nel 1863 ed è stata confermata da evidenze cliniche ed epidemiologiche. Negli anni a seguire dati clinici ed epidemiologici hanno confermato questa ipotesi, evidenziando come lo stato infiammatorio cronico causato da agenti tossici aumenti il rischio di insorgenza della patologia neoplastica (Gulumian, 1999). Sebbene infatti l’infiammazione sia solitamente un processo autolimitante, l’anomala persistenza di stimoli inducenti o il fallimento dei meccanismi che ne determinano l’interruzione, si risolvono nell’infiammazione cronica (Coussen, 2002). E’ stato pertanto stimato che il 15% circa dei tumori derivi dall’azione di diversi agenti infettivi e dal substrato infiammatorio che questi inducono (Parkin, 1999).

Le cellule infiammatorie all’interno dei tessuti neoplastici ha sia ruolo promuovente tramite la produzione di enzimi litici, citochine e fattori di crescita (Dabbous, 1995; Dimitradou, 1997), che di difesa dell’organismo ospite nei confronti del tumore stesso. evocando una risposta immunitaria specifica, mediata dalle cellule infiammatorie nel tessuto tumorale ed innescando una reazione infiammatoria aspecifica intra e peritumorale, per la distruzione del tessuto normale (Caruso, 1994; Hakansson, 1997).

Nell’ambito del processo flogistico intervengono diversi elementi cellulari richiamati nel focolaio di danno, dal circolo sistemico, attraverso l’azione di molecole di adesione e chemotattiche (Coussen, 2002). Tra i primi ci sono neutrofili, macrofagi e mast cell, che secernono specie reattive dell’ossigeno (ROS), molecole vasoattive, come l’istamina e i leucotrieni, citochine, chemochine e proteasi che rimodellano la matrice extracellulare (De Visser, 2006).

Possono essere riportati numerosi esempi della relazione esistente tra lo sviluppo della malattia neoplastica e processi infiammatori cronici di diversa natura (Balkwill, 2001), in cui l'evidenza epidemiologica ha suggerito che lo stato infiammatorio cronico determini un aumento del rischio di insorgenza della patologia neoplastica:

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• Malattie infiammatorie croniche intestinali (Morbo di Chron e Rettocolite ulcerosa) correlate al carcinoma del colon-retto;

• Infezioni da Helicobacter Pylori e carcinoma gastrico; • Epatite cronica virale e carcinoma epatocellulare;

• Infezione vescicale da Schistosoma Haemolyticum e carcinoma vescicale; • Infezione da Papilloma virus umano (HPV) e carcinoma della cervice uterina; • Asbestosi e mesotelioma pleurico;

• Broncopneumopatie-cronico-ostruttive e carcinoma polmonare; • Esofagite cronica (Esofago di Barrett) e carcinoma esofageo; • Pancreatite cronica e adenocarcinoma pancreatico.

Numerosi studi hanno dimostrato l’'associazione tra infiltrato linfocitario e tumore tiroideo. Già a partire dagli anni '50 (Dailey, 1955) alcuni lavori ipotizzarono che la tiroidite linfocitaria potesse favorire lo sviluppo della neoplasia. Tuttavia, ancora ora, esistono teorie discordanti: la tiroidite cronica linfocitaria è associati a un tasso più alto di insorgenza di carcinoma papillare ma alcuni tumori con infiltrato infiammatorio cronico mostrano un andamento scarsamente aggressivo e un minore tasso di recidive e metastasi (Matsubayashi, 1995; Fiumara, 1997).

Più recentemente sono state individuate interessanti correlazioni tra carcinoma tiroideo ed altri elementi infiammatori come le mast cells, i macrofagi o le chemochine. Le prime, localizzate soprattutto a livello peritumorale, sembrerebbero stimolare la proliferazione, la sopravvivenza e la capacità d’invasione locale delle cellule neoplastiche (Melillo, 2005); i macrofagi, in particolare la classe dei TAM (macrofagi-tumore-associati), in sede intratumorale, sembrerebbero favorire anch’essi la crescita tumorale, l’angiogenesi e le metastasi a distanza (Mantovani, 2006).

Per le chemochine, infine, si ipotizza un ruolo non ancora definito nella progressione tumorale (Melillo, 2005).

Nel nostro studio abbiamo valutato l’infiltrato infiammatorio, i suoi costituenti cellulari e l’espressione dei loro prodotti in un’ampia casistica di carcinomi tiroidei differenziati e indifferenziati.

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2. La tiroide

La prima descrizione della ghiandola tiroidea è attribuita a Galeno (120-200 A.D.). Data la vicinaza dell’organo alla cartilagine tiroidea, Thomas Warthon (1641-1673) coniò il termine tiroide, mentre la derivazione etimologica è dal greco “thyros”, “scudo”, in quanto si riteneva fosse nata per proteggere la laringe (Medvei, 1998; Murray, 1998). Recenti ricerche evidenziano un notevole interesse per i disordini tiroidei già presso la Scuola Medica Salernitana di epoca medievale (XII sec.).

Il termine “gozzo” deriva dal latino “gutter”, che significa gola. Gli antichi cinesi, che lo trattavano con alghe marine e spugne bruciate (anche se non si ritiene fossero a conoscenza del ruolo dello iodio nella terapia), probabilmente lo avevano già identificato nosologicamente (Medvei, 1998; Murray, 1998).

King fu il primo studioso a descrivere la funzione endocrina della ghiandola tiroide nel 1836; Parry riconobbe, invece, l’associazione tra ipertiroidismo e gozzo nel 1786; Graves ne approfondì gli studi nel 1836; e infine, nel 1840, Von Basedow individuò l’associazione tra gozzo, palpitazioni ed esoftalmo.

Graves e Basedow infine, dettero il nome a una forma di ipertiroidismo su base autoimmune: il primo nei paesi anglosassoni e in Nord America e il secondo nel resto dell’Europa (Medvei, 1998; Murray, 1998; Parry, 1986; LiVolsi, 1990).

2.1 Lo sviluppo della tiroide

La tiroide ha origine dalla fusione, durante l’embriogenesi, di un abbozzo mediano e di due abbozzi laterali. L’abbozzo mediano discende dal forame cieco della lingua fino alla regione anteriore del collo, formando il dotto tireoglosso (Foto 1) (Hoyes, 1985; Kingsbury, 1935). Generalmente il dotto si oblitera a 6 settimane dalla nascita; tuttavia la sua porzione caudale può persistere e dare origine al lobo piramidale, presente in circa il 75% delle tiroidi mature (Murray, 1998; Hoyes, 1985). L’abbozzo laterale deriva dal quarto e quinto arco branchiale e contiene il corpo ultimobranchiale con le cellule C parafollicolari (Kingsbury, 1935; William, 1989).

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I follicoli tiroidei appaiono microscopicamente al momento dello sviluppo dei lobi laterali. Quando l’embrione ha una lunghezza di circa 6 cm, questi follicoli possono cominciare a sviluppare colloide. Al terzo mese le cellule follicolari cominciano a captare iodio e inizia la secrezione di ormone tiroideo. Le cellule C, produttrici di calcitonina, migrano nei due terzi superiori e laterali dei lobi tiroidei e sono distribuite tra i follicoli. Nell’adulto rimangono limitate alle aree superiori e mediane della ghiandola, di solito nelle porzioni posteriori e mediane. Le cellule C sono gli unici componenti della ghiandola adulta ad avere origine endodermica (Henry, 1997).

Le anomalie di migrazione durante la vita fetale sono rare: la più frequente è la persistenza di tessuto tiroideo alla sua stazione iniziale, alla base della lingua (tiroide linguale). Tessuto tiroideo può essere presente lungo il dotto tireoglosso, dando eventualmente origine a una cisti, generalmente localizzata lungo la linea mediana al di sotto dell’osso ioide, nel neonato o nella prima infanzia. La cisti del dotto tireoglosso può essere sede di complicanze come l’infezione e la fistolizzazione o, raramente, può costituire la sede di insorgenza di un carcinoma papillare derivante da tessuto tiroideo presente nelle sue pareti (Murray, 1998; Hoyes, 1985).

La più comune anomalia di sviluppo della tiroide, causa di ipotiroidismo congenito, è l’aplasia o ipoplasia della ghiandola (Fisher, 1981).

Le localizzazioni aberranti del tessuto tiroideo sono molto rare e derivanti da un’anomala discesa dell’organo: sono osservabili nella trachea, nella laringe, nella regione retro-sternale e nel grasso o nei muscoli del collo (Kaplan, 1978; Chanin, 1988). La tiroide linguale è l’aberrazione di sede più frequente e talora può anche essere l’unica tiroide presente nel paziente (Baughman, 1972; Neinas, 1973).

D’altra parte all’interno del tessuto tiroideo si possono trovare elementi tissutali ectopici, ad esempio propri delle paratiroidi, delle ghiandole salivari o del timo (Carpenter, 1976; Weller, 1933). Da tali strutture, alcuni autori ritengono possano avere origine rari tumori tiroidei, come il carcinoma mucoepidermoidale, il carcinoma squamoso o il carcinoma con differenziazione simil-timica (Weller, 1933).

La presenza di tessuto tiroideo in un linfonodo deve essere sempre considerata come una metastasi di un carcinoma tiroideo differenziato (Murray, 1998; Butler, 1965). Tuttavia, alcune inclusioni di tessuto tiroideo nel tessuto linfonodale sono state attribuite ad anomalie embriologiche di migrazione (Murray, 1998) o si ritiene siano dovute al trasporto di tessuto tiroideo normale attraverso i linfatici (Roth, 1965; Gerard-Marchant, 1964).

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2.2 Anatomia della ghiandola tiroidea normale

La ghiandola tiroidea normale è composta da due lobi uniti da un istmo e rivestiti da una capsula. La capsula, da cui hanno origine canali venosi di notevoli dimensioni, è in continuazione con la fascia pretracheale, che la ancora alla cartilagine cricoide; tali rapporti sono responsabili dei movimenti che la ghiandola compie durante la deglutizione.

Il normale peso della tiroide è variabile a seconda che l’area geografica considerata sia una zona a endemia gozzigena o meno. Nel primo caso il peso medio è compreso tra 15 e 35 g, altrimenti è di 10-20 g (Murray, 1998; Klinck, 1964, Rosai, 1992).

Il parenchima ghiandolare è suddiviso da delicati setti fibrosi in lobuli. Ciascun lobulo è composto di 20-40 unità funzionali, dette follicoli, ed è vascolarizzato da un’arteria lobulare. Da tali arterie hanno origine vasi di calibro minore che si connettono alla rete capillare, che, insieme ai linfatici, circonda i singoli follicoli.

I follicoli sono sfere ripiene di colloide, prevalentemente formata da tireoglobulina, circondate da uno strato di cellule epiteliali cuboidali, il cui nucleo, rotondo, contiene cromatina omogenea. Un’unica membrana basale circonda un intero follicolo (Foto 2.) (Murray, 1998; Klinck, 1964; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990).

Nella colloide possono essere trovati cristalli di ossalato di calcio, sia nella tiroide normale che nella ghiandola patologica, con una tendenza ad aumentare in numero col crescere dell’età (Murray, 1998; MacMahon, 1968; Reid, 1987).

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Le cellule C sono generalmente localizzate alla base dei follicoli, separate dalla colloide dalle cellule follicolari. Sono difficili da riconoscere con le colorazioni abituali e sono messe facilmente in evidenza mediante immunoistochimica con anticorpi anti-CT (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Gibson, 1989; Gibson, 1982; Wolfe, 1975). Alla microscopia elettronica tali cellule appaiono ricche di granuli neurosecretori contenenti calcitonina (Heimann, 1966; Klinck, 1970).

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3. Neoplasie della tiroide

I tumori della tiroide possono essere classificati in neoplasie primitive (epiteliali e non epiteliali) e neoplasie secondarie (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Hedinger, 1988). I tumori epiteliali primitivi hanno origine sia dalle cellule follicolari che dalle cellule “C” parafollicolari.

Il cancro della tiroide non è molto comune, poiché costituisce l'1-2% di tutti i tumori, con un'incidenza di 4,1 casi ogni 100.000 abitanti per gli uomini e 12,5 nuovi casi ogni 100.000 abitanti per le donne. Secondo stime del Registro tumori italiano, nel 2012 sono stati diagnosticati 3.200 tumori tiroidei nei maschi e 10.900 nelle femmine (AIRC, 2014). La sopravvivenza è molto elevata (oltre il 90% a 5 anni dalla diagnosi nelle forme differenziate). Questa bassa mortalità è dovuta alla scarsa aggressività del carcinoma papillare, che è la neoplasia tiroidea più frequente. Altri tumori tiroidei, invece, come ad esempio il carcinoma anaplastico, hanno un comportamento molto più aggressivo e causano la morte del paziente generalmente entro un anno dalla diagnosi (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Ron, 1982; Taylor, 1979).

La maggior parte dei tumori primitivi epiteliali hanno origine dalle cellule follicolari. Questi comprendono: l’adenoma e il carcinoma follicolare, il carcinoma papillare, il carcinoma insulare, i carcinomi poco differenziati e il carcinoma anaplastico.

Gli altri tumori primitivi di derivazione epiteliale sono il carcinoma midollare, derivante dalle cellule “C” parafollicolari, i tumori misti che hanno origine sia da cellule follicolari che da cellule “C” e infine neoplasie più rare, come il carcinoma squamoso.

I tumori non-epiteliali sono molto rari; i più frequenti in questa categoria sono i linfomi maligni e alcuni tumori di origine mesenchimale.

Infine, si possono verificare metastasi tiroidee che possono simulare un tumore primitivo (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Hedinger, 1988).

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3.1 I tumori maligni

I carcinomi tiroidei clinicamente evidenti costituiscono meno dell’1% di tutte le neoplasie umane e sono raramente causa di morte (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Ron, 1982; Taylor, 1979; LiVolsi, 1996). L’incidenza del cancro tiroideo è lentamente aumentata nelle ultime tre decadi, in particolare nei paesi sviluppati. Negli Sati Uniti l’icindenza di tali neoplasie è aumentata più rapidamente che quella di qualsiasi altro tumore. Circa 60,000 nuovi casi sono attesi, con una frequenza tre volte più alta nel sesso femminile (American Cancer Society; 2012). Tale incremento, prevalentemente dovuto al carcinoma papillare, è stato inizialmente attribuito all’uso di strumenti diagnostici come gli ultrasuoni, la tomografia computerizzata e l’agoaspirato. Tuttavia, l’osservazione dell’aumento dei carcnomi papillari di qualunque dimensione e stadio, ha messo in discussione la precedente ipotesi e supportato il ruolo di fattori ambientali, anche se non ancora identificati (Davies, 2006; Chen 2009; Enewold 2009).

L’incidenza media negli uomini è del 48% mentre nelle donne è del 66.7% (Kilfoy, 2009). Questo dato è valido soprattutto per la popolazione adulta, la preponderanza nelle donne non è così marcata tra le persone anziane, in cui è stato invece dimostrato che i noduli tiroidei tendono a essere maligni con maggior frequenza negli uomini (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; LiVolsi, 1996).

Solitamente i tumori ben differenziati sono più frequenti nei giovani adulti, mentre le forme a minore differenziazione e i carcinomi anaplastici colpiscono per lo più in età avanzata (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; LiVolsi, 1996; Hedinger, 1988). Le neoplasie ad alto grado di differenziazione sono note per l’atteggiamento di relativa benignità e per l’eccellente prognosi: la sopravvivenza a 5 anni è del 100% e a 10 anni del 94% (Papageorgiou, 2010). Tubiana et al. hanno monitorato 546 pazienti con carcinomi tiroidei differenziati per un periodo di 8-10 anni e hanno osservato che l’età al momento della diagnosi risulta uno dei fattori prognostici più importanti. Tumori diagnosticati in pazienti di età inferiore ai 45 anni hanno recidive minori e una sopravvivenza totale maggiore. Gli altri fattori prognostici sono l’istologia del tumore, il sesso e la presenza di interessamento linfonodale (Tab.1).

Il carcinoma anaplastico è un tumore ad alto grado di malignità e a rapida crescita che, anche in caso di terapie molto aggressive, permette una sopravvivenza superiore a 1 anno solo nel 5% dei pazienti (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Carcangiu, 1985)

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Nonostante siano stati proposti diversi modelli di classificazione dei tumori tiroidei esiste un gruppo di neoplasie che ancora non ha trovato una precisa collocazione; sono i cosiddetti tumori scarsamente differenziati. Si tratta di neoplasie che hanno una probabile derivazione follicolare e che presentano la perdita di specifici patterns morfologici; il loro comportamento clinico si colloca a livello intermedio tra i tumori ben differenziati e il carcinoma anaplastico (Sakamoto, 1983).

Tabella 1

3.2 Il carcinoma papillare della tiroide

Il carcinoma papillare della tiroide (PTC) è il più comune tumore maligno della ghiandola, costituendo quasi l’80% dei casi nelle zone di non endemia gozzigena (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; LiVolsi, 1996; Meissner, 1958; Vickery, 1985; Vickery, 1983; Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1985). Nei paesi occidentali il carcinoma papillare rappresenta l’85.3% delle neoplasia maligne tiroidee negli individui di razza caucasica e il 72.3% negli afroamericani. In Giappone in base a dati riportati nel 2004 dalla Societàdei Chirurghi Endocrini, il carcinoma papillare costituisce il 93% di tutti i carcinomi tiroidei (Ito, 2009).

I carcinomi papillari rappresentano inoltre la maggior parte dei tumori tiroidei dell’età pediatrica (Murray, 1998; LiVolsi, 1990). Raramente forme di cancro papillare sono state diagnosticate come forme congenite e sempre più frequentemente si sta rendendo evidente la predisposizione familiare per questo tipo di neoplasia (Stigt, 1996; Luppoli, 1999).

Il PTC è un tumore solitamente dal comportamento indolente, che permette una lunga sopravvivenza libera da malattia e un’alta probabilità di guarigione (LiVolsi, 1990;

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Meissner, 1958; Vickery, 1985; Vickery, 1983; Mazzaferri, 1977). Tuttavia, alcune varianti istologiche assumono un comportamento più aggressivo, sviluppando metastasi a distanza e divenendo, in alcuni casi, causa di morte del soggetto colpito (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; Mazzaferri, 1977; Rosai, 1992). Generalmente la via preferenziale di metastatizzazione del carcinoma papillare è quella linfatica; si può, però, anche avere invasione vascolare, in particolare in caso delle varianti a cellule alte e follicolare (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; Mazzaferri, 1977; Rosai, 1992).

3.2.1 Fattori di rischio per lo sviluppo del carcinoma papillare

La maggior parte dei tumori papillari tiroidei è di origine sporadica; i casi con familiarità hanno destato interesse negli ultimi anni.

Tra i fattori di rischio connessi all’insorgenza del PTC ritroviamo: l’esposizione alle radiazioni ionizzanti, una dieta ad alto contenuto di iodio, patologie tiroidee benigne preesistenti, fattori ormonali e predisposizione ereditaria.

Le radiazioni ionizzanti

L’esposizione alle radiazioni ionizzanti rappresenta il fattore di rischio più conosciuto per lo sviluppo del carcinoma papillare.

L’esposizione del soggetto può derivare da cicli di radioterapia per il trattamento di patologie benigne e maligne ma può anche rappresentare il risultato dell’uso di armi nucleari o di incidenti nucleari, come nel caso dell’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986, in seguito al quale si riscontrarono 4000 casi di carcinoma papillare nei soggetti esposti al radioiodio durante l’infanzia (Kinley, 2005; Cardis,2006).

Il carcinoma papillare tiroideo indotto da radiazioni presenta spesso un modello di crescita solido (variante solida del carcinoma papillare) (Nikiforov, 2006).

I meccanismi molecolari alla base della carcinogenesi radiazione-associata si risolvono principalmente in forme di riarrangiamento cromosomico come RET/PTC, stimolato dall’assimilazione eccessiva di iodio; invece mutazioni puntiformi, quali BRAF e RAS, sono rare in tumori che originano in questo modo (Ciampi, 2005; Nikiforov, 1997).

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L’incidenza del carcinoma papillare appare maggiore nelle regioni con un alto apporto di iodio nella dieta, come in Islanda, in Giappone e nelle isole del Pacifico (Franceschi, 1993; Goodman, 1988).

Patologie tiroidee benigne preesistenti

La presenza di un adenoma tiroideo o di gozzo multinodulare aumenta il rischio di carcinoma tiroideo rispettivamente di 29 e di 9 volte (D’avanzo,1995; Franceschi, 1999). I meccanismi genetici alla base dell’associazione tra patologie tiroidee benigne e carcinoma papillare non sono ancora completamente chiariti; le mutazioni del gene RAS, spesso presenti nell’adenoma tiroideo, come l’ iperplasia cellulare, caratteristica di alcuni noduli nel gozzo multinodulare, potrebbero predisporre alla trasformazione maligna (Williams,1995).

Rimane ancora oltremodo controversa l’associazione tra carcinoma papillare e due patologie tiroidee benigne, quali il Morbo di Graves e la tiroidite di Hashimoto (Walker,1990).

Fattori ormonali

Alcuni studi hanno rilevato un lieve incremento del rischio di carcinoma papillare nelle donne che vanno incontro ad aborto spontaneo nel corso della prima gravidanza, così come in quelle con menopausa indotta artificialmente e in quelle che fanno uso di contraccettivi orali (Franceschi, 1993).

Fattori ereditari

Il rischio di sviluppare il carcinoma papillare tiroideo è da 5 a 9 volte più alto, rispetto alla popolazione generale, nei soggetti con parenti di primo grado che hanno avuto un carcinoma tiroideo (Ron E, 1987; Hemminki, 2005; Harach, 2001).

I carcinomi papillari familiari rientrano nel contesto di sindromi ereditarie “multicancerose” oppure possono essere inquadrati in multipli casi di carcinoma papillare tiroideo nello stesso contesto familiare.

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Le neoplasie familiari risultano più comunemente multifocali e si presentano in associazione con la patologia tiroidea nodulare benigna, ma tipicamente non differiscono dai tumori tiroidei sporadici (Charkes, 1998; Charkes, 2006).

Per le forme familiari sono stati identificati e mappati diversi loci, le cui alterazioni potrebbero essere all’origine del tumore, anche se i geni corrispondenti non sono stati ancora identificati. Tali loci sono: un locus sul cromosoma 19p13.2, legato al carcinoma papillare; un altro sul cromosoma 1q21, legato al carcinoma papillare tiroideo, associato al carcinoma papillare tiroideo renale; un locus sul cromosoma 2q21 legato al carcinoma tiroideo familiare che insorge su un gozzo multinodulare (Burgess, 1997; McKay, 2001).

3.2.2 Patologia

Il PTC può avere varie dimensioni (Meissner, 1958; Vickery, 1985; Vickery, 1983; Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1985) variando da meno di un centimetro, il cosiddetto microcarcinoma, a grandi tumori che si estendono oltre i confini della ghiandola (Vickery, 1983; Carcangiu, 1985; Chan, 1990). I tumori di maggiori dimensioni tendono a essere più frequenti nel sesso femminile rispetto al maschile (Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1985).

All’esame macroscopico il tumore può presentarsi come irregolari aree di scarificazione dovute alla fibrosi intratumorale, come un nodulo solido, come tumori misti (solidi e cistici) o totalmente cistici. Si possono riscontrare evidenti calcificazioni (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1985). Microscopicamente il carcinoma papillare può presentare tre diversi patterns di crescita: il PTC mostra tre differenti patterns di crescita:

• pattern caratterizzato dalla presenza di papille composte da un asse fibrovascolare centrale delineato dalle cellule tumorali;

• pattern di crescita unicamente follicolare: microfollicolare, macrofollicolare o un insieme di entrambi i quadri;

• pattern di crescita con aspetti papillari e follicolari (Meissner, 1958; Carcangiu, 1985; Chan, 1990). (Foto 3) (Meissner, 1958; Vickery, 1985; Vickery, 1983; Rosai, 1983; Carcangiu, 1985).

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Patterns di crescita del carcinoma papillare della tiroide A pattern papillare; B pattern follicolare; C pattern misto

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Secondo la WHO la diagnosi istologica del PTC è esclusivamente basata sulle caratteristiche nucleari; in questo modo una neoplasia che abbia tali peculiarità citologiche può essere classificata come PTC indipendentemente dal suo pattern di crescita (Hedinger, 1988). Le cellule del carcinoma papillare hanno una forma ovale ed allungata, dovuta alle alterazioni nucleari che essenzialmente sono:

• la presenza di nuclei otticamente vuoti con aspetto “a vetro smerigliato”; • incisure nucleari;

• pseudoinclusioni nucleari; • polimorfismo nucleare

Alcuni autori hanno suggerito che le modificazioni della cromatina e le alterazioni perinucleari potrebbero essere responsabili dell’aspetto a vetro smerigliato che i nuclei cellulari assumono (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Hapke, 1979; Johannessen, 1978; Echverria, 1986). Ulteriori caratteristiche nucleari tipiche sono le incisure (o grooves), ripiegamenti della membrana nucleare disposti generalmente lungo l’asse maggiore del nucleo e che conferiscono allo stesso nucleo l’aspetto tipico “a chicco di caffè”, e le pseudoinclusioni nucleari, cioè invaginazioni citoplasmatiche, visibili al microscopio come otticamente vuote e a margini netti (Chan, 1986; Deligeorgi-Piloti, 1987; Scopa, 1993).

Nei carcinomi papillari, soprattutto in quelli con un quadro di crescita papillare, si possono rinvenire strutture calcifiche, lamellari e concentriche, conosciute con il nome di corpi psammomatosi (Meissner, 1958; Vickery, 1985; Vickery, 1983; Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1989; Chan, 1986). Elementi analoghi sono stati riscontrati nei tumori follicolari benigni e in altre condizioni anch’esse benigne (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990).

I corpi psammomatosi originano dalla deposizione di calcio all’interno delle cellule infartuate presenti all’apice delle papille e sono il risultato di ripetuti cicli di necrosi cellulare neoplastica seguita della deposizione di calcio (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Rosai, 1983). Attorno ai corpi psammomatosi sono stati identificati macrofagi esprimenti osteopontina-mRNA, che potrebbe avere un ruolo nello sviluppo di queste strutture (Tunio, 1998).

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I PTC possono avere un pattern di crescita infiltrativo, solitamente evidente alla periferia della massa tumorale e in genere associato a fibrosi (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Rosai, 1983). Nel 45% dei PTC può essere osservata una differenziazione squamosa (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Rosai, 1983). Un infiltrato linfocitario generalmente diffuso, può essere osservato in corrispondenza del fronte invasivo del tumore; talvolta può essere esteso. Il ruolo dell’infiltrato non è chiaro, ma in genere si ritiene che rappresenti la risposta dell’ospite nei confronti del tumore, come visto in altre neoplasie (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; LiVolsi, 1992).

Il carcinoma papillare, in genere, diffonde per via linfatica all’interno e al di fuori della ghiandola (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; LiVolsi, 1992). Mentre alcuni patologi ritengono che la diffusione linfatica intraghiandolare sia responsabile

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della frequente presentazione multicentrica del tumore papillare, altri autori credono che i singoli foci tumorali possano avere origine da cloni differenti (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; Rosai, 1992; Giannini 2007).

Metastasi linfonodali locoregionali per cancro papillare possono essere trovate in una percentuale compresa tra il 42 e il 90% dei pazienti (Mazzaferri, 1977). L’invasione vascolare riguarda non più del 7% dei casi e metastasi a distanza, all’osso e al polmone prevalentemente, si riscontrano nel 5-7% dei casi (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; Hoie, 1988; Ruegemer, 1988).

3.2.3 Varianti del carcinoma papillare tiroideo

L’elemento diagnostico fondamentale del carcinoma papillare sono le caratteristiche nucleari (Meissner, 1958; Vickery, 1985; Vickery, 1983; Hapke, 1979; Chan, 1986; Deligeorgi-Piloti, 1987; LiVolsi, 1992). Le varianti istologiche del PTC sono state descritte sulla base dell’architettura, del tipo cellulare, delle dimensioni e della forma e, infine, dello stroma del tumore. Alcune di queste varianti hanno un atteggiamento indolente, altre seguono, invece, un corso più aggressivo (variante a cellule alte, a cellule colonnari e la trabecolare) (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Ron, 1982; LiVolsi, 1996; Hedinger, 1988).

La variante più rappresentativa è la classica, i cui componenti cellulari rispecchiano appieno le caratteristiche citoistologiche del carcinoma papillare.

Variante follicolare

La variante follicolare del PTC (FVPTC) è la più comune variante istologica di questa neoplasia dopo la variante classica (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Ron, 1982; Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1989; Chan, 1990). Il suo comportamento clinico è analogo a quello convenzionale del PTC (LiVolsi, 1996; Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1989); tuttavia, alcuni autori, hanno descritto per questa neoplasia una maggior frequenza di metastasi a distanza. Da un punto di vista istologico è caratterizzata dalla presenza di follicoli delimitati da cellule che hanno le caratteristiche nucleari proprie del carcinoma papillare (Foto 5B). Il pattern di crescita

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tumori possono essere completamente circondati da una sottile capsula con calcificazioni distrofiche, mentre altri presentano aree di crescita in cui la capsula è assente, alternate ad altre capsulate (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Ron, 1982; LiVolsi, 1996).

L’FVPTC può, talvolta, non avere un’omogenea distribuzione delle anomalie nucleari, in alcune cellule queste possono mancare (Rosai, 1992). Nel caso di questa distribuzione multifocale, le aree in cui i nuclei assumono il classico aspetto del PTC sono prevalentemente quelle prossime alla capsula. In questi casi la probabilità che il carcinoma non venga riconosciuto come tale alla diagnosi istologica è ovviamente maggiore, con il rischio che sia confuso con un adenoma o un carcinoma follicolare. Di fronte a questa possibilità si può fare diagnosi di certezza di FVPTC valutando il pattern citocheratinico che lo distingue dalle altre neoplasie con cui entra in diagnosi differenziale (Baloch, 1999; Rapheal, 1994; Fonseca, 1997).

Variante a cellule alte

La variante a cellule alte del PTC interessa prevalentemente le età più avanzate e predilige, di gran lunga, il sesso maschile. Spesso si tratta di lesioni estese (più di 5 cm). E’ formata da strutture papillari rivestite da cellule allungate (l’altezza è almeno doppia rispetto alla larghezza), con citoplasma eosinofilo e caratteristiche nucleari proprie del

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PTC (Foto 6) (Rosai 1992; LiVolsi 1990; Flint 1991; Ostrowski 1996). L’esame ultrastrutturale mostra un aumento dei mitocondri, anche se non tale da paragonarlo a quello osservabile nelle cellule di Hürtle (Rosai, 1992; LiVolsi 1990; Flint 1991).

Il profilo antigenico delle cellule di questa variante è simile a quello della forma classica: positivo per tireoglobulina e citocheratina, soprattutto la citocheratina-19, e negativo per la calcitonina. La variante a cellule alte ha un atteggiamento più aggressivo del PTC convenzionale: maggiori dimensioni alla diagnosi, maggiore propensione a uno sviluppo extratiroideo, invasione vascolare, recidive, sopravvivenza libera da malattia di minor durata, metastasi a distanza e una mortalità di circa il 25% (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Flint, 1991; Ostrowski, 1996). Non è però stato chiarito se questo atteggiamento sia dipendente dal tipo di paziente che solitamente sviluppa questa variante (pazienti anziani) o se invece dipenda dalla proprietà intrinseche della neoplasia (p53 e modificazioni del cromosoma 2).

Variante a cellule ossifile

Le neoplasie oncocitiche papillari della tiroide sono rare varianti morfologiche dei tumori tiroidei (Beckner, 1995; Sobrinho-Simoaes, 1985; Wu, 1991; Berger, 1998). Non

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si è giunti, fino a ora, a un totale accordo su quali tumori includere in questa categoria (Sobrinho-Simoaes, 1985; Wu, 1991).

Due neoplasie sono state descritte sotto questa dicitura: la variante oncocitica del PTC e la neoplasia a cellule di Hürtle (Beckner, 1995; Sobrinho-Simoaes, 1985; Wu, 1991; Berger, 1998). Il PTC oncocitico o a cellule ossifile è una forma di cancro in cui le cellule tumorali presentano una marcata eosinofilia citoplasmatica associata alla caratteristiche nucleari proprie del PTC (Beckner, 1995; Sobrinho-Simoaes, 1985; Wu, 1991). La maggior parte di questi tumori hanno un’architettura papillare e una crescita minimamente o non invasiva. L’atteggiamento di tale variante è paragonabile a quello della forma classica (Murray, 1998; Rosai, 1992; Beckner, 1995; Sobrinho-Simoaes, 1985; Wu, 1991). Sono, in ogni caso, tumori molto rari.

I carcinomi papillari a cellule di Hürtle (a cellule ossifile) hanno una crescita papillare, ma mancano le tipiche anomalie nucleari. Sono lesioni povere di stroma; per questa ragione la manipolazione chirurgica e il campionamento patologico della neoplasia possono causare una suddivisione del tumore in strutture cordonali che simulano un pattern papillare (LiVolsi, 1990).

Se è presente una capsula, non c’è infiltrazione e mancano le modificazioni dei nuclei cellulari, la neoplasia può essere confusa con una lesione benigna. Per questo la diagnosi di malignità non può esclusivamente basarsi sugli aspetti papillari, ma deve essere accertata sulla base dell’invasione capsulare e vascolare (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; LiVolsi, 1996).

Variante Warthin-like

Questa variante del PTC è istologicamente simile al tumore di Warthin delle ghiandole salivari (Apel, 1995). In genere è una neoplasia associata a tiroidite linfocitaria; è caratterizzata da una crescita circoscritta, architettura papillare, eventuale presenza di formazioni cistiche centrali, cellule tumorali con citoplasma eosinofilo e granulare, nuclei con le peculiarità del PTC e un infiltrato linfoplasmocitario all’interno delle papille (Foto 7). Clinicamente il decorso di queste neoplasie è sovrapponibile a quello del carcinoma papillare variante classica (Apel, 1995).

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Variante simil-fascite nodulare

La sclerosi tumorale nel PTC è un elemento di frequente riscontro (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Ron, 1982; Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1985). Generalmente si localizza al centro del tumore o nella porzione di invasione; in alcuni casi può, però, essere estesa e sostituire la gran parte della massa tumorale (Rosai, 1983; Carcangiu, 1985; Carcangiu, 1989).

Una rara variante del carcinoma papillare è caratterizzata dalla presenza esclusiva di una componente stromale a fascite. A piccolo ingrandimento questo tumore assomiglia a un fibroadenoma o a un tumore filloide della mammella. Le cellule neoplastiche sono solitamente organizzate in cordoni anastomizzati, tubuli e papille, hanno le caratteristiche nucleari proprie del carcinoma papillare e possono avere vari gradi di metaplasia squamosa. La componente stromale è simile a quella osservata in caso di fascite nodulare e formata da cellule fusate organizzate in fasci irregolari nel contesto di uno stroma fibromixoide vascolarizzato (Chan, 1991; Terayama, 1997).

Clinicamente questi tumori sono paragonabili ai PTC classici; nelle metastasi linfonodali si trovano solo elementi carcinomatosi senza stroma.

La risposta fibroblastica reattiva è limitata alla tiroide ed è probabilmente l’espressione della risposta dell’ospite contro il tumore (Chan, 1991; Terayama, 1997).

La diagnosi differenziale va posta con lesioni fibroproliferative benigne della tiroide, come una tiroidite di Hashimoto fibrosante o una tiroidite di Reidel, ma anche con un carcinoma anaplastico (Chan, 1991). Nella tiroidite di Hashimoto c’è un diffuso coinvolgimento della ghiandola con formazioni linfoidi follicolari, fibrose e metaplasia a cellule di Hürtle (Katz, 1974). Le cellule follicolari possono presentare una rarefazione reattiva della cromatina confondibile con un tipico aspetto del PTC (Berho, 1995). Le

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modificazioni nucleari, in genere, coinvolgono esclusivamente le cellule follicolari che circondano o infiltrano i follicoli linfoidi. Se presenti i foci neoplastici sono, perlopiù, associati a fibrosi, possono avere una crescita invasiva alle estremità e sono percorsi o largamente sostituiti dall’infiltrato linfocitario (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Berho 1995).

Nella tiroidite di Reidel c’è fibrosi, infiammazione cronica, flebite e l’estensione del processo fibroinfiammatorio oltre la capsula tiroidea (Rose, 1961).

Le cellule stromali nel PTC con stroma a tipo fascite nodulare sono negative per citocheratina e positive per vimentina, actina muscolo liscio e desmina. Da questo si deduce la natura miofibroblastica della componente stromale, permettendo di distinguere tali elementi delle cellule fusate proprie del carcinoma anaplastico, che sono positive per la citocheratina (Chan, 1991; Terayama, 1997).

Variante cribriforme

Il PTC cribriforme è una rara variante del carcinoma papillare della tiroide ed è stata descritta anche nell’1-2% dei pazienti con poliposi adenomatosa familiare (Stigt, 1996). Sono tumori che interessano prevalentemente il sesso femminile. Sono multifocali, solidi cribriformi e/o con un pattern di crescita a cellule fusate (Hizawa, 1996; Cetta, 1998); sono descritti tra i PTC a causa della presenza delle tipiche alterazioni nucleari e della immunoreattività alla tireoglobulina (Stigt, 1996). In circa il 10% dei casi si possono verificare metastasi a distanza. Tutti i pazienti hanno mutazioni della linea germinale associate alla poliposi adenomatosa del colon; può essere anche presente l’attivazione di RET/PTC (Cetta, 1998). Non è ancora stata chiarita se esista e di che tipo sia la relazione tra tali mutazioni. Raramente questi tumori possono presentarsi in forma sporadica, non associati a poliposi (Hizawa, 1996).

Variante sclerosante diffusa

Il carcinoma papillare nella variante sclerosante diffusa è frequente nei bambini e negli adolescenti (Carcangiu, 1989; Gomez-Morales, 1991).

Istologicamente determina un diffuso coinvolgimento della tiroide; sono elementi diagnostici aggiuntivi l’intensa sclerosi, l’estesa metaplasia squamosa, l’infiltrato linfocitario denso e raggruppato, l’abbondanza di corpi psammomatosi e la ricca

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invasione linfatica (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Carcangiu, 1989) responsabile della presenza, quasi nella totalità dei pazienti, di metastasi linfonodali. Nel 25% dei casi sono presenti metastasi polmonari. Nonostante l’alta incidenza di metastasi, l’atteggiamento clinico complessivo di questa neoplasia è, secondo alcuni studi, simile a quello di altre varianti del PTC (Schroder, 1990).

Da un punto di vista immunoistochimico tale tumore presenta densi infiltrati di cellule dendritiche/Langerhans positive per la proteina S-100. Tale infiltrazione sarebbe responsabile della prognosi favorevole (Schroder, 1990).

Variante colonnare

I carcinomi a cellule colonnari sono tumori con caratteristiche istologiche di tipo papillare e con stratificazione nucleare (Foto 8) (Evans, 1986).

Hanno un atteggiamento aggressivo, con tendenza all’estensione extraghiandolare, alla determinazione di metastasi linfonodali e a distanza e causa, solitamente, di exitus del paziente (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990). Se però, al momento della diagnosi, la neoplasia è capsulata e confinata alla tiroide, il suo decorso clinico è per lo più favorevole.

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3.2.4 Citologia del carcinoma papillare tiroideo

In quasi tutte le sue varianti il carcinoma papillare della tiroide ha cellule organizzate in papille, gruppi tridimensionali o, talvolta, presenti come elementi singoli. Negli spazi pericellulari possono trovarsi residui di colloide o residui calcifici, detriti nucleari, macrofagi o frammenti di tessuto stromale (Kini, 1996). La colloide nel PTC è generalmente poco rappresentata e organizzata in depositi ovalari (Kini, 1996). I macrofagi possono essere presenti in numero variabile; sono prevalentemente correlati al tumore, ma si possono trovare insieme a componenti cistiche (Kini, 1996). I frammenti stromali sono dei cordoni di materiale eosinofilo circondanti o interposti alle cellule. Ci sono, inoltre, casi in cui si può osservare un’intensa sclerosi intra e peri tumorale (Kini, 1996).

La diagnosi di PTC dipende dalla dimostrazione delle caratteristiche nucleari (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Hapke, 1979; Johannessen, 1978). Le cellule tumorali sono solitamente di forma ovale, con nuclei allungati, membrane sottili, scarsa cromatina, “grooves” e pseudoinclusioni nucleari. I nucleoli sono piccoli ed eccentrici (Foto 9).

Le “grooves” e le pseudoinclusioni possono essere presenti sia in patologie benigne della tiroide, come la tiroidite di Hashimoto, il gozzo nodulare, l’adenoma trabecolare, che in altre patologie maligne, come i tumori a cellule di Hürtle o il carcinoma midollare (Kini, 1996)

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3.2.5 Immunoistochimica del carcinoma papillare tiroideo

Quasi tutti i carcinomi papillari esprimono la tireoglobulina (Baloch, 1999; Buley, 1987; Rapheal, 1994; Fonseca, 1997; Dockhorn-Dvornickzak, 1987). Molti studi hanno dimostrato che i PTC hanno un profilo di espressione delle citocheratine diverso da quello della tiroide normale e di altre lesioni di derivazione follicolare. La citocheratina-19, ad esempio, può essere utilizzata per distinguere tale neoplasia da un’iperplasia papillare, da un adenoma follicolare o da un carcinoma (Baloch, 1999; Rapheal, 1994; Fonseca, 1997). Tuttavia questa citocheratina è anche espressa in foci di metaplasia squamosa e in cellule in degenerazione che si possono ritrovare all’interno di noduli benigni e nella tiroidite di Hashimoto (Baloch, 1999). Altri antigeni studiati nel carcinoma papillare sono S-100, marcatori neuroendocrini, recettori degli estrogeni, α e β integrine, CD44, CD57, CA125, HBME-1 e l’α1-antitripsina (Sack, 1997; Bounacer, 1997; Nishimura, 1997; Khan, 1998; Gu, 1998; Ensinger, 1998). Questi rappresentano solo una parte dei numerosi marcatori utilizzati nell’analisi immunoistochimica del PTC. Tuttavia nessun marker è stato identificato come specifico del PTC; pertanto l’indagine morfologica rimane ancora il cardine della diagnosi di questo tumore. Nelle lesioni neoplastiche maligne la Galectina

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3, l’HBME-1 e la citocheratina 19 sono diffusamente espressi e l’uso combinato di questi marcatori può essere molto utile nella diagnsoi differenziale. Sebbene la focale positività di questi markers sia stata riscontrata anche in lesioni benigne, una positività diffusa è apprezzabile solo nei carcinoma papillare (Barut, 2010).

3.2.6 Oncogeni nel carcinoma papillare tiroideo

È stato ampiamente studiato il ruolo nella patogenesi del carcinoma ben differenziato della tiroide di vari oncogeni.

Nel 70% dei PTC sono state trovate mutazioni mutualmente esclusive di RET, TRKA, RAS a BRAF con una frequenza rispettivamente del 45%, del 20%, del 10% e ≤ al 5%. Questi geni codificano per attivatori della cascata MAP chinasi.

La mutazione di BRAF è l’alterazione genetica più comune nel carcinoma papillare. BRAF appartiene alla famiglia delle chinasi serina/treonina che include anche C-RAF e A-RAF. Le proteine RAF sono componenti del pathway RAF-MAPK chinasi-ERK (RAF-MEK-ERK), che è un meccanismo di trasmissione del segnale specifico per le cellule eucariotiche. Esse sono attivate attraverso il passaggio di RAS allo stato attivo: da RAS-GDP a RAS-GTP; una volta attivata, la chinasi RAS fosforila RAF, che a sua volta fosforila MEK e continua la cascata di fosforilazione attivando ERK (Malumbres, 2003). Come è stato riscontrato nel melanoma (Davies, 2002), anche nel carcinoma papillare tiroideo è presente una mutazione puntiforme con trasversione di una T con una A al livello del nucleotide 1799, che risulta in una sostituzione della valina con il glutammato nel residuo 600 (V600E) (Kimura,2003; Cohen, 2003).

Altri, più rari, meccanismi di attivazione di BRAF includono: una mutazione puntiforme a livello di K601E, inserzioni o delezioni intorno al codone 600 (Trovisco, 2004; Carta, 2006; Hou, 2007) e il riarrangiamento AKAP9-BRAF, riscontrabile nei carcinomi papillari associati all’esposizione allo iodio radioattivo (Ciampi, 2005). Tutte queste mutazioni determinano l’attivazione costitutiva di BRAF indipendentemente dalla sua stimolazione, interrompendo in tal modo i meccanismi di controllo sulla cascata delle chinasi (Soares, 2003; Cohen, 2003). Le mutazioni di BRAF si riscontrano tipicamente nelle varianti classica e a cellule alte del PTC, in minor numero nella variante follicolare (Adeniran, 2006; Cohen, 2003). Queste mutazioni sembrano correlate ad un comportamento tumorale più aggressivo, con estensione ai tessuti peritiroidei, recidive

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tumorali e metastasi a distanza. L’associazione delle mutazioni di BRAF con forme tumorali più invasive è probabilmente dovuta all’upregulation del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF), delle metalloproteinasi e di altri targets di BRAF (Palona, 2006; Jo,2006). Infine la mutazione di BRAF può predisporre alla sdifferenziazione tumorale, come dimostrato in casi di carcinoma papillare che sono andati incontro a trasformazione anaplastica (Nikiforova, 2003; Palona,2006).

RET codifica per il recettore tirosin-chinasico dei fattori di crescita che appartengono alla famiglia dei fattori neurotropici di derivazione gliale (GDNF) (Manie, 2001) coinvolti nello sviluppo della cresta neurale e del rene (Fusco, 1997; Sugg, 1998). Riarrangiamenti somatici di RET, noti come RET/PTC, sono stati riscontrati nel carcinoma papillare della tiroide (Fusco, 1997; Sugg, 1998; Bounacer, 1997; Santoro, 1996; Soares, 1998; Sugg, 1999). Tali riarrangiamenti danno origine all’attivazione della tirosin-chinasi e alla migrazione della proteina di fusione nel citoplasma (Fusco, 1987). E’ stata descritta una sola famiglia di 5 proteine di fusione RET/PTC1-5; ciascuna di essa è responsabile della traslocazione di un gene cellulare adiacente al dominio tirosin-chinasico di RET (RET TK) (Jhiang, 1996; Pisarchik, 1998). L’inversione paracentrica del cromosoma 10 determina la giustapposizione del gene H4 (RET/PTC-1) o del gene ele-1 (RET/PTC-3,-4) adiacente a RET TK (Pisarchik, 1998). RET/PTC-2 deriva da riarrangiamenti all’interno del cromosoma 17, a causa della trasposizione di una subunità Riα della protein-chinasi A cAMP-dipendente adiacente a RET TK (Sugg, 1998). RET/PTC-5 è stato trovato nel PTC di due pazienti esposti a radiazioni a seguito dell’incidente di Chernobyl. Inoltre, alcune di queste mutazioni interessanti la linea germinale sono state riscontrate nelle neoplasie endocrine multiple, MEN2A e 2B, nel carcinoma midollare familiare della tiroide, nel megacolon congenito, nella malattia di Hirschsprung.

Nel carcinoma papillare sporadico il riarrangiamento RET/PTC-1 è il più frequente, seguito da RET/PTC-3, RET/PTC-2 e RET/PTC-4 (Sugg, 1998; Sugg, 1999). RET/PTC-3 è il più comune nei tumori papillari solidi (fino al 79%) e generalmente è il prevalente nei tumori indotti da radiazioni, insieme a RET/PTC-5 (Bounacer, 1997; Pisarchik, 1998).

I riarrangiamenti RET/PTC sono considerati eventi precoci nella tumorigenesi tiroidea, dato che sono molto frequenti nei microcarcinomi papillari, clinicamente silenti (Fusco, 2002). Tutti i membri della famiglia RET/PTC sono coinvolti nella patogenesi degli stadi precoci del carcinoma papillare (Jhiang, 1996; Santoro, 1996; Sugg, 1998). Molti autori hanno riscontrato la presenza di riarrangiamenti RET/PTC in lesioni tiroidee non neoplastiche, come la tiroidite di Hashimoto (Wirtschafter, 1997; Sheils, 2000; Elisei,

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2001). Tuttavia questi dati sono parzialmente discordanti con quelli ottenuti da altri autori. Ad esempio Nikiforova ha riscontrato i riarrangiamenti RET/PTC solo in carcinomi papillari non associati a tiroidite di Hashimoto (Nikiforova, 2002). Rodhen ha individuato solo poche cellule follicolari, esprimenti bassi livelli di RET/PTC, nella tiroidite di Hashimoto, suggerendo che l’espressione di RET/PTC non necessariamente preannuncia lo sviluppo di PTC nei pazienti con tiroidite (Rodhe, 2006).

Riarrangiamenti analoghi per il recettore ad alta affinità (TRKA) del fattore di crescita dei nervi (NGF) sono stati riscontrati, sebbene con bassa frequenza, nel carcinoma papillare umano (Alberti, 2003).

Mutazioni puntiformi attivanti di RAS sono state riscontrate nel 10% dei PTC, prevalentemente nella variante follicolare (Zhu, 2003).

Infine mutazioni puntiformi di BRAF sono le alterazioni genetiche di più comune riscontro nei PTC (fino al 50% dei casi) (Kimura, 2003; Xu, 2003; Soares, 2003; Cohen, 2003). BRAF appartiene alla famiglia delle chinasi serina/treonina che include c-RAF e ARAF. Le proteine RAF sono componenti del pathway RAF-MAPK chinasi-ERK (RAF-MEK-ERK), che è un modulo di segnale altamente conservato negli eucarioti. Sono attivate attraverso il legame a RAS nel suo stato legante GTP. Una volta attivata, la chinasi RAF fosforila MEK che a sua volta fosforila e attiva ERK (Malumbres, 2003). Così come si verifica nel melanoma (Davies, 2002) una sostituzione V600E, nel segmento attivante rappresenta più del 90% delle mutazioni di BRAF nei PTC. Questa mutazione potenzia l’attività di BRAF interrompendo l’autoinibizione della chinasi (Soares, 2003; Cohen, 2003).

Nei PTC umani, il riarrangiamento RET/PTC e le mutazioni di RAS e BRAF sono mutualmente esclusive (Kimura, 2003; Soares, 2003; Cohen, 2003). Per verificare questa ipotesi sono stai studiati i link tra queste tre proteine oncogeniche in un modello di linea cellulare tiroidea. L’analisi dei trascritti genici ha rivelato che RET/PTC3, HRAS e BRAF inducono cambiamenti nell’espressione di un set di geni che si sovrappongono

ampiamente. L’asse RET/PTC3-RAS-BRAF induce l’iperegolazione del chemochine CXC e dei loro recettori, potenziando l’attività mitogena e la capacità di invasione delle cellule tumorali tiroidee (Melillo, 2005).

Nel PTC si possono avere anche mutazioni attivatrici del recettore del TSH e di una subunità del gene codificante per le proteine G. Nelle neoplasie tiroidee differenziate è possibile, talvolta, riscontrare mutazioni puntiformi inattivatrici di p53, che, invece, sono

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presenti con maggior frequenza nei carcinomi scarsamente differenziati e negli anaplastici (Basolo, 1997).

E’ stato anche valutato il ruolo del proto-oncogene erbB-2 (Soares, 1994). E’ un membro dei recettori tirosin-chinasici della famiglia dei recettori per EGF. Alcuni studi hanno dimostrato l’elevato livello di espressione dell’erbB-2 RNA e della sua proteina nei tumori tiroidei, in genere correlando con una buona prognosi.

Infine dati recenti hanno anche consolidato l’ipotesi dei geni della famiglia RAS nello sviluppo di carcinomi papillari, in particolare delle varianti follicolari, con andamento prognostico migliore (Jung, 2014; Park 2013; Proietti, 2013; Volante, 2009, Adeniran 2006).

In generale si è osservato un generale incremento dell’età alla diagnosi e il riscontro precoce di tumori di piccole dimensioni. Tuttavia, la percentuale totale delle mutazioni di BRAF è rimasto stabile. Inoltre è in lieve aumento la proporzione di varianti follicolari e le mutazioni di RAS, ad indicare l’insorgenza di un nuovo importante fattore eziologico. L’aumento dell’incidenza del carcinoma papillare non può tuttavia essere attribuita a fattori ambientali o a radioterapie dal momento che non si è osservato un paragonabile incremento dei riarrangiamenti RET/PTC (Junck, 2014).

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3.2.7 Indicatori prognostici del carcinoma papillare tiroideo

Solitamente il carcinoma papillare della tiroide ha un comportamento indolente, con un tasso di mortalità che oscilla tra il 4.8% e il 17% (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; LiVolsi, 1996; Mazzaferri, 1977). Sono fattori prognostici negativi nel PTC l’età avanzata, il sesso maschile, le dimensioni del tumore (>5 cm), l’estensione extratiroidea della malattia, la presenza di metastasi a distanza (Mazzaferri, 1977; LiVolsi, 1992; Hoie, 1988; Ruegemer, 1988, Basolo 2010).

Il grado tumorale ha invece minore rilevanza, dato che più del 95% delle neoplasie sono forme ben differenziate (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Rosai, 1992) .

Diversi autori hanno studiato il ruolo di markers biologici come fattori predittori di comportamento aggressivo; tra questi il p53, il ki-67, le proteine del ciclo cellulare, gli antigeni di proliferazione cellulare e il bcl-2, come markers di crescita e di apoptosi, la catepsina D, le metalloproteinasi e la laminina come markers di invasività e metastatizzazione (Basolo, 1997). Il PTC, di rado, esprime localmente p53 e Ki-67, mentre nella maggior parte dei casi esprime bcl-2, a indicare il basso tasso di apoptosi (Basolo, 1997).

La più frequente alterazione genica, riscontrabile nei PTC e associata ad una prognosi non favorevole è la mutazione V600E del gene BRAF (Lupi, 2007; Elisei, 2005).

Più recenti sono studi volti alla determinazione del ruolo prognostico dell’infiltrato infiammatorio nel carcinoma tiroideo. Ad esempio, è stato osservato il ruolo avverso dei linfonociti T-Reg FOXP3 positivi alla risposta al trattamento con radioiodio nei carcinomi papillari (Ugolini, 2014).

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3.2.8 Possibilità terapeutiche

La tiroidectomia totale, con o senza linfoadenectomia del comparto centrale o laterocervicale, è il trattamento di scelta nei pazineti con carcinoma papillare, carcinoma poco differenziato, midollare o anaplastico (se possibile). Successivamente i pazienti vengono sottoposti a terapia di mantenimento con levotiroxina. I pazienti con carcinoma papillare o poco differenziato che abbiano residuo di malattia, sono ad alto rischio di recidiva o pazineti con malattia recidiva vengono tratti con radio-Iodio. Solo il 25% dei pazienti con carcinoma papillare avanzato o con carcinoma midollare rispondono a cicli chemioterapici singoli o combinati e la risposta è caratterizzata da una remissione parziale e di breve durata e da alta tossicità (Sherman, 2010; Matuszczyk, 2008).

Tuttavia, regimi chemioterapici combinati con terapie a bersaglio molecolare hanno dimastrato efficacia in altri tumori solidi nell’uomo, com e la combinazione di anticorpi anti-EGF, cetuximab, e irinotecano nei pazienti con carcinoma colon-rettale metastatico e la combinazione lapatinib (HER2 inibitore chinasico) e capecitabina nei pazienti con carcinoma mammario avanzato (34–36). Pertanto approcci analoghi sono stati prooposti nel carcinoma tiroideo. Chemioterapie citotssiche consistent in taxani, antracicline o platino, combinate con radioterapie, possono eesere efficaci in pazineti con carcinoma anaplastico o poco differenziato (Smallridge, 2012). Analogamente, trials condotti con chemioterapie sistemiche e agenti a target molecolare hanno dimostrato una più lunga sopravvivenza (Smallridge, 2012). Tutti i trials hanno dimastrato un a remissione parziale, variabile da 0% a 63%, o una stabilizzazione di malattina (Kloos, 2009; Leboulleux, 2012; Ha 2010; Schneider 2012). Ad oggi tuttavia la Food and Drug Administration non ha approvato l’uso di nessun inbitore chinasico, da solo o in combinazione con altre terapie, nei pazienti con carcinoma tiroideo avanzato. Recentemente, è stato completato un trial di fase III in cui si è valutata l’efficacia e la sicurezza del sorafenib in pazienti con carcinoma localmente avanzato o metastatico resistente al radio-Iodio. Nei pazienti trattati con sorafenib c’è una differenza statistica significativa, in temrini di progression-free serviva rispetto ai pazienti trattati con placebo, che ha fatto sì che l’FDA abbia introdotto il sorafeni nel trattamento del carcinoma tiroideo avanzato (Brose, 2013; FDA US, 2013).

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3.3 Carcinoma follicolare

Il carcinoma follicolare ben differenziato della tiroide è composto da strutture follicolari con cellule prive delle caratteristiche nucleari del PTC . Esso rappresenta il 5-15% dei carcinomi tiroidei.

Il carcinoma follicolare è più comune nel sesso femminile e nelle persone anziane (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Johannessen, 1983). E’ un tumore solitamente unico, con lenta crescita e tendenza alla metastatizzazione per via ematica; le metastasi ossee e polmonari sono più frequenti che nel carcinoma papillare e in alcuni casi sono proprio le metastasi a distanza il primo segno della malattia (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Johannessen, 1983).

Il carcinoma follicolare è raramente multifocale e non invade strutture linfatiche (LiVolsi, 1990). In letteratura sono descritti due tipi di questa neoplasia: una forma capsulata (minimamente invasiva), che può grossolanamente assomigliare a un adenoma e che viene classificato come carcinoma solo dopo la dimostrazione istologica dell’invasione capsulare e/o vascolare (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Silverberg, 1970); una forma ampiamente invasiva, che infiltra diffusamente un lobo o l’intera ghiandola. Queste due forme differiscono per il loro comportamento biologico; la sopravvivenza a dieci anni del tipo capsulato è compresa tra il 70 e il 100%, mentre per l’ampiamente invasivo sta tra il 25 e il 45% (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Silverberg, 1970).

Microscopicamente il carcinoma follicolare ampiamente invasivo può essere identificato sulla base dei margini infiltrativi e dell’estesa invasione vascolare. Il tumore cresce con una combinazione di un pattern solido, trabecolare e follicolare. La diagnosi di carcinoma follicolare minimamente invasivo non può prescindere dalla valutazione dell’invasione vascolare (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Meissner, 1977).

Da un punto di vista genetico il carcinoma follicolare è caratterizzato da mutazioni puntiformi di RAS (Nikiforova, 2003) e riarrangiamenti di PAX8/PPAR gamma (Kroll, 2000).

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3.4 Carcinomi scarsamente differenziati

I carcinomi tiroidei scarsamente differenziati rappresentano un’entità patologica ancora poco conosciuta (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Pilotti, 1995). Si ritiene che il loro atteggiamento clinico sia da considerarsi intermedio tra quello dei carcinomi ben differenziati e quello dei tumori anaplastici (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; Sakamoto, 1983).

Tra le neoplasie considerate in questa categoria sono compresi la variante a cellule alte del carcinoma papillare, il carcinoma a cellule colonnari, il carcinoma a cellule di Hürtle e il carcinoma insulare (Murray, 1998; LiVolsi, 1990; Sakamoto, 1983; Pilotti, 1995).

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Tuttavia date le analogie citologiche con il PTC, le prime tre forme rientrano tra le sue varianti; il carcinoma insulare, invece, costituisce una forma di tumore classificato come scarsamente differenziato.

Il carcinoma insulare è una neoplasia di derivazione follicolare che coinvolge prevalentemente soggetti anziani con un rapporto uomo:donna è di 1:2.

È un tumore solido, voluminoso, biancastro e con aree di necrosi, le cui cellule sono piccole, rotondeggianti e organizzate in gruppi e nidi.

Il carcinoma insulare ha una ricca vascolarizzazione, abbondanti mitosi e focali aree di necrosi coagulativa; frequente è l’invasione vascolare.

L’atteggiamento clinico della neoplasia insulare è aggressivo: metastasi sono presenti nella maggior parte dei casi al momento della diagnosi e circa il 50% dei pazienti muore entro 1-8 anni dopo la terapia (Rodriguez, 1998).

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3.5 Carcinoma midollare della tiroide

Il carcinoma midollare della tiroide ha origine dalle cellule parafollicolari o cellule C; rappresenta il 10% dei tumori tiroidei maligni (Williams, 1966). Fino ad oggi questa è l’unica neoplasia per la quale si conosca il coinvolgimento di un percursore, l’iperplasia a cellule C (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990).

La maggior parte dei tumori midollari è sporadica (Williams, 1966), esiste, però una forma autosomica dominante ad alta penetranza che costituisce il 20% di essi (Cushman, 1962; Baylin, 1978). Il tumore familiare può essere parte di una neoplasia endocrina multipla (MEN), in particolare MEN2A, 2B o 3, oppure si può trattare di un carcinoma tiroideo midollare familiare non-MEN (Cushman, 1962; Baylin, 1978).

Nelle MEN è coinvolta la regione pericentromerica del cromosoma 10 dove si localizza il proto-oncogene RET (Baylin, 1978). Mutazioni a carico di questo gene sono state riscontrate in più del 90% delle MEN2 e l’analisi genomica può essere utile per identificare membri asintomatici delle famiglie interessate dalle sindrome (Hofstra, 1994). Il carcinoma midollare sporadico può avere mutazioni del gene RET, che influenzano significativamente la prognosi (Eng, 1996).

Il tumore midollare è solitamente un nodulo solido fisso e non dolente, nel 15% dei casi alla diagnosi sono presenti metastasi a distanza (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990). La forma sporadica predilige il sesso femminile e in particolare dopo i 45 anni di età (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Cushman, 1962; Baylin, 1978). Essa è per lo più solitaria (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Block, 1980) e localizzata nelle aree di maggior densità delle cellule C, ad esempio nei 2/3 superolaterali della ghiandola (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Fletcher, 1970). Le dimensioni del tumore sono comprese tra lesioni molto piccole e neoplasie che sostituiscono l’intera tiroide. Le cellule tumorali producono calcitonina, ma possono esprimere anche altri ormoni, in particolare derivati della proopiomelanocortina (ACTH, MSH, β-endorfina, encefalina), serotonina, glucagone, gastrina e bombesina (Williams, 1968).

Il pattern di crescita della neoplasia può essere variabile. Generalmente le cellule sono organizzate in strutture trabecolari o insulari; nella maggior parte dei casi si ha una combinazione delle due forme (Fletcher, 1970).

I nidi cellulari sono separati da materiale ialino contente depositi di amiloide o di collagene denso (Rosai, 1992).

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Le cellule neoplastiche possono essere ovalari, rotondeggianti oppure fusate, con piccoli nuclei circolari. La cromatina nucleare è finemente granulare, come in altri tumori neuroendocrini e in alcuni casi le cellule del carcinoma midollare sono molto simili a quelle del carcinoma polmonare a piccole cellule. Talvolta la neoplasia è composta esclusivamente da cellule fusate e per questo può essere confusa con tumori tiroidei di derivazione mesenchimale o di origine timica (Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Dominguez-Malogon, 1989).

Nel 10% dei tumori è presente mucina, la necrosi tumorale e le mitosi sono rare, ma possibili nelle neoplasie di grosse dimensioni (Rosai, 1992). L’invasione linfatica è frequente, nel 50% dei pazienti c’è impegno dei linfonodi mediastinici e cervicali superiori. Possono essere anche coinvolti tessuti extratiroidei, per estensione diretta o per interessamento del lobo controlaterale tramite metastasi intraghiandolari. Le metastasi a distanza si localizzano al polmone, all’osso, al fegato e ai surreni (Murray, 1998; Rosai, 1992; LiVolsi, 1990; Fletcher, 1970).

La diagnosi di carcinoma midollare della tiroide richiede indagine immunoistochimica. Il numero di cellule positive per la calcitonina varia da caso a caso. Anche l’amiloide può essere positiva in questo tumore per calcitonina, a causa della deposizione di precursori di questa molecola. La positività immunoistochimica si ha anche per la citocheratina, la cromogranina A, l’enolasi neuronospecifica e per il CEA (DeLellis, 1978).

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3.6 Carcinoma anaplastico

Il carcinoma anaplastico della tiroide, sebbene raro, è uno dei tumori umani più aggressivi (Carcangiu, 1985; Aldinger, 1978). Colpisce prevalentemente persone anziane e rappresenta il 5-10% dei tumori maligni tiroidei (Carcangiu, 1985; Aldinger, 1978). E’ più frequente nelle aree di endemia gozzigena (Carcangiu, 1985). Clinicamente si presenta come una massa cervicale rapidamente evolutiva, responsabile di sintomi da compressione e causa di morte nell’arco di pochi mesi dalla diagnosi, sia per l’estensione locale che per la metastatizzazione.

Le cellule tumorali hanno aspetti squamoidi, sono cellule fusate o giganti; spesso si ha una combinazione delle tre componenti (Carcangiu, 1985; Aldinger, 1978). Sono anaplastiche, con forme bizzarre e ricche mitosi, sono comuni ed estesi i focolai di necrosi tumorale.

L’immunoistochimica conferma l’origine epiteliale della neoplasia; le cellule sono positive per la cheratina e negative per tireoglobulina e calcitonina.

La diagnosi di carcinoma anaplastico è solitamente agevole data la sua presentazione clinica, l’aspetto microscopico e il profilo immunoistochimico (LiVolsi, 1987). Microscopicamente si possono osservare aree paucicellulari connesse a zone di alta cellularità caratterizzate da un moderato pleomorfismo nucleare e abbondanti mitosi. Sono inoltre presenti ampie aree sclerotiche. Le cellule fusate sono organizzate in cordoni o trabecole. A livello dei linfonodi metastatici si osserva tessuto infartuale e ialinizzato.

La variante paucicellulare del carcinoma anaplastico può simulare, sia clinicamente che da un punto di vista morfologico, la tiroidite di Reidel. La diagnosi differenziale tra le due può essere fatta sulla base delle aree di necrosi tumorali, dell’invasione vascolare e delle metastasi (Rose, 1961).

Derivando, come spesso i carcinomi scarsamente differenziati, da tumori ben differenziati pre-esistenti, il carcinoma anaplastico è sovente portatore di mutazioni multiformi di RAS e BRAF; talora anche di mutazioni di p53 (Nikiforova, 2003; Soares, 2004; Begum, 2004; Donghi, 1993; Fagin, 1993).

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