Sommario
Abstract ... 3
Introduzione ... 4
Capitolo Primo ... 6
1 Tecnologie didattiche, Cooperative BYOD e approccio dialogico: una breve panoramica ... 6
1.1 Le tecnologie didattiche nell’insegnamento delle lingue. ... 6
1.2 Perché il Cooperative BYOD: punti di forza, accessibilità, fattori di rischio 8 1.3 Il metodo d’insegnamento ... 14
Capitolo secondo ... 18
2 Il Cooperative Learning: origini, studi applicazioni ... 18
2.1 Cooperative Learning: caratteristiche generali ... 18
2.2 I gruppi: metodi di formazione e tipologie. ... 23
2.3 Elementi che rendono efficace la cooperazione ... 35
2.4 Il metodo ALC del Comune di Prato ... 38
2.5 Consensi e critiche ... 43
3 Il BYOD: Bring Your Own Device ... 49
3.1 Origini del BYOD ... 49
3.2 Il BYOD come strumento per la didattica. ... 51
3.3 Studi e sperimentazioni ... 57
3.4 Il BYOD come strumento per la didattica delle lingue ... 65
3.5 Elementi di riflessione sul BYOD ... 68
Capitolo Quarto ... 70
4 Il Cooperative BYOD nell’insegnamento dell’italiano come L2 70 4.1 Contesto della sperimentazione ... 70
4.2 Struttura ed organizzazione del corso ... 74
4.3 Test linguistici e risultati ... 81
Conclusioni ... 87
Appendice ... 90
Bibliografia ... 103
Abstract
This thesis argues that the combined use of BYOD technologies, Cooperative Learning (Cooperative BYOD) and Dialogic Approach in Second Language Teaching can have a positive impact. Before starting the experimentation, we explain why a dialogic approach could be the best choice together with Cooperative BYOD and we analyse the pro and the cons of both Cooperative learning and BYOD. We used Cooperative BYOD and dialogic approach on one class learning Italian as L2, called experimental, and a more traditional approach on another class learning Italian as L2 called analogic. At the end of the course we submitted the same linguistic test to both classes. The results of the linguistic test showed that the combination of these elements is in fact beneficial.
Introduzione
La genesi di questo studio è principalmente legata alle mie esperienze didattiche sia nel ruolo di studente sia nel ruolo di docente, nonché all’evoluzione digitale e alla diffusione di dispositivi mobili di comunicazione moderni. Questi ultimi si sono infatti rivelati sempre più polivalenti anche nel campo della didattica. Dopo aver seguito il corso di Glottodidattica presso l’Università di Pisa con la prof. Daria Coppola e aver sperimentato, con ottimi risultati in quel contesto, il
Cooperative Learning (CL) attraverso il Bring Your Own Device (BYOD) o Cooperative BYOD (Coppola 2015), è nata la curiosità di vedere come il
quest’ultimo potesse essere applicato all’insegnamento dell’italiano come lingua seconda (L2).
Il mio lavoro prende dunque avvio da queste esperienze e dalle mie letture sull’argomento (McCafferty et al. 2006, Johnson 1994, Slavin 1990). Come le ragioni che hanno portato a questa idea, sono numerose le variabili da valutare nell’utilizzo di dispositivi che si possono connettere alla rete così come gli approcci teorici strettamente legati all’aspetto didattico.
Dopo ad una breve introduzione generale delle tematiche affrontate, seguirà uno sviluppo più approfondito in un contesto empirico. È necessaria, all’inizio, una breve anticipazione delle caratteristiche del CL e di quelle del BYOD, considerate importanti sia dal punto di vista tecnico sia da quello etico e delle scelte didattiche, nonché del contesto di applicazione che vedrà due classi, una sperimentale che e una di controllo che chiameremo “analogica”. Lo scopo sarà quello di verificare se il Cooperative BYOD e approccio dialogico possano effettivamente apportare dei benefici all’interno della classe sperimentale.
Nel primo capitolo della tesi, Tecnologie didattiche, Cooperative BYOD e
approccio dialogico: una breve panoramica, verranno analizzate a grandi linee le
motivazioni che hanno spinto all’utilizzo congiunto di BYOD, Cooperative
learning (CL) e approccio dialogico e si faranno alcune riflessioni sull’utilizzo delle
tecnologie nella didattica delle lingue. Nel secondo capitolo, Il Cooperative
learning: origini, studi e applicazioni, ci soffermeremo sul CL valutando le diverse
opinioni di numerosi autori su questa metodologia che ne evidenziano i punti forti e quelli deboli. Nel terzo capitolo, Il BYOD, Bring Your Own Device, cercheremo di capire meglio cosa sono i dispositivi BYOD, la loro origine e la loro integrazione nel mondo della didattica, facendo riferimento anche in questo caso a esperienze di docenti ma anche, e soprattutto, all’esperienza già citata del corso di Glottodidattica. Il quarto capitolo, Il Cooperative BYOD nell’insegnamento
dell’italiano come L2, si concentrerà sulla sperimentazione vera e propria avvenuta
in una scuola di lingua e cultura italiana a Bruxelles. In questa sede, verrà descritto il contesto di applicazione e verranno analizzati i risultati ottenuti dalla fusione dei tre elementi, CL, BYOD e approccio dialogico, applicati all’insegnamento dell’italiano come L2, tenendo conto sia degli aspetti linguistici che di quelli sociolinguistici. Nell’ultima parte si trarranno le conclusioni con una riflessione basata soprattutto sui risultati, sulle reazioni degli studenti e sulle possibili applicazioni di questa metodologia con scopi non solo didattici, ma anche volti all’integrazione sociale e al dialogo tra realtà culturali e linguistiche molto differenti tra loro.
Capitolo Primo
1 Tecnologie didattiche, Cooperative BYOD e approccio
dialogico: una breve panoramica
Non ci soffermeremo in questa sede ad analizzare tutte le caratteristiche della tecnologia moderna applicabili alla didattica delle lingue o alla didattica in generale. Tuttavia è necessario prendere in considerazione alcuni studi in questo settore per ottenere almeno un quadro generale e contestualizzato sull’utilizzo del
BYOD a supporto del CL per l’insegnamento linguistico.
1.1 Le tecnologie didattiche nell’insegnamento delle lingue
Attualmente, soprattutto grazie all’enorme varietà degli scenari politico-economici moderni, il pubblico interessato all’apprendimento di una L2 è molto variegato (De Mauro 2002). Di conseguenza, le esigenze di apprendimento sono diventate sempre più specifiche comportando un nuovo orientamento degli istituti di formazione linguistica verso una diversificazione delle metodologie didattiche e delle tecniche per poter meglio rispondere alle diverse richieste del pubblico (La Grassa 2015). Per soddisfare questa diversificazione di richieste non si può non tenere in considerazione il supporto della tecnologia e degli strumenti che essa ci mette a disposizione. Come notato da Novello (2012:87)
I supporti multimediali fanno parte della quotidianità dell’individuo nella gestione delle informazioni e delle relazioni sociali e lavorative, non prenderli in considerazione nel contesto di insegnamento (ancora di più in quello linguistico) significa privarsi di un elemento importante di facilitazione.
Un esempio del supporto tecnologico alla didattica è dato dalla possibilità di aggiungere alla formazione in aula quella a distanza, permettendo all’utente una maggiore flessibilità in termini spazio-temporali. Sperimentazioni nell’impiego della rete e insegnamento linguistico attraverso piattaforme per l’e-learning forniscono nuovi scenari didattici e di apprendimento (La Grassa 2015). Anche Comoglio (2007:8) pone l’accento sul fatto che «l’immagine di colui che apprende non può più essere quella di chi si applica in silenzio per lunghe ore su un libro per memorizzarne il contenuto». L’apprendimento deve avvenire anche con nuovi strumenti. Il mezzo tecnologico risponde ai diversi stili dello studente di lingue grazie alla possibilità di fruizione del materiale a velocità differenti e attraverso modalità individualizzate del lavoro (Novello 2012).
Tan (2001) riconosce inoltre alcuni vantaggi legati all’uso delle tecnologie affiancate al CL. Questi vanno dalla minore dipendenza dall’insegnante per l’ottenimento di informazioni, alla maggiore cooperazione per cercare e condividere conoscenza. Sempre Tan sottolinea che le tecnologie possono favorire la cooperazione tra gli studenti già prima dell’impiego del mezzo tecnologico attraverso la discussione e la pianificazione. Durante l’utilizzo del dispositivo essi possono discutere oralmente o attraverso software sul compito, prevedendo delle pause in cui essi analizzano il lavoro svolto e condividono informazioni sui dispositivi in un momento di analisi finale.
Sempre a proposito di tecnologia e CL, Novello (2012) sottolinea l’importanza della possibilità di tenere traccia del lavoro per poterlo rivedere, agevolando una fase importante dell’apprendimento cooperativo: quella di
controllo e revisione del lavoro svolto. Inoltre il docente avrebbe anche la
possibilità di dare il proprio feedback sia in maniera sincrona che asincrona.
Anche il ruolo del docente cambia e si specializza. All’interno di questo scenario di apprendimento tecnologico, l’insegnante deve saper «cogliere nei nuovi ambienti i segni e le forme di espressione della contemporaneità, per intraprendere dei percorsi didattici qualificanti e favorevoli allo sviluppo socio-cognitivo e metacognitivo dei destinatari» (Serragiotto2012:112). Deve selezionare le risorse, investire del tempo nella ricerca, scremare fra i vari siti dedicati all’apprendimento
ed identificare quelli più idonei sempre avendo chiaro il suo obiettivo didattico (Gramegna 2012).
Pertanto le tecnologie applicate alla didattica delle lingue sembrano rispondere alle richieste sempre più specifiche dei discenti L2 e il loro utilizzo sembra proficuo anche in contesti di apprendimento cooperativo.
1.2 Perché il Cooperative BYOD: punti di forza, accessibilità,
fattori di rischio
Come sottolineato da Coppola, nel suo articolo “Cooperative BYOD:
un approccio plurale alla diversità linguistica e culturale” (Coppola 2015), se ben
utilizzata, la tecnologia può diventare un utile strumento per la creazione di ambienti di apprendimento inclusivi e improntati alla pluralità. In questo senso il
Cooperative BYOD può creare spazi didattici flessibili e polivalenti in grado di
venire incontro ai diversi bisogni e stili di apprendimento degli studenti, anche in caso di problemi e difficoltà specifiche.
Se si vuole utilizzare il BYOD come strumento per la didattica, non si può sottovalutare la loro accessibilità da parte degli utenti. Con il termine accessibilità facciamo riferimento al costo dei dispositivi e alla loro facilità di connessione alla rete. Dal punto di vista economico i costi sono sostenibili, inoltre, è facile che quasi tutti gli studenti siano già dotati di un dispositivo portatile (sia esso uno smartphone, un tablet o un notebook). Come sottolineato sempre da Coppola (2015), uno studio condotto tra il 2011 e il 2012 dall’European Schoolnet Observatory su un campione di oltre 190.000 insegnanti e studenti di scuole elementari, medie e superiori di 30 paesi europei, documenta la diffusione del BYOD soprattutto nelle scuole superiori danesi e di altri paesi del nord Europa. Come si evince da alcuni blog (cfr., ad es., SoloTablet), l’Italia è ancora alle prime esperienze, legate all’esigenza di innovare le pratiche didattiche e di rendere più agevole l’uso della tecnologia in classe. Sembra, tuttavia, che questa pratica sia destinata a diffondersi rapidamente. Ciò è confermato dai dati ISTAT: chi non si connette a internet per ragioni economiche in Italia nel 2016 è solo l’8,8% (dati rapporto annuale, Internet: accesso e tipo di utilizzo). Anche gli spazi di archiviazione online sono numerosissimi, prevalentemente gratuiti e in
grado di garantire un ottimo scambio di materiali in diversi formati multimediali (video, presentazioni, audio, semplici file di testo, questionari, database etc.) o, come nel caso analizzato, per lavorare insieme su uno stesso file sia in modalità sincrona che asincrona.
La facilità di accesso, ovviamente, è un’arma a doppio taglio soprattutto nel caso di utenti poco esperti o nel caso di minorenni. Infatti, sono stati individuati una serie di rischi (cfr. Scuole digitali) legati all’utilizzo del BYOD. L’esposizione di dati sensibili come indirizzo e-mail e dati personali, facilita purtroppo i tentativi di
phishing, ormai sempre più frequenti. Se da un lato, quindi, l’accessibilità di questi
strumenti ne favorisce l’uso, dall’altro è meglio operare sempre con una certa attenzione. Una prima arma di prevenzione potrebbe essere l’affidarsi a dei fornitori di servizi che garantiscano un discreto livello di sicurezza. Ulteriori potenziali problemi legati all’uso del BYOD sono connessi a un insieme di fattori: al rischio di distrazione degli studenti, al divario che si potrebbe creare tra studenti con reddito differente generando fenomeni di competizione o discriminazione, al problema della compatibilità tra diversi dispositivi, al pericolo di dipendenza legato all’uso massiccio di questi dispositivi per altri scopi (Coppola 2015). Vedremo più avanti che questi rischi sono in parte scongiurati dall’uso cooperativo del BYOD.
Ovviamente, un buon livello di accessibilità agli strumenti non sempre ne garantisce facilità d’uso. L’enorme diffusione del BYOD (O’Neill 2015) potrebbe essere la prova del fatto che una delle loro caratteristiche principali sia la facilità d’uso. Ciò potrebbe avere un effetto positivo sia nei contesti di utilizzo generico sia in quello più specifico di tipo glottodidattico. Non è però da sottovalutare il fatto che non tutti i docenti sono digital natives come invece la maggioranza degli studenti ma, più frequentemente essi sono digital immigrants (Caon 2012). Anche su questo punto sarà doveroso soffermarsi e utilizzare gli studi già compiuti in merito per cercare di capire quali siano le strategie da applicare in maniera bidirezionale (docente/studente) per fare in modo che si possa ottenere il miglior risultato possibile, non solo per l’apprendimento di una nuova lingua, ma anche, per mettere il docente in condizione di creare facilmente un ambiente funzionale che non risenta di rallentamenti o di “sacrifici didattici” dovuti a limiti nella creazione di risorse tramite BYOD.
Il CL resterà, in questo contesto, stimolatore e facilitatore dell’apprendimento. Ovviamente, esso sarà adattato agli strumenti informatici che collaboreranno a creare un ambiente cooperativo ma non ne limiteranno l’utilizzo. Al contrario, lo scopo sarà quello di implementare l’uso del CL grazie alla possibilità di lavoro asincronico e non in presenza permesso da questi dispositivi. Il ruolo del docente si tinge di sfumature leggermente diverse ma che non alterano il suo scopo di facilitatore, bensì lo dotano di strumenti atti ad ottenere risultati più efficaci.
Le potenzialità delle tecnologie in un ambiente glottodidattico e l’aiuto da esse fornito per uscire dalle insidie che una lezione normale nasconde, sono state argomento di discussione di numerosi esperti. A titolo esemplificativo riporto il punto di vista di Caon sul problema della ripetitività:
[…] la ripetitività delle modalità di lavoro e delle tecniche didattiche genera solitamente uno stato di noia che:
a. dal punto di vista didattico riduce l’approccio attivo degli studenti ai contenuti diminuendo di fatto le possibilità di memorizzazione efficace.
b. dal punto di vista emotivo, appunto, demotiva, gli studenti che perdono il piacere di variare la tipologia di attività, le dinamiche relazionali, il focus sull’aspetto della competenza comunicativa da sviluppare in termini di accuratezza o di fluency. […]
Le tecnologie sicuramente rappresentano l’occasione per poter innovare la didattica delle lingue grazie all’integrazione di una didattica de visu con materiali o siti multimediali ed interattivi (che quindi modificano la processazione delle informazioni rispetto all’interazione con il docente) o per creare comunque negli studenti quel senso di “novità” anche nella proposta di attività “tradizionali” (come ad esempio le batterie di esercizi di tipo strutturalista).
In tal modo, le tecnologie possono aiutare a coniugare la necessità di ripetere più volte i medesimi contenuti con l’obiettivo di evitare la noia (e quindi la demotivazione e l’innalzamento del filtro affettivo) che tale ripetizione spesso genera in brevissimo tempo (Caon 2012, 14-15).
L’insegnamento e il docente sono da intendersi sempre come facilitatori dell’apprendimento; è essenziale, capire il ruolo che le tecnologie, il BYOD nel nostro caso, possono avere in questo processo. L’utilizzo di una metodologia didattica variata, un’organizzazione flessibile della classe e una concezione cooperativa basata sull’aiuto reciproco tra gli studenti, possono valorizzare le peculiarità degli studenti stessi grazie all’apporto dato da queste tecnologie.
L’intento quindi, non è di affidare completamente alle tecnologie il compito di facilitare l’apprendimento, ma di sfruttarle mantenendo il ruolo del docente come primo autore di questa facilitazione. Sarà quindi suo compito, diventare padrone, sebbene non esclusivo di questi strumenti, bensì collaboratore, insieme agli studenti, alla creazione di un ambiente multimediale di apprendimento.
È da studente che nasce la prima esperienza con il Cooperative BYOD anche se non nell’apprendimento di una L2 (contesto di utilizzo di questo studio), ma durante il corso di Glottodidattica, in un contesto di riflessione su queste metodologie (quindi a un livello “meta-glottodidattico”). Tuttavia i vantaggi principali riassunti nell’articolo di Coppola, in seguito all’applicazione del
Cooperative BYOD durante il corso appena citato, si potrebbero riscontrare anche
in contesto di glottodidassi, cioè operativamente in una classe di studenti L2; mi limito qui a citarne solo alcuni (Coppola 2015:76):
• Ogni studente può attingere alle informazioni utili immagazzinate nel proprio
device e servirsene come risorsa utile per il proprio gruppo di lavoro; di
conseguenza, i gruppi sono stimolati a lavorare come una ‘comunità di pratica’ basata sulla condivisione delle risorse.
• Si apre una ‘finestra’ fuori dall’aula: richiesta di informazioni attraverso telefonate, sms e MMS (molto utilizzata l’applicazione WhatsApp), interscambi coi membri del gruppo assenti (via Skype), elaborazione collaborativa di testi in L1 o in L2 attraverso risorse cloud (soprattutto Google Drive); gli studenti possono lavorare in team anche con persone fisicamente lontane.
• La consultazione di siti stranieri, la necessità di interagire virtualmente con madrelingua e di condividere le informazioni o, in presenza di stranieri nel gruppo, utilizzando lingue diverse, anche con funzione veicolare, rende consapevoli gli studenti dell’importanza del plurilinguismo e di un’adeguata competenza interculturale.
• Lo studente che naviga nel mare magnum dell’informazione in rete si rende presto conto della parzialità delle proprie conoscenze su un argomento ed è costretto a confrontarsi continuamente con gli altri per un feedback sull’attendibilità delle fonti, la datazione e la pertinenza delle informazioni; ciò comporta un potenziamento dei due principi basilari del CL, interdipendenza
positiva e responsabilità individuale.
• Nel corso della navigazione in rete emergono forme spontanee di Peer Tutoring tecnologico; gli studenti si rendono conto di come le diverse competenze dei membri costituiscano, nel loro insieme, una risorsa importante per l’apprendimento di ciascuno e per il successo di tutti.
• Gli studenti stranieri che non hanno ancora sviluppato un’adeguata competenza nella L1 del contesto di apprendimento e gli studenti con difficoltà di diverso tipo (rendimento scarso, problemi di socializzazione) partecipano più attivamente, con contributi riconosciuti utili dal gruppo.
• Aumenta sensibilmente la motivazione intrinseca: curiosità, interesse desiderio di approfondire le informazioni, spesso a scapito del tempo previsto per lo svolgimento del compito. A differenza di quanto accade con le ingombranti apparecchiature tecnologiche, spesso relegate in spazi separati, come il laboratorio, e usate solo sporadicamente, i dispositivi mobili consentono di percepire la tecnologia come accessibile (‘tascabile’), flessibile, ubiqua, e ne evidenziano il carattere strumentale rispetto agli obiettivi di apprendimento. • L’interattività e la confluenza di differenti media negli smart device offrono
tutti i vantaggi di un apprendimento multimediale e cooperativo.
Altro punto di fondamentale importanza nell’applicazione di queste tecniche di apprendimento è legato a come queste ultime favoriscano l’integrazione. Il contesto politico internazionale attuale infatti fa sì che sia in Italia sia all’estero si creino realtà scolastiche sempre più assortite dal punto di vista culturale e
linguistico. Secondo il MIUR (2017), nell’anno scolastico 2015/2016 gli studenti stranieri presenti in Italia sono circa 815.000 con un aumento di 653 unità rispetto al 2014/2015 (+ 0,1%). L’incremento è minimo rispetto all’anno precedente ma si traduce comunque nella presenza di 9,2 studenti stranieri ogni 100 alunni totali. Come giustamente ricordato sempre nell’articolo di Coppola (2015), la nascita del CL, più precisamente del jigsaw1 venne elaborato da Aronson proprio per superare
le tensioni razziali sorte tra gli studenti del Texas in seguito all’introduzione delle misure antisegregazioniste. Grazie all’atmosfera che si creava in classe nei gruppi misti, gli studenti capivano che la cooperazione e l’aiuto reciproco erano fondamentali per raggiungere il risultato e imparavano a rispettare il fatto che ognuno, indipendentemente dalla religione, sesso o dall’etnia, avesse un contributo unico da apportare (Aronson 2006).
1 Modalità del CL in cui gli studenti vengono organizzati in gruppi e poi inseriti in altri
1.3 Il metodo d’insegnamento
L’utilizzo del Cooperative BYOD è andato in parallelo con la scelta di un approccio che potesse facilitare la cooperazione, permettendo la costruzione di un ambiente favorevole all’interazione tra studenti e tra docente e studenti, tenendo conto delle componenti oggettive e intersoggettive che caratterizzano gli attori dell’inter-azione glottodidattica. Per queste ragioni la scelta è ricaduta su un approccio glottodidattico (Coppola 2009a, b) di tipo dialogico. Prima di passare alle caratteristiche del metodo in sé, una rapida analisi del termine dialogico in diversi contesti, quello della comunicazione e quello dell’apprendimento, ci aiuta a delinearne i suoi elementi caratterizzanti.
In tal senso può essere utile procedere facendo intanto riferimento a una definizione che Coppola fa tra modelli monologici e dialogici intesi come modelli di comunicazione.
Definiamo monologici quei modelli che tengono conto prevalentemente di un solo punto di vista, quello del parlante o dell’ascoltatore; mentre chiamiamo dialogici quei modelli che considerano entrambe le prospettive degli interlocutori e che vedono l’interscambio quale risultato della loro azione congiunta (joint production).
Nei modelli monologici l’azione è statica, soggettiva e individuale; il gruppo, elemento fondamentale per il CL, non è protagonista e le attività riguardano solo gli individui considerati singolarmente. I modelli dialogici, invece, sono dinamici e considerano gli interlocutori come elementi tra loro interagenti «ai tre livelli della costruzione di significati, della negoziazione di senso, della tessitura di relazioni» (Coppola 2014:3,4).
Per quanto riguarda il termine dialogico riferito all’apprendimento, vedremo che i principi elencati nell’articolo di Aubert (2009), Aprendizaje Dialógico, combaciano anche con alcuni degli elementi caratterizzanti del CL. Il primo principio a cui l’autrice fa riferimento è quello del “dialogo paritario” tra i diversi
partecipanti, i cui contributi non variano in base ai rapporti gerarchici ma in base alla validità dei loro argomenti. Ciò va in parallelo con il principio di partecipazione equa previsto dal CL. Un altro dei principi è quello dell’“uguaglianza tra le differenze” ovvero il dare valore alla diversità delle persone, considerando la diversità stessa come valore positivo. Seguendo questo principio migliorano le abilità sociali, le relazioni con gli studenti e si facilita l’apprendimento. Sappiamo quanta importanza il CL attribuisce a tutti questi aspetti. Infine la “solidarietà”: un processo educativo basato solo sui singoli studenti e non anche sul gruppo non tiene conto della solidarietà e comporta il rischio di isolamento; l’organizzazione didattica all’interno di gruppi interattivi migliora invece la convivenza e i rapporti sia dentro sia fuori l’aula.
Coppola (2009) vede nell’approccio didattico di tipo dialogico un’evoluzione dell’approccio comunicativo nella sua “versione forte”, cioè quando si usa una lingua per impararla.
Alla “versione forte” si contrappone una “versione debole” dell’approccio comunicativo, finalizzata a “imparare a usare una lingua”. Nella “versione forte” l’accento viene messo sull’uso che l’apprendente fa della L2 in molteplici contesti di apprendimento, grazie a tecniche glottodidattiche adeguate.
Si tratta insomma di un cambiamento di prospettiva
che fa saltare le coordinate dell’insegnamento linguistico tradizionale, delineando un modello di interazione didattica di tipo socio-costruttivista che costituisce, a nostro avviso, l’espressione più alta dell’approccio comunicativo, in quanto considera il processo i/a (insegnamento apprendimento) quale attiva costruzione di saprei teorico-pratici (saper e saper fare), di competenze e strumenti, di valori e modi di essere, frutto di negoziazione e riflesso di complesse dinamiche socio-culturali, oltre che personali. Questo modello viene ripreso dall’approccio dialogico, ma con una maggiore enfasi sugli aspetti personali che costituisce un valore aggiunto: l’attenzione per la relazione che intercorre tra gli attori del processo i/a […] considerati nella loro soggettività. […] l’approccio dialogico considera, oltre al livello delle metodologie e a quello delle competenze, anche il livello della relazione, con tutte le componenti oggettive e soggettive che la influenzano. (Coppola 2009b: 111)
Nell’approccio didattico di tipo dialogico, quindi, l’accento è posto sugli aspetti soggettivi e relazionali dell’interazione didattica. Si tiene cioè conto non solo dei metodi, delle tecniche e degli di strumenti utilizzati dall’insegnante per trasmettere conoscenze ma anche della sua capacità di attivare un continuo scambio cooperativo tra gli studenti. La riflessione dell’autrice continua infatti così:
[…] posti a fondamento dell’approccio dialogico sono la nozione di intersoggettività, intesa quale struttura emergente del processo comunicativo nel quale l’interlocutore trascende il proprio mondo per accogliere quello dell’altro e costruire un senso condiviso, e quella di agire comunicativo, o azione orientata alla reciproca comprensione e alla cooperazione. Di conseguenza, l’interazione, nel nostro caso quella didattica, tipica del processo i/a, viene intesa come attiva costruzione di uno spazio comune al cui interno è possibile realizzare, negoziare un’intesa, che è frutto della capacità dialogica e relazionale dei partecipanti. (Coppola a 2009: 112)
Coppola sottolinea che non è sufficiente che il docente adotti un buon metodo di insegnamento, occorre che egli sia anche capace di costruire relazioni improntate al dialogo, alla cooperazione, alla reciprocità. L’interazione didattica può portare alla creazione di spazi interlocutori dove realizzare un’intesa grazie alle capacità dialogiche e relazionali dei partecipanti. È in questi spazi che l’alterità, intesa in questo caso come lingua e come cultura dell’altro, non viene più percepita come minaccia, ma come occasione per un confronto costruttivo che porti all’accettazione delle differenze.
Non si deve quindi sottovalutare che le componenti soggettive riguardano sia il docente che lo studente, come gli stili educativi del primo, che interverranno nelle sue scelte didattiche, o le variabili interne dei secondi che influenzeranno significativamente il loro stile di apprendimento.
Lo stile del docente in prospettiva dialogica dovrebbe essere frutto di un’attenta riflessione sui propri comportamenti in classe e, di conseguenza, sulle proprie scelte educative. Un aspetto importante è sicuramente la disponibilità a cambiare la propria programmazione in relazione alle esigenze degli studenti. In questo il Cooperative BYOD potrebbe facilitare il lavoro dell’insegnante. Il fatto che egli faccia affidamento su tecnologie in continuo sviluppo e aggiornamento lo
dota infatti di innumerevoli strumenti adattabili alle diverse esigenze didattiche e ai diversi bisogni degli studenti.
Il supporto della tecnologia consente inoltre al docente di venire incontro ai diversi stili cognitivi e ai canali sensoriali privilegiati dagli studenti, come l’utilizzo delle immagini nel caso di uno stile visivo o nell’ascolto di un audio nel caso di uno stile verbale (cfr. Felder 1995).
Una tecnica dell’approccio dialogico che viene consigliata per facilitare e le relazioni cooperative in classe è la narrazione autobiografica. L’autrice cita, a tal proposito, il caso degli alunni immigrati che, grazie alla narrazione delle proprie vicende personali riescono a ricostruire la propria identità all’interno di un ambiente culturale completamente diverso dal loro contesto di partenza, e il caso di studenti con difficoltà di apprendimento, i cui problemi derivano spesso dalla difficoltà di raccontare la propria storia. Anche in questo caso il Cooperative BYOD può essere utile: la narrazione delle proprie storie personali o vissuti intimi diventa più facile utilizzando un dispositivo mobile (che spesso può diventare un utile schermo); inoltre è più facile esprimere i propri pensieri e parlare della propria biografia all’interno di un gruppo nel quale si lavora e con il quale si è acquisita una certa confidenza.
Capitolo secondo
2 Il Cooperative Learning: origini, studi e applicazioni
2.1 Cooperative Learning: caratteristiche generali
Learning is something students do, not something that is done to students. Learning is not a spectator sport. It requires student’s direct and active involvement and participation. Like mountain climbers, student most easily scale the heights of learning when they are part of a cooperative team. Apprendere è
qualcosa che gli studenti fanno, non qualcosa che viene fatta agli studenti. Apprendere non è uno sport con degli spettatori. Necessita della partecipazione e del coinvolgimento diretto e attivo degli studenti. Come gli scalatori delle montagne, gli studenti scalano più facilmente le cime dell’apprendimento quando fanno parte di una squadra che lavora in maniera cooperativa. (Johnson 1994a:4)2
Con questa lunga metafora David Johnson, Roger Johnson ed Edythe Holubec (1994) iniziano l’argomentazione della loro risposta alla domanda “Cos’è il Cooperative Learning?”. Oltre agli ambienti strettamente legati all’apprendimento, l’efficacia di questo approccio è stata considerata anche in contesti esterni come l’integrazione razziale, le relazioni pro-sociali, l’integrazione di soggetti con difficoltà, motivazione, salute mentale e così via. Può infatti essere definito come un approccio che coglie nella concretezza di una situazione di apprendimento la possibilità di riconoscere l’altro e stabilire con lui una relazione autentica di accettazione, riconoscimento e aiuto. Comoglio (2007:13) lo descrive come «un modo efficace per promuovere collaborazione e cooperazione attraverso
2 Trad. mia.
esercizi pratici e continuati che sviluppano competenze sociali e corresponsabilità indispensabili per la vita di lavoro di adulto. Capacità di lavorare insieme su compiti complessi trovando negli altri aiuto e integrazione insieme con il riconoscimento delle proprie possibilità» (Comoglio 2007:13).
Per una definizione breve e concisa ci affidiamo ancora alle parole di Johnson e Holubec.
«Cooperation is working together to accomplish shared goals. Within cooperative situations, individual seek outcomes that are beneficial to themselves and beneficial to all other group members. Cooperative learning is the instructional use of small groups so that students work together to maximize their own and each other’s learning» (Johnson et al. 1994b:1:3).
Tutte le definizioni citate hanno in comune tre parole chiave: il gruppo, la cooperazione e la corresponsabilità.
Le origini del CL risalgono addirittura a più di un secolo fa. Il primo studio fu infatti pubblicato nel 1898 e seguito da circa 600 esperimenti e più di 100 studi collegati condotti su sforzi di tipo cooperative, di tipo competitivo e di tipo individuale (Johnson et al.1994b).
Per chiarire cosa intendiamo con CL, può essere utile sottolinearne le differenze con il competitive learning, dove gli studenti lavorano uno contro l’altro per ottenere un obiettivo accademico personale e con l’individualistic learning, nel quale gli studenti lavorano da soli per ottenere risultati che non vengono condivisi con gli altri studenti. Con l’apprendimento cooperativo e con quello individuale gli insegnanti valutano gli sforzi degli studenti facendo riferimento a dei criteri di base, mentre con l’apprendimento competitivo gli studenti vengono valutati in base a un riferimento normativo. Sebbene vi siano limitazioni sul dove e sul quando si possa utilizzare sia un tipo di apprendimento competitivo sia individuale appropriatamente, è possibile invece strutturare qualsiasi obiettivo di apprendimento in qualsiasi contesto in modo cooperativo. Inoltre, l’utilizzo del CL, paragonato a un approccio di tipo competitivo o individualistico, si è dimostrato essere più produttivo in termini di:
- impegno maggiore per il raggiungimento dei risultati: ciò include inoltre una produttività maggiore da parte degli studenti, un impegno di durata maggiore, aumento della motivazione e riflessione critica.
- aumento delle relazioni positive tra gli studenti: un aumento delle relazioni positive comporta sicuramente un miglioramento del morale oltre ad un mutuo aiuto tra studenti.
- migliore atteggiamento mentale: i risultati delle ricerche hanno dimostrato che oltre a uno sviluppo delle competenze sociali, il CL migliora l’autostima facilitando la creazione di un ambiente di apprendimento più inclusivo.
Dal punto di vista educativo-formativo la posizione dell’apprendimento cooperativo si è sempre opposta a tipi di apprendimento competitivi e individualistici, mostrando che un ambiente in CL è molto più produttivo e offre numerose opportunità di sviluppo di strutture educative concrete. La modalità dell’apprendimento cooperativo ha la pretesa di diminuire gli effetti negativi che si possono sviluppare in contesti di apprendimento dominati da atteggiamenti individualistici o competitivi. Per scoraggiare infatti questi atteggiamenti, il CL parte dal presupposto che sia molto più utile creare una struttura di apprendimento in gruppo che esalti l’impegno collaborativo e la responsabilità individuale dei membri per portare avanti un obiettivo comune piuttosto che l’utilizzo di forme di controllo quali suggerimenti, ammonizioni o esortazioni.
Tale modalità non ha alcuna relazione con i tradizionali gruppi di lavoro e non esclude totalmente momenti di impegno sia individuale sia competitivo. In realtà essa trae la propria forza da una forte interdipendenza positiva, ovvero quella condizione per la quale il successo o il fallimento di ogni membro del gruppo è interconnesso a quello degli altri. Il raggiungimento di questo obiettivo non è altro che il frutto della capacità del conduttore-facilitatore di creare i vari compiti da assegnare ai gruppi di lavoro in maniera adeguata e di predisporre le attività per educare i membri ai comportamenti sociali richiesti per una cooperazione efficace. Sarà l’interdipendenza positiva a rendere più significativo l’apprendimento cooperativo rispetto ad altri metodi di apprendimento che fanno ricorso all’impiego di gruppi (Comoglio 2007).
Per quanto d’accordo sull’utilità del CL, gli studiosi hanno individuato condizioni di efficacia diverse. D.W. Johnson e R.T. Johnson (1994a), gli ideatori della modalità Learning together, ne hanno identificato cinque:
- interdipendenza positiva
- interazione promozionale faccia a faccia - competenze sociali
- responsabilità individuale
- controllo e revisione del lavoro svolto
R. Slavin (1983), partendo dal presupposto che l’interdipendenza positiva non sia valida per tutti, ha invece voluto rimettere in gioco, almeno in parte, la competizione con il fine di sollecitare un livello di collaborazione e aiuto reciproco. Per ottenere ciò si affida alla modalità chiamata Student team learning dove appunto i vari gruppi sono in competizione tra loro ma facenti affidamento su una forte coesione interna.
Con E. Cohen et al. (2004), invece, viene evidenziata l’importanza di assegnare lavori più articolati, chiamati Complex instruction, con lo scopo di creare in chi apprende una consapevolezza più ampia di ciò che sta imparando, che cerca di ottenere un tipo di apprendimento sia individualizzato che non competitivo, avendo i membri de gruppo compiti non confrontabili fra loro.
L’Università di Tel Aviv si muove in una prospettiva leggermente diversa (definiscono la loro modalità Group investigation). Sottolineano particolarmente il valore della motivazione intrinseca. Saper dirigere e facilitare l’apprendimento significa soprattutto rendere gli studenti consapevoli del contenuto insegnato e organizzare il lavoro tenendo conto degli interessi di ciascuno (Comoglio 2007).
Alla Christian Texas University si utilizza invece lo Scripted cooperation. Tale approccio si basa sull’assunzione che il gruppo si esprime al massimo delle sue potenzialità solo quando i membri sono in grado di procedere con efficacia nel
compito assegnato. In caso diverso, il gruppo ha bisogno di una “traccia” (scripted) per poter procedere nel lavoro.
Kagan propone invece un approccio strutturale «basato sulla definizione e sull’uso di molti e distinti modi, chiamati strutture, di organizzare l’interazione degli individui in classe» (Comoglio 2007:11). Oltre all’interdipendenza positiva e la responsabilità individuale si vuole richiamare l’attenzione sulle condizioni del più alto livello di partecipazione e il pari livello di partecipazione. Il primo, sostiene Kagan, ha un effetto pratico enorme per tutti coloro che sono alle prime esperienze con i gruppi cooperativi, il secondo, insiste sull’importanza che tutti partecipino con lo stesso impegno.
Come ricordato da Comoglio (2007), la prospettiva dell’apprendimento cooperativo può anche essere considerata come una prospettiva che cambia l’impostazione tradizionale degli studi di dinamica del gruppo. I tipi di gruppo tradizionale hanno temi ricorrenti come: leadership, aggregazione, coesione e così via. In relazione a questi contenuti l’apprendimento cooperativo offre dei punti di vista originali. Il gruppo ha infatti una flessibilità, funzionalità ed efficienza maggiore. La percezione del gruppo inoltre non deve essere quella di un gruppo di amici, la condizione affettiva infatti, per quanto importante, non è la condizione essenziale per farlo funzionare. L’indispensabilità reciproca è legata allo scopo comune del gruppo ed è a questo che è collegata anche la necessità di imparare a funzionare come tale per evitare che il problema di uno vada a compromettere il successo degli altri. La collaborazione al suo interno nasce e si sviluppa solo a condizione che i membri dispongano di appropriate competenze sociali. La responsabilità personale ha un ruolo fondamentale, in quanto minore è il disimpegno dei componenti (social loafing), tanto più è efficace l’attività di collaborazione.
2.2 I gruppi: metodi di formazione e tipologie
Prima dalla creazione dei gruppi di lavoro, necessari per sviluppare un ambiente di lavoro in CL, è necessario valutare bene quali siano le tipologie che si adattano alle diverse necessità. Diverse indicazioni a riguardo vengono date soprattutto da Johnson e da Kagan. Le loro visioni sulla creazione e la gestione dei gruppi hanno tanti punti in comune. Tuttavia, come vedremo, gli autori concentrano la loro attenzione su caratteristiche diverse e, in alcune circostanze, i loro punti di vista divergono. Tutto ciò rende necessario tenere in considerazione ciascuna delle loro proposte per ottenere una visione generale sulla questione gruppi.
Johnson individua tre tipi di gruppo:
- formal - informal - base groups
Il formal CL può essere utilizzato sia per lezioni che terminano in una sola seduta sia per corsi dalla durata più lunga. Con un gruppo di questo tipo è possibile strutturare qualsiasi corso e fissare qualsiasi tipo di obbiettivo didattico. Il formal CL favorisce infatti l’attivo coinvolgimento degli studenti nell’organizzazione di materiali, spiegazione, riassunti e nella loro integrazione in strutture concettuali esistenti.
L’informal CL prevede gruppi creati per uno scopo preciso, la cui durata può variare da pochi minuti fino ad arrivare a una lezione intera. Il loro utilizzo si presta primariamente a contesti legati a una lezione diretta (lezioni singole, dimostrazioni, film o video) con lo scopo di focalizzare l’attenzione degli studenti sul materiale di apprendimento. In questo modo ci si assicura che essi possano analizzare consapevolmente le nozioni con il supporto del docente.
I base groups sono dei gruppi a lungo termine (della durata di almeno un anno), i cui partecipanti sono solitamente stabili e il cui scopo primario dei membri è quello di supportarsi a vicenda fornendosi aiuto, incoraggiamento e assistenza per il progresso didattico.
Oltre ai tre tipi di gruppi già elencati si possono avere tipi di gruppi definiti
cooperative learning scripts, ovvero delle procedure standard cooperative per
condurre lezioni generiche o ripetitive, come ad esempio delle presentazioni, nonché per la gestione della routine della classe (verifica dei compiti o revisione di un test).
Gli autori precisano che lavorare in gruppo non è sinonimo di lavorare con il CL. Esistono infatti tipi di gruppi che, anche se sono lontani dall’idea di lavoro individuale o competitivo, sono poco efficaci per il raggiungimento dei risultati che si dovrebbero ottenere con il metodo cooperativo (Johnson 1994b).
Kagan (2007), nella sua analisi riguardante i metodi di formazione e i tipi di gruppo, ritiene che i gruppi con il maggiore potenziale d’insegnamento siano quelli eterogenei. Al gruppo eterogeneo viene infatti riconosciuta, tra le altre cose, la capacità di migliorare le relazioni positive per rendere più semplice la gestione dell’aula. Il gruppo eterogeneo, tuttavia, presenta dei lati negativi che possono emergere. C’è la possibilità infatti che gli studenti che normalmente presentano un rendimento più alto non interagiscano mai fra loro e, viceversa, quelli con basso rendimento non si trovino mai nello stesso gruppo. Per ovviare a questa eventualità vengono individuati quattro diversi tipi di gruppo che hanno obiettivi diversi e che, all’occorrenza, possono essere utilizzati all’interno dello stesso contesto didattico:
- gruppi eterogenei - gruppi casuali - gruppi d’interesse
- gruppi con capacità omogenee di linguaggio
I gruppi eterogenei si formano in modo da includere in ciascuno di essi uno studente con alto rendimento, due con rendimento medio ed uno con rendimento
basso. Sessi diversi e etnie diverse, nella misura del possibile, garantirebbero un’ulteriore eterogeneità al gruppo. L’utilizzo del gruppo di tipo eterogeneo viene generalmente preferito in quanto: offre maggiori opportunità per un sostegno reciproco; migliora le relazioni e l’integrazione tra diverse etnie e sessi; facilita la gestione della classe garantita dalla presenza di uno studente ad alto rendimento che può avere la funzione di aiuto insegnante. Il numero ideale di partecipanti, proposto da Kagan per questo tipo di gruppo, è di quattro studenti. Dietro questa scelta è presente la logica di costruzione del gruppo basata sulla partecipazione attiva. Infatti, prendendo come esempio una classe composta da venti persone, durante l’interrogazione di uno degli studenti la percentuale di partecipazione attiva sarà di un ventesimo. Se invece la classe venisse divisa in due gruppi composti da dieci studenti, e la parola venisse data a rotazione a ciascun componente del gruppo, la partecipazione attiva raddoppierebbe. Ciò dimostra che, riducendo la dimensione del gruppo, la percentuale di partecipazione attiva aumenta. Qualora la classe non fosse divisibile per quattro o, qualora il numero di componenti uomini e donne non fosse pari all’interno di una classe, l’autore suggerisce delle soluzioni considerate “di ripiego”. In ultima istanza sarà compito del docente decidere la composizione dei gruppi basandosi sul rendimento o sul sesso dello studente. Non è chiaro tuttavia come procedere in totale assenza di informazioni. Tale situazione potrebbe insorgere nel momento in cui ci si trova davanti ad una classe per la prima volta. Per quest’ultimo caso Kagan non sembra dare indicazioni.
Un’altra eventualità contemplata dall’autore è la creazione di gruppi casuali attraverso l’utilizzo di tre metodi diversi. Tutti i metodi si affidano appunto a un’assegnazione casuale dei componenti di gruppo ottenuta, ad esempio, tramite la consegna di role/cards distribuite senza nessun ordine di base. Gli aspetti positivi legati alla scelta di un gruppo di questo tipo sono principalmente connessi alla varietà, al senso di equità e all’opportunità di trasferire delle capacità ad un nuovo gruppo. Ovviamente, il rischio principale è che gli studenti con un rendimento meno alto si trovino tutti nello stesso gruppo. Kagan, per questo motivo, ne sconsiglia un utilizzo a lungo termine e ne suggerisce un utilizzo occasionale (definito di evasione). L’alternarsi di questi gruppi sarebbe collegato al ciclo del corso di studi. L’utilizzo di un gruppo eterogeneo viene consigliato quando si introduce del materiale nuovo mentre quello casuale sarebbe più efficace in attività di ripasso.
Riproponiamo di seguito la tabella (Tab. 1) proposta da Kagan (2007:84) che chiarisce meglio quali sono gli ambiti di utilizzo dei due gruppi e quali sono i loro punti deboli o i loro punti di forza. Dalla tabella emerge che sarebbe bene valutare quando utilizzare il gruppo eterogeneo o casuale, o meglio, emerge la necessità di una scelta ponderata in base al tipo di classe e in base al tipo di argomento da trattare. Ciò rende implicita per il docente la conoscenza di tutti i gruppi che si hanno a disposizione per poter valutare al meglio quali e quando utilizzarli.
Vantaggi e svantaggi: gruppi eterogeneo e casuale
Eterogeneo Casuale
VA
NTAGG
I
Bilanciato
Massimo contatto tra diversità, (sesso, capacità, razza etc.)
Gli studenti con bassi rendimenti possono essere collocati con attenzione per massimizzare l’insegnamento.
Raggruppamento secondo le capacità di linguaggio
Controllo (assistenza di uno studente ogni tre)
Uno studente con alto rendimento per ogni gruppo
Evita gli stereotipi
Classbuilding e lavoro di rete
Ruoli e team building spontanei Veloce e semplice
Si possono formare gruppi senza conoscere lo status degli studenti (all’inizio dell’anno)
Varietà, stimolo, divertimento Evita le resistenze; percezione di equità
Molte opportunità di trasferimento Opportunità di leadership
S
VA
NTAGG
I
Richiede tempo all’insegnante Minori opportunità di trasferimento tra un gruppo e l’altro
Non c’è contatto tra gli studenti solo ad alto rendimento e tra quelli solo a basso rendimento
Possibile eccesso di dipendenza tra i membri del gruppo
Stereotipi negativi
Meta-comunicazione negativa (non si può lavorare con tutti)
È un gruppo in cui nessuno conosce bene i contenuti
Possibili conflitti intensi Incompatibilità di linguaggio Gruppi poco assortiti (ad esempio composti da un unico genere) Limitate opportunità di legami; molto debole l’identificazione nel gruppo
Scarse opportunità di imparare ad apprendere
Squilibrio tra gruppi “vincenti” e gruppi perdenti
Analizzando i vantaggi del gruppo eterogeneo possiamo notare che essi derivano principalmente dalla sua struttura. Il fatto che la sua formazione consista idealmente in uno studente a “basso rendimento”, due a “medio rendimento” e uno ad “alto rendimento”, gli consente di essere bilanciato in termini di produttività dei membri. Inoltre permette al docente di scegliere dove collocare gli studenti a basso rendimento, di raggrupparli secondo le capacità linguaggio e, non ultimo, di disporre di un “assistente” ogni tre componenti grazie alla presenza di uno studente ad alto rendimento all’interno di ogni gruppo. Ovviamente questo tipo di organizzazione del gruppo comporta anche degli svantaggi. L’insegnante infatti ha bisogno di tempo per organizzare i gruppi. La struttura obbligatoriamente bilanciata diminuisce le opportunità di trasferimento dei membri da un gruppo all’altro, con la diretta conseguenza che gli studenti a basso rendimento non si troverebbero mai nello stesso gruppo, stesso discorso per quelli ad alto rendimento e con il possibile eccesso di dipendenza tra membri dello stesso team. Inserire uno studente in una categoria basata sul rendimento potrebbe portare oltretutto alla creazione di stereotipi negativi all’interno della classe tra uno studente e minare il rapporto tra Tabella 1. Vantaggi e svantaggi nei gruppi eterogeneo e casuale
docente e studente, qualora quest’ultimo non si riconoscesse nella categoria assegnatagli.
Il gruppo casuale sembrerebbe ovviare a questi problemi in quanto, per sua natura, gli studenti non rientrerebbero in una categoria basata sul “rendimento”. Si ha quindi una percezione di equità, si velocizza la formazione dei gruppi (non è necessario conoscere lo status degli studenti per formare i gruppi) e si crea un ambiente favorevole all’interno dell’intero contesto classe (Classbuilding), grazie anche all’opportunità di trasferimento da un gruppo all’altro. D’altra parte però, la formazione di un gruppo senza una struttura regolata potrebbe scoraggiare la creazione di gruppi assortiti, eliminando le potenzialità integrative del CL. L’identificazione all’interno di un gruppo è più difficile, potrebbero crearsi dei conflitti interni derivati anche da incompatibilità di linguaggio (basti immaginare alla creazione di un gruppo dove tutti i membri parlano una lingua diversa). Oltretutto se la formazione casuale dovesse generare degli insiemi con studenti esclusivamente a basso rendimento e, viceversa, con studenti ad alto rendimento si creerebbe un forte squilibrio all’interno della classe.
A volte i gruppi d’interesse, ovvero quelli in cui sono gli studenti stessi a creare da soli il gruppo, secondo Kagan, possono creare occasioni di apprendimento altrimenti non possibili. In relazione all’argomento che si vuole trattare, infatti, si può fare affidamento su questi gruppi che condividono interessi analoghi per creare nuovi stimoli all’apprendimento. Un solido rapporto di amicizia può portare nuove sinergie allo studio.
I “gruppi linguistici” invece sono quelli che l’autore consiglia specialmente in classi con livelli linguistici differenti e che prevede appunto la sua formazione in base alle capacità linguistiche dei partecipanti. Questi gruppi vengono definiti “gruppi con capacità omogeneo di linguaggio”. In questo caso, si propone di anteporre l’omogeneità all’eterogeneità, in quanto l’apprendimento cooperativo, realizzato solo con gruppi eterogenei potrebbe non fornire l’input o la produzione di linguaggio appropriato. L’autore suggerisce inoltre un utilizzo di due tipi di gruppo bilanciati, per massimizzare i risultati di studenti appartenenti a minoranze
linguistiche: i gruppi omogenei e quelli eterogenei. Lo scopo è utilizzare i primi per fornire istruzioni comprensibili utili per il successivo lavoro nei secondi.
Un utilizzo invece esclusivo dei gruppi omogenei potrebbe portare a uno sbilanciamento e a una polarizzazione della classe, vanificando il lavoro volto all’integrazione e alla spinta alla cooperazione. La misura in cui i gruppi dovrebbero essere omogenei o eterogenei va considerata tenendo conto degli obiettivi didattici. Se l’obiettivo, prosegue Kagan, è solo l’apprendimento di alcuni contenuti, allora il gruppo dovrebbe essere strutturato in modo che la lingua non costituisca un ostacolo all’acquisizione di tali contenuti. Se invece l’obiettivo primario è l’acquisizione del linguaggio i gruppi dovrebbero essere strutturati così che, la lingua da apprendere sia utilizzata quasi in modo esclusivo ma anche che il livello di linguaggio impiegato sia appropriato per ciascuno dei gruppi creati.
Anche Johnson fornisce indicazioni sul numero di membri del gruppo. Diversamente da Kagan che, come abbiamo visto, suggerisce la creazione di gruppi formati da quattro componenti, le indicazioni in merito nel loro caso variano leggermente. Partendo dalla premessa che non esiste un numero preciso sul quale fare affidamento, per decidere quanti debbano essere i membri di un gruppo ad alta produttività, essi si affidano alla regola generale del the smaller the better (più è piccolo il gruppo meglio funziona) e propongono gruppi che vanno da due a quattro persone. Tuttavia, essi sottolineano che ogni gruppo dovrebbe essere adattato, anche per quanto riguarda il numero dei partecipanti, agli obiettivi e ai risultati che si vogliono ottenere. Gli autori per consigliano di considerare i seguenti sette fattori (Johnson 1994b) al momento della creazione del gruppo di lavoro.
1. All’aumentare della dimensione del gruppo aumenta il ventaglio di capacità, esperienze, abilità e il numero di menti disponibili per acquisire e gestire l’aumento di informazioni. Aumentano inoltre i punti di vista e le risorse per aiutare il successo del gruppo.
2. Al diminuire del tempo disponibile dovrebbe diminuire la dimensione del gruppo. Se il tempo a disposizione per la lezione è molto poco, gruppi piccoli, anche coppie, saranno più efficaci. Sono più semplici da organizzare, operano più facilmente e consentono ai membri di avere più tempo.
3. Più piccolo è il gruppo più risulta difficile per gli studenti nascondersi e non contribuire alla loro parte di lavoro. I gruppi piccoli infatti aumentato la visibilità degli sforzi degli studenti e fanno in modo che siano più affidabili. 4. Più grande sarà il gruppo più capaci dovranno essere i suoi membri. In quanto,
dare a tutti la possibilità di parlare, coordinare le azioni del gruppo, raggiungere il consenso, assicurare spiegazioni, elaborare il materiale che dev’essere appreso, mantenere tutti i membri sull’obiettivo e mantenere delle buone relazioni di lavoro diventa più difficile in un gruppo più numeroso. All’interno di un gruppo di due persone, le interazioni sono solo due. Con un gruppo di tre persone avremo sei interazioni da gestire, mentre con un gruppo di quattro persone le interazioni sono ben dodici. Il numero di studenti capaci di gestire bene le relazioni di gruppi numerosi è davvero esiguo. Pertanto, sarebbe consigliabile formare le loro di capacità di gestione tramite l’utilizzo iniziale di gruppi piccoli prima del loro inserimento in gruppi più numerosi. L’aumento del numero di interazioni viene spiegato meglio nella figura seguente (Fig.1) (Johnson 1994b:3:2).
PAIR TRIAD QUAD
2 interazioni 6 interazioni 12 interazioni
5. L’aumento delle dimensioni del gruppo comporta una diminuzione delle interazioni dirette tra gli studenti riducendo il senso di confidenza tra loro. Di conseguenza la coesione e il supporto reciproco diminuiranno.
6. Uno degli elementi di determinazione della grandezza di un gruppo potrebbe essere il tipo di materiale o l’obiettivo da raggiungere. A titolo esemplificativo:
se durante una lezione di geografia si hanno a disposizione dieci cartine per una classe di trenta persone, gruppi composti da tre studenti sono la soluzione più ovvia.
7. Più piccolo è il gruppo più sarà facile identificare le difficoltà che gli studenti riscontrano lavorando insieme. Problemi legati alla leadership, conflitti tra i membri del gruppo, sono solo alcuni tra i problemi più facilmente riscontrabili in un gruppo più piccolo rispetto a un gruppo di dimensioni più grandi.
L’idea che emerge, seppur flessibile, è che il gruppo è potenzialmente più efficace se di dimensioni ridotte. Le proposte di Johnson sono indirizzate alla semplificazione del gruppo. Tutto ciò permetterebbe sia agli studenti che agli insegnanti di massimizzare l’efficacia del gruppo sia in termini produttivi sia in termini relazionali. In un’ultima analisi infatti, gli autori sottolineano che un gruppo con più partecipanti tende a lasciare alcuni studenti indietro. Non tutti lavorerebbero perdendo così uno degli scopi primari dell’apprendimento cooperativo che è quello di coinvolgere ciascun componente allo stesso modo.
Per quanto riguarda i metodi di formazione del gruppo anche Johnson (1994a), seppure con qualche lieve differenza rispetto a Kagan, parla di:
- gruppi eterogenei
- gruppi formati dai docenti
- gruppi formati dagli studenti stessi
Anche in questo caso, le premesse affermano che non esiste un metodo di formazione dei gruppi ideale e unico ma forniscono delle indicazioni che possono aiutare nella scelta di un gruppo anche in relazione agli obiettivi didattici specifici.
Tuttavia è nei gruppi eterogenei che gli autori vedono un’ottima soluzione per ottenere una maggiore efficacia. Essi sostengono che è proprio in questi tipi di gruppo che si svolge uno scambio più frequente di informazioni fra studenti, si ha una migliore prospettiva di discussione dei materiali alimentando, così, una più profonda comprensione e qualità del ragionamento. Per la formazione dei gruppi
- l’assegnamento casuale
- l’assegnamento casuale stratificato
. È utile passare in rassegna le caratteristiche generali di questi metodi di assegnazione. Quello casuale viene definito il più facile e il più efficace metodo per l’assegnazione degli studenti ai gruppi. Si basa semplicemente sulla divisione in gruppi da due, tre, quattro studenti in base al numero totale di studenti in classe. Tra i vari metodi proposti c’è quello dei personaggi storici. Si procede assegnando a ogni studente un personaggio storico in maniera casuale per poi creare dei gruppi basati sul periodo storico comune dei vari personaggi.
Il metodo casuale stratificato si differenzia invece per l’intervento del docente. Sarà lui a scegliere la composizione dei gruppi basandosi su una o più caratteristiche di uno studente (la capacità di lettura, interessi personali o altri fattori) e ad assicurarsi che gli altri componenti condividano quelle stesse caratteristiche. La procedura consigliata dagli autori per l’assegnazione basata sulla stratificazione del livello dello studente è la seguente: innanzitutto è necessario stilare una classifica degli studenti in base alle loro capacità dal livello più alto a quello più basso. In seguito, si dovrebbe scegliere uno degli studenti migliori, uno dei peggiori e due del centro classifica e assegnarli allo stesso gruppo, cercando di mantenere un criterio generale di eterogeneità in termini di lingua parlata, sesso, etnia e evitando di mettere nello stesso gruppo persone in conflitto tra loro. Tale procedura deve essere seguita per la creazione di tutti i gruppi e, qualora dovessero rimanere degli studenti fuori dai gruppi standard, ripetere la procedura con gruppi più piccoli.
Per quanto la soluzione proposta da Johnson, a differenza di quanto detto da Kagan, copra un più ampio spettro di problemi, gli autori stessi sottolineano i punti deboli che un’assegnazione di questo tipo potrebbero creare. Lo stilare una classifica, infatti, potrebbe trasmettere agli studenti un messaggio negativo. Essi si potrebbero sentire individuati e selezionati in base alle loro capacità o difficoltà e soprattutto in base alle caratteristiche importanti per il docente. Ciò potrebbe condurre alla creazione di stereotipi o pregiudizi. La regola generale dovrebbe essere quella di individuare delle abilità personali che, sommate alle abilità
personali degli altri studenti, rendano necessaria la cooperazione e l’interazione continua. In sostanza, viene altamente sconsigliata la scelta degli studenti in base alle loro caratteristiche sociali a meno che non intervenga comunque il docente in una fase finale per equilibrare i componenti del gruppo in base alle loro abilità.
Dopo quello eterogeneo un altro metodo di formazione proposto è quello dei gruppi formati dai docenti. Si procede chiedendo a ciascuno studente di stilare una lista di tre compagni con i quali lavorare volentieri. Dopo aver analizzato le liste, sarà possibile individuare gli studenti più isolati e assegnare questi ultimi a quelli più popolari e attenti. Ciò permetterebbe a tutti gli studenti di avere la possibilità di creare una relazione positiva e ci assicurerebbe che nessun studente venga tenuto fuori.
Il metodo più sconsigliato in assoluto è quello dei gruppi formati dagli
studenti stessi. È verosimile infatti che in questo caso si vadano a creare dei gruppi
dove gli studenti migliori si riuniscano vanificando il senso dell’apprendimento cooperativo.
Lavorare in gruppo non significa creare automaticamente un ambiente di lavoro efficace. Un altro degli aspetti da tenere in considerazione secondo gli autori è quello legato all’effettivo funzionamento del gruppo che viene utilizzato, o meglio, al come riconoscere che tipo di gruppo si è creato e quindi come meglio capirne eventuali punti deboli.
Al fine di facilitare la catalogazione dei tipi di gruppo, e le relative funzionalità e caratteristiche, essi hanno ritenuto opportuno stilare una lista di controllo:
1. Pseudo-Learning group: gli studenti vengono assegnati a diversi gruppi di lavoro cooperativo ma non hanno alcun interesse a farlo. Gli studenti credono di essere valutati secondo una classifica che va dal più bravo al meno bravo. Per quanto sembri che gli studenti lavorino insieme in realtà competono fra di loro. Ne deriva quindi che la somma dei risultati del gruppo sarà meno del potenziale di ogni singolo membro.
2. Traditional classroom learning group (gruppi di apprendimento tradizionale): gli studenti vengono assegnati ai gruppi di lavoro e accettano di farlo perché sono consapevoli di essere obbligati. Ad essi vengono assegnati compiti in maniera strutturata, tuttavia il lavoro di cooperazione per svolgere i compiti è scarso. Anche in questo caso gli studenti credono di essere valutati e premiati in base alle loro capacità come singoli e non in quanto membri di un gruppo. L’aiuto e la condivisione sono ridotti al minimo. Gli elementi meno produttivi fanno affidamento sulle capacità degli studenti più produttivi, questi ultimi si sentono sfruttati e producono meno del dovuto. Il risultato è che la somma di tutti supera leggermente il potenziale di alcuni, ma gli studenti più attivi avrebbero prodotto di più da soli.
3. Cooperative learning group (gruppi di apprendimento cooperativo): gli studenti vengono divisi in gruppi e sono felici di lavorare assieme. Credono che il loro successo dipenda dal successo del gruppo e viceversa. Questo tipo di gruppo ha cinque caratteristiche che lo definiscono. Prima di tutto l’obiettivo comune del gruppo di massimizzare l’apprendimento di ciascuno dei membri fornendo un incentivo a migliorarsi. Se un componente fallisce, il gruppo fallisce. Il secondo punto si focalizza sul fatto che i membri debbano ritenersi responsabili l’un l’altro della qualità del lavoro per arrivare a degli obiettivi comuni. Il terzo punto sottolinea l’importanza del lavorare assieme, faccia a faccia. Il successo è legato all’aiuto, l’assistenza, la spiegazione e incoraggiamento reciproco. Il penultimo punto affida all’insegnamento delle capacità relazionali un ruolo fondamentale. È anche grazie all’utilizzo corretto di queste capacità che i membri del gruppo possono raggiungere risultati soddisfacenti. L’ultima caratteristica è la fondamentale consapevolezza dei membri del gruppo dell’importanza del metodo cooperativo e dell’andamento del lavoro per il raggiungimento dei loro obiettivi. Il risultato è che il gruppo sarà più della somma delle sue parti e tutti gli studenti raggiungeranno risultati più alti di quelli che avrebbero raggiunto lavorando da soli.
4. High-performance Cooperative Learning group (gruppi di apprendimento cooperativo ad alta produttività): questo tipo di gruppo risponde a tutti i criteri di gruppo di apprendimento cooperativo. Ciò che differenzia questo tipo di gruppo dal gruppo precedente è il livello di attaccamento alla causa dei
partecipanti. Purtroppo, ricordano gli autori, è veramente difficile ottenere gruppi di questo livello.
Per quanto riguarda le indicazioni sulla durata temporale dei gruppi, coerentemente con le altre indicazioni, non viene individuata una formula fissa ma gli autori ritengono che il tempo debba essere in stretta relazione con gli obiettivi didattici che si vogliono raggiungere. In linea di massima viene comunque consigliato di far interagire tutti gli studenti tra loro nel corso di un anno scolastico. Ogni docente all’inizio dell’anno dovrebbe avvertire gli studenti del fatto che lavoreranno con ciascuno dei loro compagni. Ovviamente è contemplata la possibilità che un gruppo possa non funzionare appieno a causa dei contrasti al suo interno. Per la risoluzione di questo tipo di contrasti, sciogliere i gruppi e riformarli potrebbe sembrare la soluzione più semplice. Tuttavia viene altamente sconsigliata in quanto si toglierebbe la possibilità agli studenti di migliorare le loro capacità di socializzazione e di risoluzione dei problemi all’interno di un gruppo di lavoro.
2.3 Elementi che rendono efficace la cooperazione
L’attenzione che gli esperti hanno nel fornire indicazioni molto precise sui gruppi cooperativi lascia intendere quanto sia fondamentale avere un gruppo che funzioni per ottenere il massimo della produttività nell’apprendimento. Si rende necessaria tuttavia, in questo contesto, un’ulteriore analisi sempre relativa ai gruppi: quella relativa agli elementi che li fanno funzionare e che, di conseguenza, fanno funzionare la cooperazione.
Sono ancora Johnson (1994) a fornire indicazioni e consigli sugli elementi fondamentali che rendono un gruppo in apprendimento cooperativo efficace, tramite una lista di cinque elementi. Anche in questo caso il ruolo del docente è indispensabile. Infatti, condizione necessaria è la comprensione in primis da parte del docente di come utilizzare gli elementi di base della cooperazione per ottenere risultati migliori e facilitare sia la gestione della classe sia l’apprendimento degli studenti coinvolti. Una cooperazione efficace consentirebbe all’insegnante di personalizzare le lezioni in base al programma, all’argomento, e soprattutto alle necessità degli alunni. Egli, inoltre, strutturando i propri corsi in modo cooperativo,