• Non ci sono risultati.

"No one observed and beheld me, I observed and beheld myself": percorsi di definizione ontologica in The Autobiography of My Mother

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi ""No one observed and beheld me, I observed and beheld myself": percorsi di definizione ontologica in The Autobiography of My Mother"

Copied!
111
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LETTERATURE E FILOLOGIE

EUROAMERICANE

TESI DI LAUREA

“No one observed and beheld me, I observed and beheld myself”:

percorsi di definizione ontologica in The Autobiography of My Mother

CANDIDATA

RELATRICE

Sara Garone

Chiar.ma Prof.ssa Laura Giovannelli

(2)

INTRODUZIONE...3

CAPITOLO PRIMO...9

Jamaica Kincaid: l’autrice e la sua poetica...9

1.1 Da Elaine Potter Richardson a Jamaica Kincaid...9

1.2 Una nuova identità...13

1.3 La scrittura come “salvezza”...15

1.4 Il ruolo dell’ “obeah”...20

1.5 La madre perduta...23

1.6 I rapporto con Antigua...32

CAPITOLO SECONDO...40

“The Autobiography of My Mother”: introduzione e analisi...40

2.1 Introduzione all’opera…………...40

2.2 Un vuoto incolmabile...44

2.3 L’esperienza scolastica e l’esaltazione del corpo come strumento di potere...49

2.4 Identità e lingua, storia e annientamento...59

2.5 Potere e maternità negata...62

2.6 Il rapporto deviante con la figura maschile...66

CAPITOLO TERZO...77

Percorsi e vicoli ciechi della comunicazione...77

3.1 La forza della parola...77

3.2 Una voce “polifonica”...81

3.3 “I” e “We”: l’alternanza/convergenza dei punti di vista...84

3.4 Stratificazioni prospettiche...86

3.4.1 L’impiego di “I” come indice di un punto di vista “singolare”...89

3.4.2 L’impiego di “We”: il caso del punto di vista plurale...96

CONCLUSIONI...100

(3)

3

INTRODUZIONE

Proporre una definizione di un mondo così variegato e multiforme come quello dei Caraibi è complicato soprattutto a causa di un passato complesso e spesso tragico in cui si sono fuse innumerevoli culture, lingue, etnie e tradizioni. Questo arcipelago, situato in prossimità di aree del Centro e Sud America1, è senz’altro uno dei luoghi che ha più risentito dell’esperienza del

colonialismo: la sua è una storia in cui si condensano stermini, oppressione e povertà, episodi di sfruttamento e sradicamento.

Originariamente, queste terre erano abitate da popolazioni amerindie precolombiane, da cui discesero ad esempio gli Aruachi e i Caribi, che furono brutalmente sterminati e integrati con masse di schiavi africani e braccianti asiatici. Successivamente, dopo l’abolizione della schiavitù, sancita a partire dal 1834, si ebbe infatti una massiccia importazione di lavoratori in prevalenza indiani, ma vi erano anche cinesi, irlandesi e portoghesi. La popolazione dei Caraibi comprendeva, quindi, gruppi totalmente diversi fra di loro, che si trovarono a convivere in circostanze che ebbero varie conseguenze sul piano socio-politico così come linguistico, con contaminazioni di vario tipo e un frequente ricorso a un inglese non-standard. Inevitabilmente, il fatto di non riuscire ad esprimersi nella propria lingua di origine ebbe ripercussioni sul senso dell’identità: il soggetto caraibico fu destinato a confrontarsi con un forte disagio interiore, sentendosi sradicato, privato della propria cultura e della propria libertà.

Questa drammatica condizione, però, si sarebbe trasformata nel tempo anche in uno scenario di possibilità capaci di stabilire e “inventare” rapporti e interazioni, all’insegna di un percorso di ibridazione che ha dato forma ad una nuova e ricca cultura nutrita di scambi, realtà dialoganti ed in continua evoluzione. Ecco perché, quando oggi ci riferiamo alla realtà caraibica, si parla spesso di un processo di creolizzazione, ovvero: “un incontro di elementi culturali provenienti da orizzonti assolutamente diversi e che realmente si creolizzano, che realmente si stratificano e si confondono l’uno nell’altro per dar vita a qualcosa di assolutamente imprevisto e di assolutamente nuovo, la realtà creola”.2

1 I Caraibi sono una regione delle Americhe che comprende i paesi bagnati dal Mare Caraibico, ovvero le isole delle

Antille e i litorali di alcuni paesi continentali del Centro e del Sud America. Le isole sono raggruppate in arcipelaghi che, a loro volta, sono suddivisi in gruppi più vasti: le Grandi Antille rappresentano la parte occidentale e sono composte da quattro grandi isole principali, ovvero Cuba, Jamaica, Puerto Rico e Hispaniola (sul cui territorio si trovano Haiti ad ovest e la Repubblica Dominicana ad est); le Piccole Antille, che formano la metà orientale dell’arco insulare, comprendono Dominica, Antigua, Barbados, Guadalupa, Saint Martin, Barbuda, Saint Vincent ed infine l’arcipelago delle Bahamas, costituito da oltre 700 isole e isolette coralline, a nord-est delle Grandi Antille.

2 Édouard Glissant, Poetica del diverso (1998), trad. it. di Francesca Neri, cit. in Cristina Benicchi, La letteratura

(4)

4

Questo processo ha favorito il formarsi di nuove identità che si sono evolute all’interno di un contesto molteplice e hanno dato vita ad una realtà unica e straordinaria, che, paradossalmente, è riuscita a trovare nella diversità una sua marca distintiva ed un’originalità. Sulla tematica appena accennata riguardo al compenetrarsi tra unicità e molteplicità, è interessante ricordare il percorso delineato da Fabio Rodrìguez Amaya in merito alle diverse fasi che hanno caratterizzato il costituirsi della realtà caraibica, partendo dalle origini fino ad arrivare alla situazione attuale:

Frontiera di quattro mondi, l’arcipelago dei Caraibi esprime simultaneamente nella sua storia tre fenomeni particolari che determinano sia unità che diversità: la deculturazione, la trasculturazione e la acculturazione. Deculturazione è innanzitutto lo sterminio degli aborigeni che ha implicato la quasi completa sparizione di una cultura secolare. È poi la coercizione consapevolmente esercitata sugli schiavi per privarli della loro identità: viene tolto loro il nome, vengono modificati secondo la volontà del padrone i loro comportamenti sessuali e familiari, perseguitate la loro musica e la loro religione, tacitato il loro idioma. La trasculturazione, invece, nasce dal risultato della mescolanza di diverse etnie che genera un meticciato non solo razziale: le culture indie e le varie culture africane hanno arricchito di contributi linguistici, tematici e formali la produzione letteraria che si è sviluppata a partire dalla conquista e dalla colonizzazione e che ha contaminato le lingue e le letterature metropolitane. L’acculturazione, infine, è il frutto del sovrapporsi di lingue, religioni, sistemi economico-politici, tradizioni e costumi del colonizzatore ai resti delle culture autoctone; ciò avviene grazie alla negazione del preesistente, alla prevaricazione dei distruttori e alla trasformazione dei vari ceppi, vinti, schiavi e dominatori, in una cultura vivacissima.3

Il percorso appena tracciato riflette l’evolversi della storia culturale del popolo caraibico nel corso dei secoli e, al tempo stesso, getta le basi per comprendere lo sviluppo della tradizione letteraria di questa regione. La diversità di lingue e tradizioni che caratterizzano i Caraibi ha fatto sì che le prime manifestazioni di un ambito condiviso siano emerse in gran parte sul versante dell’oralità: la trasmissione di miti, leggende, credenze religiose, riti e cerimonie ha tracciato una continuità che ancora oggi sopravvive nell’immaginario collettivo, come afferma Rhonda Cobham:

The African slaves brought with them a diverse assortment of traditional myths, songs and religious beliefs that they passed on to their children, who in turn incorporated into this heritage features of the European cultures they encountered. The adaptability of the folk tradition has ensured its survival to the present time in the rites associated with such religious practices as Pocomania in Jamaica and Shango in Trinidad, and in the steel-band and carnival of the southern Caribbean. Most important from a literary perspective were the Creole languages that evolved from the contact between Africans and Europeans. Two of the most distinctive were the French patois spoken in the eastern Caribbean islands the British won from the French, and Jamaican Creole, based on English and various aspects of West African languages.4

3 Fabio Rodrìguez Amaya, Letteratura caraibica, Milano, Jaca Book, 1993, pp. 24-25.

4 Rhonda Cobham, “The Background”, in Bruce King (ed.), West Indian Literature, London, Macmillan Education

(5)

5

La tradizione orale quindi, nonostante i molteplici sussulti del cambiamento e delle interazioni culturali e linguistiche registrati nei Caraibi, non è andata perduta; al contrario, essa ha permesso a questi popoli di preservare una propria identità e una propria autonomia resistendo all’oppressione livellante del potere colonizzatore:

Musica, credenze religiose e oralità sono i tre elementi primordiali che superano e trasformano il sincretismo e contrastano con la religione e la cultura del colonizzatore, fino a diventare un’espressione della lotta contro l’invasore, dichiarata nella “clandestinità” in cui si mantengono vive le tradizioni. La cultura caraibica può essere definita come una formula di resistenza che ha mantenuto vive le sue radici attraverso i secoli. I modelli di identità culturale non vengono determinati dalla négritude o dall’ “africanità”, ma da una nuova forma espressiva prodotta dal meticciato razziale.5

Partendo da una tradizione basata principalmente sull’oralità, il popolo caraibico andò cercando, a partire dal primo Ottocento, delle forme espressive e dei modelli per poter gettare le basi di una letteratura scritta, nella quale si possono individuare principalmente tre fasi di sviluppo. Gli esordi risalgono al periodo dell’auge imperialistica, ovvero tra il XVIII e il XIX secolo, ed è una letteratura caratterizzata soprattutto da documenti, cronache, diari, poesie, raccolte di canti e racconti popolari che descrivono la vita nelle colonie e forniscono indicazioni sui Caraibi al momento delle invasioni europee. Ciò che costantemente emerge è il fascino del paesaggio: il suo essere al tempo stesso meraviglioso e arcano lo trasformerà, soprattutto nell’immaginario europeo, in uno scenario esotico e lussureggiante nel quale proiettare i propri desideri e le proprie paure. Quando non si mette in evidenza la spettacolarità dello scenario naturale, si registrano tentativi di emulare opere e testi europei, esperimenti che però falliscono, a segnale di come questa letteratura si mostri nelle sue fasi germinali ancora troppo debole per trovare pienamente una propria affermazione e diffusione.

Per uno sviluppo più consistente dobbiamo aspettare la fine del XIX secolo, con la nascita dei primi movimenti indipendentisti, che favorirono l’acquisizione di una più completa consapevolezza da parte del popolo caraibico della propria identità. Si diffusero così opere incentrate su temi e problematiche che riflettono il clima sociale e politico del periodo. Tra gli scrittori che, per primi, cercarono di offrire un’immagine più realistica della vita all’interno delle colonie, sono da menzionare Thomas MacDermot e Herbert de Lisser, entrambi giamaicani, le cui opere “are significant in their occasional use of dialect and inclusion of poor blacks as sympathetic characters”.6 I loro testi sono dunque importanti per l’aver posto al centro delle storie la

5 Cfr. Fabio Rodrìguez Amaya, op. cit., p. 29.

6 Bruce King, The New English Literatures- Cultural Nationalism in a Changing World, London, The Macmillan

(6)

6

popolazione di colore, di cui riprodussero il dialetto con l’obbiettivo di riconferire dignità a questi popoli e al loro patrimonio culturale.

Successivamente, i cambiamenti sociali e politici avvenuti sull’onda della Prima Guerra Mondiale e della grande crisi economica degli anni Trenta, influenzarono e motivarono ulteriormente giovani generazioni di scrittori sensibili alla questione dell’indipendenza. Figure quali Alfred Mendes, C.L.R. James e Albert Gomes riuscirono, attraverso la collaborazione con riviste caraibiche come Trinidad e The Beacon, a raccogliere le voci di protesta di questi anni, promuovendo la “genuinità” della cultura caraibica e allontanandosi dalla pratica imitativa che omaggiava la tradizione del canone inglese. Tra la metà degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, le pubblicazioni su rivista incentivarono la presa di coscienza del popolo caraibico e rappresentarono un fondamentale punto di riferimento per gli scrittori originari di quei luoghi. Tra le più significative ricordiamo Bim, rivista fondata da Frank Collimore ed edita a Barbados, che raccolse le voci di autori che si sarebbero affermati autorevolmente nel panorama internazionale, come Edgar Mittelholzer, Arthur J. Seymour, Samuel Selvon e George Lamming; in seguito, troveremo Focus, incentrata principalmente su aspetti della cultura giamaicana, ed infine

Kyk-Over-Al, pubblicata in Guyana e diretta da Arthur Seymour, tra le cui pagine emerse la creatività

della cultura caraibica con le sue radici più autentiche. La stessa Cobham sottolinea il ruolo decisivo che queste riviste hanno svolto per lo scenario culturale caraibico, affermando che “magazines such as Kyk-over-al, Bim, and the occasional Focus initiated an exchange of creative work and cultural information across the region that facilitated the cross-fertilization of ideas and interests”.7 Quindi, queste pubblicazioni periodiche sono state fondamentali, rivelandosi uno

spazio di incontro e di confronto tra scrittori e critici che si sono scambiati reciprocamente idee e valori, acquisendo la piena consapevolezza del potenziale creativo e umano della propria terra. A partire dagli anni Cinquanta, la letteratura caraibica emerge anche nel panorama europeo e si afferma con relativa autonomia grazie ai cambiamenti sociali e politici che seguirono la Seconda Guerra Mondiale, quali l’indipendenza delle colonie dal potere britannico, i movimenti di liberazione nazionale e il configurarsi di una coscienza etnica antillana. La letteratura di questo periodo incorpora ed elabora queste tematiche, concentrandosi soprattutto sulla realtà e le problematiche inerenti al sociale, più che soffermarsi su questioni individuali:

The literature of the fifties is demonstrably sensitive to the general social condition. More often than not, the exploration of the private self or of the individual experience is tied to an exploration of the interdependence of private and public worlds; to an exploration of the individual’s relationship to the inherited structure of values that dominates the society.8

7 Cfr. Rhonda Cobham, op. cit., p. 18.

(7)

7

Il romanzo di Edgar Mittelholzer, A Morning at the Office (1950), e quello di Samuel Selvon,

A Brighter Sun (1952), esplorano, infatti, la complessa realtà sociale e culturale delle Indie

Occidentali, mettendo in luce i rapporti complicati che si vengono a creare tra classe, etnia e colore della pelle nel contesto urbano. Anche George Lamming, con il romanzo In the Castle of My Skin del 1953, segue questo filo di indagine, rievocando gli eventi politici e gli enormi mutamenti sociali nell’isola di Barbados e toccando anche il fenomeno dell’emigrazione verso gli Stati Uniti e l’Europa. I tre autori appena menzionati condividono infatti l’esperienza dell’esilio relativa alle cosiddette “prime generazioni”. Il disagio sociale e le difficoltà economiche che all’epoca affliggevano le Indie Occidentali spinsero molti scrittori caraibici ad emigrare, a partire dalla “Windrush generation” (1948); Londra diventò spesso la capitale letteraria e la sede di pubblicazione delle loro opere di maggior successo. Il desiderio di confrontarsi con la “madrepatria” (l’Inghilterra) indusse questi scrittori a misurarsi con l’Europa e, malgrado le speranze iniziali, a far fronte alla delusione, ovvero alla notoria freddezza con cui essi sentirono di essere accolti in terra britannica. Di qui un’ulteriore spinta a ridefinire un’identità che non poteva coincidere con quella inglese.

Gli anni Sessanta e Settanta videro un consolidamento della tradizione letteraria caraibica, che continuò ad indagare retrospettivamente la società di impianto coloniale in maniera più approfondita, affrontando temi come la ricerca delle radici e la liberazione da una condizione di sudditanza. Gli scrittori allora emergenti, come V.S. Naipaul, Wilson Harris e Derek Walcott, denunciarono le terribili conseguenze che un passato violento aveva avuto sulla popolazione caraibica e rivolsero l’attenzione su una ri-definizione del concetto di Storia, che avrebbe dovuto essere riconfigurato con una visione nella quale affiorava il bisogno “di diventare attori piuttosto che semplici spettatori degli avvenimenti storici, o meglio ancora scriverli e non lasciarli scrivere da altri”.9

La produzione letteraria degli anni Ottanta si è concentrata soprattutto su temi riguardanti l’emigrazione, l’esilio e la diaspora e ha visto, rispetto agli anni precedenti, una consistente presenza di voci femminili. Quest’ultimo tipo di scrittura ha sviluppato tematiche riguardanti la discrepanza tra appartenenza etnica e livello culturale, l’ambito dell’istruzione, la resistenza contro l’oppressione derivata dal dominio coloniale, il senso di esclusione ed emarginazione, il rapporto problematico tra madri e figlie e la volontà di riappropriarsi di un’identità tangibile. Nella maggior parte dei casi, le opere vedono l’intrecciarsi di vite individuali relazionate al contesto sociale; si tratta di testi che seguono in prevalenza la narrazione in prima persona, oppure il modello dell’autobiografia, facendo riaffiorare ricordi d’infanzia e tracciando un percorso di maturazione.

(8)

8

Una più completa descrizione riguardo le tematiche e le caratteristiche di questa letteratura femminile viene fornita da Renu Juneja:

What makes writing by Caribbean women distinctive, however, is the focus on woman’s dual colonization and dual marginalization, terms used to designate the confluence of colonial and sexual exploitation. […] In response to the historic voicelessness of their condition, Caribbean woman writers offer us female-centred narratives and poems with a preponderance of the first person and autobiographical modes. Orality functions as a counter-discourse to the colonial texts which are the basis of these women’s formal education, and orality is linked to matriarchal inheritance, to a strong bonding with mothers and grandmothers who pass on this oral, folk culture. But the relationship with the mother is also complex and difficult because the gaining of independence involves a deliberate and painful separation from the mother who, to use Edith Clarke’s terms, has fathered the daughter. The resultant tensions make the process of self-definition particularly difficult for women in this literature and associated it with various forms of alienation and psychic fragmentation.10

Gli argomenti appena elencati accomunano la maggior parte delle scrittrici caraibiche: tra queste, la voce che prenderò in esame nel corso del seguente lavoro è Jamaica Kincaid, la quale esplora con energia tagliente le questioni anti-coloniali, i temi della discriminazione razziale, di potere, genere, sfruttamento, sessualità. Nei suoi scritti, le ferite causate da una storia intrisa di sofferenza e umiliazione affiorano in modo aspro e toccante.

L’opera sulla quale mi concentrerò è in particolare The Autobiography of My Mother (1996): una storia di solitudine, lacerazione e rabbia raccontata attraverso riflessioni e ricordi di una protagonista pervasa da un grande dolore, provocato da un’assenza che niente e nessuno potrà mai colmare, e che fa capo alla madre perduta.

(9)

9

PRIMO CAPITOLO

Jamaica Kincaid: l’autrice e la sua poetica

1.1 Da Elaine Potter Richardson a Jamaica Kincaid

11

Jamaica Kincaid, pseudonimo di Elaine Potter Richardson, nasce il 25 maggio del 1949 a St. John, capitale di Antigua, una piccola isola delle Indie Occidentali colonizzata dall’Inghilterra nel 1632 e che otterrà la piena indipendenza solo nel 1981. La ragazza non ha modo di conoscere il padre biologico, il tassista Roderick Potter, che abbandona la famiglia due mesi prima della sua nascita, e cresce con la madre, Annie Richardson, originaria della Dominica, e con il patrigno David Drew, di professione carpentiere. La famiglia è molto povera, non dispone di elettricità, servizi igienici e acqua corrente nell’abitazione e deve far fronte quotidianamente a notevoli difficoltà economiche. Fin da piccola, Elaine si mostra vivace e intelligente: già all’età di tre anni e mezzo, la madre le insegna a leggere e a sette le regala una copia del Concise Oxford Dictionary. La figura materna si impone quindi con autorevolezza fin da subito nella sua vita, e la stessa Kincaid, in un’intervista del 1990, le riconoscerà il merito di averla introdotta al mondo della lettura, una passione che, però, la condurrà anche a commettere azioni illecite, come ad esempio rubare libri dalla biblioteca:

When I was a child I liked to read. I loved Jane Eyre especially and read it over and over. I didn't know anyone else who liked to read except my mother, and it got me in a lot of trouble because it made me into a thief and a liar. I stole books, and I stole money to buy them. Books brought me the greatest satisfaction. Just to be alone, reading, under the house, with lizards and spiders running around.12

Trascorre quindi buona parte dell’infanzia dedicandosi interamente ai libri: le sue letture, impostate sul canone valorizzato dal sistema coloniale inglese, includono Shakespeare, Milton, Keats, Hardy, Dickens. Si avvicina inoltre alla versione della Bibbia di James King ed ama i romanzi delle sorelle Brontë, in particolare Jane Eyre (1847), che legge e rilegge in solitudine e dal quale svilupperà il desiderio di staccarsi dall’isola nativa “where the colonial British overlords

11 Come linea guida per tracciare il percorso di vita dell’autrice mi sono avvalsa della cronologia contenuta all’interno

del testo di Mary Ellen Snodgrass, Jamaica Kincaid: a Literary Companion, Jefferson, McFarland, 2008.

(10)

10

suppressed and debased nonwhite people like the madwoman victim, Bertha Rochester”.13 Fino

all’età di dieci anni è al centro delle attenzioni della madre, che la segue in modo ravvicinato nella sua educazione scolastica: viene iscritta prima alla Moravian School e, successivamente, frequenta la Antiguan Girls School. Vince poi una borsa di studio per accedere alla Princess Margaret School di St. John, all’interno della quale vive un’esperienza deludente perché, nonostante fosse una studentessa brillante, non le viene riconosciuto a pieno il suo talento e non viene incoraggiata; al contrario, gli insegnanti la reputano una ragazza “difficile” e ribelle: “I was always being accused of being rude, because I gave some back chat. I moved very slowly. I was never where I should be. I wasn’t really angry yet. I was just incredibly unhappy”.14 È da questo momento che la Kincaid

inizia a nutrire una forte avversione per l’apparato coloniale ed il relativo sistema educativo, tanto da arrivare, già all’età di nove anni, ad odiare il ritornello dell’inno nazionale del Regno Unito, come lei stessa ricorda:

When I was nine, I refused to stand up at the refrain of “God Save Our King”. I hated “Rule, Britannia”; and I used to say that we weren’t Britons, we were slaves. I never had any idea why. I just thought that there was no sense to it – “Rule, Britannia, Britannia rule the waves, Britons never ever shall be slaves”. I thought that we weren’t Britons and that we were slaves.15

Ad aumentare questo profondo senso di inadeguatezza e disagio identitario, si aggiungono il peggioramento della situazione economica famigliare ed un episodio che provocherà in lei un forte dolore, ovvero la nascita, in un periodo di tempo concentrato, dei suoi tre fratelli: Joseph, Dalma e Devon. Il contro-effetto di queste nascite è dato dal distacco inevitabile dalla madre, che, fino ad adesso, l’aveva posta al centro delle sue attenzioni e che ora si dedica primariamente ai bisogni dei tre figli minori. Raggiunta l’età matura, sarà l’autrice stessa a riconoscere questo evento come la causa del cambiamento del rapporto che univa lei e la madre. Il forte senso di delusione le avrebbe provocato anche l’insorgere di sentimenti che non aveva mai provato fino ad allora:

I don’t know if having other children was the cause for our relationship changing – it might have changed as I entered adolescence, but her attention went elsewhere. And also our family money remained the same but there were more people to feed and to clothe and so everything got sort of shortened not only material things but emotional things, the good emotional things I got a short end of that. But then I got more of things I didn’t have, like a certain kind of cruelty and neglect.16

13 Cfr. Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 10.

14 https://www.laphamsquarterly.org/foreigners/writing-home (ultimo accesso: 10/03/2018).

15 Selwyn R. Cudjoe, “Jamaica Kincaid and the Modernist Project: An Interview”, in Selwyn R. Cudjoe (ed.),

Caribbean Women Writers: Essays from the First International Conference, Wellesley, Calaloux Publications, 1990,

p. 217.

(11)

11

Si sente profondamente tradita dalla figura materna, non si sente più amata e percepisce che i propri bisogni e interessi sono di minore importanza rispetto a quelli dei fratelli. Questa circostanza è la causa psicologica principale del senso di profonda solitudine e di abbandono che l’accompagneranno per il resto della sua esistenza, insieme alla questione della discriminazione razziale. Oltre però ad avvertire la distanza emotiva, ciò che l’autrice rimprovera alla madre è il fatto di non essersi più occupata della sua educazione e di averne causato l’improvvisa interruzione:

My brothers were going to be gentlemen of achievement, one was going to be Prime Minister, one a doctor, one a Minister, things like that. I never heard anybody say that I was going to be anything except maybe a nurse. There was no huge future for me, nothing planned. In fact my education was so casually interrupted, my life might very well have been destroyed by that casual act... if I hadn't intervened in my own life and pulled myself out of the water.17

Per una questione di necessità familiari, le viene quindi impedito di proseguire la sua formazione, alla quale teneva particolarmente: il suo sogno, infatti, era quello di frequentare l’università ed avere un futuro come maestra o bibliotecaria, come ha ricordato durante un’intervista con Allan Vorda:

I would have preferred to stay in school and gone on to university. I was so depressed about what was happening to me. I wasn't going to be a university-educated woman. Those type of women come back to Antigua and become schoolteachers and they are very impressive, very important people to the community. I wasn't going to be like that. Instead, I was just going to be this supporter of my family and I was so miserable. Everyone said I was really very bright. So I didn't want to go and I was very depressed, but it wasn't really my decision. My decision would have been to be one of these very respected women who come back from the university and just sort of push everyone around. They are very well thought of. I wanted to be one of those. There is a certain kind of West Indian woman who's got great authority. All of them go to the University of the West Indies in Jamaica and become teachers or librarians. These are wonderful people who could run the world in a snap.18

Da queste parole emergono il forte dispiacere e il rammarico di non aver potuto proseguire il cammino universitario e di non essersi potuta realizzare come avrebbe realmente desiderato; essendo reputata da tutti una studentessa modello, avrebbe dovuto essere incoraggiata a proseguire gli studi, mentre viene costretta ad interromperli. Di qui la decisione di lasciare Antigua e partire coraggiosamente per New York. Il motivo di questa partenza è legato essenzialmente a motivi economici, in quanto il patrigno si era ammalato, non poteva più svolgere un lavoro stabile e c’era bisogno di denaro per provvedere alle necessità della casa e dei tre fratelli. Così, nel 1965, a soli sedici anni, la Kincaid raggiunge una famiglia a Scarsdale dove lavorerà come ragazza alla pari.

17 Ivi.

18 Allan Vorda, “An Interview with Jamaica Kincaid”, Mississippi Review, Vol. 24, No. 3, Caribbean Writing (Spring,

(12)

12

Qui, però, Elaine non si trova a proprio agio: racconta di sentirsi stressata, depressa, trattata come una serva e impaziente di conoscere l’ambiente metropolitano al di fuori di quelle mura domestiche. Per queste ragioni, pochi mesi dopo, si reca nel distretto di Manhattan, dove trova lavoro presso una famiglia benestante, con l’incarico di prendersi cura delle loro quattro piccole figlie. Qui la madre avrebbe voluto che la figlia facesse dei corsi serali per diventare infermiera, ma Elaine rifiuta, tanto da abbandonare anche questa famiglia e recarsi, sempre a New York, alla New School for Social Research, dove inizia a frequentare dei corsi di fotografia. Nel 1973, all’età di ventiquattro anni, vince una borsa di studio per il Franconia College nel New Hampshire, senza però conseguire il titolo finale “because she felt out of place among younger students”.19 Durante la sua permanenza all’interno di questa scuola, decide di interrompere ogni rapporto con la famiglia di origine, di non inviare più denaro e di non scrivere più lettere alla madre, dato che quest’ultima le rispondeva in maniera succinta e si mostrava sempre più distante:

I remember that when I was at Franconia College, it was much colder than I had ever thought possible. In one of my weak moments I had written to my mother telling her how cold it was – a pleading letter, I guess. At any rate, she wrote back very harshly, telling me that I was always trying to be something I wasn’t. I thought, “Well, that’s the last time I tell her anything about me.20

Elaine, rotti definitivamente i rapporti con la famiglia ad Antigua, vuole ripartire da zero per cercare di riprendere in mano la sua vita. Decide quindi di tornare a New York, dove svolge diversi lavori come segretaria, receptionist e impiegata, fino poi a collaborare con alcune riviste: inizialmente, trova un impiego con la Art Direction, dalla quale verrà allontanata per aver scritto un articolo nel quale polemizzava contro la pubblicità afro-americana; poi tenta di collaborare con altre riviste come Mademoiselle e Glamour, alle quali però rinuncia perché non le viene data la possibilità di scrivere articoli. La svolta avviene quando conosce lo staff di Ingenue, una rivista per teenager, che le concede la possibilità di un colloquio con Gloria Steinem, la quale le affiderà il compito di scrivere articoli riguardanti le esperienze vissute nel periodo adolescenziale. Da questa intervista nasce il suo primo articolo, intitolato “When I Was Seventeen”, che ebbe un grande successo e che le permise di viaggiare ed intervistare celebrità del calibro di Jim Brown, giocatore di football americano, famoso per la sua carriera da record nella National Football League e considerato uno dei migliori atleti nella storia dello sport professionistico statunitense; il cantante rock Alice Cooper, pseudonimo di Vincent Damon Furnier, uno dei maggiori esponenti del genere “shock rock”, ovvero musicisti che, durante i loro concerti, eseguono performance a tema macabro e violento; la musicista e cantautrice giapponese Yoko Ono, che raggiunse la fama

19 Cfr. Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 13. 20 Cfr. Selwyn R. Cudjoe, op. cit., p. 219.

(13)

13

internazionale a seguito del matrimonio e la collaborazione artistica con John Lennon. Per proseguire nella sua carriera di scrittrice, Elaine decide però di celare la sua vera identità: è il 1973 e da ora in poi il suo nome sarà quello di Jamaica Kincaid.

1.2 Una nuova identità

La scelta di cambiare nome deriva dal suo forte desiderio di scrivere senza eccessive pressioni esterne; la scrittura è infatti un’attività che la sua famiglia ha sempre guardato con sospetto, barriera psicologica che l’ha condotta a prendere una decisione drastica. In questo modo, camuffando la sua vera identità, l’autrice sarebbe stata libera di dar voce a se stessa, senza essere giudicata, derisa o ridicolizzata per ciò che scriveva:

One reason I changed my name is because when I started to write I didn’t want anyone I knew to know I was writing, because I knew – and I was not wrong – that they would laugh at me, they would say that I was a daughter of a vain woman attempting doing this terrible thing.21

Per quanto riguarda la scelta del nome, l’autrice tende a ridimensionare la tesi che esso offra un significato particolare, legato a una situazione politica. Lo pseudonimo sarebbe stato il frutto di un’invenzione scaturita da uno scambio di idee con degli amici, mentre scherzavano sulle varie combinazioni di nomi possibili:

At the time I changed it, I didn't know there were African names, although I don't think I could have done that because by this time I have as much connection to Africa as you do. The connection I have to Africa is the color of my skin and that doesn't seem enough to have changed it to an African name. My new name unconsciously had the significance I wanted it to have since that is the area of the world I'm from. Jamaica is an English corruption of what Columbus called Xaymaca. Kincaid just seemed to go together with Jamaica, but there were many combinations of names that could have been chosen one night when my friends and I were sitting around.22

La svolta di Jamaica Kincaid non costituisce soltanto un atto di liberazione e di ribellione contro i divieti e i pregiudizi della sua famiglia, ma rappresenta un percorso di riaffermazione e di reinvenzione di se stessa che avviene anche sul piano estetico. Ricordando i primi anni vissuti a New York, racconta di come essi siano stati difficili, in quanto era costretta a vivere in un piccolo appartamento di due stanze e a dormire senza materasso, sopra dei giornali, oltre ad incorrere nelle tentazioni di droga e alcool che avrebbero portato suo fratello Devon alla morte. Nonostante le ristrettezze economiche, i pochi soldi guadagnati li utilizzava per acquistare vestiti usati e, per

21 Susheila Nasta, Writing Across Worlds: Contemporary Writers Talk, London, Routledge, 2004, p. 85. 22 Cfr. Allan Vorda, op. cit., p. 60.

(14)

14

modificare ulteriormente il proprio aspetto, decise anche di cambiare drasticamente taglio di capelli, optando per un vistoso colore biondo:

I would wear a lot of old clothes and sort of looked like people from different periods – someone from the 1920s, someone from the 1930s, someone from the 1940s. I had cut off all my hair and bleanched it blond, and I had shaved off my eyebrowns. I really did look odd!23

L’autrice però, oltre a sottolineare i disagi e le difficoltà del periodo newyorkese, riconosce anche la grande fortuna che ha avuto nell’incontrare lo scrittore George Trow, che lavorava all’interno di una delle più influenti riviste culturali statunitensi, il New Yorker, del quale curava la rubrica “Talk of the Town”. Trow era diventato famoso grazie ad un saggio pubblicato nel 1980, “Within the Context of No Context”, nel quale additava il vuoto culturale che caratterizzava i circoli intellettuali americani di quel periodo. Grazie a lui, la Kincaid ebbe modo di conoscere William Shawn, figura di riferimento nel panorama giornalistico americano e direttore del New

Yorker dal 1952 al 1987. Inizialmente, egli aveva lavorato solo come assistente al montaggio,

mentre la vera svolta coincise con lo scoppio della seconda guerra mondiale e la bomba atomica su Hiroshima, perché in quell’occasione Shawn convinse il fondatore della rivista, Harold Ross, a dedicare spazio a questi drammatici eventi. Da questo momento in poi, il New Yorker iniziò a focalizzare la propria attenzione sulle grandi tematiche del mondo post-bellico e a trattare anche questioni come la povertà, l’ambiente, il conflitto razziale, catalizzando l’interesse dell’opinione pubblica americana e divenendo un punto di riferimento letterario e sociale per gli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti.24 Fu grazie a queste due forti personalità che ebbe inizio per Kincaid

la vera carriera di scrittrice. Lei stessa ricorda in modo molto intenso e dettagliato il loro primo incontro:

One day, in the elevator, I met a man named Michael O’Donaghue. […] This man seemed very taken by my appearance. He invited me to dinner and introduced me to a man named George W. S. Trow who wrote for the New Yorker. He and I became very good friends, and he used to write “The Talk of the Town” stories about me. One day he took me to dinner – I was very poor, so sometimes he’d take me to dinner. We were sitting in a Lebanese restaurant on 28th Street. I had just said something, and he said,

“That’s so funny! Would you like to write for the New Yorker? I should introduce you to Mr. Shawn.” I said, “Sure – of course. I’d like to write for the New Yorker.” So he arranged for me to have lunch with Mr. Shawn at the Algonquin. Mr. Shawn said that I should try writing some “Talk” stories. I don’t think anyone really thought I could do it ─ I mean, I know I didn’t think so. Well, that’s how I began to write for the New Yorker.25

23 Cfr. Selwyn R. Cudjoe, op. cit., p. 216.

24 Per le informazioni riguardanti William Shawn e George Trow mi sono avvalsa delle indicazioni contenute al sito

internet http://events.nytimes.com/learning/general/onthisday/bday/0831.html (ultimo accesso: 22/03/2018).

(15)

15

Il suo primo articolo per il New Yorker, riguardante delle osservazioni sul carnevale caraibico che si svolgeva annualmente a Brooklyn, viene pubblicato nel settembre del 1974 ed è proprio grazie ad esso che la Kincaid inizia a riconoscersi nello statuto di scrittrice:

It was through that piece of writing and Mr. Shawn’s acceptance of it that I came to know writing, the thing that I was doing, the thing I would do, that thing that I now do, writing; it was through that first experience with giving Mr. Shawn some thoughts of my own on paper that I came to be the person writing that I am now.26

L’autrice dunque riconosce che il primo passo compiuto per affermarsi come scrittrice è stato incentivato da Shawn: il redattore è stato in grado di riconoscere i suoi sforzi, ha riposto fiducia in lei, l’ha incoraggiata a proseguire nella scrittura e, in qualche modo, le ha offerto la possibilità di salvarsi:

I can’t imagine what I would do if I didn’t write, I would be dead or I would be in jail because – what else could I do? I can’t really do anything but write. All the things that were available to someone in my position involved being a subject person. And I’m very bad at being a subject person.27

Da questo momento in poi, sarà in grado di sviluppare con autonomia una propria voce, liberando le emozioni e le sensazioni represse e raccontando le esperienze di vita vissute; la scrittura, infatti, rappresenta per l’autrice un modo per ricostruire un passato difficile e doloroso e il tentativo di liberarsi dai tormenti che la affliggono, primo fra tutti l’ambivalente rapporto di odio-amore con la madre.

1.3 La scrittura come “salvezza”

Jamaica Kincaid, nelle sue numerose interviste, mette continuamente in evidenza il ruolo decisivo che la scrittura ha avuto nella sua vita, sottolineandone l’impronta autobiografica ed anche psicologica: “For me, writing is like going to a psychiatrist. I just discover things about myself”.28 Anche se l’autrice riconosce, in molte circostanze, il dolore e le grandi difficoltà incontrate nel processo di scrittura, è consapevole che quest’ultima le ha in qualche modo salvato la vita; per lei, scrivere rappresenta una sorta di terapia, ovvero:

26 http://www.bbc.co.uk/worldservice/arts/features/womenwriters/kincaid_life.shtml (ultimo accesso: 15/03/2018). 27 Leslie Garis, “Through West Indian Eyes”, New York Times Magazine, October 7, 1990.

28 Donna Perry, “An Interview with Jamaica Kincaid”, in Henry Louis Gates Jr. (ed.), Reading Black, Reading

(16)

16 […] an act of self-rescue, self-rehabilitation, self-curiosity: about my mind, about myself, what I think, what happened to me in the personal way, in the public way, what things mean. It’s so much a personal act that I have no real understanding of it.29

Per l’autrice, dunque, scrivere rappresenta un atto conoscitivo della fenomenologia esistenziale e di se stessi, è un qualcosa di personale, strettamente collegato alla propria esistenza e alle esperienze vissute e che va al di là di qualsiasi categorizzazione. Infatti, Kincaid non intende essere catalogata come una “scrittrice di colore”, “femminista” o “caraibica”, ma piuttosto come “this sort of unhappy person struggling to make something, struggling to be free. Yet the freedom isn’t a political one or a public one: it’s a personal one. It’s a struggle I realize will go on until the day I die”.30 L’autrice è consapevole che la coscienza femminista ha contribuito al suo successo,

ma non vuole essere inserita all’interno di questa categoria; preferisce essere semplicemente riconosciuta come individuo singolo, senza essere incorporata in una tipologia letteraria, come ribadisce durante un’intervista:

I don’t really see myself in any school. I mean, there has turned out to be a rise in West Indian literature, but I wouldn’t know how I fit in it. I am very glad that there is such a thing, but on the other hand, belonging to a group of anything, an “army” of anything, is deeply disturbing me. I think I owe a lot of success, or whatever, to this idea of feminism, bit I don’t really want to be placed in this category. I don’t mind if people put me in it, but I don’t claim to be in it. But that’s just me as an individual. I mean, I always see myself as alone. I can’t bear to be in a group of any kind, or in the school of anything. I think I started to write a certain way because I just didn’t like certain stories that were being written. I didn’t like the way white Americans wrote – a deadpan way – and the way they always mentioned products and songs and supermarkets. They don’t really write, they just mention things.31

In merito all’ultima dichiarazione riportata, ovvero il fatto che si mostri scettica sul modo in cui venivano scritte le storie quando ci si limitava a menzionare una catena di eventi , a rischio di scadere nella superficialità, l’autrice afferma che sono stati due gli episodi che avrebbero cambiato il suo modo di scrivere: la visione del film francese La Jetée (1962), diretto da Chris Marker, costituito essenzialmente da un montaggio di foto in bianco e nero, e la lettura dell’opera dello scrittore francese Alain Robbe-Grillet, entrambi grandi fonti di aspirazione per lei:

I never knew that the workings of your own mind, or that my own mind, would be interesting. The Robbe-Grillet work has no established form, no credentials…that one could just do that, I was never the same after I read it, and I was never the same after I saw La Jetée. I just knew. I thought, “Oh, I see.” Because I had grown up in this system in which a straight line, you did this, and then if you passed that hurdle, you did that and then of course there was the final hurdle that you could never pass, you could never be English, you could never be a real person. So, no matter what you did, there would always be this incredible barrier. So then I read him, and saw this movie. When I read that everything changed.32

29 Frank Birbalsingh, Frontiers of Caribbean Literature in English, New York, St. Martin’s, 1996, p. 149. 30 Cfr. Allan Vorda, op. cit., p. 52.

31 Cfr. Selwyn R. Cudjoe, op. cit., p. 221. 32 Cfr. Ibidem, p. 223.

(17)

17

Da entrambe le opere, Kincaid riprende modalità di scrittura e rappresentazione che non seguono criteri di composizione statica e uniforme, bensì si ispirano a un complesso di episodi ed esperienze di vita rivisitati in maniera diretta, in sinergia con il flusso interiore di pensieri ed emozioni, generando un impatto disgregante rispetto alle convenzioni. Sempre spinta da questo desiderio di autenticità, la modalità espressiva da lei privilegiata è quella autobiografica, impiegata per esorcizzare i demoni che la perseguitano e per rivelare il suo essere e ciò che la coinvolge nel profondo, come lei stessa dichiara:

I started to write to settle demons and settle scores and all sort of things. So I’m driven to write, so it has to be autobiographical. I don’t have any other reason to write. I’m not interested in things for their own sake. I’m only interested in explaining something for myself.33

La narrazione autobiografica rappresenta la forma letteraria privilegiata per riconoscere ed esprimere la propria soggettività: molte sue opere, infatti, si pongono come il riflesso della sua vita, delle sue emozioni e dei suoi turbamenti interiori, illustrando i passaggi fondamentali dell’infanzia e dell’adolescenza con i momenti di transizione che porteranno all’affermazione di una individualità adulta. Ciò che realmente le interessa non è scrivere per ottenere consensi, critiche o compiacere i suoi ascoltatori; si tratta piuttosto di un’attività che svolge essenzialmente per se stessa, come una sorta di percorso terapeutico: riversando su carta stralci del vissuto, l’autrice intende liberarsi di tutti quei “pesi” che hanno segnato i momenti della sua formazione e della sua vita adulta. I fattori che hanno spinto la Kincaid a scrivere sarebbero molti, come ad esempio il fatto di non aver conosciuto il padre naturale, il trauma di aver vissuto in un luogo in cui il popolo reduce da un’esperienza di colonizzazione, privato della propria identità culturale ed etnica, è stato considerato “inferiore”. Ma è soprattutto l’abbandono da parte della madre, dalla quale si è sentita rifiutata e ferita, che ha alimentato la sua grande voglia di riscattarsi. La madre, inoltre, impegnata a seguire gli altri tre figli, l’avrebbe indotta a confrontarsi con una realtà che la Kincaid non accetterà mai, ovvero che i figli maschi avrebbero più diritti delle femmine; l’autrice non si piegherà mai a questa presa di posizione e lotterà sempre per inseguire la sua libertà e le sue aspirazioni. Anche se questi episodi hanno inciso sul suo sviluppo psicologico, sarà anche grazie alla scrittura se la sua si consoliderà come una personalità forte, determinata, con un dominante desiderio di riscatto nei confronti del passato e, soprattutto, della madre. Quest’ultima è stata presente fin da subito nella sua formazione, fornendole i primi elementi per la “costruzione” del sé, ma ancorandola al contempo a criteri rigidi, al punto da farla sentire “spettatrice” del mondo e renderla simile ad un oggetto, come lei stessa ha dichiarato:

(18)

18 Yes, my mother did keep everything I ever wore […] and basically when I was quite grown up my past was sort of a museum to me. Clearly, the way I became a writer was that my mother wrote my life for me and told it to me. I can’t help but think that it made me interested in the idea of myself as an object.34 Infatti, alla base della sua educazione, non ci sono stati soltanto i grandi classici della letteratura inglese, ma soprattutto i racconti della figura materna relativi alle origini e alle faide familiari:

I did not have any African type of storytelling traditions. I had gossip, essentially. I had my mother telling me about her life, and about my life before I knew myself, and about her mother, and her father, and her sisters…I heard what the other people were doing, who was trying to kill whom through secret means or was getting brutal.35

La decisione di scrivere è insomma derivata inizialmente dal forte desiderio di liberarsi e di rispondere a una forma di oppressione matriarcale. Come afferma Bouson, la figura materna ne risulta amplificata sino ad acquisire una statura pluridimensionale:

She attemps not only to reclaim but also to take power and authority over her past as she talks and writes back to the contemptuous internalized mother, the mother who wrote her life and the mother with whom she carries on incessant conversation in her head in her adult life.36

Anche se costantemente impegnata a elaborare un contro-discorso rispetto alla voce della madre, l’autrice le riconosce di essere stata un’autentica fonte di ispirazione, affermando che “the fertile soil of my creative life is my mother”37, e comprendendo il grande ruolo che il racconto

orale materno ha avuto nel nutrire la sua immaginazione. Infatti, soprattutto nel contesto caraibico ottocentesco e primo novecentesco, l’unica forma espressiva di tipo “artistica” concessa alle donne era quella del racconto popolare tramandato di generazione in generazione, che si configurava appunto come strumento basilare di conoscenza del mondo e di avvicinamento alla scrittura. L’autrice riconosce la sua appartenenza a due culture diverse tra di loro, quella africana e quella europea, con l’ambivalenza di un mondo che oscilla costantemente fra i due poli:

Sometimes [my mother] was in this world, and sometimes she was in another. […] I come from a culture that moves back and forth very easily. One culture abandoned them, and the one that conquered them didn’t let them in; so they were on border all the time. From time to time, they found things to embrace in the culture that wouldn’t let them in. The culture that abandoned them still offered them the deepest cultural and spiritual nourishment.38

34 Patricia O’Connor, “Paradise with Snake”, The New York Times, April 7, 1985. 35 Ivi.

36 J. Brooks Bouson, Jamaica Kincaid: Writing Memory, Writing Back to the Mother, New York, Suny Press, 2006,

p. 13.

37 Cfr. Selwyn R. Cudjoe, op. cit., p. 222. 38 Cfr. Frank Birbalsingh, op. cit., p. 145.

(19)

19

La sua scrittura rivela le persistenti ambiguità nei confronti del sistema di pensiero occidentale così come della stessa cultura caraibica, le cui tradizioni vengono evocate ma poi rinnegate come, ad esempio, quando ella dichiara che uno dei motivi che l’ha spinta ad abbandonare Antigua è stato il fatto che il colore della pelle rischiava di associarla in modo troppo automatico e pervasivo alla cultura africana: “I’m very much against those new attempts to bind people of color to traditional things. One of the reason why I left home was that I was victim of tradition”.39 Allo stesso modo, sottolineando la conflittualità di questi due mondi paralleli, Kincaid ha modo di riconoscere la ricchezza di entrambe le culture e rivendica il diritto di attingere ad esse liberamente: “in some way I actually claim the right to amibiguity, and the right to clarity. I feel free to use everything, or not, as I choose”.40 L’autrice è consapevole dell’importanza dell’intreccio ibrido e

vitale delle conoscenze derivate dall’istruzione facente capo al sistema coloniale con le forme orali tradizionali di cui la voce materna si fa veicolo, come mette in rilievo Helen Pyne Thimothy:

Se l’istruzione coloniale e l’educazione cristiana contribuiscono a dare un posto alle figlie in una società ancora gerarchicamente coloniale, il ricorso a pratiche culturali creole o la consapevolezza di una realtà stratificata si rivelano invece utili per la risoluzione di problemi pratici legati alla vita quotidiana.41

Da qui deriva una scrittura che estrapola elementi diversificati da modelli di sapere distinti, un intreccio di storie e valori che risultano “creolizzati” nella narrativa di Jamaica Kincaid: “Kincaid intesse la trama della sua vita come strettamente intrecciata alla storia della madre, alla storia della tradizione orale e alla Storia tramandata dal sistema coloniale.”42 La sua scrittura testimonia la

complessità della relazione tra le proprie affiliazioni culturali, le forme orali native e l’eredità letteraria occidentale. In particolare, risulta problematico il rapporto che viene a istituirsi con la tradizione letteraria coloniale, perché l’autrice muove accuse al sistema educativo che ne è stato promotore e l’ha assolutizzata: “If I have influences, it would be English literature”43, a detrimento

del patrimonio antropologico caraibico: “I didn’t know anything about West Indian literature before I came to this country. I loved to read, which was something my mother encouraged”.44

L’identità di Kincaid risulta dunque piena di ambiguità e contraddizioni proprio per la convivenza di basi culturali diverse e il continuo misurarsi con modelli di influenza e potere, su entrambi i fronti. Ricordiamo ancora come le storie orali trasmesse dalla madre non cessino di affiorare nella

39 Gerard Dilger, “ ‘I use a cut and slash policy of writing’: Jamaica Kincaid Talks to Gerard Dilger”, Wasafiri, 16,

1992, p. 21.

40 Ivi.

41 Helen Pyne Timothy, “Adolescent Rebellion and Gender Relations in At the Bottom of the River and Annie John”,

tr. it. di Manuela Coppola, cit. in L’isola madre. Maternità e memoria nella narrative di Jean Rhys e Jamaica Kincaid, Trento, Tangram, 2010, p. 91.

42 Cfr. Ibidem, p. 85.

43 Cfr. Gerard Dilger, op. cit., p. 22. 44 Cfr. Selwyn R. Cudjoe, op. cit., p. 220.

(20)

20

narrativa di Kincaid, in cui emerge pure il culto dell’obeah, una pratica magica di origine africana, celebrata in segreto perché bandita dal governo coloniale e caratterizzata da rituali dedicati alla memoria dei defunti e alla divinazione, con presunte apparizioni di figure femminili malefiche, legate appunto all’immaginario della tradizione folklorica dei Caraibi.

1.4 Il ruolo dell’ “obeah”

Ricordando la sua infanzia vissuta ad Antigua, l’autrice ha evidenziato una certa componente di nostalgica confabulazione: “I come from a place that’s very unreal. The place I come from goes off in fantasy all the time so that every event is continually a spectacle and something you mull over, but not with any intention to change it”.45 All’interno della sua famiglia, sia la madre che la

nonna credevano nella pratica dell’obeah46; la nonna si era sposata con un uomo di fede cristiana

a cui lei si era poi avvicinata, ma, dopo la morte del figlio, ritenuto posseduto da un demonio in seguito ad una maledizione lanciata con una formula magica, si era riconvertita all’obeah, come ricorda la stessa Kincaid:

She was pagan; her deep belief was not Christian, and then she married a man who, as it turned out, lived a really wild life. He was a policeman, but then he became rather pious. He owned some land and was a lay preacher. So she accommodated his beliefs while, I think, always keeping her own beliefs. Then there was the tragedy of my uncle dying. She felt her beliefs would have saved him, and he [her husband] felt that his beliefs ─ his beliefs being faith in God and Western medicine ─ would have saved him. Well, it turns out that his illness was a type that my grandmother’s beliefs would have cured.47 L’infanzia dell’autrice appare collegata a questo mondo magico che le creava ansia e alimentava in lei la paura, confondendo i confini tra circostanze reali e irreali. Allo stesso tempo, ella ha riconosciuto anche l’importanza dei valori trasmessi dalla figura materna, grazie alla quale ha acquisito una prima e fondamentale conoscenza del mondo:

45 Cfr. Allan Vorda, op. cit., p. 58.

46 L’obeah si riferisce alle pratiche magiche e religiose originarie dell’Africa centrale e occidentale, ambito con cui

condivide vari elementi come ad esempio l’obbedienza alle figure di Palo, Vudù e Santeria. Il termine obeah, per il quale si utilizzano anche altri nomi, quali “Obi”, “Obia”, “Orbiah”, è di provenienza africana e le origini della parola sembrano derivare da obi, che significa “potere occulto”, versione demotica del lessema Twi obayi o obeye. Questa particolare fede ha trovato sviluppo anche in America Centrale durante la tratta degli schiavi, soprattutto in Suriname, Giamaica, Isole Vergini, Trinidad e Tobago, Guyana, Belize, nell’isola di Barbados e nelle Bahamas. Essa è associata sia alla magia bianca che a quella nera, è caratterizzata dal culto dei morti e da rituali di scaramanzia e divinazione e rende il senso del divario culturale tra i padroni europei e gli schiavi africani. Tuttavia, in alcuni casi, si è verificato che gli aspetti di queste religioni popolari siano sopravvissuti attraverso il sincretismo con il simbolismo cristiano e i costumi dei coloniali europei e dei proprietari di schiavi. (Cfr. Alain Richardson, “Romantic Voodoo. Obeah and British Culture, 1797-1807”, Studies in Romanticism, vol.32, no. 1, 1993, p. 22).

(21)

21 For a while, I lived in utter fear when I was little, of just not being sure that anything I saw was itself. I mean, at one point in my life I never knew whether the ground would hold, whether the thing next to me were real or not. You see, in West Indian culture, things can change so rapidly. In a conversation, you can go from laughing to quarrelling, from deep enmity to deep friendship. When I left Antigua I thought: I’m free of this! But I couldn’t be free of it in my head. I would carry it around whit me – the thing that turned me into a writer, my mother, all of it. And I knew all of it through her: I saw the world through her.48

L’autrice si mostra consapevole che queste pratiche religiose conosciute durante l’infanzia le avrebbero lasciato il segno, sarebbero rimaste sempre impresse nella sua mente, tanto da riaffiorare anche nella sua produzione letteraria. Raccontando di come certi riti magici e superstiziosi facessero parte del suo quotidiano, ha affermato che lo spazio ricoperto dall’obeah nelle sue opere è strettamente collegato a quella dimensione del vissuto:

I was very interested in it – it was such an everyday part of my life, you see. I wore things, a little black sachet filled with things, in my undershirt. I was always having special baths. It was a complete part of my life for a very long time. At night I would collect my urine in my little pony, and in the morning my mother would wash my feet in it. Then she’d put mine in with theirs in their pot – it’s called a china-pot but it’s not china - and then, after bathing her feet in it, she’d go and dribble it down the steps around the house. Sure enough, sometimes there would be fresh dirt dug up around the house, and there would be a bottle with things in it. So this was a part of my actual life, and it’s lodged not only in my memory but in my own unconscious. So the role obeah plays in my work is the role it played in my life. I suppose it was just there.49

Esplorando il suo rapporto con la cultura caraibica, Kincaid evoca un racconto della madre riguardante l’infanzia della donna a Dominica. La madre si sarebbe trovata con dei compagni nei pressi di un fiume, quando, improvvisamente, una splendida ma sinistra apparizione catturò la loro attenzione:

They were going to school and saw a beautiful woman bathing in the river - Dominica has so many rivers. In those days they didn’t have many bridges, so they had to cross this river - which was particularly full because it had rained a lot. At the mouth of this river they saw a woman, a beautiful woman, surrounded by these mangoes, wonderful mangoes. In fact, my mother has shown me the mango trees and the place where this happened. Well, they were about to swim to her, but some people realized that this was not real – it was too beautiful, the mangoes were too beautiful. One boy swam to her, and he drowned. His body was never found. He vanished; everything vanished. My mother didn’t tell me that story as a folktale; that was an illustration to me of not believing what I saw, of really being able to tell that it was really a woman and not someone who would drown you.50

Kincaid percepisce che l’esperienza riportata dalla madre non è una favola ma, piuttosto, un avvertimento sulla reale esistenza di queste apparizioni. Un episodio analogo si riscontrerà nella vita dell’autrice: mentre si trovava a trascorrere del tempo a casa della nonna a Dominica, la

48 Cfr. Ibidem, p. 227. 49 Cfr. Ibidem, p. 229. 50 Cfr. Ibidem, p. 230.

(22)

22

Kincaid era solita osservare con grande meraviglia la luna e le montagne all’orizzonte, quando, ad un certo punto, sotto forma di una luce in movimento, scorse una figura spettrale che la fece sprofondare nella paura e nel terrore. In entrambe le circostanze, sotto le spoglie di questa donna bellissima, si nasconde la figura malefica della jablesse, personaggio ricorrente nell’immaginario caraibico. Nella maggior parte delle sue apparizioni, la jablesse indossa le vesti di una creatura bellissima che ammalia le sue vittime e le conduce alla morte e spesso si presenta con una natura ibrida, a metà tra umano e animale. Nella scrittura, Kincaid attinge spesso a questa figura metamorfica che risulta il simbolo di un mondo sospeso fra due realtà, quella magica e quella concreta, in cui vita e morte convivono. Ne deriva una messa in discussione di ogni certezza, come ha dichiarato la stessa autrice in un’intervista:

Reality was not to be trusted; the thing you saw before you was not really quite to be trusted because it might represent something else. And the thing you didn’t see might be right there – I mean, there were so many stories about people who were followed home by a dead person, and the dead person eventually led them to a pond. People would say: “Oh, the jablesse are out tonight.51

Kincaid però, nelle sue opere rivisita questa creatura servendosene come strumento per mettere in atto una strategia di resistenza contro le oppressioni del potere materno e di quello coloniale, come spiega Manuela Coppola:

Simbolo ancestrale della pericolosità femminile e metafora del tradimento culturale del Nuovo Mondo, la jablesse si fa espressione dell’ambivalenza coloniale e strumento di resistenza attraverso la sua performatività e mutevolezza. Se l’assunzione di diverse identità incarna la capacità di resistere e sopravvivere in ambienti ostili, Kincaid si appropria strategicamente della duplicità culturale della

jablesse, utilizzando il suo potere di trasformazione e dissimulazione per ricreare se stessa attraverso la

scrittura.52

Il mondo ambiguo e nascosto dell’obeah viene rievocato dall’autrice come un mezzo per ricostruire se stessa e per dar sfogo, soprattutto, a ciò che risulta alla base del suo profondo dolore, ovvero l’abbandono da parte della madre. Infatti, più di qualsiasi altro elemento, la figura della

jablesse “incarna la duplicità materna, al tempo stesso mostro terribile e creatura meravigliosa,

[che] racchiude in sé le potenzialità trasformative femminili”53. Essa, dunque, è legata intimamente alla figura della madre, simbolo ambivalente di donna protettrice e affettuosa e fonte di dolore, responsabile di sofferenze inflitte durante la fase infantile. Nella narrativa di Kincaid, le figure materne esprimono questa ambiguità attraverso varie metamorfosi che suggeriscono il cambiamento da donna amorevole a responsabile di tradimenti e disagi psicologici.

51 Ivi.

52 Cfr. Manuela Coppola, op. cit., p. 18. 53 Cfr. Ibidem, p. 114.

(23)

23

1.5 La madre perduta

54

L’intera produzione letteraria di Kincaid si concentra essenzialmente, o comunque mai sottovaluta il rapporto problematico con la madre; frequenti sono infatti i riferimenti al senso di abbandono e tradimento che l’autrice ha sperimentato nel corso della sua vita. Al di là dei temi centrali che pervadono la sua scrittura, quali il colonialismo, il rapporto con l’isola nativa, il razzismo, lo sfruttamento, ciò che caratterizza maggiormente la sua narrativa è un profondo senso di mancanza e di perdita, come afferma Diane Simmons:

At heart Jamaica Kincaid’s work is not about the charm of a Caribbean childhood, though her first and best-know novel, Annie John, may leave this impression. Nor is it about colonialism, though her angry essay A Small Place accuses the reader of continuing the exploitation begun by Columbus. Nor, finally, is Kincaid’s work about black and white in America, though her novel Lucy runs a rich white urban family through the shredder of a young black au pair’s rage. Kincaid’s work is about loss, an all but unbearable fall from a paradise partially remembered, partially dreamed, a state of wholeness in which things are unchangeably themselves and division is unknown.55

Alla base di questo senso di smarrimento vi è la brusca interruzione del rapporto con la madre a seguito della nascita dei tre fratelli, che la Kincaid ha vissuto come improvvisa privazione dell’affetto materno. L’affievolirsi delle attenzioni e dell’amore materni è un fattore che sta all’origine e che alimenta il profondo senso di tradimento con cui l’autrice in vari modi si confronta con la sua intera produzione. Già agli esordi della carriera, nei suoi scritti erano affiorate immagini evocanti stati d’animo associati all’abbandono e alla solitudine in relazione alla distanza emotiva della madre.

Il suo primo libro, una raccolta di racconti, comparsi inizialmente sulla rivista New Yorker tra il 1978 e il 1982 e, successivamente, pubblicati in volume con il titolo At the Bottom of the River (1983), ha avuto subito una ricezione positiva ed è stato premiato con il Morton Dauwen Zabel Award dall’American Academy and Institute of Arts and Letters. In questi racconti Kincaid narra la storia di una bambina antiguana e del suo rapporto con una madre allo stesso tempo amata e odiata, oltre ad inserire delle considerazioni riguardo le discriminazioni razziali e il progressivo costituirsi dell’identità. Data la matrice autobiografica della sua intera produzione, le storie narrate mostrano raccordi con la vita dell’autrice, con la storia della sua famiglia e il suo passato ad Antigua. In un altro dei suoi primi racconti, intitolato “Antigua Crossings” (1978), si possono individuare episodi analoghi a quelli da lei vissuti ad Antigua e dalla sua famiglia che ricorreranno

54 Per il taglio tematico dell’analisi delle opere di Jamaica Kincaid mi sono avvalsa delle informazioni contenute

all’interno del testo di J. Brooks Bouson, op. cit.

(24)

24

successivamente nelle sue opere maggiori: ella rivisita, infatti, il momento in cui il fratello Devon rischiò di morire per un attacco delle formiche rosse; la figura della nonna materna, che viveva a Dominica; le circostanze del litigio della madre con il padre e la conseguente decisione di partire per Antigua, nonché i delicati problemi di enuresi notturna che hanno contrassegnato la sua infanzia. Oltre a modellarsi su eventi personali, la storia si concentra sulla relazione umiliante fra madre e figlia: la ragazza, dodicenne, ricorda di come la madre, già quando lei aveva nove anni, non facesse altro che allontanarla continuamente da casa accusandola di essere una bugiarda ed una ladra.

Ovviamente, il tema della partenza da Antigua trova riscontro nella vita di Kincaid, dato che anche sua madre la considerava una ragazza ribelle, da domare anche ricorrendo a parole forti e atteggiamenti rudi. L’autrice stessa ricorda, infatti, il modo in cui la donna era solita umiliare i suoi figli, un modo “just astonishing and harsh – very cruel and very painful”.56 Il racconto “Girl”, che apre At the Bottom of the River, descrive perfettamente l’esercizio del potere della madre sulla propria figlia e il conseguente senso di umiliazione e vergogna di quest’ultima. Si tratta di un monologo, consistente in una lunga lista di istruzioni e avvertimenti che la madre propina alla figlia: inizialmente le fornisce dei comuni consigli riguardanti i lavori domestici, il bucato, il cucito o come preparare la tavola, ma successivamente la sua voce si fa sempre più autoritaria, ammonendola sugli obblighi e sul ruolo che deve ricoprire, in quanto donna all’interno della società caraibica. La madre, rivolgendosi in maniera sempre più ostile, fa capire alla figlia che il suo destino è quello di diventare una donna ubbidiente, dipendente dalla figura maschile; inoltre, la giovane deve guardarsi dal divenire motivo di vergogna per la famiglia, deve occuparsi della casa ed accettare le condizioni di sottomissione imposte dalla società. La figlia cerca invano di controbattere, ma la sua voce rimane inascoltata, o almeno apparentemente, perché in realtà, nell’animo della ragazza, aumenta la consapevolezza del tradimento materno e cresce la sua voglia di ribellarsi. Allo stesso modo, Kincaid sperimentò il desiderio di riscattarsi, cercando di definire la propria identità in modo indipendente.

Gli altri racconti presenti all’interno della raccolta comunicano lo stesso profondo senso di perdita e smarrimento, la privazione improvvisa di un amore materno idealizzato e la fine di un’infanzia edenica, caratterizzata da amore e armonia. Diane Simmons traccia questo percorso di crisi interiore, suddividendo i dieci racconti in tre distinti gruppi:

The first four stories, “Girl”, “In the Night”, “At Last”, and “Wingless”, deny the permanence of the loss but seek a way of going back, of being once again the child. The next group, “Holidays”, “The Letter from Home”, and “What I Have Been Doing Lately”, are told from the perspective of one who

Riferimenti

Documenti correlati

by means of a procurement contract (traditional pro- curement), public service delegation (concession or lease contracts) or a public private partnerships, options that we will

L’analisi delle riforme giuridiche lanciate dal 2005 al 2015 dimostra che il governo cinese ha compiuto svariati sforzi per rendere più accettabile l’imposizione

In his erudite study The Veil of Isis, Hadot argues that what is most frightening about the unveiling of Goddess Nature is the growing awareness of the principle underlying ear- thly

Fynes Moryson and Raphael Holinshed’s travel literature about the Irish landscape, social and political situation, and the habits of the wild Irish, helps us to

Recent analysis of stellar X-ray/rotation relations also discourages the coronal stripping interpretation (Wright et al. 2012) have in fact shown that radio emis- sion, unlike

Very rare observations have shown that there are features, called “orphan” penumbra, that appear to have some characteristics in common with penumbrae surrounding umbrae in

A first estimate of the fraction of BP/RP tran- sits that will be strongly crowded into the focal plane, taking into account the overlapping of the two fields of view, has

X-ray bright late-type stars have been selected as targets of XMM-Newton ob- servations, with the aim to study in detail the plasma thermal distributions and chemical abundances