• Non ci sono risultati.

Il passaggio dalla prima alla seconda edizione

III. Il tempo nel suo uso esterno

III. 2. Il passaggio dalla prima alla seconda edizione

Il primo ad avvertirci che sono avvenuti dei cambiamenti nella Critica della

ragion pura tra l’edizione del 1781 e quella del 1787, è Kant stesso. Tuttavia sembra

che egli non voglia sottolineare troppo le differenze tra le due pubblicazioni. Anzi, nella prefazione alla seconda edizione, Kant afferma che egli, per lo più, ha effettuato quasi esclusivamente dei miglioramenti a livello espositivo, riguardanti

soprattutto la deduzione dei concetti dell’intelletto e le loro dimostrazioni. A ciò si aggiungerebbero delle considerazioni supplementari dovute ad un’errata comprensione della psicologia razionale e delle migliorie introdotte per venire a capo di alcuni fraintendimenti sul concetto di tempo nell’Estetica1. In pratica, gli

interventi si concentrano sulle prime parti dell’opera: Analitica, soprattutto il paragrafo della Deduzione, ed Estetica trascendentale.

Nel suo lavoro di revisione, Kant ammette comunque di compiuto un’integrazione e avverte di ciò il lettore in una nota:

L’unica vera e propria aggiunta, concernente però solo il modo di dimostrare, è soltanto quella che ho fatto a pagina 275 [la numerazione si riferisce alle pagine originali della seconda edizione, nda] introducendo una nuova confutazione dell’idealismo psicologico, assieme a una prova rigorosa (e, a quanto credo, la sola possibile) della realtà oggettiva dell’intuizione esterna.2

L’aggiunta a cui si sta riferendo Kant è il famosissimo paragrafo della Confutazione

dell’idealismo. Non viene menzionato altro di originale che sia stato aggiunto.

L’atteggiamento e le considerazioni di Kant, per certi versi, lasciano sbalorditi. Anche mettendo da parte il fatto che l’intero paragrafo della Confutazione non riguarda solo “il modo di dimostrare”, e che quindi si tratta di un’integrazione speculativa totalmente nuova, Kant non può realmente sostenere che, nella pubblicazione del 1787, per quel che riguarda il resto delle parti suddette, egli ha operato soltanto delle semplici sistemazioni terminologiche3. Si è tentati di affermare che Kant stia consapevolmente mentendo.

A nessun commentatore, neanche a colui che basa maggiormente la sua lettura sull’edizione del 1781, sono infatti sfuggite le importanti modifiche a cui sono state sottoposte l’Estetica e l’Analitica trascendentale. Addirittura Heidegger, il quale si concentra esclusivamente sulla prima pubblicazione, non può non accennare ai cambiamenti avvenuti nell’edizione del 1787. Tra questi, la maggiore importanza

1 Kant (1781/2005: 57; B XXXVIII). 2 Kant (1781/2005: 57; B XXXIX).

3 Contrariamente a quanto sto cercando di mostrare, c’è chi come Bennett (1966: 202) sostiene che la

Confutazione dell’idealismo sia «giustamente» l’unica aggiunta contenutistica alla seconda edizione,

data all’intelletto, che arriva a prendere il posto, nello svolgimento di alcuni compiti, dell’immaginazione trascendentale, facoltà fondamentale per la lettura di Heidegger:

Nella seconda edizione della Critica della ragion pura, l’immaginazione trascendentale, qual era venuta in luce nel fervido impulso della prima stesura, è respinta nell’ombra e misconosciuta – a favore dell’intelletto.4

Heidegger, per questa nuova impostazione, fornisce una spiegazione che, a prima vista, può sembrare eminentemente psicologica ma che presuppone, invece, una motivazione teorica forte che ha portato Kant alla rielaborazione e, in alcune parti, alla completa riscrittura di alcune sezioni della Ragion pura:

Nello svolgimento radicale della sua ricerca, Kant condusse la «possibilità» della metafisica davanti a questo abisso [la fondazione della ragion pura]. Egli vide l’ignoto e dovette indietreggiare. E ciò non solo per il timore incussogli dall’immaginazione trascendentale, ma perché nel frattempo la ragion pura, in quanto ragione, l’aveva tratto ancor più profondamente in propria balia.5

Con la sua scrittura efficace, Heidegger riesce a mettere a fuoco il problema della fondatezza dei concetti introdotti dal filosofo critico, vale a dire la necessità di trovare una base, una prova della validità delle sue nozioni a priori. È come se Kant si rendese conto che mancasse qualcosa e che l’intero peso della sua struttura non potesse essere retto dall’immaginazione trascendentale (come voleva proprio Heidegger) o, più in generale, sul credito dato alle funzioni a priori già messe in campo. Come abbiamo visto nel primo capitolo, già nella prima edizione alla fine della deduzione dei concetti puri dell’intelletto, si fa riferimento proprio alle tre facoltà o capacità come sorgenti della possibilità dell’esperienza: ricapitolando, esse sono la sinopsi che si effettua tramite il senso, la sintesi mediante l’immaginazione e

4 Heidegger (1973/2005: 140). La linea interpretative di Heidegger è riassunta efficacemente da Vinci

(1988: 112): «con lo schematismo e la deduzione della prima edizione Kant arriva a cogliere la reale natura dell’immaginazione trascendentale, ma, per i suoi debiti con la tradizione, non ne trae le conseguenze, arrivando a mettere in discussione le concezioni acquisite circa la soggettività del soggetto. In particolare Kant non si renderebbe pienamente conto, per l’eccessivo condizionamento delle visioni consuete dell’immaginazione come facoltà inferiore empirica, della sua stessa scoperta circa il carattere spontaneo di ogni ricettività pura».

l’unità della sintesi attraverso l’appercezione; in più «queste facoltà posseggono, oltre all’uso empirico, altresì un uso trascendentale, che concerne solo la forma ed è possibile a priori»6. Tuttavia, l’intero processo poteva apparire oltremodo autoreferenziale e i principi dell’intelletto, da soli, sembravano, per così dire, galleggiare nel vuoto.

Nella seconda edizione si cerca pertanto di fornire un fondamento ben più robusto a tutto l’impianto critico della deduzione delle categorie. Ciò viene attuato creando una convergenza tra i principi di Kant e quelli delle discipline fisico- matematiche: «la derivazione empirica […] è incompatibile con la reale esistenza delle conoscenze scientifiche a priori che sono in nostro possesso, cioè con la matematica pura e la fisica generale e risulta in tal modo contraddetta dai fatti»7. Il senso della proposizione appare fin troppo chiaro e la sua importanza non può essere sminuita: sia perché arriva dopo una riflessione sugli empiristi inglesi, Locke ed in particolare Hume, sia perché si troverebbe conferma di quel nuovo atteggiamento di avvicinamento verso le discipline scientifiche iniziato nella Prefazione alla seconda edizione con la dichiarazione di fiducia, da parte di Kant, alle scienze della sua epoca8. Addirittura, si può ritenere che quelle che sono state chiamate condizioni epistemiche possano «essere considerate parte di quell’armamentario

presupposizionale con cui i creatori della scienza moderna, da Galileo a Newton, da Torricelli a Stahl, avrebbero interrogato la natura non procedendo a casaccio, ma “costringendola” a rispondere a domande concepite secondo il disegno della ragione»9. Questa volontà, si ricollega a quanto già espresso nei Prolegomeni, opera che, come accennato, tende a mettere in stretta relazione i principi a priori kantiani con le discipline scientifiche del periodo e da cui vengono anche tratti dei brani inseriti nella seconda edizione10. Eppure, anche la conclusione della deduzione dei principi dell’intelletto è, a suo modo, sorprendente: dovrebbe essere il traguardo di tutto un processo argomentativo, il coronamento o almeno la base della

6 Kant (1781/2005: 159; A 94). 7 Kant (1781/2005: 159-60; B 131).

8 «Sin dai tempi più remoti a cui può giungere la storia della ragione umana, la matematica, ad opera

del meraviglioso popolo greco, si è posta sulla via sicura della scienza» (Kant 1781/2005: 41; B X); «la fisica è stata posta per la prima volta sulla via sicura della scienza, mentre per tanti secoli non aveva fatto altro che procedere brancolando» Kant (1781/2005: 43; B XIV).

9 Parrini (1995: 111).

giustificazione metafisica fornita da Kant; e invece si presenta così, quasi a sorpresa, di volata, en passant.

Il modo di presentare gli interventi nella seconda edizione e gli intenti ad essi legati, uniti al basso profilo tenuto da Kant (che rasenta l’insicurezza), sono stati tra i motivi che hanno spinto nella ricerca di chiavi di lettura alternative. Nel far ciò, i commentatori anglofoni spesso non sono stati benevoli con Kant e non hanno risparmiato aspre critiche, come nel caso dell’Analitica trascendentale: «il giustificato malcontento di Kant nei confronti di questo capitolo, irrimediabilmente mal scritto, lo spinge a redigerlo per la seconda edizione. Ma l’ultima versione, sebbene rimuova efficacemente alcune enfasi, è solo di poco più chiara del precedente» scriverà Bennett (1966: 100). E Paton, addirittura, paragona l’analisi di questa parte dell’opera alla traversata del deserto arabico11.

Che quella sezione, e soprattutto la Deduzione trascendentale, risulti oltremodo ostica, lo avevano già evidenziato sia i commentatori tedeschi di Kant sia i suoi primi commentatori inglesi. Per esempio, rifacendosi ad alcune tesi di Vaihinger, Kemp Smith (1918/1979: 202) vede la Deduzione come il risultato di alcuni manoscritti, radunati e assemblati tra loro, che corrispondevano a differenti livelli di sviluppo del pensiero kantiano. Nello specifico, Kemp Smith (1918/1979: 363) ritiene che Kant offra cinque prove della deduzione della seconda analogia, le quali non dovrebbero essere state scritte in successione ma «sono state associate in seguito per realizzare questa sezione». Tale ipotesi è stata in seguito approfondita ed elaborata da numerosi commentatori anglofoni, i quali l’hanno ribattezzata “patchwork theory” (teoria del mosaico o, magari in senso più dispregiativo, teoria

dell’insieme di toppe)12. I modi di declinare questa teoria sono stati molteplici. C’è

chi ha cercato di svilupparla e di esaminarla più accuratamente, aggiungendoci considerazioni che potremmo definire “psicologiche”, tramite le quali si sottolinea la fretta nel portare a termine il progetto critico da parte di Kant. Egli completa la scrittura della prima Critica ormai cinquantasettenne, dopo almeno una dozzina di anni di elaborazione e di raccolta dei materiali, con l’intenzione di estendere il suo progetto su altri temi e in altre opere: è perciò probabile che «lui abbia cucito insieme

11 Citato in Dicker (2004: 84).

12 Dicker (2004: 93). Anche Dicker sottolinea la confusione espositiva come una delle ragioni che

vari brani che aveva scritto in periodi molto differenti durante i suoi dodici anni di riflessione, e che abbia redatto solo pochi passaggi del tutto nuovi»13.

Alla patchwork theory si rifà pure Guyer, il quale, però, esclude che sia possibile rintracciare un filo cronologico nella composizione della Deduzione

Trascendentale, sottolineando, inoltre, come questa metodologia possa essere, in

qualche modo, controproducente:

Non è saggio cercare di discernere un ordine storico nella composizione delle frasi che di fatto costituiscono i testi della deduzione trascendentale, come fecero i difensori originari della “teoria del mosaico” Hans Vaihinger e Norman Kemp Smith. […] Piuttosto ci si deve limitare alla tesi secondo la quale i testi della Deduzione trascendentale, qualunque sia la storia della loro composizione, esprimono davvero un mosaico di argomenti.14

C’è chi è stato molto meno tenero con Kant e, addirittura, più estremo nel considerare le tesi inerenti a questa parte dell’opera, come il già citato Bennett. Egli, riprendendo l’idea di fondo della teoria, ma portandola al limite, afferma che «la Deduzione non è un insieme di toppe (patchwork) ma un pasticcio (botch). Comunque, dato che essa contiene qualche buon elemento, non è un pasticcio trascurabile»15. Il secondo tentativo, dunque, non è stato del tutto indigesto ed è risultato almeno presentabile, visto che una delle cose che Bennett ha apprezzato di più nella pubblicazione del 1787, è stata la maggiore linearità stilistica, soprattutto per quanto riguarda l’argomento centrale, sviluppato in un nucleo di pagine consecutive, al contrario dell’edizione del 1781 dove era, per così dire, sparso per tutta la sezione16.

C’è anche chi si è opposto completamente all’idea di considerare l’Analitica o la Deduzione trascendentale un collage di varie teorie formulate in tempi diversi, siano esse considerate toppe o pasticci. Paton (1936/1970: 38), inizialmente, distingue tra la posizione di Adickes, il quale riterrebbe che ci sia un nucleo originario della Critica a cui sono state aggiunte via via altre parti, e quella di

13 Dicker (2004: 94). 14 Guyer (1987: p. 432, n1). 15 Bennett (1966: 100). 16 Bennett (1966: 103).

Vaihinger, il quale limita le sue considerazioni solo alla Deduzione trascendentale. Ed è proprio su Vaihinger che si concentreranno le critiche di Paton: egli cerca di mostrare come il tentativo di suddividere concettualmente e storicamente il paragrafo kantiano non tenga conto, in primo luogo, delle parole dello stesso Kant; in secondo luogo, Paton cerca di evidenziare le forzature a livello esegetico, prima tra tutte il porre su uno stesso livello l’esposizione sistematica oggettiva e quella soggettiva17. È

solo dopo aver stabilito tali presupposti che Vaihinger può dare avvio a tutta la sua chiave di lettura. Una metodologia che Paton (1936/1970: 40) condanna molto duramente: «l’intera discussione è un monumento di desolante ingenuità reso ancor più patetico dalla conoscenza e dalla chiarezza dell’esposizione».

Le tesi fin qui riportate mostrano comunque che lo studio, per così dire, filologico delle differenze tra le due edizioni della prima Critica, è uno dei pochi aspetti su cui un buon numero di filosofi anglofoni si sia confrontato con le tesi dei precedenti commentatori tedeschi. Ciò significa almeno due cose: in primo luogo, i filosofi anglofoni conoscevano (almeno in parte) l’opera dei loro predecessori continentali, se non altro attraverso il filtro dei primi commentatori inglesi; stando così le cose – e arriviamo al secondo punto – hanno deliberatamente scelto di non prendere in considerazione molti dei loro spunti e delle loro idee, rifacendosi direttamente al testo kantiano. È lecito chiedersi: perché? Forse, la motivazione principale è quella di aver ritenuto le analisi su Kant a loro precedenti, in una certa misura, non adeguate al contesto attuale. La patchwork theory dimostra che alcune idee dei commentatori continentali ottocenteschi sono ancora condivisibili e utilizzabili; ciononostante sono cambiati gli obiettivi e le motivazioni della ripresa del testo kantiano: i suoi connazionali puntavano ad affrontare la crisi di filosofie quali l’hegelismo o il positivismo; molti autori anglofoni, invece, devono affrontare le nuove sfide imposte da alcune tesi sviluppatesi in ambito angloamericano, come quelle derivanti da Quine e Kuhn. Buona parte delle opere dei commentatori tedeschi, probabilmente, non sono state considerate sufficientemente attrezzate o utili per far fronte a queste nuove problematiche. Si potrà obiettare che Kant è ancor meno recente. Ma il porre su uno stesso livello ciò che viene ritenuto analitico e ciò che viene considerato sintetico in aggiunta all’estremo relativismo epistemologico

andavano a colpire teorie che erano sorte, o avevano trovato una delle loro massime espressioni, proprio nella filosofia critica. Pertanto, si è cercato di porre un freno a nuove minacce tornando all’origine di tutto.

Mettendo da parte le immagini più estreme – un Kant che, deluso dalla sua esposizione, si ritrova intento a raffazzonare ritagli ed appunti per una seconda edizione – il dibattito fin qui illustrato ha il merito di mettere in luce alcuni punti di debolezza, più o meno condivisi dalla maggior parte dei commentatori, sulla parte iniziale della Ragion pura: la confusione della prima edizione e la necessità di un adeguamento stilistico unite alla tortuosità del ragionamento kantiano, che non parte da tesi chiare per arrivare a conclusioni esplicite, ma che si dilunga, quasi si dilegua, e poi, improvvisamente, giunge alle affermazioni definitive. Di pari passo, si riconosce alla seconda edizione un po’ più di chiarezza e un accostamento verso quelli che sono i temi scientifici dell’epoca di Kant.

A dire il vero, non si ha uno spostamento solo in quella direzione. C’è un altro motivo di differenza tra la prima e la seconda edizione che qui, purtroppo, potrà solo essere introdotto perché svierebbe troppo dagli scopi attuali della ricerca. Kant è stato spinto a porre delle modifiche anche dalla volontà di preparare il terreno per le opere successive a carattere etico e morale, soprattutto per la Critica della ragion

pratica, e dare così l’immagine del suo pensiero come blocco unitario. Un’ipotesi

interpretativa che si ritrova, per esempio, nel solito Heidegger, il quale segnalava l’esigenza di legare in maniera più stretta gli aspetti epistemologici del pensiero kantiano con quelli morali:

Mediante la fondazione della metafisica in generale, Kant giunse per la prima volta a scrutare chiaramente il carattere dell’«universalità» della conoscenza ontologico-metafisica. Allora soltanto, egli ebbe in mano «mezzi e strumenti» per esplorare criticamente il dominio della «filosofia morale» e per sostituire la generalità empirica indeterminata delle dottrine morali della filosofia popolare con l’originarietà essenziale dell’analisi ontologica, la sola capace di instaurare una «metafisica dei costumi» e di darle fondamento.18

18 Heidegger (1973/2005: 145). Tutto il percorso fatto da Kant nella seconda edizione tenderebbe a

separare ancor più nettamente la parte a priori del soggetto conoscente da quella empirica. Per far ciò, andava ridimensionata sia l’immaginazione sia il suo ruolo. Puntando averso l’ambito morale, ci si

Questa linea interpretativa si sta facendo strada anche tra i commentatori anglofoni. Soprattutto, ci sono interessanti convergenze sul modo di interpretare il Kant morale e quello teoretico. Korsgaard (2009), per esempio, utilizzerà strumenti teorici simili a quelli usati da Friedman (2001) per offrire una lettura “relativizzata” dei principi morali kantiani.

Gli esperti di Kant avranno sicuramente notato che non si è ancora accennato ad alcune considerevoli variazioni tra la prima e la seconda edizione, cambiamenti che, per lo scopo attuale di questo lavoro, sono probabilmente quelli di maggior peso. Nella seconda edizione, la modifica forse più lampante che riguarda l’intuizione temporale è la rottura, rispetto alla pubblicazione del 1781, della simmetria tra l’esposizione metafisica del concetto di spazio e quella del concetto di tempo. Nella prima edizione entrambi i concetti venivano esposti in cinque punti, mentre nell’edizione successiva, oltre alle varie riscritture e aggiunte, per lo spazio ne bastano solo quattro. Stranamente, un cambiamento così evidente non ha suscitato moltissimo clamore.

Il punto dell’esposizione del tempo che non ha un corrispettivo preciso con quelli dello spazio è il terzo. Appurarlo è semplice: nei restanti capoversi le frasi iniziali e gli argomenti trattati nelle esposizione dei concetti delle due forme a priori della sensibilità sono abbastanza simili. Nella seconda edizione, pertanto viene soppresso il passaggio in cui si afferma esplicitamente una corrispondenza tra l’intuizione spaziale e la geometria19 (il terzo punto della prima edizione),

corrispondenza che ci aiutava anche a stabilire quali fossero le proprietà attribuibili allo spazio così come lo intende Kant. Nella stampa del 1787 non viene negata questa relazione, ma le affermazioni, a tal proposito, sono un po’ meno dirette20. Nel

caso del tempo, invece, nella prima edizione esso non sembra connesso, almeno non allontana anche dai tratti che rendono finito il soggetto conoscente. Avviene quindi il distacco da «quella sensibilità pura costituita dall’immaginazione trascendentale con la quale il soggetto umano finito può determinarsi in quanto tale in quanto tale e a partire da se stesso, e non, […] come un “caso” possibile di un essere razionale» (Vinci 1988: 115). Perdendo questo legame, si perde anche la possibilità di un’analisi ontologica più approfondita.

19 Kant (1781/2005: 101; A 24): «Su tale necessità a priori [la rappresentazione dello spazio] si fonda

la necessità a priori di tutti i principi geometrici, nonché la possibilità della loro costruzione a priori».

20 Nella seconda edizione, in un paragrafo che risente profondamente dell’influenza dei Prolegomeni:

«La geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente, ma tuttavia a priori» (Kant 1781/2005: 102; B 40).

in maniera così evidente, ad alcuna disciplina dell’allora “filosofia naturale”; nella seconda, invece, si parla di un suo coinvolgimento con le dottrine matematiche e fisiche, ma non viene mai istituito un collegamento evidente o diretto con una qualche materia specifica. Che rapporto intercorre, quindi, tra l’intuizione temporale di tipo kantiano e la filosofia naturale di fine Settecento? È possibile rintracciare una qualche relazione privilegiata tra il tempo ed una singola dottrina fisico-matematica?