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L'intuizione kantiana nei commentari anglofoni alla prima Critica kantiana

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Academic year: 2021

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DOTTORATO DI RICERCA IN

FILOSOFIA

CICLO XXVI

COORDINATORE Prof. Stefano Poggi

L'intuizione temporale nei commentari anglofoni alla prima

Critica kantiana

Settore Scientifico Disciplinare M-FIL/01

Dottorando Tutor

Dott. Francesco Venturi Prof.ssa Roberta Lanfredini

__________________________ __________________________

Coordinatore

Prof. Stefano Poggi

_______________________

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Sommario

Introduzione. ... 3

I. Il Tempo prima e dopo Kant. ... 17

I.1. Introduzione. ... 17

I.2. Il tempo prima di Kant: Leibniz e Newton. ... 18

I.3. Il Tempo al tempo di Kant. ... 28

I.4. Il tempo dopo Kant. ... 40

I.5. Il tempo di Kant al nostro tempo. ... 48

II. Il tempo come forma del senso interno. ... 55

II.1. Introduzione. ... 55

II.2. Il tempo tra facoltà e capacità. ... 57

II.3. Il tempo come senso interno nell'Estetica trascendentale. ... 62

II.4. Apprensione. ... 67

II.5. Dall'autocoscienza all'appercezione. ... 70

II.6. Appercezione. ... 78

II.7. Il ruolo dell'Immaginazione e lo Schematismo. ... 87

II.8. Sintesi. ... 97

III. Il tempo nel suo uso esterno. ... 107

III. 1. Introduzione. ... 107

III. 2. Il passaggio dalla prima alla seconda edizione. ... 108

III. 3. Tempo e discipline fisico-matematiche. ... 117

III. 4. Tempo e analogie: successione temporale e irreversibilità. ... 128

III. 5. Tempo e analogie: permanenza temporale. ... 141

III. 6. Il tempo, i tempi. ... 155

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Introduzione.

Il lavoro che segue ha come intento quello di studiare il modo in cui alcuni moderni studiosi di Kant hanno analizzato l’intuizione temporale, così come viene esposta soprattutto nella Critica della ragion pura. Le proprietà che caratterizzano l’insieme degli autori selezionati sono sostanzialmente tre: in primo luogo, si ha una restrizione – solo apparentemente – di tipo stilistico, in quanto verranno presi in considerazione soprattutto coloro che hanno espresso le proprie idee attraverso un commentario sulla Ragion pura; in secondo luogo, ci concentreremo sugli studiosi che hanno pubblicato le loro opere dalla seconda metà del Novecento in poi; infine, i pensatori presi in esame sono angloamericani e/o scrivono in inglese. Le tre limitazioni sopraelencate permettono, di analizzare una tipologia di autore ben definita: la presente ricerca si occuperà di chi non si è limitato a cogliere un aspetto o uno spunto del pensiero di Kant, ma ha ripreso del tutto o in gran parte le sue teorie, utilizzandole per fronteggiare problemi contemporanei. Tra coloro che si sono formati in ambienti anglofoni e che si sono confrontati con le tesi kantiane – si pensi alla tradizione analitica, al pragmatismo o ai filosofi della scienza, senza contare coloro che sono difficilmente collocabili in un filone specifico – si è cercato di operare una scelta che non solo porti vantaggi metodologici, ma che sia sostenuta da forti motivazioni teoriche, accompagnate da importanti evidenze storiografiche. Nelle pagine di questa introduzione, verrà esposto, a grandi linee, come e perché Kant è stato ripreso da altre tradizioni filosofiche; si cercheranno di delineare, in seguito, i motivi che hanno spinto a concentrarsi, tra tutte i possibili testi da studiare, sui commentari; e, infine, perché, all’interno di questi specifici testi, si è scelto un tema ben preciso, il tempo.

I motivi della “riscoperta” del testo kantiano in ambito anglofono viaggiano, di solito, su un doppio binario: da un lato ci sono difficoltà nate in ambito scientifico, che hanno portato a studiare modi alternativi, da parte dei filosofi, con cui rapportarsi alle discipline fisico-matematiche; dall’altro si hanno problemi totalmente interni a indirizzi di studio quali la filosofia della scienza o quella analitica. Michael Friedman, per esempio, si rende ben conto di entrambi i lati del problema. Friedman

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(1998: 121) ipotizza che il ritorno a Kant «derivi direttamente dai recenti attacchi naturalistici rivolti all’autonomia della filosofia dovuti, in particolare, all’opera di Quine». Ciò che più preoccupa delle teorie quineiane è il loro «naturalismo forte (hard)» derivato dal «rifiuto dell’esistenza di un peculiare dominio di “verità matematiche o concettuali oggettive” che si collochi completamente al di fuori dell’ambito delle scienze empiriche naturali moderne»1. Ed è per questo che:

I filosofi contemporanei, insoddisfatti dalla tendenza prevalente a “naturalizzare” le loro discipline, incorporando anche la filosofia tra le scienze naturali, sono perciò tornati indietro, verso la filosofia di Kant, il quale, per primo, ha perciò imposto la richiesta di un compito distintivo, “trascendentale” che si ponga al di fuori del dominio delle stesse scienze di primo livello.2

Come suggeriscono le parole di Friedman, a grandi linee, sembra che le cause principali della ripresa, in tempi recenti, del pensiero critico siano state due: 1) una netta divisione dei ruoli tra filosofia e scienza, la quale, da un lato, non precluda la possibilità di una consequenzialità tra i due domini, ma che, dall’altro, non li ponga su uno stesso livello; 2) il tipo di impostazione gnoseologica che Kant conferisce al suo impianto: un idealismo trascendentale delle forme conoscitive, legato alla sua rivoluzione copernicana, che si accompagna ad un realismo empirico. Un tipo di impostazione quest’ultimo che, unito al punto precedente, permetterebbe – sebbene non costringa – di partire dalla conoscenza quotidiana per arrivare a quella scientifica in senso stretto, e che consentirebbe di differenziare sia lo status dei principi conoscitivi, intesi in senso generale, sia quello dei concetti caratterizzanti le varie discipline scientifiche.

Un impianto concettuale in cui gli schemi di riferimento siano ritenuti i nodi di una griglia, attraverso la quale sia possibile passare dalla conoscenza di tutti i giorni alla descrizione scientifica degli oggetti, è alla base dell’interesse di Wilfrid Sellars per la filosofia critica. Verso la metà del secolo scorso, il filosofo analitico

1 Friedman (1998b: 117). 2 Friedman (1998b: 112).

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riprende alcune idee dalla dottrina di Kant e le rielabora, o le sviluppa, in vari passi delle sue opere. Ad essere recuperata è innanzitutto l’impostazione suddetta, tramite la quale viene rimarcata, rispetto alle filosofie precedenti, l’originalità del pensiero di Kant, il quale cercherebbe di sostituire le considerazioni metafisiche sul contenuto degli oggetti attraverso considerazioni scientifiche3.

Le tesi dei due filosofi sono molto vicine anche per ciò che riguarda il modo di considerare la sensibilità, tanto che Sellars (1963: 46) afferma candidamente che «fortunatamente, [la tesi sulla sensibilità] può essere separata dalle altre caratteristiche, meno attrattive, del sistema kantiano». All’importanza ad essa riconosciuta si associa però la difficoltà nell’assegnare una condizione ben definita ai suoi elementi: la sensibilità, infatti, «rende possibile la conoscenza ed è un elemento essenziale della conoscenza, anche se di se stessa non si sa niente»4. Nonostante la genericità dello status conferito alle forme a priori della sensibilità5, Kant aveva tuttavia correttamente riconosciuto allo spazio e al tempo la caratteristica di essere delle non-cose6.

Nel corso delle sue analisi, inoltre, Sellars sembra accorgersi che anche ai suoi schemi di riferimento occorrano delle basi adeguate. Neanche in questo caso è estraneo l’influsso di Kant, il quale viene indicato come colui che per primo ha riconosciuto la necessità di una conoscenza mediata degli elementi gnoseologici fondamentali del soggetto, la quale preveda, per prima cosa, la distinzione tra «il sé e i suoi atti come oggetto trascendente (an sich) e il sé e i suoi atti come oggetto immanente (fuer mich)»7. Il ragionamento prende spunto, e ruota attorno, a ciò che dovrebbe essere il fulcro dell’attività conoscitiva di Kant:

l’irriducibilità dell’Io dentro lo schema di riferimento del discorso in prima persona (e, difatti, anche del tu e dell’egli) è compatibile con la tesi che una persona può essere descritta esaustivamente – in linea di principio – in termini che non implicano riferimenti a quel soggetto logico irriducibile. La descrizione, perciò, invece di usare lo schema di 3 Cfr. Sellars (1991: 100). 4 Sellars (1991: 46). 5 Sellars (1977a: 9 n 1). 6 Sellars (1977b: 113 n 50). 7 Sellars (1977a: 9).

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riferimento a cui quei soggetti logici appartengono, lo citerà.8

Sembra farsi strada l’idea, in seguito molto battuta, che gli elementi gnoseologici del soggetto possano essere conosciuti solo attraverso il loro modo di operare, che, cioè, Kant sia un funzionalista: egli non ci fornisce una descrizione precisa e puntuale delle sue nozioni, ma le presenta attraverso le cose che fanno o che ci permettono di fare, vale a dire, tramite il loro funzionamento. In questo modo, tuttavia, se, da un lato, si sposta tutta l’attenzione sul versante dell’epistemologia, dall’altro, viene lasciato in penombra proprio ciò da cui era partito il ragionamento, ossia il fondamento su cui dovrebbero appoggiarsi gli schemi di riferimento. Già da ora è bene specificare che, nel presente lavoro, parlando soprattutto di autori anglofoni, con il termine “epistemologia” si intende «indicare quell’area di intersezione fra due discipline specialistiche (la filosofia della conoscenza, o gnoseologia, e la filosofia della scienza) la quale si occupa in modo specifico della validità/verità delle nostre pretese conoscitive, comuni e scientifiche»9.

Tra gli autori più recenti e di un certo peso che hanno inserito elementi kantiani all’interno dei loro sistemi, non si può non citare John McDowell. Egli, come Sellars, e in parte per controbattere il suo punto di vista10, importa dalla

filosofia critica soprattutto il dualismo tra schemi di riferimento mentali e mondo: «Kant deve continuare a occupare un posto centrale nella nostra discussione del modo in cui il pensiero ha a che fare con la realtà»11. La fonte di ispirazione per McDowell (1994/1999: 49) è quindi, anche in questo caso, l’impostazione dell’approccio gnoseologico: «si deve concepire la conoscenza empirica come cooperazione di sensibilità e intelletto, come fa Kant». Tuttavia, nel far ciò, non è possibile seguire pedissequamente il modello, dato che oggi alcuni presupposti kantiani non vengono più ritenuti sostenibili: primo tra tutti, secondo McDowell (1994/1999: 102) – e a differenza di molti altri filosofi anglofoni – la cornice trascendentale che fa da contorno a tutta la concezione critica dell’esperienza. La spiegazione che dà McDowell del perché Kant insista sugli aspetti trascendentali è

8 Sellars (1991: 101). 9 Parrini (2011: 493).

10 McDowell (1994/1999: 5 n 4). 11 McDowell (1994/1999: 3).

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interessante e mette in luce una linea interpretativa che si sta facendo strada tra gli odierni commentatori:

L’impianto trascendentale dà l’apparenza di spiegare come possa esserci conoscenza delle caratteristiche necessarie dell’esperienza. E Kant pensa che ammettere il soprasensibile sia un modo per proteggere gli interessi della religione e della morale.12

Si punta, in pratica, ad una possibile continuità tra le opere morali e quelle teoretiche. Purtroppo, come sarà ribadito in seguito, questo tema potrà solo essere accennato nel corso dell’esposizione, poiché svierebbe troppo dai nostri scopi attuali.

Gli autori e i testi fin qui citati danno un senso di fermento e di vivida attività intellettuale intorno alle teorie del filosofo critico. Eppure, il pensiero kantiano, dalla metà del secolo scorso in poi, non è stato ristudiato affinché alcune sue singole parti possano essere sfruttate all’interno di speculazioni personali di singoli pensatori. Come si è detto all’inizio, l’esame sulla Ragion pura è stato portato avanti, inoltre, tramite vari commentari. Partendo dalle problematiche sottolineate precedentemente dalle parole di Friedman, chi si impegna nel produrre un commentario sulla prima

Critica sembra essere mosso dalla volontà di testare ampie porzioni del pensiero

teorico kantiano (se non, addirittura, la sua totalità), al fine di osservare quanti e quali aspetti della filosofia in questione possano essere ancora utilizzabili. Certo, quasi tutti tendono a concentrarsi solo su determinate parti dell’opera, ma sono spesso quelle in cui, per loro, si manifesta il nocciolo del criticismo.

La produzione di questo tipo di testi ha alcuni vantaggi ben precisi: in primo luogo, i commentari sulla prima Critica possono rappresentare quasi una sorta di “genere letterario” o di filone all’interno della più vasta produzione anglofona. Ciò permette quindi di non disperdersi tra filosofi della scienza, filosofi analitici e così via, ma di concentrarsi su di una sorta di corrente di pensiero specifica, al cui interno si animano dibattiti e si avanzano teorie provenienti anche dall’ambiente circostante. Un’area di discussione filosofica forse ristretta, ma, allo stesso tempo, permeabile a molte delle istanze e delle problematiche tipiche dei maggiori indirizzi di studio

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anglofoni: in pratica, grazie a questa metodologia d’indagine si ha una sintesi di ciò che accade anche al di fuori, il tutto filtrato attraverso il terreno comune della filosofia kantiana.

Nello specifico, tra i commentari che saranno presi in considerazione, si tenterà, in primo luogo, di vagliare testi con orientamenti differenti, al fine di avere più punti di vista e una più vasta obiettività di giudizio. Per esempio, c’è chi si è interessato maggiormente alla componente trascendentale del soggetto conoscente, cercando di separarla delle implicazioni scientifiche dell’epoca, ritenute da Kant sicuramente valide, ma oggi considerate troppo compromettenti – operazione compiuta, per esempio, da Henry E. Allison nel suo Kant's Transcendental Idealism ispirato dalle tesi che Gerd Buchdahl espone in Kant and the Dynamics of Reason; altri, invece, sottolineano proprio la continuità con le discipline scientifiche, arrivando a modificare, di contro, il modo di intendere i principi a priori kantiani – e il caso di Michael Friedman e del suo Kant and the Exact Sciences; alcuni osservano le posizioni kantiane alla luce del commentario di Heidegger, Kant e il problema

della metafisica, traendo ispirazione da entrambi gli autori – si pensi a Charles M.

Sherover, Heidegger, Kant and Time; in più, c’è chi punta ad una lettura prettamente funzionalistica della prima Critica – ad esempio, Graham Bird, The Revolutinonary

Kant; non mancheranno, infine, opere scritte, ormai diversi anni fa, come Kant and The Claims of Knowledge di Paul Guyer.

Ma l’opera forse più storicamente importante, con la quale si può dire che abbia preso l’avvio questo metodo d’indagine al di fuori dell’Europa continentale, è, naturalmente, quella di Peter Frederick Strawson, The Bounds of Sense (1966). Sebbene ci fossero già stati in precedenza dei commentari, come quelli di Norman Kemp Smith (A Commentary to Kant’s “Critique of Pure Reason”) o di H. J. Paton (Kant’s Metaphysic of Experience), e opere praticamente coeve, come Kant’s

Analytic di Jonathan Bennett, è con Strawson che sembra farsi largo la tendenza ad

utilizzare le pagine di Kant per rispondere a problemi contemporanei e tipici di un certo tipo di filosofia – nel suo caso, quella analitica13. Come afferma esplicitamente

13 Anche O’Shea (2006: 521) sottolinea come sia da individuare in questo periodo il punto di svolta

nell’approccio a Kant da parte dei filosofi di tradizione analitica: «dagli anni Sessanta, una delle maggiori fonti della crescente influenza delle prospettive dichiaratamente kantiane nell’epistemologia e nella metafisica si è avuta con Strawson […]. Quando [le sue opere] venivano considerate insieme,

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Friedman (1998: 113): «[n]essuno, all’interno della tradizione analitica, ha fatto di più per risvegliare l’interesse sulla filosofia trascendentale kantiana di P. F. Strawson». Il testo di Strawson, infatti, oltre a raffrontarsi con molte delle ipotesi sopraelencate, sembra essere stato un modello, per coloro che si sono apprestati a scrivere un commentario. Nei testi precedenti dello stesso tipo apparivano più forti gli influssi di opere simili in lingua tedesca e anche l’impostazione sembrava leggermente diversa rispetto a quelle più recenti. Per esempio – e ciò non è detto che sia sempre un fatto positivo – in Strawson è maggiore l’attenzione per gli aspetti prettamente epistemologici che si scontrano con le possibili implicazioni ontologiche pur presenti in Kant. Questa tendenza sembrerà accentuarsi nei commentari contemporanei. L’opera di Strawson è inoltre importante non solo per l’impostazione, ma anche per i temi trattati, per lo stile e per la metodologia con cui si approccia alla Ragion pura. Tuttavia, paradossalmente, il libro di Strawson ha contribuito a sollevare il dibattito su Kant proprio perché, secondo molti, sotto alcuni punti di vista, il filosofo analitico ha totalmente frainteso certi aspetti dell’elaborazione intellettuale di Kant.

Proprio perché le impostazioni e le finalità sono molteplici, nell’esegesi di un testo come la Ragion pura, si è pensato di concentrarsi su di una sorta di caso di studio: l’intuizione temporale. La scelta è caduta sul tempo perché, esaminata più da vicino, una tale nozione mostra come su di essa possano convergere molte problematiche, ipotesi interessanti e addirittura contraddizioni dalle varie tradizioni e linee interpretative delle differenti filosofie anglofone. Però, prima di entrare più nel dettaglio, è bene tenere presenti due punti di partenza che hanno guidato l’analisi del presente lavoro: da un lato, ritengo che sia stata quasi sempre sottostimata l’importanza del tempo kantiano dalla maggior parte degli interpreti – e gli autori anglofoni non fanno eccezione – tranne casi singoli, sebbene importanti; in secondo luogo, ritengo che, nonostante ciò, far luce su una nozione come l’intuizione temporale, la quale presenta ancora molti punti oscuri, potrebbe chiarire meglio molte delle difficoltà in cui si sono imbattuti i commentatori anglofoni.

A livello introduttivo, si può dire che, nella Critica della Ragion pura, Kant in particolare, a quelle di Bird (1962) e di Bennett (1966), i maggiori lavori sulla prima Critica si presentavano adesso con quegli argomenti forti, per tesi sostanzialmente kantiane, che erano espressi e valutati usando analisi e stili argomentativi della filosofia analitica contemporanea».

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sviluppa le sua concezione del tempo lungo due direttive principali: stando alla prima, lo si considera come forma del senso interno, mentre, stando alla seconda, si parla del tempo nella sua funzione mediata, come forma dei fenomeni esterni. Kant inizialmente espone, com'è noto, la sua nozione di intuizione temporale nell'Estetica

trascendentale e, pertanto, si sarebbe tentati di estendere quanto lì viene affermato

alle altre sezioni dell'opera. Tuttavia nell’Estetica si ha solo un'introduzione preliminare che dovrà essere integrata con quanto viene affermato nel corso della trattazione. In particolare, l'esposizione si protrae in paragrafi in cui sono ben evidenti le differenze se si considera il tempo come forma del senso interno o in rapporto ai fenomeni esterni: per esempio, per quel che riguarda il primo caso, sono illuminanti certe sezioni dello Schematismo trascendentale; per quel che riguarda il secondo, saranno presi in considerazione, soprattutto, i paragrafi relativi alle Analogie dell'esperienza. Tutto ciò verrà esposto più dettagliatamente nei tre capitoli di cui si compone il presente lavoro e che sono riassunti qui di seguito.

Il primo capitolo ha un indirizzo più generale, storico ed introduttivo. Verranno analizzate le teorie storiografiche sviluppate dagli odierni commentatori di Kant per spiegare il formarsi e lo svilupparsi della sua riflessione filosofica, con particolare attenzione all’intuizione temporale. Si può già da ora anticipare che il tutto sarà visto come un’elaborazione originale, la quale, tuttavia, si fonda su di un tentativo di sintesi tra correnti di pensiero a lui precedenti, come il cartesianesimo, il razionalismo e le teorie scientifiche di Newton. Dopo di che, verranno esposte certe particolari linee interpretative avanzate da alcuni commentatori tedeschi ottocenteschi di Kant, dato che esse presentano evidenti affinità con quelle messe in campo dagli autori anglofoni qui presi in considerazione. Sarà interessante notare come, implicitamente o inconsapevolmente, molti temi e metodologie si ripresentino allo stesso modo nelle odierne letture. Infine, si cercherà esporre più approfonditamente gli aspetti che hanno spinto alcuni, tramite percorsi originali e in base ad esigenze specifiche, a ritornare verso la prima Critica di Kant. Si accennerà, a tal proposito, nella parte finale della sezione, ai noti problemi di incomunicabilità tra la filosofia continentale e quella di tradizione analitica che hanno forti ripercussioni sui modi di analizzare l’opera di Kant.

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Ciò darà la possibilità di iniziare ad osservare, più nel dettaglio, come questa nozione venga introdotta nella prima Critica. Per prima cosa, saranno presentate le caratteristiche dell’intuizione temporale così come vengono esposte nell’Estetica

trascendentale. Dopo di che, si inizierà ad esaminare il tempo in quanto forma del

senso interno. Si è pensato che il modo migliore per presentare l‘intuizione temporale in questa veste, fosse quello di indagare i suoi rapporti con nozioni importantissime per l’impianto conoscitivo kantiano, ma spesso messe in secondo piano a causa della loro “oscurità”. Il tempo, infatti, in quanto forma del senso interno, viene visto come il collante che tiene unite molte delle funzioni e capacità kantiane. E, proprio a seguito di una più minuziosa distinzione tra facoltà e capacità, si prenderà in considerazione il rapporto tra la forma del senso interno e alcune attività del soggetto conoscente, quali, ad esempio, l’Apprensione e l’Appercezione. Già da ora si può affermare che le analisi di questo capitolo rappresentano una sorta di eccezione rispetto alle altre parti del presente lavoro o a quanto detto poc’anzi: molti autori anglofoni che si sono concentrati sull’intuizione temporale come forma del senso interno hanno cercato, difatti, di evidenziarne le proprietà ontologiche. A questo tipo di interpretazioni non saranno estranee chiavi di lettura singolari, alcune delle quali affondano le loro radici nella particolare interpretazione che Heidegger ha offerto di Kant.

Nel terzo capitolo si analizzerà il tempo nel suo uso esterno mediato, cioè nel suo rapporto con i fenomeni, si entrerà forzatamente in contatto con le discipline inerenti alla misurazione e alla spiegazione dei rapporti degli oggetti esterni. Ciò ci porterà a confrontarsi con una delle tematiche più dibattute da parte dagli odierni commentatori anglofoni di Kant, quella che prende le mosse dal rapporto tra filosofia e scienza, in cui spesso si inserisce quello tra conoscenza comune e conoscenza scientifica. La discussione quindi non si interesserà soltanto dell’esperienza di tutti i giorni ma si andranno a toccare quelli che per Kant erano i presupposti delle discipline fisico-matematiche, legate, inoltre, a nozioni quali lo spazio e le analogie dell’esperienza. Ci concentreremo, in particolare, sulla prima e sulla seconda analogia che, a dispetto della terza, sono state molto più dibattute all’interno dei vari commentari e sulle quali si sono sviluppate tesi innovative ed interessanti. Le varie posizioni e le diverse letture saranno introdotte, all’inizio del capitolo, da un’analisi

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delle differenze tra la prima e la seconda edizione della Critica della ragion pura. La ricerca affronterà e cercherà di analizzare molte tematiche, ma saranno due le conclusioni a cui mira e che intende mettere in luce il presente lavoro. Innanzitutto, lo studio sul tempo ci porterà a riconsiderare i problemi del rapporto tra epistemologia e ontologia, così come vengono valutati in ambienti angloamericani, in cui, cioè, si dà importanza, quasi esclusivamente, ad una prospettiva epistemologica, riduttivistica e naturalistica. In un contesto simile, si cercherà quindi di sostenere, in primo luogo, che non è possibile operare una distinzione netta tra l'ontologia e l'epistemologia quando si ha a che fare con nozioni che operano ad un livello così profondo, come l’intuizione temporale. Ciò mette in dubbio la famosa concezione kantiana, stando alla quale l'ontologia corrisponde esclusivamente all’analitica, cioè a quella griglia di principi e di nozioni a priori che formerebbero l’intelaiatura gnoseologica del soggetto conoscente:

I princìpi di cui si è in possesso non sono altro che i princìpi dell’esposizione dei fenomeni e il nome risonante di ontologia, che pretende dare in una teoria sistematica conoscenze sintetiche a priori delle cose in generale (ad esempio, il principio di causalità) deve cedere il posto a quello modesto di una semplice analitica dell’intelletto puro.14

Detto altrimenti, non solo l’ontologia dipenderebbe dall’epistemologia, ma da un tipo particolare di epistemologia. Il problema è che – e l’intuizione temporale ne è un caso esemplare – non è così facile distinguere, dove finiscano le componenti ritenute, in senso stretto, conoscitive e dove inizino quelle, per così dire, strutturali. Infatti, ad esempio, come si tenterà di mettere in luce, sono proprio le caratteristiche ontologiche del tempo che vanno a colmare, in fase conoscitiva, lacune prettamente epistemologiche. Per gli autori presi in considerazione, nei i quali è nettamente predominante la componente gnoseologica e sembrano eludere gli altri aspetti del soggetto conoscente, è quindi possibile considerare alcune funzioni dell’intuizione temporale – così come vengono espresse nell’Estetica o nello Schematismo – eminentemente epistemologiche? E, inoltre, questi attributi dell’intuizione temporale

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possono, perciò, essere ancora considerati come proprietà di cui si può avere conoscenza solo attraverso l’analitica dell’intelletto puro? È dunque realmente possibile tracciare una linea dicendo “qui cominciano le considerazioni ontologiche e qui quelle epistemologiche”?

Il rapporto tra epistemologia ed ontologia che si viene delineando nei commentari inglesi su Kant sembra che possa essere criticato nello stesso modo in cui – mi sia permesso un parallelo ardito – Duhem criticava gli esperimenta crucis in un paragrafo intitolato Un esperimento di fisica non può mai condannare un’ipotesi

isolata, ma soltanto un insieme teorico15:

il fisico non può mai sottoporre al controllo della esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l’esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata.16

Credo che l’idealismo kantiano si trovi in una situazione simile: quando l’impianto di Kant arriva a fare i conti con la realtà, ammettendo che si sia riusciti a circoscrivere il più possibile le funzioni di una nozione quale l’intuizione temporale, è difficile capire se un eventuale problema, relativo al soggetto conoscente nel rendere conto della realtà stessa, derivi da una proprietà intrinseca della struttura del tempo (attributo che potrebbe essere definito “ontologico”) o dal modo in cui svolge i suoi compiti epistemologici. Una situazione che si ripropone costantemente quando si fanno asserzioni su entità epistemologiche così fondamentali. Il soggetto conoscente cerca di riflettere su se stesso e sull’organizzazione stessa delle sue nozioni, ma siamo ad un livello simile a quello in cui, per usare una metafora, l’occhio tenta di vedere se stesso. In egual misura, durante il processo conoscitivo si cerca di rendere conto del tempo essendo esso stesso la forma del senso interno e ritrovandosi, quindi, praticamente immersi nella temporalità.

Tutte queste riflessioni sono legate ad un secondo aspetto importante che si

15 Duhem (1914/1978: 207). 16 Duhem (1914/1978: 211).

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tenterà di mettere in mostra: sia che si guardi il tempo nella direzione della forma interna (più legato, quindi, agli aspetti ontologici), sia che lo si osservi come relazione tra i fenomeni (in una sua funzione eminentemente epistemologica), in Kant una tale nozione non appare mai come ultima o fondativa, ma sembra sempre svilupparsi o appoggiarsi su enti ancor più basilari. Detto altrimenti, l’intuizione temporale sembrerebbe essere una nozione che presupponga qualcosa al di sotto di essa, che non sia – per rubare il linguaggio dalla filosofia continentale – originaria ma originata. Alcuni di quelli che potremmo chiamare gli “ontologici”, per esempio, pongono a fondamento del tempo la Sintesi trascendentale, cioè la sorgente dell’attività gnoseologica spontanea del soggetto conoscente; invece, gli “epistemologi” si soffermano spesso sul concetto di tempo oggettivo, ossia su di un particolare concetto di tempo come prodotto dall’attività delle analogie dell’esperienza. Ricapitolando, il tempo come senso interno ha forti connotati ontologici che funzionano come una base per determinate operazioni epistemologiche, ma che, a loro volta, poggiano su qualcos’altro; nel caso del tempo come senso esterno mediato, invece, l’intuizione temporale partecipa con le analogie, e soprattutto con il principio di causalità, alla formulazione di un concetto di tempo oggettivo che sembra avere una portata esclusivamente epistemologica. Da entrambe le posizioni, dunque, secondo angolazioni e prospettive diverse, è ipotizzabile che si possa escludere che il tempo sia un’entità originaria la quale non presuppone niente al di sotto di sé.

Oltre a ciò, lungo il corso dell’analisi, si presenteranno spesso temi ricorrenti. Come accennato in precedenza, tra questi vi è, ad esempio, il rapporto tra i commentatori anglofoni e un certo tipo di filosofia continentale. Da questo punto di vista, la ripresa, lo studio e la rielaborazione del pensiero di Kant da parte di autori di tradizioni così diverse e che, come vedremo, hanno intrecciato poche relazioni tra di loro, può rappresentare un punto di incontro per tentare di sviluppare un nuovo dialogo. Infatti, a fronte di varie difficoltà, il ritorno, senza intermediazioni, al testo kantiano – ed ecco un motivo di importanza in più per studiarne i commentari – ha il pregio di utilizzare un terreno comune, la filosofia critica appunto, che può essere utilizzato come base di un confronto tra più indirizzi filosofici, grazie alla sua grande influenza, importanza e fama. Se ci soffermassimo a riflettere su questi presupposti,

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perde addirittura di senso la domanda: perché studiare (ancora) Kant? Paradossalmente, sembra quasi che non siano gli autori contemporanei che devono impegnarsi nel riscoprire Kant, ma che sia Kant stesso a riproporsi autonomamente.

Collegato a ciò vi è la volontà e, mi sia permesso, l’ambizione di intensificare, anche in Italia, il dialogo con alcuni recenti autori anglofoni, evidenziando temi a loro cari e che, anche qui da noi, sono stati spesso affrontati. Ad esempio: l’impostazione gnoseologica dell’attività conoscitiva; il rapporto tra epistemologia e discipline scientifiche che, come accennato, potrebbe allungarsi fino al campo della morale; certi elementi che emergono spesso nel dibattito più prettamente kantiano come la sua concezione dell’esperienza, i legami tra le varie sezioni dell’opera o il modo in cui considerare i principi sintetici a priori.

E queste sono solo alcune delle molteplici implicazioni in cui ci si può imbattere quando si inizia ad indagare una nozione complicata e fondamentale come l’intuizione temporale kantiana. Una nozione che ci costringe a guardare all’interno del percorso che si snoda in noi stessi in quanto soggetti conoscenti. Una situazione simile a quella in cui si trova il viandante di Novalis che, abbandonati gli spazi illuminati, chiari e diurni della via maestra, è costretto ad affrontare il buio, rivolgendosi al proprio interno, un regno oscuro e notturno, che all’inizio può spaventare ma dentro il quale, una volta esplorato con accortezza, «[p]iù divini/delle stelle scintillanti/ci sembrano gli occhi infiniti/che in noi la notte dischiude»17.

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I. Il Tempo prima e dopo Kant.

I.1. Introduzione.

Il modo in cui Kant concepisce il tempo è innovativo: un tempo che tra le due grandi tradizioni – sostanzialista (in cui lo si considera un ente distinto e autonomo) e riduttivista (in cui lo si considera una relazione tra oggetti) – si colloca a metà strada e che, contemporaneamente, viene indicato quale nozione di riferimento per tutte le altre. Tutto ciò è il risultato, da un lato, delle proprietà che Kant gli conferisce, ispirate in parte dalle riflessioni filosofiche a lui precedenti, da l’altro, ad un lavoro di ridefinizione e di “ripulitura” del concetto stesso a cui vanno aggiunti i vari atti di bilanciamento delle funzioni temporali e dei suoi rapporti rispetto ad altre nozioni chiave dell'impianto critico. Infatti, storicamente, il ruolo di nozione di riferimento era stato destinato, di sovente, ad altri enti, tra i quali, per esempio, lo spazio. Compito di questo capitolo sarà, in primo luogo, quello di mostrare il contesto storico che ha spinto Kant verso la sua personale concezione. Successivamente cercheremo di illustrare brevemente come egli sia stato, a sua volta, un punto di partenza per elaborazioni successive. In particolare, ci concentreremo su quegli autori e su quelle correnti che, in qualche modo, possono essere messi in parallelo con un gruppo, forse ristretto ma molto attivo, di filosofi anglofoni.

È forse bene chiarire fin da subito che, per quanto riguarda questi ultimi autori, ci concentreremo su una cerchia ristretta di nomi. Ogni ricerca di questo genere ha il difetto di apparire incompleta o arbitraria, selettiva e non omogenea. I vari autori che prenderemo in considerazione appartengono a indirizzi, periodi o nazioni differenti, pertanto è lecito domandarsi se non possano apparire artificiosi i vari confronti che seguiranno. Ritengo tuttavia che, per quel che riguarda i nostri scopi, ossia l’analisi del tempo principalmente nella Critica della ragion pura da parte dei pensatori anglofoni, alcuni autori abbiano contribuito più di altri ad impostare la discussione su temi precisi, dando vita quasi ad una sorta di dibattito a distanza, i cui contributi maggiori vengono appunto dai commentari sulla Ragion

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contribuito, in parte, gli stessi autori che prenderemo in considerazione, i quali hanno assunto, più o meno univocamente, un quadro di riferimento accuratamente selezionato quale contesto storico da presentare come terreno in cui sono germogliate le tesi kantiane, in particolar modo proprio per ciò che riguarda l’intuizione temporale. Quindi ci concentreremo, nello specifico, su quegli aspetti storiografici che più hanno ispirato le loro tesi, come le famose dispute tra leibiziani-wolffiani e newtoniani, partecipando alle quali il giovane Kant ha iniziato la sua carriera filosofica. Siamo consapevoli che sarebbe riduttivo considerare il pensiero di Kant solamente come uno sforzo di sintesi tra quelle due direttive principali: molti altri sono stati gli autori con cui egli si è confrontato (ad esempio, Hume, Cartesio...) e che sono stati per lui fonte di ispirazione. Eppure, i commentatori che prenderemo in esame mettono sul piatto buone argomentazioni stando alle quali proprio nel punto di contatto tra la spinta newtoniana e leibniziana si sia formata l’innovativa concezione kantiana del tempo.

I.2. Il tempo prima di Kant: Leibniz e Newton.

Ci sono diverse motivazioni e diversi gradi di consapevolezza nella ripresa, da parte di autori anglofoni, dei temi messi sul tavolo da Kant. Certi pensatori, come Michael Friedman o Graham Bird, hanno rielaborato alcuni elementi kantiani affinché potessero essere ancora oggi riutilizzati, mostrandone, al contempo, lo sviluppo e la continuità con opere di altri filosofi. Altri sembrano limitarsi alla ricerca di un’idea per affrontare un periodo di cambiamento scientifico, simile a quello che si è avuto nel Seicento o con la crisi della fisica tra XIX e XX secolo. Una tendenza che in Kant trova il suo massimo sviluppo, e che spesso è ritenuta meritevole di essere ripresa, è, per l’appunto, l’approccio attento e dialogante nei confronti degli sviluppi scientifici della sua epoca; atteggiamento che, tuttavia, non si appiattiva unicamente a favore di essi. D'altro canto, proprio l’analisi di una nozione come il tempo, paradossalmente, si è dimostrata importante anche per coloro che hanno voluto allentare i legami con le discipline fisico-matematiche, ribadendo una sorta di primato o di precedenza della speculazione filosofica. Il modo di porsi di Kant nei confronti delle materie scientifiche e il rapporto che instaura tra scienza e

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filosofia risente del clima dell’epoca in cui si è formato, in parte dovuto, come accennato, ad alcuni confronti tra concezioni opposte. Alcune delle più famose fanno capo alle teorie di Leibniz e di Newton.

È difficile capire quanto e cosa del pensiero originale dei due autori sia arrivato fino a Kant. Per esempio, egli potrebbe non aver avuto una conoscenza diretta delle opere di Leibniz, ma i suoi studi si baserebbero su ciò che di esse riportavano i testi di Wolff1. A proposito di Leibniz, difficoltà ulteriori sono date dal fatto che, esattamente per quel che riguarda temi quali lo spazio e il tempo, la posizione del filosofo razionalista sia cambiata nel corso degli anni: inizialmente le sue considerazioni sullo spazio convergevano verso la nozione di spazio assoluto2 ma, cercando di prendere le distanze da quella sorta di ingenuo idealismo empirico di alcuni suoi predecessori, ha elaborato una sua personale posizione del tutto originale. È su questa concezione più caratteristica e matura dello spazio e del tempo che la maggior parte dei commentatori ha posto l’accento, considerano due testi in particolare: la Monadologia (1714) e il suo scambio epistolare con Samuel Clarke (1715-16).

Stando alla metafisica delineata in tali opere, le reali componenti del mondo sarebbero le monadi, sostanze semplici e indivisibili, «dove non esistono parti, non v’è estensione, né figura, né divisibilità possibile»3. Anche il soggetto conoscente è

da considerarsi, a sua volta, una monade, la quale, proprio durante le operazioni conoscitive, può avvalersi con sicurezza solo dell’attività razionale dato che la percezione degli oggetti fornisce una conoscenza inattendibile e confusa. La sensibilità è, infatti, una facoltà inaffidabile, se non illusoria, e solo la ragione dà libero accesso al mondo reale. Siamo di fronte, pertanto, ad una conoscenza che deriva da un certo modo di intendere l'ontologia e che punta verso delle entità

1 Kemp Smith (1918/1979: 605).

2 Vailati (1997: 112). Cfr. anche Hartz/Cover (1988) i quali individuano tre momenti nello sviluppo

del pensiero di Leibniz su spazio e tempo: un primo periodo (anni 1676-88) in cui tempo e spazio sarebbero “fenomeni ben fondati”; un periodo di passaggio (1689-1709) in cui spazio e tempo vengono considerati, alla stregua dei numeri, oggetti del pensiero, nettamente separati dall’altro livello degli oggetti reali e concreti; infine il periodo del pensiero maturo (1711-16), a cui corrisponde lo scambio con Clarke e che sembra essere quello a cui si fa maggiormente riferimento. È qui che si ha una tripartizione ontologica della realtà in cui si ha il livello delle monadi (substantiae), quello dei fenomeni o dei corpi (quasi-substantiae) e infine quello degli entia rationis a cui apparterrebbero proprio lo spazio e il tempo.

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intellegibili poste a fondamento della realtà. In aggiunta a quanto appena detto, Leibniz sostiene che le monadi siano “senza finestre”, che non abbiano cioè modo di comunicare con il mondo esterno o tra di loro. Gli stati interni, dunque, possono essere spiegati soltanto da un principio anch’esso interiore, che viene presentato come una sorta di forza attiva. Ciò comporta però dei problemi di difficile soluzione: per esempio, come spiegare, tra le tante, la corrispondenza tra una monade e l'altra? Come chiarire la coerenza tra le esperienze di diversi soggetti che, per definizione, non interagiscono tra loro? Oppure la sintonia tra ciò che percepisco ed il mondo esterno? Per giustificare la coordinazione degli stati interni con quelli esterni, com’è noto, Leibniz fa ricorso alla famosa tesi – sulla quale purtroppo non possiamo dilungarci – de “l’armonia prestabilita”, asserita da Dio fin dalla creazione.

In un quadro simile, in cui l'esistenza si basa su entità prive di grandezza, quindi né spaziali né temporali, tali dimensioni non possono essere pensate come metafisicamente reali: la loro ragion d’essere deve ritrovarsi nella maniera stessa in cui le monadi si rapportano tra di loro. Spazio e tempo, perciò, vengono considerati come degli ideali a cui puntare4. Lo spazio può essere ritenuto un insieme di relazioni che le monadi intrattengono l'una con l'altra: è, più precisamente, l'ordine delle cose coesistenti. Il tempo, invece, deriverebbe inizialmente dall'ordine dei rapporti tra gli stati di coscienza interni e consecutivi di una singola monade; la temporalità sarebbe data, cioè, dalla disposizione delle cose successive, degli oggetti che si susseguono l’un l’altro. Questa maniera di considerare spazio e tempo troverebbe ispirazione, almeno in parte, in un nuovo modo di intendere la “continuità”: come si capirà meglio nel corso dell’esposizione, lo spazio e il tempo, in quanto continui, non possono essere considerati come se fossero composti da unità discrete; le divisioni al loro interno, come punti o istanti, devono essere ritenute dei termini potenziali5. Essendo una quantità continua, il tempo ha una struttura infinitesimale, al contrario della durata e del moto, che vengono considerate, loro sì, discrete. Ciò ci aiuta a determinare, per esempio, l’accelerazione e la velocità istantanea6.

4 Cassirer (1902/1986: 188) afferma che «Leibniz pensa i concetti di spazio e tempo come i concetti

logici e matematici. Gli uni e gli altri sono puri prodotti di quell’”intellectus ipse” che dai sensi viene solo spinto a trarli fuori di sé».

5 Cfr. Vailati (1997: 113).

6 Cfr. Vailati (1997: 121). A questo proposito Leibniz ([1963]: 451) afferma che «Lo spazio e la

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Posto quindi che il tempo sia continuo, Leibniz cerca di spiegare anche come si possa accertare che l’istante a preceda l’istante b. La determinazione temporale delle cose avviene stabilendo dei rapporti di successione tra gli oggetti stessi: visto che sappiamo (grazie all’uso del Principio di Ragione Sufficiente) che A precede B e stabilito che nell’istante a si è verificato A mentre nell’istante b si è verificato B, possiamo affermare la successione tra i due momenti. Ma l'associazione di un determinato oggetto con quel determinato punto temporale non è condizionata da nessun altro fattore, ossia non dipende dalla struttura formale del tempo in sé. Essendo insensato parlare di un ordine temporale al di fuori delle monadi, il tempo sarebbe inconcepibile senza di esse. Detto con le parole dei Kant:

spazio e tempo divenivano possibili, il primo mediante la relazione delle sostanze, il secondo in base alla reciproca connessione delle loro determinazioni come ragioni e conseguenze. Così infatti dovrebbero stare le cose se l'intelletto puro potesse riferirsi immediatamente agli oggetti e se spazio e tempo costituissero determinazioni delle cose in se stesse.7

Al contrario di Leibniz, Newton non vede spazio e tempo come relazioni, bensì come due entità distinte. Questa impostazione permette, a differenza di Leibniz, di arginare meglio eventuali eccessi di tipo spinoziano che dipendono, a loro volta, dall’identificazione ipotizzata da Cartesio della materia con l’estensione8. Per

Newton spazio e tempo sono dimensioni da intendersi come dei contenitori infiniti all’interno dei quali interno si possono collocare gli oggetti. Ciò, da un lato, comporta che si abbia un'unica estensione, una singola durata temporale ed una sola distanza assoluta tra due punti; dall’altro, spazio e tempo sono indipendenti dagli oggetti che si trovano al loro interno. Questi ultimi possono occupare posizioni assolute, ereditando le proprietà dello spazio (come quelle geometriche) o del tempo, venendo perciò considerati, a loro volta, spazio-temporali. Infine, non solo gli oggetti sono in costante interazione gli uni con gli altri grazie, ad esempio, alla legge di gravitazione universale ma, stando alla legge di inerzia, i corpi non potrebbero cambiare i loro stati se su di essi non agissero forze esterne.

7 Kant (1781/2005: 284; A 267/B 323). 8 Cfr. Vailati (1997: 112).

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Il tempo in Newton, dunque, è sia reale – esiste indipendentemente da una mente che lo pensi (ad eccezione, forse, di quella di Dio) – sia assoluto – esiste indipendentemente dagli oggetti al suo interno. In pratica, potremmo vedere il tempo newtoniano come una monodimensione vuota su cui è possibile indicare la posizione degli oggetti: come la linea di un asse cartesiano, con una sua struttura propria, in cui è possibile far corrispondere ad ogni punto un determinato valore. Secondo questa concezione un tempo “disabitato” è assolutamente coerente. Ma la caratteristica che è bene sottolineare fin da ora, e che sarà motivo di scontro nei capitoli seguenti, è che il tempo, nella visione newtoniana, scorre costantemente a dispetto degli oggetti al suo interno:

Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno.9

Fortunatamente, come già accennato in precedenza, possiamo avvalerci anche di un confronto diretto tra le due posizioni, svoltosi fra il 1715 e il 1716 attraverso uno scambio epistolare tra Leibniz e Clarke, studioso e sostenitore delle tesi newtoniane10. Tra i molti argomenti di cui discutono i due pensatori, la nostra attenzione si focalizzerà soprattutto sugli aspetti riguardanti il tempo, del quale si inizia a parlare più nel dettaglio nel terzo scritto di Leibniz (la seconda replica a Clarke). In primo luogo, nella lettera viene ricordata la definizione leibniziana di tempo come «ordine delle successioni»11; fatto ciò, vengono sollevate le critiche alla concezione di Newton. La prima obiezione, molto famosa, nasce dall’unione di alcune premesse teologiche con due principi molto cari a Leibniz, quello di Ragione

9 Newton ([1965]: 101-2)

10 La parte più difficile nel riportare lo scambio epistolare, è riuscire a mantenere la discussione su un

piano prettamente filosofico. Infatti sono molto frequenti i riferimenti teologici che servono anche da puntello alle teorie dell’uno e dell’altro pensatore. Nelle pagine seguenti tenteremo di limitare il più possibile gli accenni all’ambito prettamente religioso sia perché non abbiamo gli strumenti per analizzare a fondo tali aspetti, sia perché saranno argomenti quasi del tutto tralasciati nelle posizioni che analizzeremo in seguito.

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Sufficiente e quello dell’Identità degli Indiscernibili: se il tempo fosse assoluto e omogeneo non ci sarebbe una ragione per la quale Dio abbia fatto iniziare il mondo proprio in quel momento e non in un altro:

Supposto che qualcuno domandi perché Dio non ha creato ogni cosa un anno più presto, e che quella persona voglia inferire che Dio ha fatto qualcosa senza che possa esservi una ragione per cui l’abbia fatta così e non altrimenti, gli si potrebbe rispondere che la sua illazione sarebbe vera se il tempo fosse qualcosa fuori delle cose temporali: infatti non vi potrebbe essere alcuna ragione perché le cose fossero attribuite a tali momenti piuttosto che ad altri, la loro successione restando la stessa. Ma proprio ciò dimostra che gli istanti, fuori dalle cose, non sono niente, e che essi non consistono in altro che nel loro ordine successivo.12

Clarke, in un primo momento, non sembra troppo turbato dall’ipotesi del tempo come un qualcosa al di “fuori delle cose temporali”, dando l’impressione di non aver capito a fondo i rilievi di Leibniz e continuando ad applicare alla teoria dell’avversario i propri modelli. Quando Clarke, nella sua replica, afferma: «se il tempo non fosse che un ordine di successioni nelle creature, ne seguirebbe che, se Dio avesse creato il mondo alcuni milioni di anni prima, egli non l’avrebbe tuttavia creato prima»13, sembra, per così dire, confondere la temporalità con la sua misurazione. Leibniz non sta ipotizzando che il tempo sia una specie di flusso all’interno del quale le cose vengono a trovarsi; sta invece sostenendo che sono presenti un tempo ed una successione solo se siamo in presenza di cose e se queste sono successive le une alle altre. Non è solo un problema epistemologico, al contrario, siamo di fronte ad un problema ontologico: come fare a misurare temporalmente gli eventi o le cose prima che ci siano gli oggetti stessi? Come pensare ad un’entità “tempo” senza gli oggetti? Confusione amplificata da Clarke – stando a ciò che dice sullo spazio – ammettendo la possibilità che possano far parte del tempo assoluto zone con cui gli oggetti non potranno mai entrare in contatto e che, talvolta, vengono chiamate “immaginarie”.

12 Leibniz ([1963]: 401). 13 Leibniz ([1963]: 406).

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Vedendo che il problema viene in qualche modo eluso, Leibniz cerca di riproporre nuovamente le sue critiche in passaggi molto più articolati. Nella sua quarta lettera, egli, ripartendo da dove si era fermato Clarke, afferma che uno spazio – e, per estensione, anche un tempo – senza oggetti al suo interno potrebbe essere chiamato “immaginario”14, tuttavia “immaginario” non può avere lo stesso

significato assegnatogli dai newtoniani ma deve essere considerato solo come una possibilità all’interno del pensiero di Dio. Nello stesso scritto Leibniz rincara la dose con una nota in cui esclude categoricamente che siano presenti contemporaneamente tutte le parti del tempo. Così facendo, egli nega l’eventualità che il tempo assoluto possa essere un presupposto di partenza e che possa esistere nella realtà come tale15.

Clarke, a questo punto, sembra iniziare a capire l’importanza dell’obiezione leibniziana visto che, nella replica successiva, cerca di fornire una risposta più particolareggiata sulle nozioni di spazio e tempo, cominciando con alcune definizioni: «Lo spazio è il luogo di tutte le cose e di tutte le idee, proprio come il tempo è la durata di tutte le cose e di tutte le idee»16. In tal modo sembra riaffermare che il raggio di azione del tempo non sia limitato solo agli oggetti, ma anche ai nostri stati interni o alle cose pensate, soprattutto – ed è questo forse un presupposto implicito – se sono pensate da Dio. Non dobbiamo dimenticare che Clarke, seguendo alcuni spunti di Newton, al fine di evitare il materialismo, lega «l’esistenza di Dio allo spazio e al tempo eguagliandoli all’immensità ed eternità divine»17. Infatti il

tempo non è al di fuori di Dio, ma è una conseguenza immediata dell’esistenza divina: ad esempio, senza il tempo Dio non potrebbe essere eterno18. La conclusione è il riconoscimento del tempo quale attributo o proprietà divina19.

Ma Clarke non rimane sulla difensiva. In precedenza aveva affermato che gli istanti di tempo, a differenza degli oggetti, sono completamente simili tra loro, nonostante possano essere considerati in maniera individuale, per esempio indicandoli con nomi diversi20. Questa riflessione scaturisce dall’aver posto alla base – e quasi come garanzia – dei rapporti temporali tra gli oggetti, una dimensione 14 Cfr. Leibniz ([1963]: 410). 15 Cfr. Leibniz ([1963]: 411 n 10). 16 Leibniz ([1963]: 425). 17 Vailati (1997:22). 18 Cfr. Leibniz ([1963]: 421). 19 Cfr. Vailati (1997: 35). 20 Cfr. Leibniz ([1963]: 420).

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composta da elementi tutti uguali tra di loro che scorre uniformemente. Tutto ciò, unito a quanto già detto, non è che il preludio per un attacco alla definizione di tempo come ordine della successione. Secondo Clarke, sebbene l’ordine resti identico, se la dimensione temporale fosse solamente un rapporto tra oggetti o pensieri, la quantità di tempo tra due cose potrebbe essere considerata, in situazioni diverse, più grande o più piccola. È possibile che Clarke intraveda un punto debole nel ritenere il tempo l’ordine della successione e l’insieme degli intervalli tra gli eventi, un tallone d’Achille che, ipoteticamente, potremmo rendere così: qualora il tempo fosse solo una relazione tra gli oggetti e fosse del tutto dipendente da essi, se in una data successione che fino ad oggi abbiamo considerato essere costituita da X elementi scoprissimo che implica X+1 elementi, avremmo allora una dilatazione della temporalità perché, letteralmente, nella successione ci sarebbe un oggetto in più e quindi anche la relazione sarebbe ampliata. Una situazione che, se da un lato ricorda alcuni vecchi paradossi stoici, dall’altro era tutt’altro che ipotetica dato che, in un periodo come quello in cui vivevano i due corrispondenti, le nuove scoperte nel campo del microscopico o dell’infinitamente piccolo erano all’ordine del giorno e si puntava continuamente a importanti conferme sperimentali: per esempio, è noto che Leibniz fosse profondamente colpito e meravigliato dalle scoperte biologiche fatte al microscopio; i newtoniani, dal canto loro, erano strenui sostenitori della teoria corpuscolare della luce, avversa a quella ondulatoria, e per anni hanno cercato conferme alle loro ipotesi. In entrambi i casi si apriva la prospettiva che ci fossero nuovi attori in scena all’interno di sequenze fino ad allora ritenute ben più semplici. L’aumento di oggetti all’interno di un processo comportava quindi l’aumento della durata del processo stesso e la dilatazione della successione lì riscontrata? O, ancora, in casi analoghi la successione è considerata, rispetto al modo di intenderla precedentemente, più veloce o più lenta? Clarke, infatti, in alcuni passi sembra proprio riferirsi alla velocità dello scorrere del tempo: per lui, che una cosa possa seguirne un’altra più o meno velocemente, non dovrebbe incidere sul fluire del tempo in sé, dato che, in una successione, stabilito il punto iniziale e quello finale, la velocità dello scorrere del tempo non dovrebbe mutare. Clarke conclude affermando che il tempo non può essere considerato una relazione tra gli oggetti e ribadendo che se «non vi fossero creature, l’ubiquità di Dio e la continuazione della sua esistenza

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renderebbero lo spazio e il tempo identici a quelli attuali»21.

Alcune espressioni di Leibniz hanno fatto pensare che la replica fornita da Clarke colpisse nel segno22. Tuttavia, un’analisi più puntuale mostra che tali repliche, da un lato portano Leibniz a dover esporre le sue tesi con maggior cura, da l’altro sembrano spingerlo verso un salto concettuale che arricchisce la sua formulazione delle dottrine spazio-temporali. Nella sua ultima lettera, tra tutte quella significativamente più lunga, Leibniz sembra prendere in considerazione la possibilità che la scoperta di nuovi oggetti o nuovi rapporti tra oggetti, potrebbe, in qualche modo, alterare la successione temporale. Nella risposta data da Leibniz, egli suggerisce di considerare il tempo come un ens rationis, cioè un ideale regolativo, il quale ha al suo interno, almeno in potenza, tutti i possibili istanti. Stando così le cose, appare adesso possibile che la successione, almeno in linea di principio, debba prevedere al suo interno tutti i possibili stati che un soggetto conoscente potrebbe riscontrare. La scoperta di nuovi elementi nelle varie sequenze è dovuta, presumibilmente, alle debolezze di noi soggetti conoscenti che non riusciamo a vedere sin da subito la totalità delle relazioni coinvolte. Ma – si potrebbe replicare – una delle obiezioni al tempo assoluto non andava proprio contro l’eventualità che tutte le sue parti fossero date nello stesso momento? Per controbattere a tali questioni, vanno ricordate le importanti differenze delle due posizioni legate ai presupposti di partenza: un leibniziano, infatti, potrebbe ribadire che a livello ontologico e a differenza dei newtoniani, non c’è un’entità che si possa chiamare tempo, ma solo monadi; qualora si abbia a che fare con una dimensione temporale e con le sue funzioni, ciò avviene solo a livello epistemologico. La totalità del tempo va perciò considerata con una finalità regolativa in cui possono trovare posto tutti i possibili momenti, e differenziando concettualmente la lunghezza della sequenza dal numero di fasi che è possibile trovare al suo interno: «se il tempo è più grande, vi sarà un numero maggiore di quegli stati successivi interposti; e se è più piccolo, ve ne sarà uno minore, poiché nel tempo non c’è vuoto, né condensazione, né

21 Leibniz ([1963]: 427).

22 Qualcosa di simile a quello che illustra Vailati (1997: 136): «se gli eventi A e B sono dati in

quell’ordine temporale, con T quale insieme di istanti tra di loro, e c’è un lasso di tempo tra di essi, allora il nuovo insieme di istanti U tra di loro include propriamente T e l’ordine della successione, cioè la collezione di “luoghi” temporali, è differente dall’originale».

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penetrazione»23.

Se rimaniamo su questo piano ideale, Leibniz ([1963]: 436) ammette perfino la possibilità di eventuali confusioni, come quella di chiamare lo stessa porzione temporale in maniera diversa, dato che, a quel livello, «esse si rassomigliano perfettamente, come due unità astratte». Ma questa eventualità è esclusa se consideriamo due unità temporali attuali, cioè i rapporti tra due oggetti che sono constatabili proprio in questo momento. Che essi siano esattamente due istanti qualitativamente distinti, è dovuto al fatto che occupano due posizioni diverse all’interno di una successione. Sono precisazioni che servono, inoltre, a ribadire la posizione di Leibniz sul rapporto tra la creazione del mondo e la temporalità: non ha proprio senso chiedersi se il mondo potesse cominciare prima o dopo quando gli oggetti e il modo di misurarli hanno un legame così stretto; a ciò va aggiunto che la domanda perde di significato anche se si considera il tempo in maniera ideale24.

Nelle varie lettere di Leibniz c’è un altro tema che aleggia ma che non sembra trovare una trattazione sistematica e che in parte si nutre dell’ambivalenza di un tempo ideale e relazionale che deve però render conto di oggetti reali e preclusi l’uno a l’altro: sebbene il tempo sia una nozione prevalentemente epistemologica, è possibile assegnargli, per così dire, “di riflesso”, una qualche valenza ontologica? Va ricordato che Leibniz aveva pensato agli istanti come a dei punti infinitesimali, come una sorta, anche in questo caso, di termini ideali che si avviavano verso quantità minime se non nulle: come può esistere, però, anche solo a livello epistemologico, qualcosa le cui parti tendono verso zero? Per Leibniz non siamo di fronte ad una semplice questione concettuale o di definizione terminologica, dato che tali questioni vanno a toccare la tesi del continuo temporale. A tutto questo si aggiunge l’ipotesi che si possa avere a che fare solo con l’istante presente, l’adesso: stretti tra un passato che non c’è più ed un futuro che non c’è ancora, ci ritroveremmo in un istante che, seguendo i modelli matematici, può essere ridotto ad un attimo senza durata. Anche Clarke sembra intravedere il problema, ma lo liquida come una specie gioco di parole, potendo la sua concezione aggrapparsi alla teoria degli istanti come unità discrete della durata. Ma proprio la differenza tra durata e tempo ideale era uno

23 Leibniz ([1963]: 461). 24 Cfr. Leibniz ([1963]: 447-8).

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degli argomenti che metteva maggiormente in difficoltà le tesi di Clarke, rendendo complicato il paragonare tra i momenti e le porzioni discrete di tempo25: come

abbiamo visto più volte, Dio doveva aver avuto una ragione (sufficiente) per porre l’inizio del mondo proprio in quel punto e non in un altro, ed un tempo omogeneo e indifferenziabile, come quello assoluto – fosse anche considerato puramente ideale – non andava d’accordo con questa parte delle tesi leibniziane. Anche per questo motivo – il rischio di andare contro, sebbene implicitamente, ad alcuni assunti teologici26 – tali idee sembrano arrestarsi ad un certo punto.

Su questi e su altri temi, purtroppo, il confronto si concluse bruscamente con la morte di Leibniz. Il carteggio fu pubblicato dallo stesso Clarke nel 1717, ebbe numerose ristampe e fu alla base delle dispute successive tra leibniziani e newtoniani, lasciando che la discussione, in qualche modo, proseguisse. L’autorità e i successi della fisica newtoniana sembravano dare un vantaggio notevole alle tesi di Clarke, eppure le critiche di Leibniz continuarono ad essere costantemente una spina nel fianco per i seguaci del fisico inglese. Questo fu, almeno in parte, il terreno fertile in cui si sviluppò il pensiero del giovane Kant.

I.3. Il Tempo al tempo di Kant.

Gli allievi di Leibniz e Newton hanno continuato a confrontarsi per molti anni e in varie parti d’Europa. Per esempio, a metà del Diciottesimo secolo, nell’allora Prussia, è possibile assistere a due importanti dibattiti che spaziano su più argomenti e su più livelli di discussione (epistemologico, ontologico, idealistico…)27: il primo,

tra gli anni 1725 e 1746, ha impegnato sulla vis viva newtoniani e discepoli di Christian Wolff, il quale aveva ripreso e, in alcuni casi, fortemente rielaborato le tesi di Leibniz, nell'Accademia delle Scienze di S. Pietroburgo; il secondo, tra il 1740 e il 1759, fu un confronto fra fazioni analoghe ed ebbe luogo all'Accademia delle scienze

25 Cfr. Vailati (1997: 122-3).

26 Cfr. Vailati (1997: 122). Leibniz, in più, faceva osservare che ciò avrebbe potuto comportare la

conseguenza, teologicamente inaccettabile, che Dio avesse delle parti. Inoltre, non si capirebbe il rapporto tra Dio nel tempo e tempo in Dio, cioè dove sia il confine tra soggetto e proprietà: «Si è ben sentito dire che la proprietà è nel soggetto, ma non si è mai sentito dire che il soggetto è nella proprietà. Egualmente, Dio esiste in ogni tempo: come allora il tempo è in Dio, e come può essere una proprietà in Dio?» (Leibniz [1963]: 441).

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di Berlino, guidata, in quel periodo, dal newtoniano Maupertuis. Gli echi delle dispute devono essere giunti alle orecchie di Kant grazie al suo maestro Martin Knutzen28, un wolffiano moderatamente revisionista che fu anche uno dei primi, in quelle zone, ad accettare le teorie di Newton. Non sorprende quindi che i primi elaborati del giovane Kant siano proprio dei tentativi di risposta ai temi discussi in quei dibattiti: intorno al primo confronto ruoteranno i Pensieri sulla vera stima delle

forze vive (1746)29, mentre le considerazioni in merito al secondo saranno affidate a

Monadologia physica (1756)30. Da Knutzen, inoltre, Kant avrebbe tratto ispirazione per il tentativo di riconciliare la fisica dell’epoca con le tesi dei filosofi razionalisti31.

Kant si adopererà per circa vent'anni nella ricerca di un punto d'incontro tra le due posizioni32, anni in cui considererà il mondo sensibile, in cui operano le leggi fisiche, nient’altro che un riflesso di quello intellegibile di matrice leibniziana33.

Inizialmente, infatti, il modus operandi kantiano si è impostato su presupposti razionalistici o meglio wolffiano-leibniziani34, assunti come punti di partenza, cercando poi di “innestarvi” i risultati della fisica della sua epoca.

Lentamente però la situazione ha iniziato a cambiare e le tesi di Newton hanno acquistato un’importanza sempre maggiore. Tendenza che giunge a piena maturazione con Del primo fondamento della distinzione delle regioni dello spazio (1768), testo che precede di poco il De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et

principiis (1770) – detto anche, soprattutto nel mondo angloamericano, Dissertazione Inaugurale35 – opera quest’ultima con cui si fa canonicamente cominciare il periodo critico. Da qui in poi Kant cercherà di includerle in una prospettiva del tutto originale elementi di entrambe le dottrine filosofiche. Soprattutto nella prima Critica, infatti, quasi a voler rimarcare la differenza con le sue vecchie posizioni, non solo le tesi di Wolff e Leibniz non rappresentano più il punto di partenza ma vengono spesso

28 Schönfeld (2006: 35-6) fa notare, tuttavia, come i rapporti tra Kant il suo maestro non fossero

idilliaci a seguito, soprattutto, della stesura di Pensieri sulla vera stima delle forze vive (1746).

29 Schönfeld (2006: 33) è molto critico con questo testo che definisce «pieno di errori, difficile da

leggere e un fallimento accademico».

30 Per quel che riguarda questi dibattiti cfr. Friedman (1994a: 3-4). 31 Kemp Smith (1918/1979: 161).

32 Friedman (1994a: 4). 33 Friedman (1994a: 34).

34 C'è chi come Dicker (2004: 23) sottolinea che Kant, indottrinato dai testi per gli studenti tedeschi

scritti da C. Wolff, fosse per tutto il periodo precritico un «deciso» razionalista.

35 Kemp Smith (1918/1979: 140). Qui si specifica anche come Kant fosse probabilmente al corrente

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