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Il "verde" negli strumenti urbanistici: da limite al diritto di proprieta a bisogno essenziale per la collettivita

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di giurisprudenza

Corso di laurea magistrale in giurisprudenza

IL "VERDE" NEGLI STRUMENTI URBANISTICI: DA LIMITAZIONE AL DIRITTO

DI PROPRIETA' A BISOGNO ESSENZIALE PER LA COLLETTIVITA'

RELATORE

Valentina GIOMI

CONTRORELATORE

Alfredo FIORITTO

Il Candidato

Andrea BECCI

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

(2)

2

INDICE

Introduzione

... 6

Capitolo I: Disciplina urbanistica e diritto di

proprietà

……….………. 10

1) Lo sviluppo dei centri urbani prima della legge urbanistica fondamentale………... 10 2) La legge 1150/1942 e la nascita

dell’urbanistica-pianificazione……….. 14 3) La diffusione dei piani regolatori nel territorio nazionale………..……….. 20 3a. Gli standard generali… ………..……… 20 3b. … e gli standard speciali……….………...…… 22 4) La natura discriminatoria dell’urbanistica – i limiti posti dai

piani allo sfruttamento della proprietà

privata……… 24

Capitolo II: La giurisprudenza della Corte

Costituzionale

…..………. 27

1) La teoria della “espropriazione larvata”………. 27 2) La (il)legittimità della legge urbanistica fondamentale –

Vincoli conformativi e vincoli

espropriativi………..……….. 30 3) Le reazioni alla sentenza n. 55 del 1968... 38 3a. Lo scorporo dello jus aedificandi dal diritto di proprietà……….. 38 3b. La minimizzazione giurisprudenziale della nuova normativa ……… 46

(3)

3 4) La reiterazione dei vincoli espropriativi……….. 51

Capitolo III: I vincoli a verde nella

giurisprudenza ordinaria ed amministrativa

alla luce dei principi espressi dalla Corte

Costituzionale

.……….………. 71

1) Sommario……… 71 2) Il verde privato……… 74 2a. La destinazione a verde privato come vincolo meramente conformativo………. 74 2b. Dall’urbanistica al governo del territorio……….. 75 2c. L’obbligo di motivazione gravante sull’Amministrazione che pianifica e la rilevanza dei contrari interessi privati…… 77 2d. Il caso particolare dei “lotti interclusi”……… 81 2e. La presunta violazione del principio di tipicità nel caso di destinazione di aree a verde privato……….. 83 3) Il verde pubblico e il verde attrezzato……….. 84 3a. Rapporto carico urbanistico-verde pubblico………. 84 3b. Attrezzare il verde – Interventi realizzabili e modalità…..………..….. 88 3c. Verde pubblico e verde attrezzato. Vincoli conformativi o espropriativi?... 98 3c. Il verde attrezzato come opera di urbanizzazione primaria – Possibilità di realizzazione a scomputo alla luce della giurisprudenza della CEDU e del Codice dei Contratti Pubblici……… 146 4) Il verde agricolo……… 160

(4)

4 4a. La destinazione a verde agricolo come vincolo

conformativo……….…………. 160

4b. Evoluzione della disciplina delle aree agricole – Interventi possibili in zona agricola – il verde agricolo come destinazione di equilibrio……… 161

4c. Zone agricole e impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili………. 170

Capitolo IV: Gestione e salvaguardia del

verde

... 195

1) La presa di coscienza dell’importanza del verde – le funzioni del verde urbano………. 195

2) La legge 14 gennaio 2013, n.10……….. 205

3) La qualificazione del verde pubblico nell’ordinamento amministrativo………. 212

4) I nuovi strumenti di gestione del verde pubblico: Il piano del verde e il regolamento del verde………..……. 219

4a. Il piano del verde………. 219

4b. Il regolamento del verde……… 221

Capitolo V: Considerazioni conclusive

…….. 236

1) Il verde come bisogno prioritario della collettività……… 236

2) Osservazioni sulla legge 10/2013….……….. 240

3) Le direttive UE e le infrastrutture verdi………. 248

(5)

5

Riferimenti giurisprudenziali

……… 273

Appendice: Il regolamento del verde urbano

– pubblico e privato – a tutela delle aree

verdi

del

territorio

comunale

della

(6)

6

Introduzione

La locuzione “il verde” è sempre più frequentemente utilizzata in ambito amministrativo-urbanistico anche se ad oggi risulta difficile attribuire ad essa un significato univoco. Diverse sono infatti le tipologie che vanno a comporre il concetto giuridico-urbanistico di “verde”, ognuna delle quali è connotata da caratteri particolari. L’unica fattispecie di verde che risulta in qualche modo definita è quella del “verde agricolo” il quale “è stato oggetto di una specifica tipizzazione già all’interno del D.M. n. 1444 del 1968, che, occupandosi della zona agricola (Zona E), identifica il “verde agricolo” in modo piuttosto puntuale sulla base di parametri qualitativi e quantitativi”1. Tutta la restante parte di verde urbano, è ancora oggi priva di un’autonoma categoria e previsto solamente come “area per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport” nell’ambito di una Zona F più genericamente destinata ad “attrezzature ed impianti generali”. Mancando una definizione giuridicamente univoca, la giurisprudenza si trova spesso, nell’ambito delle controversie relative al corretto inquadramento del vincolo a verde nelle sue più diverse sfaccettature, ad affrontare la questione di quale sia il concreto significato da attribuire allo stesso “verde” in base a quanto previsto dagli strumenti urbanistici locali. Esemplare è al riguardo la sentenza Cons. St., 28 giugno 2004, n. 4790 con la quale il Collegio, chiamato a pronunciarsi sulla possibilità di costruire un centro commerciale in una zona destinata dal piano regolatore a “verde pubblico attrezzato”, fa notare come “Nella ripartizione del suo territorio, il Comune appellante ha

1 Ovviamente non scevri da interpretazione: cfr. da P. URBANI, La tutela

delle zone agricole tra interpretazioni giurisprudenziali e discrezionalità amministrativa, in Riv. Giur. Ed., 1994, p.135

(7)

7 definito la zona F avendo riguardo alla destinazione ad

"Attrezzature pubbliche o di uso pubblico" ed ha classificato dieci diverse zone F con riferimento a destinazioni più specifiche, tra le quali, ben cinque a "verde" ("verde di rispetto monumentale, stradale, ferroviario, industriale e cimiteriale" - zona F1; "verde pubblico" - zona F2; "verde pubblico attrezzato" - zona F3; "parco urbano" - zona F4; e "verde privato vincolato" - zona F5)”. Per ricostruire i confini e le caratteristiche di ciascuna di esse, diviene necessario per il Collegio, non solo ricorrere alle previste norme tecniche di attuazione, ma addirittura procedere con un’opera interpretativa di ricostruzione delle tipicità di ogni ambito di zona, anche ricorrendo a precedenti caratterizzazioni elaborate in precedenti contesti giurisprudenziali.2

2Nel caso di specie si contestava la legittimità del rilascio del permesso

di costruire un centro commerciale nella "Zona F3 - Verde pubblico attrezzato", così definita: "Territorio destinato a uso pubblico. È ammessa la realizzazione delle attrezzature pubbliche e di uso pubblico espressamente individuate nelle tavole di zonizzazione e rete viaria allegate, comprendenti attrezzature sportive, per lo svago, la cultura e il tempo libero, attrezzature commerciali compatibili con l'uso pubblico, con esclusione degli impianti rumorosi o comunque nocivi all'igiene fisica". Il Collegio confermò in toto la sentenza del T.A.R Campania, Napoli, la quale aveva accolto il ricorso avverso la concessione edilizia rilasciata dal Comune di Caserta, con una decisione di cui si riportano i tratti salienti: “Se si considera, che, a norma del citato D.M. del 1968, la

dotazione minima di "spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio" dovrebbe essere assicurata in ciascuna delle zone territoriali omogenee, si comprende come nelle zone a verde specificamente previste, quando la loro particolare disciplina vi ammetta la presenza anche di altre attrezzature, la funzione di queste non può che essere gerarchicamente subordinata e servente rispetto a quella propria dell'intera zona.

Nel caso in esame, peraltro, questa organizzazione gerarchica delle funzioni nell'ambito della zona è sancita dall'espressa condizione apposta alla realizzazione delle altre attrezzature, pur sempre "pubbliche o di uso pubblico", diverse dal verde - "sportive, per lo svago, la cultura e il tempo libero, commerciali" - le quali in tanto sono ammesse in quanto siano "compatibili con l'uso pubblico", cioè con la fruizione del verde. In altre parole, le attrezzature ora nominate sono consentite soltanto se, per le loro caratteristiche edilizie ed architettoniche, per le dimensioni o per le modalità con cui si inseriscono nel contesto, non siano tali da incidere in modo apprezzabile sulla fruizione dell'area in relazione alla sua destinazione a verde pubblico.

(8)

8 Fatto sta che il “verde” costituisce tutt’oggi una figura che

tanto maggiormente viene impiegata in concreto nelle scelte pianificatorie dell’amministrazione pubblica, quanto meno viene definita a livello generale.

Se è vero che, alla luce della recente normativa3, il verde urbano non viene più percepito solo in relazione allo sviluppo edificatorio, ma anche e soprattutto come un “bisogno necessario” di tutti gli abitanti di un centro urbano in rapporto alle nuove politiche urbanistiche orientate allo sviluppo sostenibile dei centri urbani, è anche vero che esso, a partire dalla legge urbanistica del 1942 fino pressoché ai giorni nostri, è stato visto essenzialmente come limite o compressione delle facoltà edificatorie insite nel diritto di proprietà4. La questione legata alla vincolistica all’interno degli strumenti di pianificazione merita dunque un approfondimento che verrà svolto analizzando l’evoluzione della giurisprudenza in materia; in primis quella costituzionale, ma anche quelle ordinaria ed amministrativa. In un secondo momento ci si occuperà di verificare come i principi generali in materia di vincoli vengano

ritiene che l'insediamento contestato, per le sue dimensioni (volumetria complessiva di 60.932 mc., di cui 14.080 fuori terra; superficie occupata pari a 24.620 mq.), per la presenza al suo interno di circa quaranta esercizi commerciali, artigianali o per prestazione di servizi e di un supermercato, oltre che per le infrastrutture (viabilità, parcheggi) resesi necessarie, non è compatibile con la destinazione a verde pubblico attrezzato, prescritta dallo strumento urbanistico, rispetto alla quale assume preponderante rilevanza quella commerciale dell'insediamento stesso.

Preponderanza certamente non inficiata dalla modesta incidenza degli spazi "per attività sociali, culturali, sportive e verde pubblico attrezzato per il gioco e il tempo libero", presenti nell'intervento in questione, dato che, escluse le superfici destinate alla viabilità ed al parcheggio in quanto funzionali alla struttura commerciale, quegli spazi si riducono a quattro locali della superficie lorda di mq 316 ceduti in uso al Comune e due campetti di gioco”.

3 L. 14 gennaio 2013, n. 10, Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani 4 Sulla tematica dell’inerenza dello jus aedificandi al diritto di proprietà

si veda D.M. TRAINA, Lo jus aedificandi può ritenersi ancora connaturale

(9)

9 effettivamente applicati ai casi concreti riguardanti i diversi

(10)

10

Capitolo I: Disciplina urbanistica e diritto di

proprietà

1) Lo sviluppo dei centri urbani prima della legge urbanistica fondamentale

Al giorno d’oggi, ogni qualvolta si parla di materia urbanistica, immediatamente si pensa agli strumenti di pianificazione del territorio, quasi che l’una non possa esistere in assenza degli altri e viceversa. Ed in effetti, abituati come siamo a vivere in un contesto nel quale ogni porzione del territorio dello Stato deve essere disciplinata, nelle modalità di utilizzazione e di gestione, da tali strumenti (con tutte le problematiche che ciò comporta), l’associazione immediata di idee è più che comprensibile. Dobbiamo però tenere presente che non è sempre stato così. Nelle società preindustriali, caratterizzate da un modestissimo sviluppo urbano e dalla presenza di vastissime estensioni di territorio non urbanizzato, il problema della conformazione autoritativa dei modi d’uso delle proprietà immobiliari (in ciò consiste la pianificazione) non si poneva o era ridotto a un problema di scarsa rilevanza riguardando solo pochi nuclei urbani5. I centri urbani si sviluppavano in assenza di regole che disciplinassero le modalità del loro ampliamento ed ogni soggetto privato non incontrava alcuna limitazione nel momento in cui si proponesse di porre in essere una nuova edificazione. Come noto, la rivoluzione industriale, con gli effetti di inurbamento e aumento demografico che porta con sé, prese campo tardi in Italia cosicché anche l’adozione di una legge generale che disciplinasse l’assetto e l’incremento edilizio dei centri

5 In questo modo si esprime V. CERULLI IRELLI nel contributo La

soggezione della proprietà immobiliare al potere di pianificazione in P.

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11 abitati6 risultò tardiva rispetto alle esperienze degli altri

Paesi occidentali più sviluppati.

Nonostante ciò, già nel 1865, all’indomani dell’unificazione amministrativa del Regno d’Italia7, si poteva registrare una potenziale ingerenza del neonato Stato sulle proprietà private dei cittadini; infatti, al fine di realizzare opere pubbliche e (private) di pubblica utilità occorrenti per dotare la Nazione di un’efficace rete di infrastrutture, il legislatore introdusse nell’ordinamento la legge generale sulle espropriazioni per pubblica utilità8. Questa legge, che è la prima nella quale si trova un abbozzo dell’idea di utilizzare gli strumenti di pianificazione per gestire il territorio9 10, oltre a costituire “un esempio di chiarezza lessicale, di cristallina precisione e rigoroso metodo giuridico ( essa era divisa in titoli, capi e , talvolta, di sezioni; ogni articolo era composto, generalmente, di due o tre commi), contemplava una dettagliata fase procedurale ed un analitico

6 Così l’art 1 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (L.U.).

7 Leggi 20 marzo 1865, n. 2248 allegati a, b, c, d, e, f. La norma,

nonostante i lunghi ed accurati studi condotti, si tradusse sostanzialmente nell’estensione della normativa dello Stato Sabaudo al neonato Regno d’Italia.

8 Legge 25 giugno 1865, n. 2359.

9 Art. 86, L. 25 giugno 1865, n. 2359: “I Comuni, in cui trovasi riunita una

popolazione di diecimila abitanti almeno, potranno, per causa di pubblico vantaggio determinata da attuale bisogno di provvedere alla salubrità ed alle necessarie comunicazioni, fare un piano regolatore, nel quale siano tracciate le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifizi, per raggiungere l’intento”. Tali piani regolatori edilizi sono finalizzati alla

risoluzione di problematiche contingenti legate all’igiene, alla sanità, alla sicurezza degli edifici e dei loro abitanti; non si occupano perciò dello sviluppo futuro dei centri urbani.

10 Art 93, L. 25 giugno 1865, n. 2359: “I Comuni per i quali sia dimostrata

la attuale necessità di estendere l’abitato, potranno adottare un piano regolatore di ampliamento in cui siano tracciate le norme da osservarsi nella edificazione di nuovi edifizi, al fine di provvedere alla salubrità dell’abitato, ed alla più sicura, comoda e decorosa sua disposizione”. I

piani regolatori di ampliamento sono sì volti all’espansione del centro urbano, ma anche in questo caso l’ampliamento è visto come strumentale alla risoluzione di problemi contingenti.

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12 subprocedimento dedicato alla determinazione

dell’indennità”11. Per quanto qui ci interessa, ovvero in relazione all’ingerenza sulla proprietà dei privati, i beni dei cittadini potevano essere trasferiti nella proprietà della pubblica amministrazione solo in base ad una previa valutazione della necessità dell’opera pubblica (dichiarazione di pubblica utilità) e ad un preventivo pagamento o deposito del corrispettivo del bene perduto (indennità). Questa fu fissata dal legislatore dell’epoca (liberale) “nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita”12.

Nel periodo di vigenza di questa legge, se facciamo eccezione per la legge sul risanamento della città di Napoli13, il nostro Paese ha vissuto un periodo di “pace espropriativa” in cui le opere pubbliche sono state realizzate senza forti contestazioni e comunque senza sensibili sperequazioni sociali, avendo la norma assicurato ai proprietari delle aree sacrificate, il corrispettivo pari al bene perduto14.

Di conseguenza, con l’entrata in vigore della legge generale sulle espropriazioni per pubblica utilità, il cittadino poteva perdere la proprietà di propri beni a vantaggio dello Stato, ma nel caso in cui ciò non si verificasse, egli aveva ancora completa libertà nello sfruttare il territorio di sua proprietà nel modo ritenuto da lui più vantaggioso e quindi anche a

11 Così G. LEONE in Indennità di espropriazione: tutto risolto? Ovvero

sulla (in)esistenza dei vincoli espropriativi e conformativi, Riv. Giur. Edil.,

2008, p. 285.

12 Art. 39 legge cit.

13 Legge 15 gennaio 1885, n. 2892 la quale introdusse un diverso criterio

di determinazione dell’indennità di esproprio, per taluni interventi, il quale comportava, grosso modo, un dimezzamento del quantum spettante ai proprietari.

14 Per un approfondimento sul tema dell’indennità di esproprio si veda

(13)

13 livello edificatorio. La legge infatti non si preoccupa di

disciplinare attraverso regole certe le modalità di sviluppo futuro dei centri urbani.

Questa situazione di assoluta assenza di regolamentazione, accompagnata dal fenomeno dell’urbanesimo e dall’esponenziale aumento demografico, portò ad un ampliamento imponente e del tutto incontrollato delle città. Conseguenza di ciò fu l’aumento esponenziale di quei problemi legati alla salubrità dell’abitato, all’igiene, alla sanità, alla sicurezza degli edifici e dei loro abitanti che già la legge 2359/1865 aveva evidenziato. Divenne chiaro allora che tali problematiche, destinate ad aggravarsi sempre di più, non potevano essere affrontate con rimedi puramente riparatori; c’era invece bisogno di prevenire il sorgere di tali emergenze.

L’urbanistica, intesa in senso proprio, emerge in posizione autonoma nell’ambito delle discipline giuridiche, nel momento in cui in Europa i borghi, le cittadelle medievali si trasformano rapidamente in città, centri di attrazione degli scambi e della produzione, la cui popolazione si concentra in spazi ristretti.15

Le prime norme urbanistiche sono tese a regolare le attività edilizie dell’aggregato urbano in trasformazione e non di tutto il territorio comunale. In questa fase il regolamento edilizio16, previsto dalla legislazione del 1865, ma già

15 P. URBANI E S. CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto Urbanistico –

Organizzazione e rapporti, V ed. Torino, 2013, p.50

16 Fu reso obbligatorio, e in un certo senso uniformato per tutti i Comuni

del Regno d’Italia, dalla legge sull’ordinamento comunale e provinciale 20 marzo 1865, n. 2248. Con esso i Comuni dovevano dettare norme principalmente sulle seguenti materie:

- La nomina e la composizione della Commisione edilizia preposta ad esprimere pareri sulle autorizzazioni ad edificare

- La polizia della viabilità interna del centro abitato; l’intonaco e la tinta delle facciate e dei muri

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14 presente in Inghilterra e Francia, è lo strumento

fondamentale a disposizione dei pubblici poteri per la disciplina dei poteri privati sul territorio. I primi regolamenti di igiene, edilità e polizia locale dettano le prime minuziose norme in tema di altezze e distanze delle costruzioni, allineamenti stradali, superficie minima dei vani, dotazione dei servizi igienici. Queste norme, che possono definirsi di microurbanistica, iniziano a porre dei limiti (in realtà conformazioni) alla totale libertà di edificare dei privati in quanto essi ora devono adeguarsi a quanto prescritto dai regolamenti.

2) La legge 1150/1942 e la nascita dell’urbanistica-pianificazione

La vera svolta si ha però con la promulgazione della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (L.U.) le cui finalità sono quelle di regolare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri urbani e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno, assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo17 “. La legge in esame, detta legge urbanistica fondamentale in quanto prima e ancora oggi unica norma organica in materia urbanistica, inserisce la pianificazione tre le invarianti del diritto urbanistico stabilendo all’art. 4 che “la disciplina

- L’altezza massima dei fabbricati

- La posizione e la conservazione dei numeri civici - La posizione e la conservazione dei marciapiedi

- Il controllo dei lavori da farsi dai delegati del municipio al fine di constatare l’osservanza delle disposizioni legislative e regolamentari.

17 Art. 1, L. 17 agosto 1942, n. 1150: Disciplina dell’attività urbanistica e

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15 urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali18,

dei piani regolatori comunali19 e delle norme sull’attività costruttiva edilizia sancite dalla presente legge20 o prescritte a mezzo di regolamenti”.

Alla luce di quanto stabilito, sembrerebbe potersi affermare che il Comune che si proponga di disciplinare il proprio assetto e sviluppo edilizio ed urbanistico, lo debba necessariamente fare attraverso un piano regolatore comunale.

In realtà così non è, in quanto “ogni comune del Regno ha la facoltà di formare il piano regolatore del proprio territorio [mentre] la formazione del piano è obbligatoria per tutti i Comuni compresi in appositi elenchi da approvarsi con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con i Ministri per l'interno e per le finanze, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici”21.

In sostanza nel sistema della legge 17 agosto 1942, n. 1150, il proprietario del terreno è in principio libero di realizzare tutte le trasformazioni che vuole, purché ovviamente nel rispetto delle regole generali dettate dal codice civile e dai regolamenti. L’art. 4, con lo stabilire che “la disciplina urbanistica di attua a mezzo dei piani regolatori”, configura gli stessi, secondo la dottrina dell’epoca, come atti amministrativi con cui vengono introdotte delle “limitazioni

18 Art. 5, L. 17 agosto 1942, n. 1150: “Allo scopo di orientare o coordinare

l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale, il Ministero dei Lavori Pubblici ha facoltà di provvedere, su parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, alla compilazione di piani territoriali di coordinamento, fissando il perimetro di ogni singolo piano.

I Comuni, il cui territorio sia compreso in tutto o in parte nell’ambito di un piano territoriale di coordinamento, sono tenuti ad uniformare a questo il rispettivo piano regolatore comunale”.

19 Art. 7, L. 17 agosto 1942, n. 1150

20 Capo IV, Titolo II, Art. 31 ss., L. 17 agosto 1942, n. 1150 21 Art. 8 L. 17 agosto 1942, n. 1150

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16 amministrative” al diritto di proprietà22. Il rapporto tra il

piano e il diritto di proprietà ricalca lo schema tipico del rapporto autorità libertà, cioè di un potere del privato in principio libero, che può subire una più o meno grave compressione dall’atto amministrativo autoritativo. “Ciò spiega perché i proprietari abbiano sempre cercato di ostacolarne l’approvazione e perché, in costanza di tale regime, i Comuni dotati di piano regolatore siano rimasti una esigua minoranza”23.

Ma vediamo perché i piani regolatori comunali venivano considerati come limitazioni amministrative al diritto di proprietà. La legge urbanistica fondamentale stabilisce che “ess[i] dev[ono] indicare essenzialmente:

1) La rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie, navigabili e dei relativi impianti

2) La divisione in zone del territorio comunale con la precisazione di quelle destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona

3) Le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù

4) Le aree da riservare a sede della casa comunale e della casa del Fascio, alla costruzione di scuole e di Chiese e ad opere ed impianti d’interesse pubblico in generale.24

Analizzando gli effetti giuridici del piano, va precisato che tali effetti non derivano dal piano in sé, ma dal tipo di prescrizioni in esso contenute; al riguardo, si deve fin da

22 G. FRAGOLA Teoria delle limitazioni amministrative al diritto di

proprietà con speciale riferimento ai regolamenti comunali, Milano,

1910.

23 P. STELLA RICHTER, Diritto urbanistico – Manuale breve, Milano, 2010,

p. 6

(17)

17 subito constatare che la disciplina della pianificazione è una

disciplina prevalentemente di procedimenti piuttosto che di contenuti. Ciò comporta un’ampia discrezionalità nel dare al piano, di qualsiasi tipo esso sia, uno od altro tipo di contenuto e, conseguentemente, di effetto.

La distinzione più rilevante è quella tra a) prescrizioni aventi effetto conformativo del territorio e b) prescrizioni aventi effetto conformativo della proprietà.25

a) Nella concezione del legislatore del 1942, il piano regolatore generale aveva la funzione di indicare la rete delle principali vie di comunicazione e degli altri interventi pubblici, mentre per quel che riguardava le aree destinate a rimanere di proprietà privata, si limitava alla divisione in zone del territorio, con precisazione dei caratteri e dei vincoli di ziona da osservare nell’edificazione. Al piano particolareggiato26 era invece affidato il compito del disegno dettagliato della forma dell’insediamento, con l’indicazione quindi di vie, piazze, isolati e opere pubbliche. Le prescrizioni del piano regolatore generale hanno dunque carattere non definitivo, nel senso che non fissano ancora la destinazione specifica di

25 Per un esame approfondito si veda P. STELLA RICHTER, Profili

funzionali dell’urbanistica, Milano, 1984 che ha introdotto la distinzione

tra conformazione della proprietà e conformazione del territorio

26 Art 13, L. 17 agosto 1942, n. 1150: “Il piano regolatore generale è

attuato a mezzo di piani particolareggiati di esecuzione nei quali devono essere indicate le reti stradali e i principali dati altimetrici di ciascuna zona e debbono inoltre essere determinati:

a) Le masse e le altezze delle costruzioni lungo le principali strade e piazze; b) Gli spazi riservati ad opere od impianti di interesse pubblico;

c) Gli edifici destinati a demolizione o ricostruzione ovvero soggetti a restauro o a bonifica edilizia;

d) Le suddivisioni degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata nel piano;

e) Gli elenchi catastali delle proprietà da espropriare e da vincolare; f) La profondità delle zone laterali a opere pubbliche, la cui occupazione

serva ad integrare le finalità delle opere stesse e a soddisfare prevedibili esigenze future.

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18 ogni singola area; tutto è rinviato ad una successiva

pianificazione di dettaglio. La conformazione del territorio avviene invero stabilendo dei risultati da raggiungere mediante la successiva adozione di altri atti amministrativi, piuttosto che fissando delle precise modalità d’uso del territorio stesso. La zonizzazione, come scelta della funzione globalmente attribuita a ciascuna parte sufficientemente ampia del territorio preso in considerazione, diviene in tal modo il canone al quale dovranno attenersi gli altri atti urbanistici del Comune, dai quali solamente scaturirà nei dettagli l’uso consentito di ogni area. Se questa era l’idea del legislatore del 1942, in realtà la dinamica sociale ed edilizia successiva ha richiesto in alcuni casi di anticipare al momento dell’approvazione del piano regolatore generale specificazioni che in precedenza potevano senza gravi danni essere rinviate al piano attuativo. Di qui la normale compresenza nel medesimo piano regolatore generale sia di previsioni ancora generiche che di graficizzazioni precise della sorte di alcune aree. Cosicché in un medesimo piano, a seconda delle modalità di formulazione delle varie sue previsioni e quindi in conseguenza di scelte di natura tecnica, si rinvengono prescrizioni conformative sia del territorio che della proprietà e quindi prescrizioni aventi effetti del tutto diversi27.

27 La giurisprudenza ritiene infatti che anche il piano regolatore generale

possa contenere prescrizioni direttamente conformative della proprietà: tutto dipende esclusivamente da come le varie prescrizioni sono redatte. Si veda ad esempio T.A.R Lombardia, Brescia, Sez. I, 11 giugno 2007, n. 516: “L’introduzione nel PRG di norme specifiche non è in contrasto né

alla lettera della legislazione in materia che non prevede in linea di principio alcun rigido riparto di competenze fra PRG e piani attuativi, i quali, specie in un comune di modesta estensione, potrebbero anche mancare, né allo spirito della legislazione stessa che configura il PRG come strumento non per attuare un’astratta classificazione di aree, ma per operare un ordinato sviluppo degli insediamenti sul territorio, funzionali alle esigenze di chi ci vive”. Si veda altresì Cons. Stato, Sez. IV,

21 ottobre 2008, n. 5147: “Il piano regolatore generale può

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19 b) Le descritte ipotesi di prescrizioni puntuali di un piano

regolatore generale e tutte le prescrizioni dei piani attuativi producono il vero effetto conformativo della proprietà, la determinazione cioè delle facoltà del proprietario sul bene sia per quel che riguarda le possibilità di trasformazione che per quanto riguarda l’uso cui può essere legittimamente destinato. A questo tipo di prescrizioni, che investono direttamente le singole particelle immobiliari stabilendo per ciascuna la specifica destinazione, si è fatto frequente ricorso anche nell’ambito del piano regolatore generale per compensare la lunga durata del relativo procedimento di approvazione, con l’eliminazione della necessità di un ulteriore specificazione mediante il piano attuativo.

Risulta perciò chiaro il motivo per cui i proprietari si opponessero alla approvazione dei piani regolatori comunali che con le loro prescrizioni avrebbero limitato la possibilità di sfruttamento edificatorio del territorio.

3) La diffusione dei piani regolatori nel territorio nazionale 3a. Gli standard generali…

Come detto, i Comuni dotati di piano regolatore rimasero un’esigua minoranza e le problematiche legate allo sviluppo non regolamentato, e di conseguenza disordinato, dei centri urbani continuarono ad aumentare. A porre rimedio a questa situazione intervenne il legislatore con la legge 6 agosto 1967, n. 765, denominata “Legge ponte”, in quanto avrebbe dovuto costituire un momento normativo di passaggio verso una nuova legge urbanistica generale in realtà mai emanata. La legge in esame infatti si limita a porre

determinata area anche con previsioni di dettaglio, rendendo in tal modo non necessaria per essa la successiva adozione di uno strumento attuativo”.

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20 dei correttivi, sia pure di grande importanza, alla legge

urbanistica del 1942.

Per quanto riguarda lo sviluppo delle città in assenza di regolamentazione, essa non rende obbligatoria per i Comuni l’adozione del piano regolatore comunale, ma introduce nell’ordinamento una disciplina generale e inderogabile sull’uso dei suoli, da applicare in mancanza di un piano regolatore generale o qualora esso sia diventato in tutto o in parte inefficace. Tale disciplina pone i cd. “standard generali” o “standard di salvaguardia” 28 , limitazioni all’attività costruttiva in assenza degli strumenti urbanistici generali, aventi come obiettivo diretto quello appunto di salvaguardare i territori non pianificati da un eccessivo sfruttamento da parte dei privati. Tali limitazioni, oggi stabilite dall’art. 9 del testo unico delle disposizioni in materia edilizia29, si rivelano però talmente stringenti da risultare un grande incentivo all’introduzione dei piani regolatori generali nei Comuni che ancora ne risultavano sprovvisti.30 Per questo si può affermare che è la Legge

28 Chiamati anche “standard ope legis” in quanto posti direttamente dal

legislatore e incidenti direttamente sulla possibilità di edificazione e utilizzazione dei beni immobili dei privati.

29 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Distingue tra aree interne ed aree esterne

al perimetro abitato. Nelle prime sono consentiti esclusivamente la manutenzione ordinaria nonché il restauro e risanamento conservativo (art. 3 t.u.); nelle seconde sono bensì consentiti anche interventi di nuova edificazione, ma per non più di 0,03 metri cubi per ogni metro quadrato disponibile, con l’ulteriore limite, nel caso di fabbricati “a

destinazione produttiva”, che “la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà”

La norma fa “salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali”, le quali quindi possono ridurre ma non ampliare le facoltà originarie del proprietario, nella fase anteriore all’approvazione del piano.

30 L. 6 agosto 1967, n. 765, art 17: ”Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150,

dopo l'articolo 41 è aggiunto il seguente articolo 41-quinquies:

"Nei Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di

fabbricazione la edificazione a scopo residenziale è soggetta alle seguenti limitazioni:

(21)

21 ponte ad aver reso il piano regolatore comunale uno

strumento universalmente applicato in tutto il territorio italiano; dal momento della sua promulgazione infatti, il piano regolatore si atteggia al ruolo di atto da cui può derivare una possibilità di costruire, che può cioè ampliare le facoltà del proprietario, piuttosto che di atto che comprime una possibilità in principio libera.

3b. …e gli standard speciali

Ma la legge urbanistica del 1942 aveva lasciato un ulteriore vuoto che la Legge ponte si è incaricata di colmare: mancavano infatti nella legge urbanistica fondamentale, regole precise che indicassero ai Comuni in che modo procedere alla divisione in zone del territorio e quali fossero gli effetti di tale zonizzazione. A mettere chiarezza su tale punto sono gli ultimi due commi dell’art. 17 i quali stabiliscono che “In tutti i Comuni, ai fini della formazione di

a) il volume complessivo costruito di ciascun fabbricato non può superare la misura di un metro cubo e mezzo per ogni metro quadrato di area edificabile, se trattasi di edifici ricadenti in centri abitati, i cui perimetri sono definiti entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge con deliberazione del Consiglio comunale sentiti il Provveditorato regionale alle opere pubbliche e la Soprintendenza competente, e di un decimo di metro cubo per ogni metro quadrato di area edificabile, se la costruzione è ubicata nelle altre parti del territorio;

b) gli edifici non possono comprendere più di tre piani;

c) l'altezza di ogni edificio non può essere superiore alla larghezza degli spazi pubblici o privati su cui esso prospetta e la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire.

[…] Le superfici coperte degli edifici e dei complessi produttivi non possono superare un terzo dell'area di proprietà. […]

Qualora l'agglomerato urbano rivesta carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro, senza alterazioni di volumi. Le aree libere sono inedificabili fino all'approvazione del piano regolatore generale.

Nel successivo art. 18 si prevede in oltre che “

"Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle

costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione".

(22)

22 nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli

esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi.

I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi dall'entrata in vigore della medesima".

Il decreto ministeriale che si occupa di dare attuazione alla Legge ponte è il D.M 2 aprile 1968, n. 1444, recante “limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765”.

Attraverso tale decreto viene ridotta sensibilmente la discrezionalità del soggetto pianificatore in quanto il legislatore statale stabilisce quali sono i tipi di zona31 e quali sono i regimi giuridici da applicare nelle varie zone.

I concetti cardine del D.M. in questione sono quelli di a) limite e b) rapporto:

(23)

23 a) I limiti riguardano la densità edilizia32, l’altezza degli edifici33

e la distanza tra fabbricati34. Essi sono inderogabili.

b) In generale quando si parla di rapporti, si parla di una relazione che intercorre tra due o più termini presi in esame. In questo caso il rapporto intercorre tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi – carico urbanistico – e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi – scarico urbanistico.

In ogni tipo di insediamento, residenziale o produttivo, e in ogni tipo di zona, il soggetto pianificatore deve fare i conti con questi limiti e rapporti posti autoritativamente dal legislatore che prendono il nome di “standard speciali” in quanto, a differenza degli standard generali, non sono immediatamente efficaci nei confronti dei privati, ma sono destinati a chi pianifica. Gli standard speciali sono inderogabili in modo da garantirne l’omogeneità su tutto il territorio nazionale. Risulta curioso che una norma che pone limiti invalicabili sia contenuta in un decreto ministeriale e quindi non in una norma di rango primario; tuttavia si può affermare che tale norma sia diventata, per giurisprudenza costante, un principio generale posto dallo Stato che di conseguenza vincola il legislatore regionale e da ultimo anche il soggetto pianificatore. Infatti, nonostante gli standard posti nel ’68 siano totalmente inadeguati ai giorni nostri, la Cassazione ha infatti più volte affermato che se lo strumento urbanistico si pone in contrasto con la norma sopracitata, esso può essere disapplicato dal giudice ordinario, che può riconoscere immediata precettività alle

32 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 7: *** 33 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 8: *** 34 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9: ***

(24)

24 previsioni del D.M. 35 Inoltre il Consiglio di Stato ha

chiaramente affermato che le disposizioni normative di carattere generale e cogente, in ragione del fatto che perseguono il fine di garantire le esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e sicurezza, limitano l’autonomia comunale in materia edilizia poiché impongono alle istituzioni locali di adottare provvedimenti edilizi in armonia con le stesse.36

4) La natura discriminatoria dell’urbanistica – I limiti posti dai piani allo sfruttamento della proprietà privata

Da questo momento a poco tutti i Comuni provvedono all’approvazione del piano regolatore generale, il quale, come stabilito dall’art. 11 della legge urbanistica, ha vigore a tempo indeterminato. E proprio a questo punto si rivela la natura dell’urbanistica quale disciplina caratterizzata dalla parzialità delle scelte e del loro essere fonte di profonde disuguaglianze.

L’applicazione generalizzata della legge urbanistica e degli strumenti di pianificazione portò fin da subito alla distinzione dei proprietari in due categorie: i “fortunati” che avevano la possibilità di trasformare i propri terreni in volumi, ed i “non fortunati” destinati a non poter conseguire alcuna utilità di edilizia privata dai propri terreni, il tutto sulla

35 Si veda, tra le altre, Cass. Civ., sez. III, 23 gennaio 2007, n. 1894 e Cass.

Civ., sez. II, 27 gennaio 1998, n. 784

36 Si veda Cons. St., sez. V, 26 ottobre 2006, n. 6399, la quale in materia

di distanze minime tra costruzioni afferma testualmente che “il d.m. 2

aprile 1968, n. 1444, trae dall’art 41 quinques della legge urbanistica la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze tra le costruzioni, sicché la distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti […] vincola anche i Comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima, essendo consentita alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori”.

(25)

25 base di scelte discrezionali delle amministrazioni comunali.

In campo urbanistico, i limiti posti dall’autorità pubblica all’utilizzo di un determinato territorio o bene, e segnatamente quelli posti allo sfruttamento edificatorio delle proprietà private, sono chiamati vincoli. Nell’impianto del Codice Civile non viene data una definizione del diritto di proprietà; l’art. 832 cc disciplina infatti le facoltà del proprietario e non il diritto di proprietà. In assenza di una definizione del diritto in sé risulta difficile anche disciplinare le limitazioni di esso, tant’è che non esiste una definizione di diritto positivo di vincolo urbanistico.

Anche la Costituzione, all’interno dei “rapporti economici”, disciplina la proprietà ma senza darne una definizione. Essa ci dà però due indicazioni fondamentali nello stabilire che esiste il potere, attribuito alla legge, di limitare il diritto di proprietà “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”37 e che la proprietà può essere sacrificata qualora vi sia una ragione di pubblica utilità e salvo indennizzo (espropriazione).38

Come si rapporta questo art. 42 Cost. con gli strumenti previsti dalla legge urbanistica del 1942 e segnatamente col piano regolatore generale?

Ricordiamo che l’art. 7 della legge urbanistica stabilisce che il piano deve indicare “2) la divisione in zone del territorio […] ed i caratteri ed i vincoli di zona da osservare nell’edificazione; 3) le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciale servitù; 4) le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico, nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale”

37 Art. 42, II, Cost. 38 Art. 42, III, Cost.

(26)

26 Tutte queste indicazioni comportano vincoli al diritto di

proprietà, ma tali vincoli non sono tra loro equivalenti. Se infatti ai punti 3) e 4) il piano deve indicare aree destinate alla costruzione di edifici di interesse pubblico o comunque di spazi di uso pubblico predisponendo di fatto la futura espropriazione delle aree stesse qualora esse si trovino nella proprietà di un soggetto privato, i vincoli posti attraverso la zonizzazione si limitano a disciplinare le modalità possibili di godimento del proprio diritto da parte del privato senza preludere ad una futura acquisizione pubblica della proprietà privata.

La questione fondamentale con riguardo ai diversi tipi di vincoli, è quella della loro indennizzabilità, ovvero la corresponsione di un’indennità in denaro al soggetto privato in cambio del sacrificio cui egli è costretto a causa delle prescrizioni del piano che non gli consentono di sfruttare come vorrebbe il proprio territorio, riconosciuta in origine solamente per i vincoli espressamente preordinati all’esproprio e solo nel momento in cui fosse intervenuta l’effettiva espropriazione.

Ci occuperemo ora di verificare come i diversi organi giudicanti dell’ordinamento giuridico italiano si siano espressi in relazione ai vincoli sopraindicati.

(27)

27

Capitolo II: La giurisprudenza della Corte

Costituzionale

1) La teoria della ”espropriazione larvata”

Un primo importante passo viene compiuto dalla Corte Costituzionale con la sent. 20 gennaio 1966, n. 6 avente ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, secondo comma della legge 20 dicembre 1932, n. 1849.39 Nel caso di specie, il Comando Militare Territoriale della Regione aveva sottoposto una vasta zona di terreno sita nel Comune di Grazzana ad una serie di limitazioni, tutte a contenuto negativo, oltre ad un generico divieto di transito e di sosta a persone, veicoli animali, su vie, spiazzi, mulattiere, sentieri, ecc. Il proprietario del terreno di fatto si trovava a non poter utilizzare la sua proprietà a causa di queste limitazioni e riteneva di aver diritto ad un indennizzo per la soppressione dei pieni diritti di godimento della sua proprietà. La mancata previsione dell’indennizzo costituisce una violazione dell’art. 42, terzo comma della Costituzione oppure no?

La Corte, per risolvere la questione, compie un ragionamento sul concetto di espropriazione partendo dal presupposto che dove c’è espropriazione ci deve essere automaticamente indennizzo. Anzitutto, la Consulta stabilisce che “la nozione di espropriazione enunciata nell'art. 42, terzo comma, della Costituzione non può essere ristretta al concetto di trasferimento coattivo, né l'obbligo della indennizzabilità può essere ricondotto esclusivamente a tale concetto”. Vi erano stati in effetti casi, anche anteriori

39 Riforma del testo unico delle leggi sulle servitù militari. In particolare

veniva censurato l’art. 3, secondo comma nella parte in cui implicitamente prevedeva la imposizione di dette servitù senza indennizzo, in contrasto con l’art. 42, terzo comma, della Costituzione

(28)

28 all’entrata in vigore della Costituzione, in cui risultò pacifica

l’indennizzabilità nonostante non fosse avvenuto alcun trasferimento del diritto di proprietà;40 non vi è quindi un collegamento necessario fra traslazione del diritto di proprietà ed espropriazione. Nel caso di specie, non vi era alcun trasferimento del diritto, ma le numerose limitazioni imposte all’utilizzo del suo terreno dal manifesto dell'Autorità militare, fanno sì che al proprietario “della sua proprietà non resterebbe altro che un merum nomen”. A questo punto la Corte compie un passo importante affermando che “la determinazione dei modi di acquisto e di godimento e dei limiti, volta, come deve essere, a regolare l'istituto della proprietà privata, a stabilirne, cioè, la configurazione nell'ordinamento positivo, non può violare la garanzia accordata dalla Costituzione al diritto di proprietà, sopprimendo l'istituto della proprietà privata o negando ovvero comprimendo singoli diritti senza indennizzo. La logica del sistema impone di considerare che la violazione della garanzia si avrebbe non soltanto nei casi in cui fosse posta in essere una traslazione totale o parziale del diritto, ma anche nei casi in cui, pur restando intatta la titolarità, il diritto di proprietà venisse annullato o menomato senza indennizzo. […] È, pertanto, da considerarsi come di carattere espropriativo anche l'atto che, pur non disponendo una traslazione totale o parziale di diritti, imponga limitazioni tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto profondamente da

40 La Corte ricorda i casi di requisizione in uso, di occupazioni

temporanee, di danno permanente conseguente all'esecuzione di opere pubbliche; la imposizione di talune servitù; la eliminazione di servitù senza il trasferimento della servitù stessa ad altri. Ed anzi fa presente che “Del resto anche nel caso previsto dall'art. 3, primo comma, della legge

denunziata la legge stessa prevede il diritto ad indennità anche se non si verificano trasferimenti”.

(29)

29 renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente

alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio”. Si è riportato l’intero brano della sentenza poiché nessun commento può interpretare meglio quanto enunciato in essa. Pertanto, anche nel caso in cui non vi sia la traslazione, ma una compressione del diritto di proprietà tale da causare uno svuotamento del suo contenuto (rinvenibile da una parte nella eccessiva limitazione della facoltà di godere del bene in relazione alla sua naturale destinazione, dall’altra nell’azzeramento del suo valore di scambio) sarà obbligatoria la corresponsione dell’indennizzo. Si parla in questo caso di vincoli “sostanzialmente espropriativi” La Corte si rende conto che la sentenza sta ponendo principi su una materia non regolata dal legislatore e ancora in elaborazione da parte di dottrina e giurisprudenza e per questo si preoccupa di chiarificare quando la natura espropriativa del vincolo è da ritenersi esclusa: “si può affermare che la legge può non disporre indennizzi quando i modi ed i limiti che essa segna, nell'ambito della garanzia accordata dalla Costituzione, attengano al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni ovvero quando essa regoli la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della pubblica Amministrazione; sempre che, la legge, sia destinata alla generalità dei soggetti i cui beni si trovino nelle accennate situazioni, salva la possibilità di accertare con singoli atti amministrativi l'esistenza di tali situazioni rispetto a singoli soggetti ed a singoli beni. Per questo può anche dirsi che le imposizioni devono avere carattere obbiettivo, nel senso che devono scaturire da disposizioni che imprimano, per così dire, un certo carattere

(30)

30 a determinate categorie di beni, identificabili a priori per

caratteristiche intrinseche.

Se le imposizioni non abbiano questo carattere generale ed obbiettivo, in quanto comportino un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle condizioni suindicate, allora sorge il problema dell'indennizzabilità”.

In definitiva, dall’analisi della sentenza nella sua interezza, si può dedurre che la Corte abbia allargato il contenuto del concetto di espropriazione, ma limitatamente ai vincoli ricadenti su singoli beni isolatamente individuati e su singoli soggetti. Sono invece esclusi da obbligo di indennizzo, e quindi non espropriativi, i vincoli riguardanti beni in generale o intere categorie di beni, quando la legge sia destinata alla generalità dei soggetti. Si rientra infatti in questo caso nella facoltà che ha la legge di conformare la proprietà in modo da renderla accessibile a tutti e garantirne la funzione sociale (Art. 42, II, Cost.).

2) La (il)legittimità costituzionale della legge urbanistica fondamentale – Vincoli conformativi e vincoli espropriativi La Corte, a seguito di questa sentenza, si trova ben presto a fare i conti con il sollevamento di questioni di costituzionalità riguardanti l’art. 7 della legge urbanistica del 1942 con riferimento ai punti 2, 3 e 4 i quali consentono al piano regolatore comunale di porre diversi tipi di vincoli alla proprietà. Spesso essi pongono infatti veri e propri vincoli di inedificabilità sui terreni, sulla base di scelte apparentemente arbitrarie dell’amministrazione che pianifica, e per di più senza la previsione di indennizzo a favore dei proprietari, creando profonda disuguaglianza tra essi.

(31)

31 In un primo momento la Corte difende i vincoli posti negli

strumenti urbanistici in quanto posti in base ad una legge che “è stata emanata per dare disciplina unitaria, su scala nazionale, ad una materia che, in precedenza e in tempi diversi, aveva formato oggetto di una legislazione differenziata, riguardante i maggiori centri abitati, con gli inconvenienti rilevati dalla dottrina e dalla pratica”41 e perciò nell’ottica di un’armonizzazione dello sviluppo del territorio. In definitiva questi vincoli inizialmente vengono fatti rientrare nell’art. 42, secondo comma della Costituzione (conformazione della proprietà) e non nel terzo comma.

La svolta nell’orientamento della Corte Costituzionale si ha con la sentenza 55 del 1968, tacciata dalla dottrina dell’epoca come del tutto rivoluzionaria, fatta eccezione per il professor Sandulli, Presidente di quella Corte, il quale in un’intervista affermò che “solo chi non sia bene informato

41 Corte Costit. 14 maggio 1966, n. 38. Nella stessa sentenza viene anche

ritenuta infondata la questione relativa alla violazione, con riguardo all’art. 7, punto 2 della legge urbanistica del ’42, della riserva di legge posta dall’art 42, II, della Costituzione. “l'art. 42. concernente il

godimento e l'utilizzazione dei beni, demanda al legislatore ordinario, al pari dell'art. 41, la normazione relativa a posizioni subiettive ritenute costituzionalmente rilevanti, con la possibilità che la disciplina concreta delle medesime sia attribuita alla pubblica Amministrazione.

Ora, é noto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, formatasi specialmente in riferimento all'art. 23 ed al citato art. 41, tale attribuzione di potere é da ritenere legittima, qualora, nella legge ordinaria, siano contenuti elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la discrezionalità dell'Amministrazione”. La Corte prosegue

il suo ragionamento affermando, in riferimento alla discrezionalità lasciata all’amministrazione comunale dalla legge urbanistica, che “non

si tratta di discrezionalità indiscriminata ed incontrollabile - come si assume nelle ordinanze e si sostiene dalle parti private - bensì di discrezionalità tecnica. La quale, secondo il concetto espresso da questa Corte con le sentenze n. 122 del 1957 e n. 48 del 1961, essendo condizionata da elementi di valutazione di carattere tecnico, importa che l'attività normativa devoluta all'Amministrazione (nella specie ai Comuni), si deve svolgere entro determinati confini di carattere obbiettivo, e che, per ciò stesso, rimane, sotto questo aspetto, delimitata nella libertà dell'apprezzamento”. Pertanto la riserva di legge non risulta

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32 può parlare, a proposito della recente sentenza 55, di

fulmine a ciel sereno e di sentenza bomba. Essa rappresenta infatti (e la parte più attenta di quella stessa stampa che se ne è mostrata allarmata non ha mancato di rilevarlo) nient'altro che la applicazione e lo svolgimento di principi già affermati da anni dalla Corte”42.

Il caso di specie riguardava il piano regolatore di Palermo, il quale conteneva ai sensi dell’art. 7 della legge urbanistica, “l'indicazione del caratteri e dei vincoli di zona da osservare nell'edificazione nonché l'indicazione delle aree destinate a formare spazi di uso pubblico e di quelle riservate a verde pubblico, a verde privato, a verde agricolo o ad edificazione di interesse pubblico (edilizia scolastica, conservazione di edifici storico - monumentali, eccetera)”. Come primo motivo di incostituzionalità, il pretore di Palermo adduce l'indeterminatezza dei criteri e delle modalità della disciplina urbanistica di cui all'art. 7, per cui non potrebbe ritenersi osservato l'art. 42, commi secondo e terzo, della Costituzione, che riserva alla legge di regolare compiutamente l'esercizio di detto potere di disciplina. Tale questione, legata al rispetto del principio della riserva di legge posto dall’art. 42 della Costituzione, viene liquidata rapidamente dalla corte richiamando la precedente sentenza 38 del 1966, secondo la quale la riserva di legge è rispettata in quanto all’Amministrazione che pianifica non residua una discrezionalità incontrollata e incontrollabile, ma solo una discrezionalità tecnica.

Entrambe le ordinanze devolvono alla Corte altra questione così puntualizzata: “se la mancanza di previsione nella legge

42 E. CAPOCELATRO, Intervista con il Presidente della Corte

Costituzionale, in “L’astrolabio”, n. 27, luglio 1968, ora in “Urbanistica”

(33)

33 urbanistica, di un termine finale di effettiva operatività del

vincoli riconducibili nell'ambito delle disposizioni di un piano regolatore generale e, nello stesso tempo, l'operatività immediata, senza il riconoscimento di alcun compenso, dei vincoli imposti dal piano stesso - taluni ordinati al mantenimento obbligatorio dell'attuale utilizzazione privata o alla realizzazione obbligatoria di una diversa utilizzazione privata, altri ordinati a future destinazioni concrete, da realizzare attraverso interventi pubblici incerti an e quando - siano conformi all'art. 42, terzo comma, della Costituzione che condiziona l'assoggettamento a espropriazione della proprietà privata, per motivi d'interesse generale, all'attribuzione di un corrispondente indennizzo”.

La situazione censurata era la seguente: i piani regolatori, secondo la legge urbanistica del 1942, pongono vincoli preordinati all’esproprio, la cui attuazione è cioè demandata a un momento successivo – piano esecutivo, dichiarazione di pubblica utilità – nel quale si inquadreranno effettivamente le aree e si procederà all’effettiva espropriazione. Tali vincoli sono efficaci fin dal momento dell’approvazione del piano regolatore generale perché è da quel momento che l’area risulta inedificabile da parte del privato; nondimeno l’indennizzo è garantito solo al momento dell’effettiva espropriazione, con la conseguenza che, se per una qualsiasi ragione, non si arrivi al piano particolareggiato, i proprietari si troveranno a possedere terreni sottoposti ad inedificabilità a tempo indeterminato e senza previsione di indennizzo.

La situazione appena descritta, se si aggiunge il fatto che, per motivi essenzialmente economici, l’istituto del piano particolareggiato non ha avuto che poche applicazioni in

(34)

34 Italia, si trova in palese contrasto con l’art. 42 della

Costituzione.

E infatti, “premesso che l'istituto della proprietà privata è garantito dalla Costituzione e regolato dalla legge nei modi di acquisto, di godimento e nei limiti, la Corte ha osservato che tale garanzia è menomata qualcosa singoli diritti, che all'istituto si ricollegano (naturalmente secondo il regime di appartenenza dei beni configurato dalle norme in vigore), vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto, pur rimanendo intatta l'appartenenza del diritto e la sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la proprietà fondiaria. Anche tali atti vanno considerati di natura espropriativa.

La Corte ha, peraltro ritenuto che il principio della necessità dell'indennizzo non opera nel caso di disposizioni le quali si riferiscano a intere categorie di beni (e perciò interessino la generalità dei soggetti), sottoponendo in tal modo tutti i beni della categoria senza distinzione ad un particolare regime di appartenenza.” Tuttavia, la Consulta precisa che il diritto di proprietà non può essere inteso in modo assoluto, nel senso che al suo titolare è consentito esercitarlo non tenendo conto degli interessi della collettività. Infatti “secondo i concetti, sempre più progredenti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall'attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale regime, il legislatore può persino escludere

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35 la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure può

imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione. Ma tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico. Al di là di tale confine, essa assume carattere espropriativo”.

La Corte si preoccupa di esemplificare alcune limitazioni del diritto di proprietà alle quali non deve corrispondere indennizzo, inserendo in detta categoria quelle che possono esser considerati connessi e connaturali a detta proprietà, in quanto hanno per scopo una disciplina dell'edilizia urbana nei suoi molteplici aspetti (inerenti all'intensità estensiva e volumetrica, alla localizzazione, al decoro e simili), ma anche “l'assoggettamento a vincolo di immodificabilità per la limitata durata (purché ragionevole) del piani particolareggiati, di quelle aree che i piani stessi destinano al trasferimento in vista delle programmate trasformazioni o diverse utilizzazioni”.

Peraltro la Consulta si trova ad affrontare una questione di diverso tenore: se siano legittime le limitazioni preclusive di edificabilità poste al momento dell’approvazione del piano, ma in funzione di una attuazione futura ad opera di strumenti esecutivi, in mancanza della previsione di un indennizzo. “Se, come si è più sopra ricordato, la legge urbanistica prevede l'indennizzo secondo il valore venale per gli immobili dei quali viene imposto il trasferimento per finalità urbanistica - con ciò stesso dando una certa

(36)

36 configurazione alla proprietà urbana del singoli - , è evidente

il contrasto di ciò col mancato indennizzo delle diminuzioni imposte per la medesima finalità alla proprietà privata senza operare un trasferimento, ovvero in attesa di operare un trasferimento incerto nel se e nel quando".

Una volta ammessa l’indennizzabilità di tali vincoli, la problematica da risolvere è quella legata al tempo dell’indennizzo; richiamando un proprio precedente43, la Corte afferma che i tempi delle espropriazioni e realizzazioni rappresentano, nel sistema, una garanzia essenziale e pertanto l’indennizzo “dev'essere razionalmente riferito a punti cronologici di operatività, senza creare vuoti che disgiungano illimitatamente la sottomissione immediata del bene dal compenso per la sua perdita”.

Una volta enunciati i vari principi di diritto, la Corte si preoccupa della loro applicazione al caso concreto e quindi della legittimità dell’art. 7, punti 2, 3 e 4 della legge urbanistica.

I giudici costituzionali rilevano che “l'art. 7 contempla, nella sua articolata formulazione, un complesso di imposizioni, immediatamente operative, tutte collegate dal fine della legge (art. 1) di dare assetto ai centri abitati: tra le quali imposizioni sono sicuramente comprese, sia ipotesi di vincoli temporanei (ma di durata illimitata), preordinati al successivo (ma incerto) trasferimento del bene per ragioni di interesse generale, sia ipotesi di vincoli che, pur consentendo la conservazione della titolarità del bene, sono tuttavia destinati a operare immediatamente una definitiva incisione profonda, al di là del limiti connaturali, sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento dell'imposizione.

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