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La riabilitazione in acqua di pazienti con protesi di anca e di ginocchio: esperienza presso un centro di riabilitazione termale

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Academic year: 2021

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INDICE

1 INTRODUZIONE

2 ARTICOLAZIONI DELL’ANCA E DEL GINOCCHIO

2.1 ANATOMIA DELL’ANCA

2.2 CHINESIOLOGIA E BIOMECCANICA DELL’ANCA 2.3 CHIRURGIA PROTESICA DELL’ANCA

2.3.1 STATO DELL’ARTE 2.3.2 INDICAZIONI

2.3.3 COXARTROSI

2.3.4 CONTROINDICAZIONI

2.3.5 VALUTAZIONE E PREPARAZIONE PRE-OPERATORIA

2.3.6 SCALE DI VALUTAZIONE

2.3.7 APPROCCI CHIRURGICI E CENNI DI CHIRURGIA

2.3.8 COMPLICANZE E AVVERTENZE SPECIALI PER IL PAZIENTE

2.3.9 TRATTAMENTO RIABILITATIVO POST-OPERATORIO

2.4 ANATOMIA DEL GINOCCHIO

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2.6 CHIRURGIA PROTESICA DEL GINOCCHIO 2.6.1 STATO DELL’ARTE 2.6.2 INDICAZIONI 2.6.3 GONARTROSI 2.6.4 CONTROINDICAZIONI 2.6.5 SCALE DI VALUTAZIONE 2.6.6 CENNI DI CHIRURGIA

2.6.7 COMPLICANZE POST OPERATORIE 2.6.8 TRATTAMENTO RIABILITATIVO POST-

OPERATORIO

3 L’ACQUA TERMALE NELLA RIABILITAZIONE

3.1 CRENOCINESITERAPIA

4 MATERIALI E METODI

5 RISULTATI

6 CONCLUSIONI

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1 INTRODUZIONE

Negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo e rapido aumento del numero dei pazienti sottoposti a chirurgia protesica sia d’anca che di ginocchio, in Italia dal 1999 al 2006 l’aumento in percentuale del numero di protesi d’anca è stato del 150% e delle protesi di ginocchio del 250%, attualmente ci si sta avvicinando ai 100000 interventi l’anno.1 L’Italia è il paese europeo dove si effettua il maggior numero

di interventi. La Toscana è una delle regioni più avanzate nella implantologia protesica. La Regione ha risposto a questa continua richiesta con un aumento delle prestazioni annue del 10%. Per tutte queste ragioni il Ministero della Salute, insieme all’Istituto Superiore di Sanità, ha promosso la costruzione o il consolidamento di registri regionali di implantologia protesica. Nell’ambito del Progetto di ricerca nazionale è stato attivato il Progetto Regionale RIPO-T (Registro degli interventi di protesi articolari in Toscana) nel periodo dal 2003 al 2005, che prevedeva una raccolta di dati clinici e tecnici a cura delle strutture di Ortopedia della Regione Toscana. Ad oggi il RIPO-T copre solo una parte dell’attività di implantologia protesica effettuata in Toscana, comunque già questo lavoro ha consentito di raccogliere, organizzare e monitorare nel tempo importanti informazioni cliniche e tecniche.2 Si pensa che nel 2025-2030 si

assisterà ad un incremento del 100% degli interventi. Tutto ciò è

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dovuto ad un progressivo e costante aumento dell’aspettativa di vita della popolazione a cui corrisponde, di riflesso, un aumento sempre maggiore dell’incidenza di patologie degenerative osteoarticolari, come l’artrosi di anca e ginocchio. Queste patologie comportano un evidente peggioramento della qualità della vita dei pazienti con riduzione di autonomia di marcia e soprattutto una sintomatologia algica.

La riabilitazione post-operatoria si pone l’obiettivo di completare il risultato chirurgico e di portare il paziente al massimo recupero motorio, fino alla reintegrazione nella vita sociale e lavorativa.3

L’OMS infatti definisce la riabilitazione come “l’insieme di interventi che mirano allo sviluppo di una persona al suo più alto potenziale sotto il profilo fisico, psicologico, sociale, occupazionale ed educativo, in relazione al suo deficit fisiologico o anatomico e all’ambiente”.

Si sono così sviluppate negli ultimi anni numerose tecniche e metodiche riabilitative, tutte mirate alla riduzione rapida del dolore e al rapido recupero funzionale post-operatorio. Tra queste metodiche è stata sviluppata e riscoperta la riabilitazione in acqua, cioè l’idrocinesiterapia, effettuata in particolare con l’uso di acqua termale, cioè la crenocinesiterapia. Si sta sempre più diffondendo questa metodica soprattutto per il vasto numero di impianti termali presenti in Italia. Con l’esercizio terapeutico in acqua termale si crea infatti un sinergismo d’azione tra fattori crenologici e mezzi riabilitativi che

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determina, in genere, un risultato finale di entità superiore alla semplice somma degli effetti terapeutici ottenibili con le singole metodiche. In più la stazione termale risulta essere un ambiente particolarmente idoneo alla riabilitazione, in quanto particolarmente rilassante ed adatto per dedicare cura alla propria persona e al proprio benessere psico fisico, incrinato dalla patologia e dall’intervento.

Lo scopo della tesi è quello di valutare le condizioni funzionali di pazienti operati di protesi d’anca e di ginocchio dopo un ciclo riabilitativo di 12 giorni in ambiente termale. Per la valutazione sono state scelte scale validate recentemente (2001) a livello internazionale, quali la Harris Hip Score per le protesi d’anca e la International Knee Society Rating System per le protesi di ginocchio. I pazienti inoltre sono stati valutati mediante due schede che hanno preso come riferimento quelle del Registro di Implantologia Protesica Ortopedica (Progetto della Regione Toscana-Fase Pilota- versione 3.6).

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2 ARTICOLAZIONE DELL’ANCA

2.1 ANATOMIA 4

L’articolazione dell’anca o coxofemorale è una tipica enartrosi che unisce il femore all’osso dell’anca, in particolare all’acetabolo, cavità articolare quasi emisferica.

Il femore vi concorre con la sua testa, che rappresenta circa 2/3 di una sfera piena di 4 o 5 cm di diametro. Analogamente all’articolazione scapolo omerale, le superfici articolari non sono perfettamente corrispondenti. Un cercine glenoideo, costituito dal labbro dell’acetabolo, allarga la superficie della cavità e la rende così capace di contenere la testa del femore, in più ha importante ruolo nell’unione tra femore e anca: si può quindi considerare mezzo di contenimento dell’articolazione. Il labbro acetabolare passa a ponte sull’incisura dell’acetabolo e la converte in foro. Bisogna peraltro specificare che non tutta la cavità glenoidea prende direttamente parte all’articolazione; nel suo centro infatti si trova la fossa dell’acetabolo, una depressione quadrilatera rivestita di periostio e non di cartilagine articolare. Da questa fossa si diparte il legamento rotondo del femore, a sezione rettangolare, che termina sulla fovea capitis della testa del femore, che non

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supera i 35 mm di lunghezza. I mezzi di unione dell’articolazione dell’anca sono costituiti dalla capsula articolare cui si appongono tre legamenti di rinforzo longitudinali, cioè l’ileo femorale, l’ischio femorale e il pubofemorale e da una legamento a distanza intrarticolare, il legamento rotondo.

La capsula articolare è un manicotto fibroso, inserito prossimalmente sul contorno dell’acetabolo e sul labbro acetabolare e distalmente sulla linea intertrocanterica, in avanti, e su una linea posta al limite tra terzo medio e terzo laterale del collo del femore, indietro. Si viene così ad ottenere che la faccia anteriore del collo anatomico del femore è intracapsulare, mentre la faccia posteriore lo è solo nei 2/3 mediali. I legamenti di rinforzo già sopra citati non sono altro che porzioni ispessite della capsula e vengono anche denominati legamenti ileo capsulare, ischio capsulare e pubocapsulare. Accanto a questi si descrive la zona orbicolare, che è un fascio di rinforzo profondo, con fibre ad andamento trasversale.

Il legamento ileo femorale ha forma di ventaglio: origina al di sotto della spina iliaca anteriore inferiore, con due fasci che divergono a ventaglio, il fascio obliquo e il fascio verticale. Il legamento pubofemorale nasce dal tratto pubico del ciglio dell’acetabolo, dall’eminenza ileo pettinea e dalla parte laterale del ramo superiore del pube per perdersi nella capsula davanti al piccolo trocantere. Il

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legamento ischiofemorale è triangolare e dal lato ischiatico del ciglio cotiloideo si porta in fuori, alla fossa trocanterica. La zona orbicolare, ricoperta dai precedenti legamenti, si stacca dal margine dell’acetabolo e dal labbro acetabolare, profondamente all’inserzione del legamento ileofemorale e, abbracciando dal di dietro ad ansa il collo del femore, ritorna a fissarsi al punto d’origine.

Il legamento rotondo del femore, piatto e laminare, si estende dalla fovea capitis, dalla quale discende allargandosi e restando applicato sulla testa del femore, per raggiungere i bordi dell’incisura dell’acetabolo; non è teso come lo sono abitualmente i legamenti interossei. La sinoviale è tipica di una diartrosi: riveste la superficie interna della capsula e, pervenuta alle sue inserzioni, si riflette con tragitto ricorrente a rivestire le porzioni intracapsulari dei capi ossei fino ai limiti delle cartilagini articolari. Essa forma una guaina completa al legamento rotondo. Il liquido prodotto dalla membrana sinoviale è chiamato liquido sinoviale ed è deputato alla lubrificazione e al trofismo della cartilagine articolare.5 La membrana sinoviale è sempre assai ricca di vasi e

capillari sanguigni, di vasi linfatici e terminazioni nervose. Le cellule del rivestimento sinoviale vanno peraltro a produrre acido jaluronico. In più contiene molte cellule istiocitarie, sparse e

5 Lisanti M., Trattamento riabilitativo nell’artroprotesi d’anca, Collana di riabilitazione 2° Clinica Ortopedica dell’Università di Pisa, 1994.

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attorno ai vasi: reagisce così vivacemente a molti stimoli patogeni, con iperplasia dei suoi elementi.6

I muscoli dell’anca sono distinti in interni ed esterni.

I muscoli interni sono l’ileopsoas e il piccolo psoas. I muscoli esterni sono il grande, medio e piccolo gluteo, il piriforme, i

gemelli superiore ed inferiore, gli otturatori esterno ed interno e il quadrato del femore.

Il muscolo ileopsoas si trova nella regione lomboiliaca e nella regione anteriore della coscia: è formato da due distinte porzioni, il muscolo grande psoas e il muscolo iliaco che si uniscono per inserirsi nel femore.

Il muscolo grande psoas, fusiforme, origina con una serie di arcate fibrose, dalle facce laterali dei corpi dell’ultima vertebra toracica e delle prime quattro vertebre lombari, dai dischi intervertebrali interposti e dalla base dei processi trasversi delle prime quattro vertebre lombari; attraversa la regione lombare e iliaca esce dal bacino passando sotto al legamento inguinale, a livello della lacuna dei muscoli; nella coscia passa al davanti della coxofemorale e si inserisce nel piccolo trocantere: nel suo contesto vi decorre il nervo femorale.

Il muscolo iliaco ha forma a ventaglio e origina dal labbro interno della cresta iliaca, dalle due spine iliache anteriori e dall’incisura

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interposta fra esse, dai 2/3 superiori della fossa iliaca, dal legamento ileolombare e dalla porzione laterale dell’ala del sacro. Da questa vasta linea d’origine i fasci convergono inferiormente e terminano fondendosi in parte con quelli del muscolo grande psoas. Il muscolo ileopsoas nel suo insieme è innervato da rami del plesso lombare e dal nervo femorale; contraendosi, flette la coscia sul bacino, adducendola e ruotandola esternamente. Se prende punto fisso sul femore, flette il tronco e lo inclina dal proprio lato. Il muscolo piccolo psoas è rudimentale, piccolo e fusiforme, anteriormente e medialmente rispetto al grande psoas. Origina dalle facce laterali dei corpi dell’ultima vertebra toracica e della prima lombare e dal disco interposto tra esse; di qui si porta in basso e lateralmente e va a terminare sull’eminenza ileo pettinea e sulla fascia iliaca. E’ innervato da rami muscolari del plesso lombare. Contraendosi tende la fascia iliaca.

Il muscolo grande gluteo è il più superficiale e il più sviluppato dei muscoli della regione glutea. Origina dalla parte posteriore del labbro esterno della cresta iliaca, dalla linea glutea posteriore e dalla superficie dell’osso dell’anca compresa tra queste due linee, dal legamento sacroiliaco posteriore, dalla fascia lombo dorsale, dalla cresta laterale del sacro e del coccige, dal legamento sacro tuberoso e dalla fascia del muscolo medio gluteo. Da questa estesa linea d’attacco le fibre muscolari convergono verso il ramo laterale

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della linea aspra del femore (tuberosità glutea), dove vanno ad inserirsi. I fasci più superficiali si portano inoltre sulla porzione laterale della fascia lata. Il grande gluteo viene così ad essere compreso tra la fascia glutea e i tegumenti della natica, superficialmente e i muscoli medio gluteo, piramidale, gemelli, otturatorio interno e quadrato del femore, situati profondamente. Il grande gluteo è innervato dal nervo gluteo inferiore. Contraendosi estende e ruota lateralmente il femore; prendendo punto fisso sul femore, estende il bacino contribuendo al mantenimento della stazione eretta (posizione dell’attenti) e alla locomozione.

Il muscolo medio gluteo, piatto e triangolare, è posto sotto e davanti al grande gluteo. Origina dalla parte della faccia esterna dell’osso dell’anca posta tra le linee glutee anteriore e posteriore, dal labbro esterno della cresta iliaca, dalla spina iliaca anterosuperiore e dalla fascia glutea. I fasci muscolari convergono a ventaglio verso il basso e si raccolgono in un tendine che si inserisce sulla faccia esterna del grande trocantere. Il muscolo è ricoperto da uno spesso foglietto della fascia glutea, dal grande gluteo e dal tensore della fascia lata; profondamente è in rapporto con il piccolo gluteo e con l’osso dell’anca. E’ innervato dal nervo gluteo superiore. Contraendosi abduce il femore e lo ruota esternamente (fasci posteriori) o internamente (fasci anteriori).

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Prendendo punto fisso sul femore ha un’azione di estensione e di inclinazione laterale del bacino.

Il muscolo piccolo gluteo ha forma triangolare e prende origine dalla faccia esterna dell’osso dell’anca, davanti alla linea glutea anteriore e dall’estremità anteriore del labbro esterno della cresta iliaca; i fasci convergono a ventaglio verso il basso e prendono inserzione sulla superficie anteriore del grande trocantere del femore. Il muscolo è compreso tra il medio gluteo, che lo ricopre e il piano osteoarticolare formato dall’ala iliaca e dall’articolazione dell’anca. E’ innervato dal nervo gluteo superiore. Contraendosi abduce e ruota medialmente il femore; con punto fisso a livello femorale, inclina omolateralmente il bacino.

Il muscolo piriforme è appiattito, triangolare e situato in parte all’interno, in parte all’esterno della pelvi, i suoi fasci originano dalla faccia anteriore dell’osso sacro, lateralmente al 2°, 3° e 4° foro sacrale anteriore, dal legamento sacro tuberoso e dalla circonferenza superiore della grande incisura ischiatica; essi si dirigono lateralmente e in fuori, escono dal bacino attraverso il grande forame ischiatico e si inseriscono sull’estremità superiore del grande trocantere. Il muscolo piriforme suddivide il grande forame ischiatico in due tragitti sovrapposti, i canali sovra e sottopiriforme. Nella porzione intrapelvica appoggia profondamente sul sacro, nella porzione extrapelvica è in rapporto

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con il grande gluteo e con l’articolazione dell’anca; a livello del grande forame ischiatico è a contatto superiormente con il nervo e i vasi glutei superiori e inferiormente con il nervo ischiatico, con il nervo e i vasi glutei inferiori, con il nervo e i vasi pudendi interni e con il nervo cutaneo posteriore del femore. Il muscolo piriforme è innervato da un ramo collaterale del plesso sacrale. Contraendosi ruota lateralmente il femore, ha per di più un’azione stabilizzante sull’articolazione coxofemorale.

I muscoli gemelli sono due muscoli a decorso pressoché orizzontale e si distinguono in superiore e inferiore. Il gemello superiore origina dalla faccia esterna e dal margine inferiore della spina ischiatica, il gemello inferiore dalla faccia esterna della tuberosità ischiatica. Entrambi si dirigono orizzontalmente in fuori e vanno ad inserirsi sul tendine del muscolo otturatorio interno e quindi nella fossa trocanterica del femore. Anteriormente sono in rapporto con l’articolazione dell’anca e posteriormente sono coperti dal muscolo grande gluteo. I gemelli sono innervati da rami collaterali del plesso sacrale. Contraendosi ruotano esternamente il femore e stabilizzano l’articolazione dell’anca.

Il muscolo otturatorio interno è in parte intra e in parte extrapelvico. Prende origine dalla faccia intrapelvica della membrana otturatoria, dal contorno interno del foro otturatorio, dalla superficie ossea compresa fra foro otturatorio e spina

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ischiatica e dalla faccia profonda della fascia che ricopre il muscolo stesso. I fasci convergono verso il piccolo forame ischiatico dove ripiegano lateralmente ad angolo retto per inserirsi nella fossa trocanterica del femore. Nella sua porzione intrapelvica il muscolo otturatorio interno delimita, insieme all’elevatore dell’ano, la fossa ischio rettale; nella parte extrapelvica, dove decorre tra i gemelli, è coperto dal muscolo grande gluteo e, a sua volta, ricopre l’articolazione dell’anca. E’ innervato dal nervo otturatorio interno; contraendosi ruota lateralmente il femore e contribuisce alla stabilizzazione dell’articolazione dell’anca.

Il muscolo otturatorio esterno origina dal contorno esterno del foro otturatorio e dalla benderella sottopubica; le sue fibre si portano lateralmente, in alto e in dietro, circondano l’articolazione coxofemorale e vanno ad inserirsi alla fossa trocanterica del femore. Anteriormente è in rapporto con i muscoli ileo psoas, pettineo, adduttori breve e grande nonché con il gracile, con la parte posteriore del collo del femore e con la capsula dell’articolazione dell’anca; si trova davanti alla membrana otturatoria e al muscolo quadrato del femore. E’ innervato dal nervo otturatorio. Contraendosi ruota lateralment

e il femore e stabilizza l’articolazione dell’anca.

Il muscolo quadrato del femore è un muscolo quadrilatero che origina dalla superficie esterna della tuberosità ischiatica e si

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inserisce a lato della cresta intertrocanterica del femore. Si pone anteriormente in rapporto con l’articolazione dell’anca e con il muscolo otturatorio esterno; posteriormente ad esso di trovano il muscolo grande gluteo e il nervo ischiatico. E’ innervato da un ramo collaterale del plesso sacrale. Agisce ruotando lateralmente il femore e contribuisce a stabilizzare l’articolazione coxofemorale. Le fasce dei muscoli dell’anca sono la fascia iliaca e la fascia

glutea. La fascia iliaca è una lamina connettivale che avvolge il

muscolo ileo psoas e gli forma una guaina sottile in alto e man mano più spessa, discendendo verso la fossa iliaca. Prende attacco sulle vertebre lombari in alto e medialmente; si fissa in basso alla base del sacro e allo stretto superiore della pelvi; lateralmente, continua nella fascia del muscolo quadrato dei lombi e si fissa lungo il margine laterale del muscolo psoas, sul legamento ileolombare e sul labbro interno della cresta iliaca. In alto termina in corrispondenza dell’arco diaframmatico mediale. In basso e lateralmente, la fascia iliaca si fonde con il legamento inguinale; medialmente, invece, diverge da esso e termina col nome di benderella o legamento ileopettineo sull’omonima eminenza dell’osso dell’anca. La benderella ileopettinea divide in due lacune lo spazio esistente tra legamento inguinale e osso dell’anca: quella laterale è la lacuna dei muscoli dove passano il muscolo ileo psoas e il nervo femorale: quella mediale è la lacuna dei vasi, dove

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passano l’arteria e la vena femorali e i vasi linfatici. Al di sotto del legamento inguinale, la fascia iliaca prosegue intorno al muscolo ileopsoas fino all’inserzione trocanterica di quest’ultimo. Nella porzione che riveste la fossa iliaca, la fascia divide lo spazio tra peritoneo parietale e muscolo iliaco in due logge ripiene di tessuto adiposo: la più superficiale è la loggia soprafasciale o sottoperitoneale, che si arresta al legamento inguinale, più profondamente si trova la loggia sottofasciale che continua al di sotto dell’arcata inguinale fino al piccolo trocantere. Esiste perciò un tragitto tra l’ambiente retro peritoneale della fossa iliaca e la coscia. La fascia glutea o dei muscoli grande e medio gluteo è costituita da un foglietto profondo, assai robusto, che riveste la faccia superficiale del medio gluteo e altri due foglietti, rispettivamente intermedio e superficiale, che si dispongono sulle facce profonda e superficiale del grande gluteo. Il foglietto profondo origina, in avanti, dalla riunione dei due foglietti della fascia lata che inguainano il muscolo tensore della fascia lata; in alto, dal labbro esterno della cresta iliaca. Da questa origine la fascia si porta indietro e in basso e ricopre il muscolo medio gluteo. Il foglietto intermedio riveste la faccia profonda del grande gluteo, fino al margine inferiore del muscolo, dove si riflette nel foglietto superficiale. Il foglietto superficiale riveste la faccia superficiale del muscolo grande gluteo fino alle origini posteriori

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di quest’ultimo, dove prende attacco alla cresta sacrale laterale, al coccige e al legamento sacrotuberoso.

Definire i muscoli dell’anca in base alla loro funzione è alquanto difficile dal momento che questa cambia in rapporto alle varie posizioni che l’arto assume e soprattutto dal momento che vi partecipano anche i muscoli della coscia. Comunque didatticamente, considerando il soggetto supino con anca in posizione fisiologica, cioè leggermente flessa (15°), i muscoli si possono suddividere in quattro gruppi: flessori nel quadrante anteriore, adduttori nel quadrante mediale, abduttori nel quadrante laterale, estensori nel quadrante posteriore. Ci sono poi gli

intrarotatori ed extrarotatori, che possono diventare flessori o

estensori variando la posizione dell’arto.

Gruppo dei flessori: muscolo ileopsoas, retto femorale, sartorio, tensore della fascia lata, pettineo (non propriamente appartenente ai muscoli dell’anca ma a quelli della coscia). Flessori accessori: medio adduttore, retto interno (considerati muscoli della coscia), fasci più anteriori del piccolo e medio gluteo.

Gruppo degli adduttori: muscolo grande adduttore, muscolo adduttore lungo, muscolo adduttore breve (muscolo pettineo e muscolo gracile), retto interno, semimembranoso, semitendinoso, bicipite femorale, pettineo (tutti muscoli della coscia), grande

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gluteo, quadrato del femore, otturatore interno coi gemelli, otturatore esterno (propriamente muscoli dell’anca).

Gruppo degli abduttori: muscolo medio gluteo, muscolo piccolo gluteo, grande gluteo, piriforme, tensore della fascia lata, (quest’ ultimo propriamente muscolo della coscia).

Gruppo degli estensori: muscolo grande gluteo, fasci posteriori del medio e piccolo gluteo (propriamente dell’anca), capo lungo del bicipite, tensore della fascia lata, semitendinoso, semimembranoso (questi ultimi considerati muscoli della coscia, detti ischiocrurali) Gruppo degli extrarotatori: il piriforme, l’otturatore interno, l’otturatore esterno, il quadrato del femore, il grande gluteo, fasci posteriori del piccolo e soprattutto del medio gluteo, l’ileopsoas e i gemelli (tutti questi muscoli propriamente dell’anca), il pettineo e fasci posteriori del grande adduttore (muscoli della coscia).

Gruppo degli intrarotatori: muscolo piccolo gluteo, fasci anteriori del medio gluteo (propriamente dell’anca), tensore della fascia lata (muscolo della coscia).

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2.2 CHINESIOLOGIA E BIOMECCANICA 7 8

L’articolazione coxofemorale sostiene la maggior parte del peso corporeo, è adatta alla stazione eretta e permette gli spostamenti dell’uomo in posizione bipede, questo ne ribadisce l’importanza dal punto di vista della statica e della dinamica. Nella posizione bipodalica il peso è distribuito tra i due arti inferiori con il centro di gravità che cade nel corpo della seconda vertebra lombare secondo un piano sagittale passante per la sinfisi pubica. In appoggio monopodalico, invece, l’emibacino dell’arto sospeso si solleva di 2,5 cm rispetto al controlaterale andando a lateralizzare il centro di gravità e verticalizzando il carico sull’arto di appoggio e quindi sulla testa femorale omolaterale; il centro di gravità si sposta così all’altezza della quarta vertebra lombare. Nel caso delle articolazioni dell’arto inferiore in generale, dell’anca in particolare, l’azione della gravità tende a compattare le loro superfici articolari, anziché determinare un allontanamento delle due epifisi ossee, questo a differenza dell’arto superiore.

La coxofemorale possiede altresì tre gradi di libertà di movimento sui piani sagittale, frontale ed orizzontale. Sul piano sagittale i due movimenti sono la flessione e l’estensione. Sul piano frontale i due

7 Kapandji, I.A., Fisiologia Articolare, Vol.III, Monduzzi Editore, 2004. 8 Marchetti M.- Pillastrini P., Neurofisiologia del movimento: anatomia, biomeccanica, chinesiologia, clinica, Piccin Editore, 1997.

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movimenti sono l’abduzione e l’adduzione; infine sul piano orizzontale si parla di intrarotazione ed extrarotazione. Ogni persona ha una propria motilità articolare legata a vari fattori quali sesso, età, lassità costituzionale.

La flessione dell’anca consiste nel movimento di avvicinamento della superficie anteriore della coscia al tronco, in modo che tutto l’arto inferiore si trova al davanti di un piano frontale passante per l’articolazione. La flessione si distingue in attiva e passiva; quella passiva arriva, se il ginocchio è esteso a 120°, se è flesso a 140°. Quella attiva arriva, se il ginocchio è esteso a 90°, se è flesso a 120°. I muscoli principali che eseguono la flessione dell’anca sono tre: ileopsoas, sartorio e quadricipite (questi ultimi due propriamente muscoli della coscia), i quali hanno considerevole importanza anche quantitativamente, essendo lunghi e ricchi di cellule, potendo così generare una contrazione molto efficace. Lo studio dell’evoluzione della specie ci riferisce che originariamente il genere umano procedeva ad andatura quadrupedica, per cui i muscoli anteriori dell’anca si trovavano in posizione tale da essere sottoposti ad un certo grado di tensione.9 Con l’acquisizione della

stazione eretta, il grado di stiramento di questi muscoli è aumentato, modificando in modo significativo il contesto biomeccanico su cui agiscono le contrazioni, soprattutto per ciò

9 Bisciotti G.N., Il corpo in movimento. Dalle basi fisiologiche all’allenamento sportivo. Edizioni Correre, Milano, 2003.

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che concerne il modulo vettoriale e l’orientamento dei tendini rispetto al segmento osseo su cui sono inseriti. Il differente grado di flessione dell’anca che si raggiunge a seconda della posizione del ginocchio (esteso o flesso) si può spiegare proprio con la differente lunghezza del braccio di potenza muscolare dei due muscoli che attraversano l’articolazione del ginocchio, quadricipite e sartorio.

L’estensione porta l’arto inferiore posteriormente al piano sagittale che passa per il baricentro del corpo. L’ampiezza dell’estensione è notevolmente inferiore alla flessione, è limitata infatti dalla tensione del legamento ileo femorale . Si distingue anche l’estensione in attiva e passiva: quella passiva raggiunge i 20°, ma può teoricamente raggiungere i 30° quando l’arto inferiore è fortemente stirato indietro; l’estensione attiva arriva invece a ginocchio esteso a 20°, a ginocchio flesso raggiunge i 10°. I motivi della sproporzione che si riscontra tra l’ampiezza della flessione e dell’estensione coxofemorale sono in parte da attribuire all’originaria andatura quadrupedica dell’homo sapiens che, in posizione di partenza, presentava la diafisi femorale inclinata di circa 90° rispetto al resto del tronco. Tutto il sistema muscolare seguiva questa posizione, perciò i flessori e gli estensori dell’anca erano ad un grado di stiramento ed accorciamento molto diverso da quello attuale. In particolare l’ileopsoas, il sartorio e il retto

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femorale hanno subito un consistente allungamento con l’acquisizione della posizione eretta, unito ad un’antiversione del bacino e alla formazione della lordosi lombare. Al contrario il grande gluteo e gli ischiocrurali si sono accorciati per poter controllare attivamente la modesta quota residua consentita all’estensione coxofemorale. Tutto ciò comporta alcune ripercussioni dirette in patologia, per cui la tendenza naturale di questa articolazione sarà quella di portarsi in flessione, andando a ripristinare così il diverso equilibrio che esisteva in un lontano passato. I muscoli estensori già citati in precedenza si distinguono quindi in due grandi gruppi, a seconda della loro inserzione, i primi sul femore alla sua estremità prossimale, i secondi in prossimità del ginocchio (da ricordare che non tutti fanno parte dei muscoli dell’anca propriamente detti); nel primo gruppo sono compresi il grande gluteo e i fasci posteriori del medio e piccolo gluteo. Del secondo gruppo fanno parte i muscoli ischiocrurali, cioè il bicipite femorale, il semitendinoso e il semimembranoso (muscoli della coscia), la cui azione estensoria è dipendente dall’estensione del ginocchio, essendo muscoli biarticolari.

L’articolazione dell’anca esegue anche movimenti sul piano frontale, che permettono all’arto inferiore di portarsi verso l’esterno, per superare meglio ostacoli in cui non è sufficiente l’uso dei movimenti sagittali.

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Nell’abduzione si ha lo spostamento dell’arto inferiore verso l’esterno, allontanandolo dal piano sagittale che attraversa il baricentro del corpo. Nell’abduzione si attua un movimento in ampiezza maggiore di quello adduttorio. Si può anche in certa misura parlare di abduzione e di ritorno da un certo grado di abduzione. L’abduzione raggiunge mediamente i 45°, si realizza sul fulcro costituito dalla testa femorale inserita nell’acetabolo, avendo come agonisti principali due muscoli che agiscono in due modi diversi; il medio gluteo traziona infatti il grande trocantere verso l’interno creando una leva in cui il braccio della potenza è molto più breve del braccio della resistenza (che arriva fino al piede), mentre il tensore della fascia lata, biarticolare, esegue un’azione più simile a quella degli estensori e flessori, seguendo un decorso longitudinale rispetto alla diafisi del femore. I muscoli abduttori sono, ripetendo, il medio gluteo (principale muscolo abduttore dell’anca), piccolo gluteo, grande gluteo, tensore della fascia lata (principale muscolo abduttore), piriforme. I primi tre sono muscoli propriamente dell’anca, gli ultimi due della coscia. La sinergia risultante dalla contrazione dei due principali abduttori (medio gluteo e tensore della fascia lata) determina una forza prevalente sulle avverse condizioni biomeccaniche, estremamente sfavorevoli per la conduzione del movimento.

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L’adduzione avvicina l’arto inferiore al piano di simmetria del corpo, è un movimento sul piano frontale che in sé e per sé tenderebbe a far uscire la testa del femore dalla cavità acetabolare, quindi viene usato in misura minore durante la gestualità quotidiana. Come già accennato non esiste in realtà un movimento di adduzione in quanto tale, ma esistono movimenti di adduzione relativa, dal momento che nella posizione di riferimento gli arti inferiori sono a contatto l’uno con l’altro. A partire dalla posizione anatomica di riferimento l’ampiezza che si raggiunge per l’adduzione è pari a 10°, bisogna però specificare che esistono dei movimenti adduttori combinati con movimenti di estensione, flessione o abduzione dell’altro arto. In tutti questi movimenti combinati l’ampiezza massima è pari a 30°. Sul piano muscolare è molto importante il ruolo di alcuni muscoli adduttori che tendono a portare il femore verso l’interno, poiché essi svolgono un’azione stabilizzatrice nei confronti del bacino e degli arti inferiori, che si contrappone alle forze laterali esterne. I muscoli adduttori sono grandi e potenti: ripetendoli sono il grande adduttore, l’adduttore lungo e il breve, il retto interno, il semimembranoso e il semitendinoso, il bicipite femorale, il pettineo (propriamente muscoli della coscia), il grande gluteo, il quadrato del femore, l’otturatore interno (aiutato dai gemelli), l’otturatore esterno (questi ultimi muscoli propriamente dell’anca).

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In definitiva si può affermare che l’azione sinergica degli abduttori e degli adduttori costituisce uno dei fattori più stabilizzanti dell’equilibrio del bacino sul piano frontale e che una certa quota di contrazione, garantita da un tono muscolare di base, viene mantenuta per impedire l’oscillazione laterale del tronco e di tutto l’emisoma superiore.

Sul piano orizzontale infine si distinguono i movimenti di intrarotazione ed extrarotazione: infatti la testa del femore può ruotare all’interno della cavità acetabolare. Questi due movimenti, pur non essendo indispensabili per la corretta esecuzione del cammino, consentono all’individuo di potersi spostare molto più agevolmente, in più di poter cambiare direzione, evitando ostacoli, e di poter salire o scendere le scale o una superficie piana, appoggiando il piede su un punto che si trova all’interno o all’esterno rispetto alla sua traiettoria ideale. E’ la zona peritrocanterica che si sposta rispettivamente in avanti e indietro per determinare i movimenti di intra ed extrarotazione.

Nella posizione di riferimento, con il ginocchio esteso e in appoggio bi podalico, l’intrarotazione porta medialmente la punta del piede; biomeccanicamente è un movimento che non si collega direttamente alla deambulazione, dal momento che in sé e per sé lo spostamento della punta del piede verso l’interno costituisce un ostacolo per il cammino, non una possibilità in più; d’altronde però

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una piccola quota intrarotatoria è presente nel corso dei movimenti del bacino che accompagnano la fase oscillatoria del passo, quindi da un certo punto di vista permette un cammino non troppo rigido e quindi instabile. L’intraroratozione può raggiungere al massimo 30-40°, si deve specificare che il miglior modo per osservare i movimenti rotatori in generale, quindi sia per l’intra che extrarotazione è a soggetto prono con la gamba flessa ad angolo retto sulla coscia e posta verticalmente o seduto sul bordo di un tavolo, con l’anca e il ginocchio flessi ad angolo retto.

I muscoli intrarotatori sono il piccolo gluteo e fasci anteriori del medio gluteo (propriamente muscoli dell’anca), il tensore della fascia lata (quest’ultimo considerato muscolo della coscia).

L’extrarotazione è quel movimento dell’anca che porta in fuori la punta del piede, può raggiungere i 60°, consiste nello spostamento posteriore del collo del femore e del grande trocantere, che del resto è la sede su cui si inseriscono i principali muscoli agonisti del movimento. E’ un movimento molto importante, eseguito da diversi muscoli, che hanno l’origine distribuita su alcune tuberosità della pelvi, sia a livello del sacro che del bacino, e le inserzioni convergenti sul grande trocantere, con i tendini distali che seguono una direzione passante posteriormente rispetto al centro del fulcro della leva, cioè il centro dell’articolazione coxofemorale. Questi muscoli svolgono anche un’azione stabilizzatrice dell’anca: infatti

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la direzione vettoriale passa esattamente per il centro dell’articolazione. Ripetendo i muscoli extrarotatori sono: il piriforme, l’otturatore interno, l’otturatore esterno, il quadrato del femore, il grande gluteo, fasci posteriori del piccolo e soprattutto del medio gluteo, l’ileopsoas e i gemelli (tutti questi muscoli propriamente dell’anca), il pettineo e fasci posteriori del grande adduttore (muscolo della coscia).

Anche l’extrarotazione arricchisce la qualità del cammino, attraverso modificazioni direzionali che non necessariamente si devono eseguire attraverso una rotazione completa dell’anca, del bacino e del tronco; si deve però considerare come un movimento instabile, poiché la testa del femore tende a fuoriuscire dalla cavità acetabolare quando si realizza. In riabilitazione questo è fondamentale perché, se non si presta la dovuta cura, l’uso di esercizi in cui si richiede una contrazione muscolare massimale può anche provocare una lesione articolare.

2.3 CHIRURGIA PROTESICA DELL’ANCA 10 11

10 Guido G., Manuale di Ortopedia, Marrapese Edizioni, 2009.

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2.3.1 STATO DELL’ARTE

L’articolazione che storicamente ha aperto l’era della protesica in ortopedia è la coxofemorale e il primo versante su cui è stata progettata una protesi è stato quello femorale: si è così inizialmente parlato di endoprotesi, cioè di quell’impianto protesico che sostituiva la sola testa femorale, unico, costituito da una testa, un collo e una parte definita stelo che trova alloggio nel canale femorale, dopo aver fatto l’osteotomia a livello del collo femorale. Questo primo modello portava però all’usura della cavità acetabolare, quindi nel corso degli anni è stato biomeccanicamente perfezionato per ridurre appunto l’attrito a livello acetabolare e si è così concepita l’endoprotesi biarticolare, costituita da una coppa metallica che trova alloggio nella cavità acetabolare, all’interno della quale è inserita una componente in polietilene su cui si articola la testa femorale artificiale e creandosi così due superfici di scorrimento, una a livello acetabolare tra cavità articolare e coppa metallica, ed una tra polietilene e testina femorale.

Ancor oggi si usa questo tipo di impianto, soprattutto nella traumatologia dell’anziano e dei pazienti con scarse condizioni di salute, proprio perché si riduce l’usura del cotile. Negli ultimi decenni siamo arrivati alla creazione delle moderne artroprotesi, che vanno a sostituire entrambi i versanti della coxofemorale,

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femore ed acetabolo. E’ proprio la “total hip arthroplasty” la più comune procedura ricostruttiva dell’anca nell’adulto.

Charnley (1911-1982) ha compiuto un lavoro pionieristico sotto vari aspetti, inclusi i concetti di artroplastica di basso attrito, alterazione chirurgica della biomeccanica dell’anca, materiali (acciaio inossidabile), lubrificazione, design e miglioramento delle tecniche chirurgiche e di preparazione della camera operatoria. Una delle cose fondamentali è stato il suo primario utilizzo del cemento acrilico a freddo (PMMA, polimetil metacrilato) per la fissazione dei componenti. I suoi periodici aggiornamenti e le sue ricerche su vasti campioni di pazienti sono stati a dir poco preziosi, specialmente per quel che riguarda l’usura della protesi, l’infezione, la lussazione e il cedimento dello stelo. E’ così apparso subito come il risultato funzionale delle protesi dipendesse da un’attenta selezione dei pazienti e da una meticolosa attenzione alla tecnica operatoria e alla asepsi. Si è visto così da studi di follow up a lungo termine, cioè a più di cinque anni, che i problemi maggiori erano dati dalla rottura dell’impianto, dalla disunione trocanterica, dall’usura e dalla perdita di osso periprotesico. Quindi si sono continuate a studiare sempre nuove tecniche chirurgiche, partendo dal concetto di base di un’artroplastica a basso attrito e di un’ accoppiamento metallo-polietilene. L’artroplastica di Charnley ha migliorato la qualità della vita di molti pazienti, da lì in poi la

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storia dell’artroplastica è stata dinamica e le ricerche si sono concentrate anche nei risultati nei pazienti più giovani. Ci si è mossi su più fronti: maggiore durata dell’impianto, riduzione dell’usura delle superfici articolari e modifiche nelle tecniche operatorie per velocizzare la riabilitazione e ridurre gli errori di posizionamento dell’impianto.

Infatti esistono componenti protesiche per il versante acetabolare, che possono essere completamente in polietilene (polimero di carbonio e idrogeno) oppure completamente in metallo come leghe di cromo-cobalto o titanio con diversi rivestimenti in grado di garantire al meglio l’osteointegrazione del sistema, oppure l’unione di una porzione in metallo al cui interno trova alloggio una componente in polietilene. Anche le teste femorali possono essere di vari materiali, come ceramica o metallo e di diverso diametro, mentre lo stelo femorale è anch’esso di diverso materiale e può avere diverso design a seconda della tipologia dell’impianto. Aspetto fondamentale da considerare è il tipo di fissazione dell’impianto protesico all’osso: si può avere un collante come il cemento, usato di solito in soggetti anziani e con scarsa qualità ossea, oppure si può avere una fissazione “biologica”, ovvero un ancoraggio dell’osso all’impianto protesico che può essere stimolato da materiali o rivestimenti protesici osteoinduttivi o osteoconduttivi come il tantalio o l’idrossiapatite. Infatti si è fatto

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molti passi proprio in questo senso, cioè nel cercare di eliminare il cemento, però, nonostante siano stati riscontrati grandi successi in alcuni modelli iniziali di protesi non cementate, altri sono stati abbandonati a causa dei fallimenti dovuti ad una inadeguata fissazione iniziale, usura eccessiva e perdita di osso intorno alla protesi secondaria all’osteolisi. D’altra parte diverse tecniche si sono sviluppate per rilanciare la fissazione femorale col cemento, inclusa l’iniezione di cemento a bassa viscosità, l’occlusione del canale midollare, la riduzione di porosità, la pressurizzazione del cemento e la centralizzazione dello stelo; tecniche simili sono state meno soddisfacenti per la fissazione del versante acetabolare. Sono emersi sempre più problemi legati all’usura delle superfici articolari; articolazioni ceramica-ceramica e metallo-metallo sono state analizzate per lo scarso coefficiente di frizione e maggiore usura.

Comunque è bene specificare che i problemi dei materiali sopra citati e dei vari design delle protesi potevano venire fuori solo alla luce di studi di almeno cinque anni di follow up. E’ perciò di fondamentale importanza che il chirurgo abbia molto ben presente i vari dettagli tecnici e abbia chiari i principi di biomeccanica, i materiali e i design.

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E’ utile un inquadramento eziopatogenetico delle patologie che portano all’impianto di una protesi d’anca, per garantire la miglior scelta chirurgica.12 Essenzialmente l’indicazione principe per

l’impianto protesico è la coxartrosi nei suoi vari aspetti, dove quindi il dolore è il sintomo dominante. Come seconda causa troviamo le frattura di femore. Nel 1994 il National Institutes of Health Consensus Statement on Total Hip Replacement ha affermato che “la protesi totale all’anca è un’opzione per quasi tutti i pazienti con malattie dell’anca che causano un dolore e discomfort cronico associato ad un significativo disturbo funzionale”.

La coxartrosi13 si può distinguere in primitiva o idiopatica e

secondaria, che a sua volta possiamo sottoclassificare in :

• Post-traumatica (esiti di frattura dell’anca, esiti di lussazione dell’anca)

• Displasia congenita dell’anca

• Osteocondrite epifisaria (morbo di Perthes)

• Alterazione dell’asse meccanico (coxa vara, valga)

• Artrite settica (tbc, stafilococco)

12 Valobra G.N., Gatto N., Monticone M., Nuovo trattato di medicina fisica e

riabilitazione, vol.III, Torino, UTET, 2008.

13 Grassi F., Pazzaglia U., Pilato G., Zatti G., Manuale di Ortopedia e Traumatologia, ELSEVIER MASSON, 2007.

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• Malattia reumatica

• Malattia di Paget

• Artrite reumatoide (lupus, artrite anchilopoietica)

• Necrosi della testa del femore (idiopatica, esito di frattura del collo femorale o frattura-lussazione dell’anca, esiti di radioterapia, da tossicosi endogena cioè per dismetabolismi da insufficienza renale o per iperparatiroidismo o da tossicosi esogena da alcol, farmaci cortisonici e antinfiammatori)

• Tumore osseo che coinvolge la testa del femore o l’acetabolo

• Malattie ereditarie (es. acondroplasia)

La coxartrosi primitiva deve essere chiaramente refrattaria alla terapia conservativa per porre indicazione all’impianto. L’età del paziente è uno dei parametri da valutare, storicamente pazienti dai 60 ai 75 anni erano considerati i migliori candidati all’impianto, ma dagli anni ’90 questo range d’età si è espanso, infatti la popolazione sta aumentando l’età media e quindi molti più individui anziani sono diventati candidati alla chirurgia. L’età avanzata di per sé non è una controindicazione alla chirurgia, i risultati non soddisfacenti sembrano infatti essere correlati più alle comorbilità, come si vede da vari studi (Brander et al.).

In più la durata dell’impianto potrebbe essere limitata nel tempo per la possibile usura dei materiali; per questo in pratica clinica riscontriamo una elevata quantità di reimpianti.

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2.3.3 COXARTROSI 14

Il sintomo che porta il paziente dal chirurgo ortopedico è il dolore, dovuto alla distensione della capsula articolare e/o dei legamenti, alle contratture muscolari, alle microfratture ossee e all’insorgenza della sinovite reattiva. E’ un dolore sordo e insidioso, l’esordio spesso è subdolo, inizia localizzato all’inguine e si manifesta particolarmente dopo una deambulazione o affaticamento in generale; inizialmente è sottovalutato dal paziente perché il riposo fa regredire i sintomi.

La sintomatologia diviene via via più persistente e compare anche dopo breve deambulazione, si acutizza con il carico e/o durante i movimenti di abduzione e intrarotazione sino a diventare continuo. Parte come già detto dalla regione inguinale e si irradia quindi alla coscia secondo varie direzioni: posteriormente con interessamento della regione glutea, antero-medialmente dalla regione inguinale fino al ginocchio, lateralmente dal grande trocantere fino al ginocchio. Il paziente presenta limitazione funzionale sino a possibile rigidità, solitamente di breve durata, associata ad ipotonotrofia muscolare del cingolo pelvico soprattutto a carico del medio gluteo e del quadricipite con contrattura degli antagonisti. E’

14 Lisanti M., Trattamento riabilitativo nell’artroprotesi d’anca, Collana di riabilitazione 2a Clinica Ortopedica dell’Università di Pisa, 1994.

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presente sempre riduzione del tono muscolare dell’arto inferiore, che dipende dall’inerzia dinamica dell’articolazione, cioè dall’assenza di afferenze propriocettive e stimoli dinamici che determinano attenuazione dei motoneuroni periferici. Si possono sempre riscontrare atteggiamenti dell’arto inferiore in adduzione, extrarotazione, leggera flessione, dismetria e riduzione del ROM (range of motion). Si osserva anche accorciamento apparente, dovuto all’atteggiamento obbligato in adduzione e conseguente deambulazione con zoppia di fuga. Abbiamo infatti nella coxartrosi grave non compensata un’alterazione dell’architettura articolare, del ritmo e dei rapporti reciproci con le strutture vicine, associata ad uno stravolgimento della funzione di propriocezione della rete periarticolare sensitiva. La riduzione dell’escursione articolare, l’ipotrofia muscolare e il dolore rendono difficoltosi molti gesti della vita quotidiana, come ad esempio salire e scendere da un’auto, salire le scale, allacciarsi le scarpe, alzarsi da una poltrona e persino l’igiene personale. Quando l’anca è così gravemente compromessa vengono a determinarsi delle alterazioni alle articolazioni vicine sovra e sottostanti, cioè rachide lombare e ginocchio.

Il rachide lombare può essere dolente sia per proprie patologie che per atteggiamenti coatti dipendenti dal disturbo statico del bacino: infatti il dolore è presente sia nella stazione eretta che nella flesso

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estensione perché è spesso associata una scoliosi compensata con iperlordosi del rachide. Si hanno spesso anche discopatie associate. Per quel che riguarda il ginocchio spesso abbiamo un dolore che può essere irradiato dalla coxofemorale oppure può essere intrinseco dell’articolazione, a sua volta dovuto o ad alterazione del carico o ad artrosi femoro rotulea e/o femoro tibiale comunque facilitata dal blocco articolare della coxofemorale; il paziente infatti ha spesso dolore per un’alterata distribuzione del carico, che avviene prevalentemente nel compartimento mediale del ginocchio, andandosi così spesso a creare una vera e propria artrosi monocompartimentale, venendosi quindi a ripercuotere sul ginocchio le sollecitazioni derivanti dalla deambulazione.

2.3.4 CONTROINDICAZIONI

Per quel che riguarda le controindicazioni all’intervento di protesi d’anca bisogna ricordare che questa è una procedura di chirurgia maggiore, associata ad un gran numero di complicanze e con un tasso di mortalità dell’1-2%. Quindi, quando è indicata, i pazienti devono essere valutati molto attentamente, specialmente per malattie sistemiche e per lo stato generale di salute ridotto che possono comunque controindicare la chirurgia maggiore elettiva. Si raccomanda quindi un consulto generale pre-intervento,

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soprattutto dal punto di vista cardiaco, polmonare, epatico, genitourinario o per malattie metaboliche come diabete, ipertensione e tumori non sospetti. Come controindicazioni assolute abbiamo comunque l’infezione attiva dell’anca interessata o di ogni altra regione e ogni processo morboso instabile e non controllato che aumenterebbe il rischio di morbilità e morbidità, chiaramente anche l’impossibilità di sottoporre il soggetto ad anestesia a causa di un rischio troppo elevato. La protesi può essere fatta seppur con rischi in presenza di una cronica infezione di basso grado all’anca controlaterale. Controindicazioni relative comprendono qualsiasi processo rapidamente distruttivo dell’osso come osteomalacia e osteoporosi grave, artropatia neuropatica, un’assenza o insufficienza relativa della muscolatura abduttoria e malattie neurologiche rapidamente progressive.

2.3.5 VALUTAZIONE E PREPARAZIONE PRE-OPERATORIA

Un’attenta valutazione pre-operatoria del paziente è fondamentale nella protesi a causa delle molteplici complicanze possibili, alcune fatali e catastrofiche. Intanto è importante valutare se il dolore è tale da giustificare un intervento elettivo. Bisogna infatti porci diverse domande: intanto qual è l’aspettativa di vita del paziente, in seconda istanza se potrebbe essere costretto a letto o su una

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sedia a rotelle dopo l’intervento per qualcuna delle complicanze possibili; in generale le condizioni del paziente sono sufficientemente buone da tollerare un’operazione di chirurgia maggiore, durante la quale si ha una significativa perdita di sangue. Bisogna chiaramente considerare le complicanze maggiori dei pazienti anziani, specialmente quelle cardiopolmonari, infezioni e tromboembolismo. Bisogna quindi fare una valutazione clinica generale, compresi test di laboratorio, in modo da permettere al clinico semmai di scoprire e trattare eventuali problemi prima della chirurgia. L’aspirina, altri antinfiammatori e antipiastrinici in generale devono essere sospesi da 7 ai 10 giorni prima dell’intervento e gli anticoagulanti orali dovrebbero essere sospesi in tempo per il sanguinamento e la coagulazione intraoperatoria. Anche molti medicamenti erboristici e integratori possono causare ulteriore perdita di sangue perioperatoria, quindi si consiglia di sospenderli prima dell’intervento. Lesioni dermatologiche piogeniche dovrebbero essere eradicate. Pazienti che necessitano di una resezione trans uretrale della prostata dovrebbero farla preferibilmente prima della protesi. Chiaramente se il paziente ha una storia di drenaggi purulenti dall’anca o altre evidenze di infezioni recidivanti, prima dell’intervento dovrebbero essere fatte opportune indagini di laboratorio, esami di medicina nucleare e una coltura e antibiogramma dell’aspirato dell’anca se infetto:

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l’infezione infatti deve essere sospettata se parte dell’osso sub condrale dell’acetabolo o della testa del femore è eroso o se l’osso è stato riassorbito intorno ad un dispositivo di fissazione interna. Come già detto la valutazione clinica dovrebbe includere l’esame della colonna e delle estremità inferiori. Bisognerebbe valutare la forza degli abduttori con il test di Trendelemburg; in più da valutare la lunghezza degli arti inferiori per valutarne la dismetria e qualsiasi deformità fissa. La contrattura adduttoria dell’anca del resto può apparentemente produrre un accorciamento dell’arto nonostante la misurazione della lunghezza dei due arti sia uguale. La contrazione abduttoria invece può dare apparentemente un allungamento. I dolori alla schiena possono appunto aumentare per la lordosi da deformità della colonna e d’altra parte la deformità lombare fissa dovuta alla scoliosi o alla spondilite anchilosante può generare obliquità pelvica, che deve essere messa in conto nell’impianto della protesi. Quando siano artrosiche simultaneamente l’anca e il ginocchio bisogna sempre considerare di operare prima l’articolazione più a monte, quindi la coxofemorale, sia per un discorso di allineamento alterato post intervento sia perché tecnicamente l’intervento al ginocchio è molto più complesso quando l’anca è rigida e la riabilitazione sarebbe ostacolata. Prima dell’intervento bisognerebbe raccogliere del sangue autologo, in previsione della perdita durante

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l’intervento. Si esegue del resto un programma di profilassi antibiotica. La valutazione anestesiologica è di fondamentale importanza: si può scegliere essenzialmente tra un’anestesia generale inalatoria, un blocco epidurale continuo o un’anestesia spinale. La scelta dipende dall’anestesista che decide insieme al chirurgo sulla base di protocolli istituzionali o sugli specifici bisogni del paziente. Ci sono diversi studi (Charney, Salvati et al.) sulla possibilità di operare due anche insieme durante la stessa procedura. Secondo alcuni (Eggli, Ganz e Huckell) non c’è aumento di complicanze generali usando questo metodo e la riduzione dei costi è notevole, fino al 30%. Secondo altri (Macaulay et al.) invece le complicanze sono 1.3 volte più frequenti di una protesi monolaterale. L’indicazione maggiore a questo tipo di intervento è per un paziente in salute con artrosi severa in evoluzione rapida, rigidità o deformità fissa in flessione, perché la riabilitazione può essere molto difficile se l’intervento è monolaterale. D’altro canto pazienti anziani con altre comorbilità, come malattie cardiache, insufficienza respiratoria o diabete non sono candidati a questo tipo di intervento.

Altro aspetto fondamentale nel managing pre operatorio è l’imaging: infatti prima della chirurgia sono richiesti dei radiogrammi.

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Un’RX pelvica in anteroposteriore che mostra il femore prossimale e una in latero laterale dell’anca e del femore prossimale sono le due richieste di base. Le radiografie della pelvi dovrebbero essere richieste specificamente per la valutazione dell’integrità strutturale dell’acetabolo, per stimare la misura dell’impianto da fare e la quantità della alesatura e per determinare laddove sia necessario un innesto osseo. In pazienti con displasia in avanzamento la pelvi dovrebbe essere valutata con attenzione per determinare la quantità di osso presente per la fissazione della coppa. Se sono presenti dislocazioni di vecchie fratture, si fanno anche radiografie in visione obliqua dell’otturatore e dell’iliaco, dal momento che un difetto significativo può essere presente nel muro posteriore.

Una TC del resto può essere utile nella valutazione dell’acetabolo nei casi più complessi. Adesso sono disponibili immagini digitali su cui fare qualsiasi tipo di misurazione nella pratica ortopedica. Modellare e fare specifiche misurazioni pre intervento richiede dei software specializzati e si possono ottenere così dei veri e propri “film” pre intervento usando un monitor ad alta risoluzione con la “biblioteca” dei vari impianti da usare. Bisognerà valutare anche la presenza di osteoporosi, patologia di fondamentale importanza sia per l’ortopedico che per il fisiatra soprattutto per le pazienti di sesso femminile in post menopausa: si fa una densitometria ossea e in caso di depauperamento si può curare o comunque procrastinare

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con l’uso di farmaci quali bifosfonati da soli o in associazione a calcio e vitamina D. Per valutare la compromissione dell’articolazione sono utili alcuni test specifici: il test di Trendelemburg considera la validità del medio gluteo, la sua positività evidenzia l’abbassamento dell’anca in deambulazione per l’insufficienza del muscolo.

Il test di Thomas si fa in posizione supina, il paziente elimina con la flessione dell’anca sana la fisiologica lordosi lombare: se l’anca malata si solleva dal lettino è presente una deformità in flessione. Il test di Patrick valuta la regione sacro-iliaca e considera la flessione, l’estensione, l’abduzione e la rotazione esterna dell’articolazione.

2.3.6 SCALE DI VALUTAZIONE 15

Le caratteristiche semeiologiche possono essere quantificate tramite sistemi di valutazione a punteggio che integrano una buona anamnesi ad un buon esame obiettivo.

I criteri di selezione di un sistema di valutazione si basano sulla considerazione delle caratteristiche dello strumento: si deve valutare l’appropriatezza dello strumento, la sua affidabilità, la validità, la responsività, la precisione, l’interpretabilità,

15 Valobra G.N., Gatto N., Monticone M., Nuovo Trattato di medicina fisica e

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l’accettabilità, la fattibilità e infine la sinteticità. Esistono delle cosiddette scale di disabilità generiche, che misurano il grado di autonomia del soggetto nelle attività della vita indipendentemente dal tipo di menomazione: lo svantaggio di questi strumenti è quello di non descrivere i cambiamenti segmentari, sito-specifici, oppure i miglioramenti acquisiti per limitati distretti corporei o in seguito a trattamenti. Tra queste scale di disabilità generiche citiamo la Functional Independence Measure (FIM) e il Barthel Index.

La FIM, usata in tutto il mondo, valuta la disabilità fisica e cognitiva in termini di peso assistenziale, progettata nel 1983 negli USA per la necessità di valutare il costo dei trattamenti riabilitativi, non tanto in base alla diagnosi quanto a livello di disabilità del paziente, qualsiasi patologia l’abbia colpito. Non è patologia-specifica, è applicabile a tutte le condizioni morbose, in fase evolutiva e stabilizzata, è usata per valutare le condizioni funzionali, i progressi e i risultati dei pazienti in riabilitazione. La riproducibilità inter-esaminatore è elevata. Misura l’assistenza che necessita il paziente per compiere una ADL e valuta due gruppi di funzioni: cognitive (comunicazione e capacità relazionali/cognitive) e motorie (cura della persona, mobilità, locomozione e controllo sfinterico).

Il Barthel Index è il più datato tra i sistemi di valutazione della disabilità generica (1965), ma sempre usato, nella versione

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modificata da Shah del 1989, per l’estrema facilità di compilazione e valutazione dei dati; infatti non richiede personale specializzato nella compilazione. Misura l’abilità funzionale del soggetto monitorando le attività della vita quotidiana. Ha una buona validità e ha permesso di pervenire alla classificazione standard dei risultati per classi di autonomia complessiva, ritenendo che un punteggio pari o superiore a 95/100 descriva un soggetto in completa autonomia, tra i 65 e 85/100 un soggetto ancora compatibile con il rientro al proprio domicilio con vari gradi di assistenza, al di sotto di 65/100 un soggetto non compatibile con il ritorno a casa.

Esistono poi delle scale di misura della qualità della vita; tra queste di fatto la più utilizzata è la Short Form, SF-36 (1993), che rappresenta il gold standard per gli studi di validazione di altri strumenti di misura non solo per la qualità della vita ma anche di disabilità e menomazione. Sono compresi anche aspetti psicologici e sociali. La SF-36 comprende delle scale a più item per misurare le seguenti 8 dimensioni: la funzionalità fisica, la limitazione del ruolo a causa di problemi fisici, il dolore fisico, le attività sociali, la salute mentale, la limitazione del ruolo a causa di problemi emozionali, la vitalità, l’energia o la fatica, la sensazione generale di salute.

Ci sono quindi delle scale per la valutazione del dolore, tra cui la McGill Pain Assesment Questionnaire e la VAS.

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La prima è un questionario completo per la registrazione del dolore, comprendente l’anamnesi, i sintomi concomitanti, i fattori che lo modificano; fornisce un profilo quantitativo di tre aspetti del dolore (sensoriale discriminativo, motivazionale affettivo, cognitivo valutativo). Inizialmente è stato usato in terapia del dolore, ora è diffusamente usato per tutti i tipi di dolore, anche dal punto di vista diagnostico.

La VAS (Visual Analogic Scale) è una scala visiva-analogica pratica, affidabile e ripetibile con la quale il paziente indica il punteggio dato al dolore.

Tra le scale propriamente della riabilitazione ortopedica troviamo il WOMAC Osteoarthritis Index, che rappresenta il sistema di valutazione più utilizzato per i pazienti con patologie osteoartrosiche a carico di anca e ginocchio, facilmente compilabile e completo (1986). Recentemente è stato raccomandato come misura clinica da adottare per la valutazione nei pazienti con artrosi di anca e ginocchio trattati con interventi conservativi o che hanno artroprotesi. Consiste in un questionario redatto dal paziente fondato su tre diversi criteri di funzionalità, cioè dolore, rigidità e attività fisica: misura la severità del dolore e la rigidità.

Abbiamo quindi come strumento di misura specifico per l’anca l’Indice algofunzionale di Lequesne (1997) che, insieme al

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WOMAC, rappresenta il test più utilizzato per la valutazione di anca e ginocchio con artrosi. Il punteggio viene inquadrato per indici algofunzionali di severità e nella valutazione finale è previsto il confronto tra il punteggio dato dal paziente e quello dell’esaminatore.

L’Harris Hip Score è un test ampiamente utilizzato per la valutazione dei risultati dopo sostituzione protesica dell’anca. Tra le scale di misura per l’anca è cronologicamente l’ultimo che misura gli angoli in gradi, ma il primo che valuta l’articolarità attribuendo diverso valore a seconda della funzione nelle attività della vita quotidiana. Il sistema di misura prevede che venga attribuito maggior peso al dolore e alla funzionalità, più che all’articolarità, perché sono questi gli elementi che portano al trattamento chirurgico. L’affidabilità e la validità sono recentemente state testate (2001).

2.3.7 APPROCCI CHIRURGICI E CENNI DI CHIRURGIA

Molti cambiamenti sono avvenuti per quel che riguarda gli approcci chirurgici e le tecniche usate per le protesi d’anca; ciò in relazione alla naturale tendenza dei chirurghi di individualizzare le operazioni in base alle proprie esperienze cliniche e alle varie

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scuole. Essenzialmente gli approcci chirurgici si distinguono laddove il paziente sia operato su un lato o in posizione supina e laddove l’anca sia dislocata anteriormente o posteriormente.

La scelta dell’approccio specifico è quindi, come già detto, una scelta personale del chirurgo. Esistono dei protocolli specifici per ogni singolo approccio, virtualmente tutte le componenti, femorale ed acetabolare, possono essere impiantate bene attraverso numerosi approcci purchè sia ottenuta l’adeguata esposizione articolare.

Ogni approccio d’altronde ha i suoi relativi vantaggi e svantaggi. L’originale tecnica di Charnley utilizzava un approccio anterolaterale con il paziente supino, l’osteotomia del grande trocantere e la dislocazione anteriore dell’anca. Quest’approccio è ora molto meno usato per i problemi dovuti al riattacco del grande trocantere. Amstutz ha sostenuto a sua volta l’approccio anterolaterale con l’osteotomia del grande trocantere, ma con il paziente in posizione laterale piuttosto che supina. La tecnica di Muller usa anch’essa l’approccio anterolaterale con il paziente in posizione laterale, ma include il rilascio della sola parte anteriore del meccanismo abduttorio. L’approccio di Hardinge diretto laterale è fatto con il paziente supino o in posizione laterale: una incisione a scissione del muscolo medio e piccolo gluteo permette la dislocazione anteriore dell’anca e offre un’eccellente esposizione dell’acetabolo. La variante di Dall di questo approccio

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include la rimozione della porzione anteriore degli adduttori con un sottile strato di osso attaccato dal bordo anteriore del grande trocantere per facilitare la loro riparazione laterale; la funzione abduttoria è migliorata dopo il riattacco osseo delle porzioni anteriori di questi muscoli. Head e altri hanno invece usato una variante dell’approccio laterale diretto, in cui il paziente è in posizione laterale e il vasto laterale si riflette anteriormente in continuità con la cuffia anteriore degli abduttori: questo approccio permette un’esposizione molto maggiore del femore prossimale rispetto all’approccio di Hardinge ed è molto più appropriato per la revisione.

L’approccio posterolaterale, modificazione dell’approccio posteriore di Gibson e Moore, con la dislocazione posteriore dell’anca richiede il posizionamento del paziente lateralmente, ma non richiede la osteotomia di routine del grande trocantere. Quest’approccio è descritto con diversi dettagli perché è molto soddisfacente sia per la protesi primaria che per la revisione. Non è infatti compromessa la funzione abduttoria, ma del resto l’esposizione della parte anteriore dell’acetabolo può risultare difficile. Il tasso di lussazione postoperatoria è maggiore con l’approccio posterolaterale rispetto a quello anterolaterale o laterale diretto.

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