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3.4 Stratificazioni prospettiche

3.4.2 L’impiego di “We”: il caso del punto di vista plurale

Come già evidenziato, la maggior parte della narrazione viene condotta adottando il pronome di prima persona singolare, proprio per accentuare la condizione di fragilità e solitudine della protagonista. Nonostante questo, però, ci sono occasioni nelle quali Kincaid amplia la prospettiva di Xuela per descrivere soprattutto situazioni in cui la protagonista decide di includere nelle sue riflessioni altri personaggi, condividendo con loro alcune esperienze all’insegna di una coscienza collettiva. Un esempio è offerto all’interno dell’episodio in cui Xuela, prima di essere mandata dal padre a Roseau, si trova in classe insieme ai compagni, insieme ai quali avverte un senso di disagio e le stesse sensazioni di distacco e timore. Infatti, le relazioni tra gli studenti non si fondano qui sull’amicizia, bensì sulla paura e sulla diffidenza reciproca, come conseguenza dell’afferire a una comunità colpita dal medesimo destino di oppressione e umiliazione:

We were not friends; such a thing was discouraged. We were never to trust each other. This was like a motto repeated to us by our parents; it was a part of my upbringing, like a form of good manners: You cannot trust these, my father would say to me, the very words the other children’s parents were saying to them, perhaps even at the same time. That “these people” were ourselves, that this insistence on mistrust of others ─ that people who looked so very much like each other, who shared a common history of suffering and humiliation and enslavement, should be taught to mistrust each other, even as children, is no longer a mystery to me.289

Dunque, sebbene gli alunni siano accomunati dallo stesso passato e molti dei loro antenati siano stati schiavizzati o sterminati, sentono di non aver nessun tipo di legame “positivo” che li unisca; inoltre, a rafforzare questo sentimento di reciproco scetticismo si aggiungono i rispettivi genitori, che non fanno altro che ripetere ai figli di non instaurare nessun tipo di amicizia e di non fidarsi mai degli altri ragazzi. L’autrice, nel raccontare l’esperienza scolastica di Xuela con i compagni di classe, vi include anche l’insegnante, una discendente del popolo africano, le cui origini risultano essere per lei stessa motivo di vergogna e di umiliazione. In questo frammento di racconto, Kincaid utilizza di nuovo la prima persona plurale per tradurre l’atteggiamento ostile e indifferente degli alunni nei confronti della maestra (e viceversa): “She did not love us; we did not love her; we did not love another, not then, not ever”.290 Dunque, l’insegnante e gli alunni sono

accumunati da un atteggiamento di disprezzo e sfiducia nei confronti del prossimo e questo non fa altro che separare gli individui e impedire qualsiasi tipo di confronto o dialogo costruttivo. Anche in questa occasione si può ribadire come le vicende di un passato doloroso e difficile si

289 Cfr. Jamaica Kincaid, The Autobiography of My Mother, cit., pp. 47-48. 290 Cfr. Ibidem, p. 15.

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ripercuotano nelle relazioni interpersonali e come la storia collettiva si intrecci con quella individuale nel racconto della nostra protagonista: “Although Xuela’s story is intensely private, avoiding mention of the island’s political affairs in favor of her thoughts and relationships, it is imbrued with the history of colonialism and slavery”.291

Nell’universo di questo romanzo, nessuno si sente a lungo vicino all’altro e nessuno è in grado di parlare apertamente della propria condizione e del proprio passato, proprio perché questo agisce come una forza inibitrice e devastante al contempo: “Despite Kincaid’s plural view, no one talks openly and jointly about the island’s history, a situation reinforcing a pattern of the inhabitants’ oppression through their inexpression of themselves”.292

In un’altra occasione ricorre l’utilizzo della forma plurale, ovvero nella descrizione del momento in cui Xuela ed altri ragazzi si riuniscono per parlare della straordinaria apparizione di una donna lungo il fiume, la quale attirerà a sé uno di loro conducendolo alla morte. La testimonianza fornita dai giovani rappresenta però una sorta di tabù, perché dialoga con elementi fantastici alla base dei racconti mitologici della cultura nativa e, per questo, rifiutata dalle rispettive famiglie. I ragazzi decidono dunque di tacere sull’episodio perché spinti dai genitori a mettere in dubbio la veridicità di certe manifestazioni ultraterrene. Se essi sono, così, costretti al silenzio, Xuela articola invece una riflessione da cui emergono la sua forza e la sua ostinazione perché, nonostante il sospetto e lo scandalo che ruota attorno a questa vicenda, ella rivendica fermamente il diritto di credere all’apparizione:

Everything about us is held in doubt and we the defeated define all that is unreal, all that is not human, all that is without love, all that is without mercy. Our experience cannot be interpreted by us; we do not know the truth of it. Our God was not the correct one, our understanding of heaven and hell was not a respectable one. Belief in that apparition of a naked woman with outstretched arms beckoning a small boy to his death was the belief of the illegitimate, the poor, the low. I believed in that apparition then and I believe in it now.293

L’autrice impiega la forma plurale non solo per descrivere i momenti in cui Xuela dialoga con i compagni di classe, ma anche per illustrare quei passaggi che vedono la protagonista rapportarsi con le altre donne, con le quali condivide la medesima condizione di sottomissione sociale. Uno degli esempi più lampanti si ravvisa quando Xuela trascorre del tempo insieme a Lise LaBatte, una donna simile a lei, molto sensibile, fragile, con la quale stringe un rapporto di amicizia e di reciproca confidenza. La comunicazione fra le due, però, si presenta fitta di silenzi, di sguardi e gesti da cui traspaiono alcune verità nascoste, come il fatto che Xuela sia la compagna segreta del

291 Alexandra Shulteis, “Family Matters in Jamaica Kincaid’s The Autobiography of My Mother”, Jouvert, 5, 2001,

p. 22.

292 Cfr. Tara Hembrough, op. cit., p. 9.

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marito, Jacques LaBatte, con il quale si intrattiene di notte; un giorno infatti, mentre Lise spiega come preparargli il caffè, Xuela afferma:

When we were alone we spoke to each other in French patois, the language of the captive, the illegitimate; we never spoke of what we were doing, we never spoke for long, we spoke of the things in front of us and then we were silent. […] We sat on two chairs, not facing each other, speaking without words, exchanging thoughts. She told me of her life […].294

Dunque, se è vero che Lise e Xuela dialogano, le loro parole non sono il veicolo di uno scambio verbale interattivo a tutti gli effetti. Inoltre, ciò che emerge da questo passo è che i due personaggi non discutono della propria condizione di donna in quanto soggetto sociale, bensì di fatti secondari e circostanze che si verificano quotidianamente, omettendo una realtà più profonda, ovvero il loro legame con lo stesso uomo. In questo caso, l’utilizzo della forma plurale oggettiva la vicinanza tra le due donne e la loro complicità, ma mette anche in risalto la difficoltà della loro comunicazione, che risulta piena di lacune; ciò suggerisce nuovamente come tutti i personaggi rappresentati dall’autrice, soprattutto quelli femminili, appaiano chiusi in se stessi e nei loro silenzi, intrappolati nel loro dolore e incapaci di esprimere i propri pensieri per paura di essere giudicati e di non essere accettati da una società improntata a valori di stampo patriarcale e coloniale. Nei passi successivi, Kincaid include nei dialoghi fra le due donne anche la voce di Monsieur LaBatte: i tre personaggi sono coinvolti in un triangolo amoroso, ma nessuno di loro pronuncia una parola a riguardo. Si pensi, ad esempio, a quando Xuela racconta di un incontro notturno con Jack, con Lise in ascolto, ma mai pronta a menzionare questo fatto. Dunque, con un intrecciarsi di segretezza e finzione compiaciuta, Xuela descrive così le dinamiche fra i tre:

The rain fell and we no longer heard it, we would hear only its absence, my days full of silence yet crowded with words, my nights full of sighs, soft and loud with agony and pleasure. I would call out his name, Jack, sometimes like an epithet, sometimes like a prayer. We were never alone together, the three of us; she saw him in one room, I saw him in another. He never spoke to me, not even in silence. He was behaving in a way he knew well, I was following a feeling I had, I was acting from instinct. The feeling I had, the instinct I was acting from, were all new to me. She heard us. She never let me know that she did, that she could hear us.295

In questi passi emerge chiaramente l’incapacità dei tre personaggi di confrontarsi direttamente; essi sono incapaci di dialogare, o meglio, si rifiutano di parlare, fingendo di non accorgersi della tresca nella quale sono coinvolti. Questo trio, dunque, rinuncia alla possibilità di condividere ed esplorare i pensieri dell’altro e, nonostante l’utilizzo del “we”, la comunicazione fra di loro non avviene; ognuno opta per il silenzio, lottando per salvaguardare la propria incolumità psichica. I

294 Cfr. Ibidem, pp. 74-75. 295 Cfr. Ibidem, p. 77.

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rapporti fra i tre si fanno ancora più freddi nel momento in cui Xuela, a seguito dell’aborto, ritorna a casa dei coniugi LaBatte e trova davanti alle scale la coppia che la sta aspettando; in questa circostanza, Kincaid descrive la situazione dal punto di vista di Xuela, in modo da far emergere il distacco fra di loro e, anche se viene adottato il plurale, ciò che si palesa è proprio il fatto che questo trio non ha più niente da condividere. Le loro strade ormai si sono separate, con un vissuto doloroso che ha trasformato ciascuno di loro in maniera diversa:

We stood, the three of us, in a little triangle, a trinity, not made in heaven, not made in hell, a wordless trinity. And yet at that moment someone was of the defeated, someone was of the resigned, and someone was changed forever. I was not of the defeated; I was not of the resigned.296

Dunque, anche quando Kincaid amplia il punto di vista di Xuela attraverso l’uso del “we”, questa polifonia finisce spesso col veicolare la diffidenza tra i personaggi, nonché le difficoltà e le incomprensioni che la protagonista deve affrontare nel rapportarsi con le altre persone. Ad esempio, quando Xuela fa un tratto di strada con i compagni di classe o dialoga con Lise, il desiderio di attenuare la propria solitudine si stempera nella delusione e nel rammarico, generati da una consapevolezza profonda del fallimento dei suoi rapporti con gli altri, siano essi donne, ragazzi o uomini. Ed è proprio questo il tema centrale di The Autobiography of My Mother, ovvero l’idea che, una volta che l’identità di un individuo è stata alterata, annullata o lacerata da vicissitudini drammatiche, la storia di quest’ultimo risulterà proporzionalmente incoerente e svuotata. Nel caso della protagonista, ciò si lega alla parziale oscurità delle sue origini e alla natura del suo trascorso doloroso: la madre perduta si fonde con la cultura mitica dell’isola nativa di Dominica, che è stata violentemente sottomessa, persino in modo simbolico dal padre Alfred, (di origini afro-scozzesi), il quale assume nei confronti dei nativi un atteggiamento di superiorità che lo vede pericolosamente affiancarsi ai colonizzatori. Sia quando introduce momenti autoreferenziali, sia quando include altri personaggi, Xuela cerca di analizzare e comprendere le vicende che l’hanno portata a condurre un certo tipo di esistenza, ma, non appena svela i propri pensieri o condivide le proprie idee con gli altri, il tentativo di allargare l’orizzonte fallisce, in quanto troppe sono le barriere che si sono andate fortificando nei decenni.

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CONCLUSIONI

Come già evidenziato, l’opera presa in analisi è stata definita da vari critici un Bildungsroman; in realtà, però, il difficile percorso di maturazione di Xuela non si conclude con una positiva integrazione. L’elemento fondamentale che ha impedito alla protagonista di avviarsi in un cammino di crescita dialetticamente costruttivo è il fatto di non possedere nessuna figura di riferimento alla quale ispirarsi o su cui modellarsi, nessun esempio da seguire o guida che le abbia fornito dei saggi consigli per elaborare un trauma che ha profonde radici storiche, familiari ed etniche. Di conseguenza, Xuela si trova costretta a ricostruire il proprio mondo e formulare i propri codici etici e morali, anche in modo idiosincratico, come spiega Elizabeth J. West:

Abandoning mentors and epistemological frameworks, the narrator creates her own book of values to conduct her life. She represents the existential protagonist who seats herself at the center of her world, constructing codes of ethics and morality that originate in her own self-conceived and self-validated paradigms.297

Spesso, le donne caraibiche sono state dipinte come figure “mezzo-sangue” e peccaminose, “living on the edges of urban communities belonging to no settled culture or tradition”298; tuttavia,

nell’opera di Kincaid, Xuela si cala nel ruolo di storyteller per confrontarsi con le circostanze e le ingiustizie subite, che la accomunano a tutti coloro a cui è stata sottratta e distrutta l’identità, insieme alla cultura dell’isola nativa. Infatti, The Autobiography of My Mother esplora “the structures of domination, racism, sexism, and class exploitation and shows the manner in which they make it practically impossible for black women to survive if they do not engage in meaningful resistance”.299 Inoltre, la donna originaria dei Caraibi ha tendenzialmente coltivato il culto della

maternità anche in quanto “antidote to paternal power”300, condizione che però “limits female sexuality and identity to procreation, thereby reinscribing the metaphor of family”301. Si tratta di

un paradigma che, al contrario, Xuela rifiuta, come preannuncia il momento in cui il primo ciclo mestruale la fa sentire più forte e determinata, ma in una direzione che la spinge a rifiutare la maternità, concentrandosi unicamente sulla propria auto-affermazione: “I had never had a mother, I had just recently refused to become one, and I knew then that this refusal would be complete”.302

297 Cfr. Elizabeth J. West, op. cit., p. 8. 298 Cfr. Susheila Nasta, op. cit., p. 20. 299 Cfr. Elizabeth J. West, op. cit., p. 20. 300 Cfr. Alexandra Shulteis, op. cit. 301 Ivi.

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Oltre a questo rifiuto crudelmente categorico, dall’analisi condotta sul testo, emerge la tensione tra il senso di emarginazione della protagonista, oggettivato attraverso il punto di vista individuale, e la sua lotta per intessere relazioni, ovvero la ricerca di un punto di vista plurale. A conclusione del romanzo, Xuela comprende che non le rimane altro che esprimersi in solitudine, in quanto è per lei difficile instaurare un rapporto con le persone che incontra durante il suo percorso di vita; l’unico legame che vorrebbe coltivare davvero si riduce a una chimera, perché la persona in questione, ovvero la madre, è morta. La protagonista, dunque, si trova sola e la storia che narra si rivela incentrata su di lei, sui suoi cambiamenti e sul suo percorso di autoaffermazione, come lei stessa drammaticamente dichiara dopo aver abortito: “I was a new person then, I knew things I had not known before, I knew things that you can know only if you have been through what I had just been through. I had carried my own life in my own hands”.303 Questa drammaticità trapela anche dal fatto che Xuela, già all’età di quattordici anni, era consapevole di quanto la sua vita fosse “small and limited”304 e di come la storia del suo popolo assomigliasse ad una “big, dark room,

which made them hate silence”305. D’altro canto, i suoi limiti e la presa di coscienza della sua

situazione, così come di quella della sua comunità di appartenenza, hanno alimentato in lei una forza corrosiva che le ha consentito di affrontare le circostanze spesso dolorose della vita in maniera coraggiosa e indipendente.

In conclusione, si può affermare che il romanzo ci trasporti con una singolare energia e un impeto provocatorio all’interno del percorso di maturazione di Xuela, con il suo torbido universo emotivo; il bilancio di una vita intera si proietta attraverso le parole della protagonista in un testo che rivisita la modalità intimista, coinvolgendo il narratario in un dibattito a dir poco acceso. Con il suo stile ipnotico e tagliente, Kincaid re-immagina una storia di solitudine, emarginazione e crescita dove l’io narrante, una donna la cui vita è segnata da un’assenza incolmabile, senza rassegnarsi, rifiuta la continuità generazionale senza mai dimenticare gli antenati. Dominica diviene, in tal senso, il sogno di un Eden perduto, così come un incubo da esorcizzare.

303 Cfr. Ibidem, p. 83. 304 Cfr. Ibidem, p. 59. 305 Cfr. Ibidem, p. 62

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