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La dignità dei campesinos: proposta di traduzione e commento del romanzo Obdulia de los Alisos

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUISTICA E

TRADUZIONE

TESI DI LAUREA

La dignità dei campesinos: proposta di traduzione e

commento del romanzo Obdulia de los Alisos

CANDIDATO

RELATORE

Laura Pucci

Chiar.ma Prof.ssa Rosa María García Jiménez

CONTRORELATORE

Chiar.ma Prof.ssa Alessandra Ghezzani

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Sommario

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO I ... 5

OBDULIA DE LOS ALISOS: L’AUTORE E IL CONTESTO STORICO ... 5

1. Miguel Arribasplata ... 5

1.1 Il buio del Perù ... 6

1.2 Il movimento contadino ... 9

1.3 Indigenismo, neoindigenismo e letteratura della violenza ... 12

1.4 La narrazione del conflitto armato ... 13

1.5 La storia di Obdulia e le sue storie ... 17

CAPITOLO II ... 21

LO SPAGNOLO D’AMERICA E LA VARIETÀ PERUVIANA ... 21

2. Considerazioni generali ... 21

2.1 L’incontro con il Nuovo Mondo ... 24

2.2 Caratteristiche fonetiche dello spagnolo in America ... 26

2.3 Caratteristiche morfologiche dello spagnolo d’America ... 28

2.4 Tuteo, voseo, ustedeo ... 29

2.5 La varietà andina ... 30

2.6 La varietà del Perù andino... 31

CAPITOLO III ... 33

COMMENTO LINGUISTICO ... 33

3. Processo traduttivo ... 33

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3.2 Le fasi del processo traduttivo ... 34

3.3 Le strategie traduttive ... 36

3.3.1 L’approccio traduttivo ... 36

3.3.2 Il metodo traduttivo ... 38

3.3.3 Le tecniche traduttive ... 39

3.4 Scelta della lingua d’arrivo: l’italiano popolare ... 40

3.5 Caratteristiche dell’italiano popolare ed esempi del lavoro svolto ... 42

3.5.1 Livello morfologico ... 42

3.5.2 Livello sintattico ... 45

3.5.3 Livello lessicale ... 48

3.6 La varietà peruviana in Obdulia de los Alisos ... 49

3.6.1 Livello fonetico ... 49

3.6.2 Livello morfologico ... 52

3.6.3 Livello lessicale ... 55

3.6.4 La lingua scritta ... 58

3.7 Strategie traduttive adottate in Obdulia de los Alisos ... 60

CAPITOLO IV ... 75

PROPOSTA DI TRADUZIONE ... 75

4. Analisi dei capitoli presi in esame ... 75

4.1 Proposta traduttiva di alcuni capitoli tratti dal romanzo Obdulia de los Alisos ... 77

CONCLUSIONE ... 186

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ... 188

RIFERIMENTI SITOGRAFICI ... 191

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3

INTRODUZIONE

La presente dissertazione si propone di studiare e analizzare il romanzo

Obdulia de los Alisos scritto dall’autore peruviano e professore universitario

Miguel Arribasplata Cabanillas, e di suggerirne un’eventuale traduzione, seppur parziale e non integrale.

L’intento dell’autore è quello di dare voce agli emarginati, qui rappresentati dalle famiglie dei contadini peruviani delle Ande, affinché possano recuperare una dignità e rivendicare la propria identità; sono, infatti, liberi di esprimersi attraverso la varietà andina, che caratterizza geograficamente la zona, ma con tutte le peculiarità proprie della lingua dei campesinos non istruiti.

L’idea di realizzare tale lavoro deriva da un forte interesse verso le numerose varietà della lingua presenti nel mondo ispanico e verso un romanzo non conosciuto e non rintracciabile nella nostra cultura, perché mai tradotto e, di conseguenza, incomprensibile al grande pubblico. L’intento della traduzione proposta è quello di comprendere un ampio numero di lettori, fornendo note, laddove necessario, o chiarificazioni direttamente all’interno del testo.

La tesi si suddivide in quattro capitoli: nel primo, attraverso numerose interviste riportate nelle varie riviste peruviane, è stato possibile conoscere il pensiero dell’autore, non solo riguardo all’opera oggetto di analisi, ma anche riguardo ad altri suoi scritti, in cui domina il punto di vista degli emarginati, dei

mestizos, dei contadini, durante il periodo della storia politica più tragica del Perù,

segnata dalla presenza di Sendero Luminoso e del Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru (MRTA), che hanno stravolto la quotidianità del paese degli anni ’80.

Nel secondo capitolo, dopo alcune considerazioni generali e dopo aver ripercorso la storia dell’incontro con il Nuovo Mondo, viene descritto lo spagnolo impiegato in America e, nella fattispecie, la varietà del Perù andino; le descrizioni linguistiche sono presentate sotto il punto di vista fonologico, morfologico e lessicale, affinché sia chiara la distinzione che contraddistingue tali varietà dallo spagnolo peninsulare.

Il terzo capitolo contiene l’analisi contrastiva dei due testi e la spiegazione delle scelte effettuate durante il lavoro traduttivo, dopo aver illustrato i tre livelli

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d’intervento che consentono la scelta delle strategie traduttive: l’approccio, il metodo e le tecniche.

Nel testo originale, sarà possibile osservare la presenza di numerosi tratti linguistici rurali, resi in un italiano popolare che va oltre a quello descritto da De Mauro e Berruto, poiché presenta sgrammaticature tipiche dei non istruiti, ai fini di riflettere il più possibile il parlato della protagonista, Obdulia, e i personaggi che la circondano.

Nel quarto capitolo, infine, viene presentata, a fronte del testo originale, la traduzione dei capitoli più salienti. L’intento è stato quello di restare il più vicino possibile al testo di partenza, considerando comunque la cultura d’arrivo, soprattutto per quanto riguarda la presenza di elementi culturo-specifici, i quali sono stati generalizzati, omessi, addomesticati o chiariti in nota.

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CAPITOLO I

OBDULIA DE LOS ALISOS: L’AUTORE E IL CONTESTO

STORICO

1. Miguel Arribasplata

Miguel Arribasplata Cabanillas (San Pablo, Cajamarca, 1951), oltre a essere professore universitario di Scienze della Formazione presso l’Università di Lima, è anche autore di molti romanzi, come Agosto todo el año (1975), Tierra

sin cosecha (1978), Los tres estamentos (romanzo universitario, 1986), Sacramento Chanducas (1987) e Obdulia de los Alisos (1989); nel 1982 pubblica,

inoltre, il libro di racconti Tandal (DOMÍNGUEZ AGÜERO 1989, p.11). Tra le sue

pubblicazioni più recenti, invece, troviamo: Lucía y otros cuentos (2000), Bajada

de reyes (2001) e Julián Huanay y la literatura proletaria en el Perú (2007).

Nell’articolo No creo en el Perú prfoundo pubblicato su La República (ESCRIBANO, 2006) si legge che Miguel Arribasplata è uno scrittore poliedrico che si colloca a metà tra due mondi, quello contadino e quello urbano:

Uno, en el espacio campesino –nació en la campaña de Cajamarca–, y dos, en el universo urbano. Así, su escritura se orienta alternativamente hacia ambos mundos. Cuando mira el campo, la protagonista de sus historias es sobre todo la mujer. Cuando aborda la ciudad, sus personajes son los inconformes y también la corruptela, la inmoralidad campeante y el mundo juvenil.

Sempre nello stesso articolo, l’autore rivela gli aspetti principali delle sue opere, come la quotidianità, il mondo interiore, la figura femminile, facendo riferimento anche all’opera oggetto di analisi Obdulia de los Alisos:

Mi novela Obdulia de los Alisos es un monólogo. El tema es la cotidianidad del ser. Es decir, el mundo interior. Particularmente me interesa la mujer como protagonista, que es la gran excluida de la novela indigenista y neondigenista. La mujer casi siempre aparece solo como reproductora, pero no como hacedora de historia [...] Mis personajes son de estirpe mestiza

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cuyo lenguaje registra dichos, refranes. Son alegres, vitales y llenos de erotismo que también forma parte de la vida del campo.

Si dissocia, inoltre, dalla corrente indigenista, sostenendo che i campi, il dolore e tutti questi “-ismi” sono argomenti eccessivamente reiterati:

[...] yo trabajo con los postulados técnico formales de Vargas Llosa, de Faulkner y Hemingway. Si se trata del campo, me orienté básicamente con Rulfo y Vallejo. El tema agrario ya está cansado de los ismos, en este caso el neoindigenismo, que es puro paisaje y puro dolor [...] Los escritores peruanos no reflejan los grandes dramas del Perú, y solo se van por una tangente, y enmarcan con asuntos de amor, algo melodramático y simple. Eso es todo, y no tocan la fibra del Perú como problema y posibilidad.

Un altro aspetto importante della sua narrativa è quello dell’oralità: a Cajamarca la tradizione orale è molto praticata; nell’infanzia dell’autore è stata determinante, soprattutto grazie alla figura del padre. Infatti, nell’intervista rilasciata per la rivista Lima Gris (2016), Miguel Arribasplata ne racconta l’importanza:

Es que en Cajamarca hay grandes narradores. La oralidad es una tradición normal allí, aunque pocos son los que escriben, porque más pesa la tradición oral, y es muy fluida. Los campesinos cuando labran la tierra se van en pura broma, canciones, moralejas, y el contrapunto sobre todo. En primer año de primaria practicábamos el contrapunto entre compañeros, desde ahí aprendí a dar discursos [...] Mi padre también era un gran narrador; él ha sido un líder en Cajamarca. Mi padre me contaba las historias de la guerra con Ecuador, siempre cantaba pasillos y rancheras cuando montaba a caballo [...]

Questo pensiero, certamente, influenza il metodo narrativo adottato per la scrittura di Obdulia de los Alisos.

1.1 Il buio del Perù

In Obdulia de los Alisos i personaggi vivono gli anni della sindacalizzazione contadina, gli anni della storia più nera del Perù.

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È necessario fare un passo indietro, fino alla decade del 1920, quando i proprietari terrieri sottrassero e si appropriarono dei possedimenti degli indigeni, i quali intrapresero azioni legali e persino trattative d’acquisto delle terre a loro appartenenti.

Molte comunità, quindi, furono private di porzioni importanti di terreni che si ridussero a quantità esigue o che furono interamente incorporate ai latifondi; di conseguenza, per poterne usufruire, era necessario pagare una quota periodica, o sotto forma di lavoro o in cambio di prodotti. Tali abusi furono denunciati e a questi seguì un processo legale di recupero delle terre; il risultato, tuttavia, non si rivelò un successo. Lo stesso presidente Manuel Prado (1956-1962) incaricò una commissione affinché fornisse misure e strategie efficaci atte a risolvere tale situazione. Furono, però, i contadini a prendere l’iniziativa e, tra gli anni ’50 e gli anni ’60, nella zona occidentale delle Ande, il movimento prese forma e si espanse a tal punto che persino le comunità indigene che rivendicavano le proprie terre riuscirono a imporsi e a ottenere riconoscimenti dal Ministero del Lavoro. Non si trattava, però, di un movimento aggressivo, in quanto escludeva completamente la violenza: non era spontaneo, bensì coordinato, una lotta collettiva delle province andine che poco a poco tentavano di recuperare semplicemente le terre a loro spettanti, non un metro di più, il tutto in nome della legalità (AA.VV, 2015).

Seguirono gli anni di Sendero Luminoso (Partito Comunista del Perù sul sentiero luminoso di Mariátegui), un’organizzazione guerrigliera d’ideologia maoista, sorta nella provincia andina di Ayacucho tra il 1969 e il 1970 e praticante un terrorismo spietato e una violenza selettiva, non solo verso i rappresentanti dello Stato (“oppressore”), ma verso chiunque si ribellasse ai suoi ideali di lotta contro il progresso, verso gli stranieri e la civiltà occidentale (ROUQUIÉ, 2015, p. 234).

Sendero, guidato dal terrorista Abimael Guzmán, intraprese le sue prime

operazioni contro il regime di Lima nel 1980; nei successivi sette anni la sua potenza crebbe fino a diventare una seria minaccia per il governo peruviano: il numero delle vittime svettò a 10.000 e 12.000 risultarono gli attentati terroristici,

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tutti eseguiti tramite auto-bomba e attacchi a obiettivi strategici, tra cui i distaccamenti del Governo centrale nelle zone andine (RAPOPORT, 2001, p. 109).

Nel 1984 la situazione si aggravò a causa di azioni sovversive contro lo Stato per mano del Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru (MRTA), fondato da tre uomini radicali (Victor Polay, Nestor Cerpa e Miguel Rincon), nati e cresciuti in una società repressiva, i quali si scagliarono contro la corruzione del governo peruviano. Lo scopo principale del gruppo rivoluzionario era riformare il governo e creare una società di pari opportunità; i membri del MRTA decisero, dunque, che il modo migliore per ottenere la vittoria era attaccare singoli e organizzazioni di potere, senza, tuttavia, ricorrere alla forza letale. Malgrado il rispetto del MRTA verso la vita, il gruppo non si lasciò sfuggire di mano una fine di estrema violenza (BAER, 2003, pp. 4-7).

Secondo quanto riportato nel 2003 dalla Comisión de la Verdad y

Reconciliación, commissione peruviana incaricata di fornire dati sul terrorismo in

Perù dal 1980 al 2000, gli attacchi dei gruppi rivoluzionari e le risposte dello Stato portarono a un totale di oltre 70.000 vittime della violenza, la maggior parte delle quali erano contadini delle Ande, analfabeti e parlanti quechua, che vivevano in una situazione di estrema povertà e marginalizzazione sociale (VILLAGÓMEZ

2018).

Il periodo della violenza ha segnato drasticamente la vita delle persone coinvolte, a partire dalla perdita di diritti fondamentali (vita, integrità personale, residenza, proprietà, protezione della famiglia) e delle libertà politiche, fino a giungere a un impoverimento economico, una bassa produttività e la distruzione materiale di strumenti, infrastrutture e servizi. Inoltre, la guerra ha portato alla scomparsa e al ridimensionamento delle istituzioni statali, se presenti, e comunali; ha prodotto danni psichici ed emotivi, difficilmente restaurabili, in seguito alle violenze fisiche e psicologiche subite dalle popolazioni vittime; è stata la causa della cosiddetta ‘produzione sociale’ di malattie, non solo per le sofferenze fisiche immediate, ma anche per le discriminazioni subite dai rifugiati al trasferirsi in zone con diverse condizioni igieniche, che si aggiungevano ai pregiudizi etnici, di genere, di classe, d’età. Le cattive condizioni igieniche hanno fatto sì che si diffondessero varie malattie tra gli sfollati (desplazados), tra cui la tubercolosi,

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l’Aids, diffusosi anche tra chi tornava nei luoghi d’origine, e le epidemie di colera che colpirono il Perù a più riprese dal 1991. La guerra sucia peruviana si è, dunque, caratterizzata da un lato per l’assenza dello Stato nella prevenzione e nella protezione dei propri cittadini, dall’altro per l’aperta aggressione ai cittadini da parte di gruppi armati. Inoltre, è doveroso ricordare la presenza di altre sfaccettature di violenza, come il narcotraffico e le politiche economiche inefficaci nei confronti degli strati più poveri della popolazione. Il vecchio modello andino del controllo verticale dei piani di produzione saltò, in quanto le zone più alte della sierra rimasero coinvolte dal transito della guerriglia, con conseguente abbandono anche dei pascoli. I conflitti che si scatenarono tra le comunità delle valli interandine furono causati sia dalle accuse mosse da Sendero

Luminoso di collaborare con lo Stato, sia dalle spedizioni punitive dei gruppi di

autodifesa che si formarono nel frattempo, nei confronti di comunità ritenute colpevoli, a loro volta, di collaborare con Sendero Luminoso. Tutto questo condusse alla creazione di un clima di sospetto reciproco tra abitanti di zone limitrofe (GUARNIERI CALÒ CARDUCCI 2009, pp. 18-19).

1.2 Il movimento contadino

A partire dagli anni ’30 e ’40 del XX secolo, le diverse azioni portate avanti dai contadini erano, in qualche modo, legate o al Partido Aprista Peruano (PAP) o al Partido Comunista (PC). La salita al potere di Luis Bustamante y Rivero (1945-1948) rese possibile ai diversi movimenti il poter esprimere le proprie richieste e provare a legalizzare le proprie organizzazioni. In effetti, fu significativa la quantità di sindacati agrari e di comunità contadine che si legalizzarono durante il governo Bustamante. I livelli di mobilitazione, sia nella sierra che nella costa, si rivelarono i più alti mai registrati nella storia del Perù. Gli scioperi nella costa e le invasioni di terre nella sierra, nel 1947, generarono le condizioni per la creazione della Federación General de Yanaconas y Campesinos

del Perú. In seguito, se ne crearono altre, tra cui la Federación Nacional de Campesinos del Perú (FENCAP) e la Confederación Campesina del Perú (CCP).

Il sistema politico che previde il ritorno alla dittatura del generale Manuel A. Odría (1948-1956) fermò per un istante i movimenti di sindacalizzazione, ma

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dal 1950 al 1964 questi ripresero lungo tutto il territorio nazionale, assieme a un’abbondante vendita delle terre da parte dei proprietari terrieri (1950-1960).

Tra il 1956 e il 1964, già sotto il governo di Manuel Prado, fu possibile identificare fino a 413 movimenti contadini e solo nel 1962 risultarono essere 70 le proprietà invase, con lo scopo di recuperare le terre sottratte dai proprietari terrieri. Il movimento più importante si registrò nelle province di Lares e La Convención (Cusco), tra il 1956 e il 1962, in concomitanza con il periodo di governo di apertura di Prado. Il leader di questo movimento, Hugo Blanco, un

mestizo d’ispirazione trotskista, riuscì a promuovere con successo la

sindacalizzazione, gli scioperi e le invasioni per recuperare le terre in precedenza comunali. L’eco del trionfo della Rivoluzione Cubana nel 1959 contribuì al consolidamento della presenza di ideologie marxiste all’interno del movimento contadino.

Da allora fino all’irruzione armata di Sendero Luminoso nel 1980 e quella del MRTA nel 1982, l’influenza del marxismo nel movimento contadino fu permanente. L’idea della necessità di una riforma agraria che rendesse giustizia alle zone di campagna cominciò a diffondersi dagli inizi del XX secolo, principalmente da parte dell’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana), da parte dei socialisti e dei comunisti, ma anche, successivamente, da parte dei gruppi riformisti social cristiani e dei progressisti in generale. In seguito, il presidente Manuel Prado nominò una commissione di alto livello con lo scopo di elaborare un progetto di riforma agraria, il quale fu terminato nell’ultima fase del suo governo, malgrado alla fine decise di non applicarlo. Il suo successore, Fernando Belaúnde Terry (1963-1968), promise durante la sua campagna elettorale di promulgare la Ley de Reforma Agraria; una volta al potere, però, non ebbe la capacità politica per metterla in vigore. Questo generò una serie di reazioni sociali, come lo scoppio delle guerriglie del Movimiento de Izquierda

Revolucionaria (MIR) e dell’Ejército de Liberación Nacional (ELN) nel

1964-1965, i quali furono sconfitti senza troppe difficoltà. Un’altra conseguenza immediata fu il colpo militare del Generale Juan Velasco Alvarado, il 3 ottobre del 1968, che, con il suo gruppo militare, obbligò alle dimissioni il presidente Fernando Belaúnde Terry.

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Un sistema politico autoritario di dittatura militare faceva presagire la ripetizione di esperienze militari anteriori; tuttavia, Velasco Alvarado sorprese chiunque con l’instaurazione del processo di riforme sociali ed economiche più importanti della storia del Perù, a partire dalla promulgazione dell’anelata Ley de

Reforma Agraria nel 1969. Questa misura fu considerata come una delle più

radicali della storia dell’America Latina, forse comparabile alla riforma agraria cubana. Fu durante il suo governo che ebbe inizio il processo di democratizzazione sociale più significativo del Perù, malgrado si trattasse di un governo autoritario. Le nuove organizzazioni contadine (Ligas Agrarias) sostituirono il potere locale con i precedenti gruppi dominanti in molte zone del paese. Solamente questo fatto aprì le porte a una dinamica di cambiamento sociale che non si è più interrotto.

Dal punto di vista culturale, il governo di Velasco promosse una politica volta a rivalorizzare la tradizione andina e popolare, con la dichiarazione, per esempio, di voler rendere il quechua la lingua ufficiale dello Stato, assieme allo spagnolo. Alcuni storici notano, infatti, una tendenza neoindigenista negli ultimi tempi della dittatura di Velasco. Nel 1971, questo governo militare creò il Sistema

Nacional de Movilización Social (SINAMOS), con l’intento di promuovere la

creazione di movimenti sociali sindacali che, negli anni, si diffusero notevolmente e, in poco tempo, si legalizzò una quantità mai vista prima di sindacati.

La Confederación Nacional Agraria (CNA) fu l’organizzazione contadina più grande e rappresentativa del Perù nella decade che va dagli anni ’70 agli anni ’80; tuttavia, a partire dal 1976, dopo il colpo di Stato del Presidente Francisco Morales Bermúdez (1975-1980), fu dichiarata illegale. Malgrado ciò, la CNA riuscì a recuperare la sua importanza con la VII Assemblea Nazionale dei Delegati, svoltasi a Cajamarca nel 1980. Nell’ottobre del 1982, la confederazione convocò i sindacati contadini per la realizzazione del Paro Nacional (sciopero nazionale), che si realizzò per la prima volta nella storia del Perù: tra il 25 e il 26 novembre 1982, la maggior parte dei contadini fermò il proprio lavoro e bloccò le strade del paese. Fu a partire dal 1985 che il movimento contadino entrò in una fase di decadenza, a causa della presenza di Sendero Luminoso e del MRTA, che già avevano cominciato a diffondere le azioni armate sul territorio, con la

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conseguente militarizzazione delle zone rurali. Da quel momento, ebbero inizio i processi di lottizzazione dei terreni e di privatizzazione dei latifondi, che tolsero l’importanza sindacale alle organizzazioni contadine.

Sendero Luminoso dichiarò guerra allo Stato peruviano nel 1980,

prendendo ispirazione dal pensiero maoista, secondo il quale, nei paesi agricoli e arretrati, il ruolo dei contadini poveri deve risiedere nel processo rivoluzionario, affinché questi si trasformino nel motore della rivoluzione. Di conseguenza,

Sendero recluta per la sua causa un’alta percentuale di contadini, la maggior parte

indigeni, delle zone andine, segnati da povertà e ignoranza, dovuta al distacco con il mondo dell’informazione e dell’istruzione.

La presenza di Sendero Luminoso e del MRTA obbligò il movimento contadino a scomparire lentamente; inoltre, la presidenza del politico neoliberale Alberto Fujimori non permise il recupero di questo settore della popolazione peruviana (FERNÁNDEZ 2013,pp. 200-205).

1.3 Indigenismo, neoindigenismo e letteratura della violenza

Al tema della violenza, si lega quello dell’autenticità culturale e della provenienza. Stando a quanto riporta Tomás G. Escajadillo (1994, pp. 118-19), in Perù fu José Carlos Mariátegui l’ideologo e il promotore culturale che, attraverso i suoi scritti nella rivista Amauta, mise in luce il prerequisito del dibattuto fenomeno dell’indigenismo: argomenta con convinzione, infatti, che l’indigenismo non è una semplice scuola o un movimento letterario, bensì nasce come necessità politica, culturale e sociale di provare a risolvere quello che ai suoi tempi si chiamava “el problema del indio”1

.

El «indigenismo» no es aquí un fenómeno esencialmente literario, como el «nativismo» en el Uruguay. Sus raíces se alimentan de otros humus históricos. Los

1 Mariátegui comprese la radice del “problema del indio” e cercò di chiarire l’enigma dell’origine della povertà e della marginalizzazione nel paese:

Todas las tesis sobre el problema indígena, que ignoran o eluden a éste como problema económico-social, son otros tantos estériles ejercicios teoréticos, y a veces sólo verbales, condenados a un absoluto descrédito [...] La cuestión indígena arranca de nuestra economía. Tiene sus raíces en el régimen de propiedad de la tierra. Cualquier intento de resolverla con medidas de administración o policía, con métodos de enseñanza o con obras de vialidad, constituye un trabajo superficial o adjetivo [...] (MARIÁTEGUI 2007, p. 35).

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«indigenistas» auténticos - que no deben ser confundidos con los que explotan temas indígenas por mero «exotismo» - colaboran, conscientemente o no, en una obra política y económica de reivindicación - no de restauración ni resurrección.

Blaus Puente-Baldoceda (1986, pp. 142-45), infatti, indica che l’indigenismo si riferisce al movimento ideologico-politico e scientifico dei creoli e dei mestizos che ambiscono a rivelare la realtà indigena, rivendicare i propri interessi sociali ed economici e rivalorizzare la propria cultura al fine di integrarla in quella nazionale. L’aggettivo ‘indigenista’ allude specificatamente alla creazione letteraria appartenente al movimento dell’indigenismo.

Il neoindigenismo, invece, propone una visione interna dei valori culturali autoctoni con il proposito di legittimarli intellettualmente, ma anche di preservare le loro caratteristiche intrinseche. Il neoindigenismo non solo approfondisce la sua visione sull’identità e i valori della cultura indigena, ma sostiene che questa non sia che una derivazione naturale della cultura precedente e al suo interno, al tempo stesso, siano presenti contributi della civiltà occidentale. In ambito letterario, la narrativa neoindigenista si nutre di questa ideologia ed è caratterizzata da aspetti che vanno dall’uso del realismo magico, all’incorporazione del mito, l’intensificazione del lirismo, fino al perfezionamento della tecnica narrativa e l’espansione dello spazio di rappresentazione (CORNEJO POLAR 1984, p. 549).

Al tema dell’indigenismo si lega quello della violenza nella letteratura peruviana, in cui si registrano temi come lo sfruttamento e la denuncia degli abusi. Tuttavia, un tema altrettanto ricorrente è la disillusione per l’impossibilità di mettere in atto le ideologie della violenza liberatrice, anelata da molti scrittori e intellettuali, con il fine di risolvere i problemi sociali e culturali del paese. In risposta a tale clima, dunque, cominciarono a comparire, nella narrazione, odio, rancore, dolore, nei confronti dell’aspetto politico, argomento essenziale e inevitabile in questo tipo di opere (SAUCEDO 2012, pp. 49-51).

1.4 La narrazione del conflitto armato

Il clima di guerra, dunque, rappresentò uno scisma per la società. La produzione letteraria centrata sul conflitto interno del Perù fu costante e

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abbondante, toccava svariati argomenti da differenti prospettive, mostrando la diversità ideologica degli scrittori e la delicatezza del problema. Stando all’ordine cronologico della pubblicazione letteraria, è possibile osservare che i primi a scrivere riguardo alla violenza e alla guerra in Perù furono gli abitanti delle Ande, i più vicini, in effetti, all’accaduto. Tuttavia, il loro successo non era garantito, poiché l’argomento non richiamò l’attenzione dei critici, oltre al fatto che la maggior parte di queste opere non riusciva a raggiungere la capitale (era diffuso, infatti, il pensiero che nessuno scrivesse al riguardo).

Ad ogni modo, la produzione letteraria può dividersi in due grandi tappe: la prima scritta durante la lotta armata e la seconda scritta a posteriori. Durante la prima fase, la maggior parte degli autori era originaria della provincia; scelsero di ricorrere principalmente al racconto, ma trovarono accesso limitato alla pubblicazione. La seconda tappa, invece, è quella a cui appartengono gli autori che scrissero dopo l’accaduto, autori per lo più originari di Lima, i quali pubblicarono i loro romanzi nelle grandi case editrici della capitale, romanzi che non riflettono tanto sulla guerra in sé, quanto sulle conseguenze che questa ha scatenato.

Miguel Arribasplata appartiene alla prima tappa; una delle sue opere più significative al riguardo è La niña de nuestros ojos (2010): il titolo allude alla famosa frase di Lenin che incoraggiava i militari a occuparsi del Partito Comunista con assoluta lealtà (PIETRAK – CARRERA 2015, pp. 103-113). Nell’intervista per Lima Gris (2016), l’autore stesso confessa che il punto di vista dal quale è raccontata la storia appartiene ai veri protagonisti che l’hanno vissuta, i quali, generalmente, costituiscono solo lo sfondo delle narrazioni:

Esa novela es fruto de una gran investigación, además de muchas vivencias; por ejemplo, en este asunto de la guerra interna, casi siempre se tratan los temas amorosos, y no incluyen a los verdaderos protagonistas del drama, a los guerrilleros, o a los campesinos que solamente los presentan como víctimas, y a Sendero que solamente lo ven como el terror, y no ponen cómo ese partido se moviliza por sus ideas; además, en las novelas que se han escrito no participan los propios militantes [...] Esa guerra ha sido dirigida por un partido, y en la ficción ese partido no ha sido el verdadero protagonista en aquellas novelas; simplemente lo hacen aparecer como algo

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fantasmagórico, y terrible. Yo en mi novela he puesto los cuadros políticos de esa guerra, también con un fondo humano, porque ellos también aman, y se preocupan.

Dunque, in questo romanzo non ci sono protagonisti principali, ma una sorta di protagonismo collettivo: i guerriglieri, le forze antirivoluzionarie e i militari.

No quería desarrollar una historia única, porque la contienda no tuvo un héroe distintivo que vaya hacia la culminación épica con la toma del poder, como sucedió en Rusia, China o Cuba. Además, desde Obdulia de los

Alisos y Bajada de reyes, ese es, por decirlo así, mi estilo narrativo.

Alcuni narratori attuali hanno scritto sulla violenza politica, più precisamente sul conflitto armato, nelle loro creazioni, riportando le proprie testimonianze. La narrativa che offre una prospettiva borghese della guerra è riscontrabile nelle opere di Mario Vargas Llosa Historia de Mayta (1984) e

Lituma en los Andes (1993), e in alcuni racconti di Alonso Cueto inclusi in Pálido cielo (1998) e il suo romanzo La hora azul (2005). Nella narrativa di orientamento

popolare, invece, spiccano le opere di Félix Huamán Cabrera Noche de

relámpagos (2001) e Qantu. Flor y tormenta (2006) (VILLAGÓMEZ 2018).

Historia de Mayta è un romanzo fortemente ossessionato dal dilemma di

come si strutturino i fatti politici in un’epoca di rivendicazioni violente dei diritti e dei desideri dell’America Latina del 1958, durante un tentativo di rivoluzione trotskista (CANFIELD 2013, p. 74). Nel prologo, l’autore stesso spiega che il momento storico dell’avvenimento dei fatti è essenziale per poter comprendere pienamente la mentalità che condusse le persone ad armarsi e farsi guerra:

La historia de Mayta es incomprensible separada de su tiempo y lugar, aquellos años en que, en América Latina, se hizo religión la idea, entre impacientes, aventureros e idealistas (yo fui uno de ellos), de que la libertad y la justicia se alcanzarían a tiros de fusil. Esta ilusión hizo correr ríos de sangre, desaparecer a muchos jóvenes generosos, entronizó dictaduras militares sanguinarias y, a fin de

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cuentas, retrasó veinte años la democratización de Hispanoamérica (VARGAS LLOSA 2016).

In Lituma en los Andes, invece, Vargas Llosa racconta la storia di tre manovali scomparsi misteriosamente in una miniera sulle Ande peruviane; è il caporale Lituma a occuparsi del caso. Il narratore onnisciente descrive un campo militare sotto l’assedio di Sendero Luminoso, primo sospettato a cui conducono gli indizi. Pessimismo e violenza sono ben presenti in tutto il romanzo e, stando al critico e professore di Lettarture Comparate Efraín Kristal, per la prima volta nella letteratura di Vargas Llosa, alcuni personaggi sono travolti da istinti violenti senza un’evidente ragione: “Unlike in some of Vargas Llosa’s earlier work, where violence is the result of religious or political fanaticism, now violence just happens”, spiega il critico. Kristal aggiunge, infine, che Lituma en los Andes è la prima risposta letteraria dell’autore alla violenza di Sendero Luminoso (WILLIAMS 2014, p. 96).

Alonso Cueto, con il suo romanzo breve Pálido cielo, rivive l’attentato di Mirfalores del 1992, che rappresentò il climax della violenza a cui giunse Sendero Luminoso a Lima (LOZANO 2006, p. 14).

In La hora azul, l’autore racconta la pagina dolorosa della guerra civile che insanguinò il Perù negli anni ’80 e il modo in cui la società peruviana riuscì ad affrontare l’era di Sendero Luminoso e tutte le sue conseguenze. Il romanzo insiste sui molteplici eventi di insabbiamento e occultamento che ebbero luogo soprattutto tra le fasce élite della società di Lima (LAMBRIGHT 2015, p. 36).

Allo stesso modo, Félix Huamán Cabrera racconta la storia sanguinaria del Perù negli anni ’80: dal genocidio, in Noche de relámpagos, di cui furono vittime molte comunità indigene, lasciando una serie di ricordi pieni di dolore e frustrazione nella società e nella storia, al martirio di La Cantuta in Qantu. Flor y tormenta, in cui gli omicidi rappresentarono un atto di vendetta contro l’attentato di Miraflores (TARICA 2008,p. 248).

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1.5 La storia di Obdulia e le sue storie

Miguel Arribasplata, durante la stesura di Obdulia de los Alisos, è un giovane professore universitario di Letteratura Latinoamericana e Contemporanea nella città di Tacna, presso la Universidad Nacional Jorge Basadre Grohmann.

Questo romanzo, una vera e propria esaltazione del linguaggio, si compone di undici capitoli, con un numero diverso di sottocapitoli ciascuno.

Il primo aspetto che il lettore può notare nell’opera è la presenza di un narratore-personaggio, ovvero la contadina Obdulia, alla quale è interamente affidato il materiale narrativo.

L’autore, seguendo le orme della narrazione moderna di Joyce e Faulkner, diventa praticamente invisibile, anche se non completamente: tranne nei casi in cui intervengono i personaggi che circondano la protagonista (in questi casi compaiono i segni d’interpunzione), è possibile percepire la sua presenza solo dalla divisione in blocchi o capitoli, ottenuta attraverso dei semplici spazi bianchi, e dalla divisione in paragrafi del discorso del narratore-personaggio. Questo è il motivo per cui il punto è l’unico segno di punteggiatura utilizzato per una buona parte del romanzo, aspetto che dà al racconto l’impressione di un continuum narrativo e che richiama a tutti gli effetti il mondo dell’oralità.

Ad ogni modo, l’elemento centrale dell’originalità e, al tempo stesso, della trasgressione in Obdulia de los Alisos sta nella soppressione quasi totale dell’architettura argomentale. La storia narrata, estremamente concisa, si riduce al seguente fatto: Obdulia lascia all’alba la campagna di San Pablo per dirigersi con la sua famiglia a Polán. Lo scopo del viaggio è quello di arare le terre del padrone e prepararle alla semina successiva, una volta giunti a destinazione. Durante il cammino, racconta animatamente ciò che succede nella sua vita e in quella degli abitanti di San Pablo; da tali discorsi emergono la sua cultura, i suoi ricordi e la sua posizione sociale. L’intera storia, dunque, si limita meramente a questo: il lettore, infatti, potrà presto rendersi conto che l’unico vero protagonista di tutta l’opera è il linguaggio, che si distanzia dall’uso standard dello spagnolo e afferma i valori espressivi di un linguaggio colloquiale fondamentalmente diglossico, che amalgama la lingua del conquistatore con quella del conquistato e che è proprio quella che caratterizza l’oralità degli abitanti delle Ande. La libertà di espressione

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dei personaggi ha uno scopo puramente politico: la voglia d’imporsi, la voglia di emergere e farsi ascoltare, per poter affermare la propria identità e recuperare, infine, una dignità.

Il paternalismo del romanzo indigenista tradizionale è qui sostituito da uno sguardo di solidarietà vera, proprio perché la mano dell’autore resta invisibile, così da poter ricordare che non è lui a dover istruire il pubblico colto su ciò che accade nella sierra, giacché il suo scopo è puramente letterario e non pedagogico:

En cualquier caso, esta novela nos recuerda en cada línea y en cada página, e incluso en cada palabra, que somos un país plurilingüe y pluricultural. Finalmente, que no es responsabilidad del autor ilustrar al mundo ilustrado sobre las cosas de la Sierra. Su función es literaria, no pedagógica.

Questo, tuttavia, può portare il lettore ‘estraneo’ a non comprendere pienamente il senso ultimo del testo, bensì a restare in superficie, considerando solo gli aspetti più esterni: nel migliore dei casi, infatti, è stato rilevato solamente l’aspetto sociale, come il movimento di sindacalizzazione contadina, che doveva formare uno degli aspetti più marginali ed esterni del romanzo, sebbene si tratti di un tema importante per i personaggi stessi.

In ogni caso, per quanto riguarda la tecnica narrativa, la presenza di un solo personaggio rischia di far cadere il romanzo nella monofonia; questo rischio, però, è superato nel momento in cui la voce stessa del narratore-personaggio introduce molte altre voci, appartenenti ai personaggi che nomina. È interessante notare come questa tecnica possa assomigliare alla struttura dei quipus (in lingua quechua “nodi”), dove un insieme di cordicelle annodate, distanziate in modo sistematico tra loro, sono legate a una corda più grossa e corta che le sorregge. Similmente, il soliloquio di Obdulia è la corda che sorregge e da cui si dirama una moltitudine di cordicelle, rappresentanti le altre voci del romanzo.

I temi sono molto vasti: a partire dal viaggio stesso, che oltre a essere un classico tema letterario è una risorsa formidabile sin dalle epoche più lontane (l’Odissea di Omero e la Divina Commedia di Dante, per esempio), se ne aggiungono altri adiacenti che insieme costituiscono la storia di un personaggio, di una famiglia di contadini e di una città di provincia. Il personaggio principale,

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dunque, è Obdulia, una semplice donna di paese, lavoratrice e altruista, soprattutto nei confronti della famiglia, che è formata dal marito Sebastian o “Sheba”, dal figlio adolescente Escolastico, dalla figlia Colorada e dalla neonata Lloronita. Il paese in cui vivono si trova a San Pablo, una città di montagna popolata da

mestizos, antico centro della cultura preincaica del Kuntur Wasi e menzionata

nella storia contemporanea per la battaglia omonima in cui l’esercito invasore cileno subì una pesante sconfitta.

Tuttavia, non è di facile individuazione una tematica principale nell’opera: può essere la povertà e la marginalizzazione, con tutti i motivi collegati come la siccità, l’inferiorità della donna, gli abusi del potere politico e il suo centralismo spossante. Oppure può essere il risveglio delle masse con il conseguente movimento di sindacalizzazione contadina, o ancora, immergendosi nell’atmosfera andina, il tema del mestizo, che si plasma nel linguaggio diglossico dell’opera. Si torna a parlare di cholismo2

, dall’arte alla letteratura, dal cinema alla televisione, nonostante la politica neoliberale di quegli anni faccia vivere al popolo delle Ande il peggior momento della storia, distruggendone cultura e linguaggi.

Ad ogni modo, non è in Obdulia de los Alisos che si trattano grandi temi sociali; l’interesse è infatti rivolto alle piccole storie, ai destini piccoli degli animali, delle piante e dei fiori. Ecco come giunge al lettore, nonostante il dolore e la tristezza, l’essenza vera della cultura andina (DOMÍNGUEZ AGÜERO 1989, pp. 9-20):

Finalmente, llegando ya a su destino Obdulia debate sobre la «moda de la cochinilla», diserta sabiamente sobre la crianza de las abejas y habla poéticamente sobre las flores. Entonces, pese a las penas y tristezas, y sufrimientos mostrados, sopla sobre las páginas de la novela, reconfortando al lector, un viento fresco y dulce, de amor, de esperanza, y de adhesión a la vida [...] Así termina el viaje de Obdulia y con él la novela. Pero la batalla continúa.

2 Il decennio tra il 1970 e il 1980 fu caratterizzato da un’esplosione di cultura giovanile nelle regioni confinanti con gli Stati Uniti e in Messico. Uno dei più grandi movimenti con il quale i giovani affermavano le proprie origini messicane e si distinguevano dall’America bianca era il cholismo. Questo portò centinaia di persone a cambiare il proprio stile di vita, il modo di vestirsi e di parlare, mantenuto tutt’oggi; lo scopo era far fronte alla discriminazione degli emigrati latinos negli Stati Uniti, considerati e trattati come cittadini di seconda categoria (STACY, 2003, p. 184).

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L’autore stesso spiega che il suo romanzo è un monologo in cui il tema centrale è la quotidianità dell’essere, il mondo interiore espresso da una donna, che non è una mera riproduttrice, bensì la protagonista di una storia e di tante storie al tempo stesso, quelle di tutte le donne e di tutte le famiglie contadine delle Ande (ESCRIBANO 2006).

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CAPITOLO II

LO SPAGNOLO D’AMERICA E LA VARIETÀ PERUVIANA

2. Considerazioni generali

La lingua spagnola è, ad oggi, la lingua romanica di massima rilevanza a livello mondiale, che conta più di 350 milioni di parlanti. La sua geografia comprende la Spagna, parte della zona meridionale e occidentale degli Stati Uniti, il Messico, l’America Centrale e Meridionale (a eccezione del Brasile e della Guiana), Cuba, la Repubblica Dominicana e Porto Rico, territori ai quali vanno aggiunte le Filippine, seppur sia impiegata la lingua spagnola in gruppi minoritari, la Guinea Equatoriale, il Sahara Occidentale e numerosi nuclei sefarditi, tra i quali spiccano, per maggior importanza, quelli di Israele.

La maggior parte dei parlanti spagnoli come lingua materna è localizzata nei territori che, a partire dal 1492, furono conquistati da Cristoforo Colombo e dai suoi prosecutori per la Corona spagnola.

Quando gli studiosi si riferiscono, dal punto di vista linguistico, all’America ispanica, sono soliti impiegare il sintagma español de América, sintagma che, tuttavia, si limita a spiegare i fattori che incidono nella formazione delle nuove modalità impiegate, o il vincolo esistente tra queste modalità e il linguaggio impiegato nella penisola. Ciò che non è giustificato è impiegare tale espressione in riferimento a una lingua o a una forma di linguaggio diversa da quella utilizzata in Spagna: (ALEZA IZQUIERDO -ENGUITA UTRILLA 2010, p. 23).

No hay lingüista con un mínimo de solvencia que no lo repita hasta el agotamiento: no hay más que un español. Es absolutamente falaz escindir esa realidad única en dos mundos opuestos: América y Europa. Hay una unidad que permite entendernos a cuantos poseemos este bien que es la lengua única; hay multitud de variantes en cada región de nuestro mundo sin que la unidad se resquebraje (ALVAR 1996, p. 3).

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Mentre prima gli intellettuali ispanoamericani si preoccupavano dell’unità dello spagnolo nel continente, di quale sarebbe stata la sua sorte nel corso degli anni, adesso il problema sembra essersi risolto grazie all’aumento delle comunicazioni e l’efficienza dei mezzi. L’unità linguistica è, dunque, accertata; naturalmente, però, non si tratta di una lingua omogenea: esistono, infatti, vari fenomeni linguistici che distinguono i numerosi dialetti americani. Tali dialetti non sono che il risultato della diversità di espressione dei colonizzatori, della diversità delle lingue indigene e dell’assenza di politiche normo-linguistiche (Ivi, p.19).

Molte teorie sono state formulate al riguardo: la teoria indigenista di Rodolfo Lenz afferma che le differenze linguistiche dipendono dal sostrato delle lingue indigene; Lenz, infatti, scelse di dividere i paesi ispanici in tre gruppi. Al primo appartengono le regioni in cui bianchi e indios convivevano abbastanza pacificamente senza mischiarsi troppo tra di loro: gli aborigeni dell’antico impero inca (Perù, Ecuador, Bolivia e parte della Colombia e del Venezuela) risiedevano negli altopiani e nelle cordigliere, mentre gli europei si stabilirono per lo più nelle coste e nelle valli.

Il secondo gruppo comprende i paesi in cui gli indios mantennero un atteggiamento ostile nei confronti dei colonizzatori, ma furono comunque in grado di civilizzarsi, abbandonando la propria lingua e le tradizioni e adottando gli usi i e i costumi europei. I paesi in questione sono il Cile e, in parte, l’Argentina.

Al terzo gruppo, infine, appartengono gli indios che si adeguarono facilmente alla cultura europea, giacché la loro lingua fu impiegata, assieme a quella ufficiale del governo spagnolo, come lingua nazionale (come avvenne in Paraguay con il guaraní) (INGEBORG KLEIN 2008, p. 4).

Molto dibattuta è stata, invece, la teoria andalusista: per secoli si è discusso sul fatto che lo spagnolo d’America manifestasse un’influenza andalusa, ma nessuno era stato in grado di presentare la questione in termini storico-linguistici, fino a che, nel 1920, l’etnologo e glottologo tedesco Max Leopold Wagner pubblicò un articolo in cui confutò la teoria del sostrato e affermò che l’influenza indigena sullo spagnolo americano si limitava soltanto al lessico.

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Wagner non solo individuò, dunque, l’influenza andalusa nello spagnolo coloniale, ma segnalò anche una differenza linguistica tra le zone dell’entroterra e quelle della costa: nelle prime (parte interna del Messico, America Centrale, Venezuela, Colombia, Perù, Ecuador e Bolivia), infatti, lo spagnolo sembra essersi introdotto più lentamente. Le coste, invece, presentano un accento andaluso più marcato.

Contenporaneamente a Wagner, e senza aver letto il suo articolo, il filologo dominicano Pedro Henríquez Ureña respinse la teoria andalusista, sostenendo che le varietà createsi nelle Americhe sono soltanto il risultato di un’evoluzione normale dello spagnolo che vi giunse, una semplice tendenza del sistema.

Infine, una teoria applicata recentemente allo spagnolo d’America è quella della ‘koineizzazione’ o ‘creolizzazione’, sostenuta dai filologi Beatriz Fontanella de Weinberg e Germán de Granda Gutiérrez: la parola ‘koinè’ (dal greco ‘comune’) si riferisce alla nascita di una varietà dialettale comune che si sovrappone alle varietà locali. Così, all’interno di questa nuova varietà confluiscono vari tratti dialettali di regioni diverse. Per la generazione successiva, la nuova varietà diventa lingua materna e, secondo Fontanella de Weinberg, nel caso dello spagnolo d’America, l’impiego della koinè come lingua materna fu molto veloce, poiché la nuova varietà fu adottata immediatamente dalla maggior parte dei parlanti della prima generazione; questo, tuttavia, non sorprende, bensì risulta un normale processo nel caso delle koinè createsi mediante l’immigrazione.

Per poter comunicare, dunque, i parlanti di varietà differenti necessitavano di un’unità linguistica, la quale avrebbe consistito in una semplificazione e riduzione di norme. Questa koinè sarebbe stata accettata, quindi, come lingua franca e si sarebbe standardizzata attraverso la scrittura (QUESADA PACHECO

2002, pp. 44-48).

Ciò che è certo è che, fatta eccezione dei casi d’influenza delle lingue indigene e del voseo, lo spagnolo americano non ha tratti molto diversi da quello peninsulare o insulare. Il fenomeno del voseo è un caso a parte, semplicemente

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perché è riuscito a sopravvivere ai numerosi secoli di cambiamenti linguistici della lingua castigliana, che ha completamente perso l’uso di questo pronome allocutivo. Riguardo all’influenza indigena, invece, è necessario fare delle precisazioni, poiché tale influenza può avvenire in due modi: condizionando la comunicazione dei parlanti bilingui, il cui dominio linguistico non raggiunge livelli soddisfacenti di competenza, e condizionando la comunicazione dei parlanti monolingui spagnoli di comunità diverse.

Dunque, nei casi in cui si nota la presenza indigena nello spagnolo dei monolingui o dei bilingui equilibrati, si è di fronte a un caso d’influenza di una lingua su un’altra. Tuttavia, parlare in modo generale dell’influenza indigena dello spagnolo d’America non è semplice, vista l’estensione che ricopre: dalle Antille, dove il grado d’infuelnza è molto basso, limitandosi a pochi elementi lessicali, al Perù o alla Bolivia, la differenza è notevole (ALVAR 1996, pp. 19-22).

2.1 L’incontro con il Nuovo Mondo

Una volta giunti in America, la varietà delle lingue presenti rappresentava un ostacolo importante per il processo di evangelizzazione da parte dei religiosi spagnoli sulle popolazioni autoctone; dunque, ai fini di evitare di lasciare l’evangelizzazione all’azione lenta dei secoli, questi preferirono apprendere le lingue locali e portare avanti la loro impresa. Presto si resero conto di quanto sarebbe stato più conveniente adottare una lingua, tra quelle autoctone, che presentasse affinità di indole linguistica e socioculturale tra i vari gruppi indigeni. Le lingue scelte ai fini della mediazione evangelica furono quelle che influirono, quasi esclusivamente, sullo spagnolo del Nuovo Mondo.

Certamente, queste tipologie di contatto hanno influito con diversi gradi d’intensità: l’arahuaco e il caribe, lingue appartenenti alla zona delle Grandi e Piccole Antille, della Colombia nordoccidentale e del Venezuela, apportarono allo spagnolo numerose voci autoctone; così come il náhuatl (Messico e America Centrale), il chibcha (Panamá e gran parte della Colombia) e il mapuche (Cile) hanno contribuito all’arricchimento del vocabolario. Altre lingue indigene si sono conservate fino ai giorni nostri e l’influenza che hanno apportato allo spagnolo nei loro territori non si è limitata soltanto al vocabolario, ma ha condizionato anche il

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piano fonetico-fonologico e quello morfosintattico: è il caso del quechua (Perù, Ecuador, parte della Bolivia, Cile settentrionale, Argentina nordorientale e Colombia meridionale), del tupí-guaraní (Río de la Plata), e del maya (Yucatán e territori limitrofi dell’America Centrale) (ALEZA IZQUIERDO -ENGUITA UTRILLA

2010, pp. 24-29).

In primo luogo, è opportuno individuare quattro zone dell’America in cui sono stati pochissimi i trasferimenti dalle lingue indigene allo spagnolo, fatta eccezione per il lessico e la toponimia:

1. Cuba, Porto Rico e santo Domingo, a causa della scomparsa precoce delle comunità aborigene.

2. Coste centro e sudamericane, dal Messico al Cile, a causa della riduzione parziale della popolazione.

3. Cile meridionale, centro e sud di Río de la Plata, frontiera settentrionale del Vicereame del Messico e altre entità minori, a causa della mancanza d’integrazione dei gruppi autoctoni nella società ispanica e come conseguenza di una resistenza armata di fronte ai colonizzatori.

4. Costa peruviana, Cile centrale e settentrionale, zone centrali e nordorientali del Vicereame della Nuova Granada, Messico centrale e settentrionale e Centroamerica, a causa dell’abbandono precoce da parte delle comunità autoctone dei propri codici di comunicazione, sostituiti con quelli della società ispanica.

Nei restanti territori ispanoamericani, dove ancora si conservano vive le lingue indigene, si possono osservare peculiarità fonetiche, morfosintattiche e semantiche di matrice autoctona nelle seguenti quattro aree:

1. Versante orientale della cordigliera andina e alcune zone caraibiche occidentali, dove l’influenza spagnola risultò ridotta anche molto dopo l’indipendenza dei paesi sudamericani; è possibile notare, infatti, solamente alcuni prestiti lessicali di carattere locale.

2. Città delle zone centrali, in cui si osservano risultati in buona parte coincidenti con quelli appena descritti, poiché il contatto con i gruppi

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tra membri della popolazione urbana aborigena accelerò l’acquisizione dello spagnolo utilizzato da creoli e spagnoli.

3. Zone caratterizzate dalla convivenza di nuclei ispanici, considerati società periferiche, marginali, con gruppi indigeni densi e omogenei dal punto di vista linguistico, dotati di un’agricoltura eccedentaria e un apprezzabile sviluppo culturale (Paraguay, Yucatán); in queste zone la varietà di spagnolo che venne a crearsi era influenzata fortemente dalla lingua indigena. Tale varietà penetrò progressivamente nella società ispanica locale.

4. Aree rurali o semi urbane dell’entroterra andino, dall’Argentina nordoccidentale alla Colombia meridionale, dove, per molto tempo, lo spagnolo si limitò a essere un codice di comunicazione di una minoranza indigena, seppure dalla fine del XVI ebbe luogo un processo di sostituzione linguistica che fece sì che alcuni gruppi indigeni impiegassero una modalità di castigliano, ancora presente, che raccoglieva molte caratteristiche fonetico-fonologiche e grammaticali appartenenti alle loro modalità d’espressione (GRANDA 1999, pp. 19-49).

2.2 Caratteristiche fonetiche dello spagnolo in America

Essendo, in linea generale, il castigliano meridionale quello che è stato per primo impiantato nel Nuovo Mondo, è deducibile che buona parte delle caratteristiche dell’oralità dello spagnolo americano sia condivisa dalla varietà meridionale della penisola iberica. Innanzitutto, occorre specificare che tutta l’America è zona di seseo, infatti il sistema consonantico ispanoamericano è privo del fonema interdentale /θ/, elemento che costituisce l’unica differenza fonematica di carattere generale esistente tra la varietà americana e la cosiddetta ‘norma standard’ del castigliano. Le altre differenze generali di tipo fonetico risultano essere le seguenti:

- la maggior parte delle varietà americane è caratterizzata dal cosiddetto

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/ʎ/ e la confondono con la fricativa /ʝ̞/; questo comporta che i vocaboli come calló e cayó diventino omofoni;

- nonostante esistano in America, come in Spagna, diverse realizzazioni del fonema alveolare sordo /s/, le più generalizzate sono quelle non apicali, vale a dire quelle di tipo predorsale, il che fa sì che lo spagnolo americano suoni, in linea generale, meno sibilante del castigliano. In posizione finale di sillaba è possibile notare come il fonema /s/ possa debilitarsi, aspirarsi o scomparire completamente, a seconda delle regioni e dei fattori sociolinguistici;

- malgrado lo spagnolo d’America conservi, in linea generale, l’opposizione tra le due vibranti (la monovibrante [ɾ] e la vibrante [r]) ciò che si verifica in svariate regioni ispanoamericane è il fenomeno della cosiddetta r

asibilada [ř]: questo elemento appare come realizzazione di /r/ (pe[ř]o, [ř]osa), di

[ɾ] in posizione finale (ma[ř]) e nei gruppi <tr> e <dr> (teat[ř]o, pod[ř]é); dunque, non realizza mai il fonema vibrante semplice in posizione intervocalica;

- il fonema continuo poseteriore sordo /x/ si realizza in America sia come fricativa velare sorda [x], sia come fricativa faringale sorda [ħ], sia come glottidale sorda [h], più raramente come palatale sorda [ç] (che sembra registrarsi solo in Cile). Dunque, tale fonema presenta una vasta gamma di allofoni: alcuni orali (velare e palatale), altri substandard (faringale e glottidale), a seconda delle zone.

È opportuno specificare che le varietà spagnole e ispanoamericane sono classificate a seconda della zona di appartenenza, che può essere considerata conservatrice o innovatrice. Le zone innovatrici del Nuovo Mondo, al contrario di quelle conservatrici, raggruppano le seguenti caratteristiche: la neutralizzazione fonetica delle liquide, secondo cui /-l/ e /- ɾ/ finali si pronunciano con lo stesso segmento fonetico: ‘a[l]te’ per ‘arte’ (fenomeno del lambdacismo) e ‘a[ɾ]guno’ per ‘alguno’ (fenomeno del rotacismo); debilitamento, aspirazione o perdita delle consonanti (molto frequente è il caso del fonema /s/ precedentemente spiegato, così come la pronuncia aspirata della velare /x/); la perdita del fonema /d/ intervocalico; seseo e yeísmo generalizzati (OBEDIENTE 2007, pp. 530-36).

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2.3 Caratteristiche morfologiche dello spagnolo d’America

È comune, nelle varietà americane, il mantenimento normativo etimologico dei pronomi atoni, fatta eccezione per le zone di contatto di lingue in cui sono generalizzati i fenomeni di laísmo e loísmo. Ad ogni modo, di pari passo con l’utilizzo etimologico, è sempre più diffuso, anche se in minor proporzione rispetto all’ordinario impiego, il leísmo di persona, nonostante sia nota e messa in pratica la distinzione tra pronomi di complemento indiretto e complemento diretto. Nelle Antille, per esempio, risulta recente e in aumento l’uso del leísmo di persona soprattutto in contesti formali, per un’idea di maggiore distanza e cortesia; in Colombia, invece, ne è documentato l’uso nella lingua scritta e in minor misura nell’oralità, soprattutto a sud del paese. Le anomalie più importanti si producono nelle zone di contatto con le lingue indigene: è diffuso l’impiego del

leísmo in Ecuador, nella zona urbana del Paraguay (la cui zona rurale prevede,

invece, un impiego generalizzato di loísmo), in Guatemala e nella zona argentina di influenza mapuche, così come in tutte le zone di contatto con quechua e

aimara.

Quanto alle zone andine del Perù, Bolivia e nordest argentino, invece, il sistema pronominale si vede profondamente alterato dalla presenza di loísmo,

leísmo e neutralizzazioni di genere e numero in favore del vasto uso della forma al

singolare lo, a discapito degli altri pronomi oggetto di terza persona.

Molto frequente è la ripetizione del possessivo dentro lo stesso gruppo nominale, come su hermano de su papá o mi marido mío; si tratta di una caratteristica registrata soprattutto in Messico, Centroamerica e nell’area andina, ed è frequente in particolare con nomi di parentela o parti del corpo. L’uso del possessivo è peculiare anche per quanto riguarda la sua associazione con l’articolo indeterminativo, come in un mi amigo, cotruzione che, in realtà, caratterizzava lo spagnolo antico e che si è mantenuta nella geografia americana.

Quanto alle strutture verbali, si predilige il pretérito indefinido anche per azioni vincolate al presente, poiché l’uso del pretérito perfecto è limitato a esprimere la probabilità; tuttavia, in paesi come Bolivia, zone del Perù e dell’Argentina e zone di contatto in generale, è più frequente imbattersi nella forma composta (favorita dalle lingue amerinde).

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È comune, nel linguaggio affettivo di molti paesi ispanoamericani, l’uso del gerundio in diminutivo (llegandito); è opportuno specificare che il diminutivo è spesso associato anche agli avverbi (ahorita, tempranito), oltre che ai sostantivi. Per quanto concerne, invece, l’uso del congiuntivo, è scarso l’impiego della forma –se, che viene sostituita dalla forma –ra nell’apodosi delle orazioni centroamericane (si tuviera plata, me comprara un carro). L’imperfetto del congiuntivo in forma –ra è utilizzato anche in sostituzione del presente per esprimere dubbi o ipotesi (En apariencia pareciera que el país estuviera pasando

por una situación difícil).

Uno degli avverbi caratteristici dello spagnolo d’America è no más

(nomás), il quale può apportare diversi significati: o svolge una semplice funzione

fatica (Vamos nomás) o il suo significato si avvicina molto a quello di solamente (Les faltan nomás algunas cosas).

Si documenta, inoltre, la presenza di forme del verbo decir (dice, dizque, ecc.) nei racconti di eventi non sperimentati direttamente dal parlante. Proveniente dalla forma apocopata arcaica diz (“dice”, terza persona singolare) e la congiunzione que, la forma dizque esisteva nel castigliano arcaico.

2.4 Tuteo, voseo, ustedeo

Nello spagnolo coloniale sono presenti tutti e tre gli usi dei pronomi allocutivi: il tuteo consiste nell’impiegare forme pronominali e verbali del paradigma di tú per rivolgersi a un interlocutore ed è usato in paesi quali Messico, Perù, Venezuela, Panamá, Antille, Ecuador, costa atlantica della Colombia e una piccola parte dell’Uruguay; l’ustedeo si impiega, invece, in situazioni di confidenza o di intimità, dunque non si tratta dell’uso convenzionale di usted per marcare la distanza. Tale fenomeno appare con frequenza nel Centroamerica, soprattutto in Colombia e in Costa Rica, dove l’uso di usted si è diffuso a tal punto da essere impiegato in qualsiasi circostanza e con qualsiasi interlocutore.

Il voseo, infine, consiste nell’impiego del pronome soggetto vos o delle forme verbali della seconda persona plurale per dirigersi a un solo interlocutore, con il quale si ha una relazione di solidarietà, confidenza o intimità. Si distinguono tre tipi di voseo:

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- il voseo pronominale, che si caratterizza per la presenza del paradigma pronominale voseante, unito a forme verbali proprie del tuteo in tutti i tempi verbali (vos tienes). Questo tipo di voseo è quello meno diffuso ed è registrato in Bolivia (in particolar modo nella zona occidentale), nel nord del Perù, nelle aree rurali dell’Ecuador e nelle province argentine di Santiago del Estero e Tucumán;

- il voseo verbale, che consiste nella presenza del paradigma pronominale proprio del tuteo, accompagnato da forme verbali del voseo (tú estáis, tenés o

tenís) ed è caratteristico dell’Uruguay, del Cile e di vari paesi del Centroamerica;

- il voseo completo, presenta il paradigma pronominale del voseo accompagnato da forme verbali di seconda persona plurale (vos tenés); questo modello è quello che si identifica come voseo argentino.

Mentre lo spagnolo peninsulare fa uso e distinzione dei pronomi vosotros e

ustedes, essendo scomparso, in America, il pronome vosotros, gli ispanoamericani

impiegano solamente ustedes (da non confondere con l’ustedeo, che come descritto precedentemente, impiega l’usted per situazioni di confidenza e intimità) (ALEZA IZQUIERDO -ENGUITA UTRILLA 2010, pp. 108-230).

2.5 La varietà andina

La varietà di castigliano parlata in Perù appartiene al grande gruppo dello spagnolo andino, che comprende Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia. Questi paesi sono accomunati da caratteristiche linguistiche che dipendono anche dal grado di contatto tra lo spagnolo e il quechua. Si tratta di una zona di conservatorismo fonetico (lo dimostra il mantenimento della /s/ in posizione finale di sillaba, la presenza generalizzata del yeísmo e il mantenimento di gruppi consonantici colti); tuttavia, si possono riconoscere alcune peculiarità. Le più importanti, quelle che hanno dato vita al cosiddetto spagnolo andino, sono le seguenti:

- la già citata r asibilada [ř] (stigmatizzata in Perù);

- la perdita delle vocali in sillaba atona (ahorita [oɾíta], todos [toðs]);

- nei parlanti la cui lingua dominante è il quechua, le vocali /o/ ed /e/ tendono a chiudersi per poter essere pronunciate come [u] e [i] (señor [siɲúř], niño [níɲu]), in quanto il quechua possiede soltanto tre forme vocaliche;

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- la ridondanza del pronome oggetto diretto (su padre de mi padre);

- l’ellissi: si elidono con maggior frequenza la copula verbale, i verbi ausiliari, le preposizioni, i determinanti e i pronomi (Este mi ganado, esos mis hijos);

- l’uso del condizionale nella protasi in orazioni ipotetiche: si tendría dinero,

compraría esa casa;

- la tendenza a spostare oggetto, espressioni avverbiali e frasi preposizionali all’inizio dell’enunciato (Yo de nada me enojo);

- la tendenza a omettere il pronome oggetto (¿Sabes que el señor Quispe se

murió? No he sabido);

- l’uso del pluscuamperfecto indicativo per indicare l’apprendimento indiretto (Juan había vivido en Lima può significare He oído que Juan vivió en Lima); - l’impiego di voseo e tuteo per la confidenza e l’intimità;

- l’impiego di leísmo e loísmo.

Nelle zone rurali di Perù e Bolivia sono ancora oggi presenti parlanti monolingui quechua, mentre la grande migrazione alle zone urbane ha contribuito a un bilinguismo esteso e diffuso in tutto il paese. Allo stesso modo, le caratteristiche linguistiche sopra elencate inerenti alla varietà dell’area andina si stanno diffondendo in altre zone del paese e nelle città (HUALDE 2010, pp. 433-34).

2.6 La varietà del Perù andino

La varietà andina, dunque, è un insieme di sottovarietà non creolizzate del castigliano che nascono dal loro contatto con il quechua.

Per quanto riguarda l’area andina del Perù, è possibile osservare la presenza di altre caratteristiche linguistiche in contrasto con il castigliano standard, rispetto a quelle già elencate nel paragrafo precedente:

- concordanza: si può produrre una mancanza di concordanza tra i componenti linguistici (concordanza di numero, genere e tempi verbali), come in Ellos habla

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- ordine dei costituenti: è diffusa la tendenza a invertire l’ordine proprio del castigliano standard (o più comunemente utilizzato) dei costituenti all’interno della frase, come in la principal fiesta, invece di la fiesta principal;

- reduplicazione: è estesa la tendenza a produrre una ripetizione di diminutivi e accrescitivi di pronomi, verbi, aggettivi e frasi. Per esempio: Hay personas que

hablan limpio limpio quechua, che starebbe per Hay personas que hablan quechua sin mezcla;

- ridondanza: è frequente la reduplicazione a livello semantico quando due forme possiedono lo stesso significato. Così, un verbo che indica possesso può essere accostato a un aggettivo possessivo o a due parole con la stessa funzione nella frase, come nel caso di su nombre de mi hijito;

- generalizzazione delle regole: come nel caso di sabieron anziché supieron; - formazione di parole: spesso si assiste alla creazione di nuove parole a partire dall’impiego di infissi propri del castigliano. Per esempio: el pronunciamento per

la pronunciación, oppure attraverso l’eliminazione di tali infissi, come nel caso di parejarse anziché emparejarse;

- estensione o riduzione: una forma può estendere o ridurre il contesto d’uso di una parola e del suo significato. Nella frase Habla quechua y castellano dentro de

mi familia, la parola dentro ha esteso il suo contesto d’uso.

È opportuno specificare che tali processi non sono categorici, bensì variabili; inoltre, in alcune varietà del castigliano andino questi fenomeni possono manifestarsi con maggiore o minore frequenza (nelle aree rurali si assiste a un impiego maggiore rispetto alle aree urbane) (DIEZ 2001, pp. 71-73).

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