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Da Cavour a Renzi: l'evoluzione della figura del Pres. del Consiglio nella storia italiana

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Academic year: 2021

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INDICE

Premessa Pag. 4

1. Il ruolo del Presidente del Consiglio nell'epoca statutaria Pag. 6 1.1 La fase di stretta applicazione dello Statuto Pag. 6

1.2 La fase della sinistra al potere Pag. 9

1.3 La fase crispiana Pag. 10

1.4 L'età giolittiana Pag. 12

1.5 Il ventennio fascista Pag. 13

2. L'Organizzazione Ministeriale Pag. 14

3 Il ruolo del presidente del consiglio nell'esperienza repubblicana Pag. 17 3.1 Il presidente del Consiglio nel dibattito in Assemblea Costituente Pag. 17 3.2 La valorizzazione del ruolo del Presidente del Consiglio nel periodo

degasperiano Pag. 23

3.3 La lunga stagione del parlamentarismo consensuale Pag. 26 3.4 La necessità di dare attuazione al all’art. 95 Cost., 3° comma, Cost. Pag. 29 3.5 L’attuazione dell’art. 95 Cost.: la legge 23 agosto 1988, n. 400 Pag. 31 3.6 La sentenza n. 360/1996 della Corte Costituzionale: la reiterazione

dei decreti legge Pag. 35

4. Il cammino verso la democrazia maggioritaria Pag. 38 4.1 Il ruolo del Presidente del Consiglio nel sistema

“tendenzialmente maggioritario” Pag. 43

4.2 L’Ordinamento della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri:

i dd.llgs. nn. 300 e 303 del 1999 Pag. 44

4.3 L'organizzazione ministeriale (Brevi Cenni) Pag. 47 4.4 Il curioso caso del Governo Prodi: lo spacchettamento dei ministeri Pag. 50

4.5 Problematiche varie, alcune riflessioni Pag. 51

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4.5.2 Le crisi di Governo Pag. 52 4.5.3 Un'occasione mancata: l'istituto della sfiducia costruttiva Pag. 55 4.5.4 La mozione di sfiducia e la revoca nei confronti del singolo ministro Pag. 59 4.6 Il Presidente del Consiglio nell’attuale “crisi” politico-istituzionale Pag. 60

5 Le prospettive di riforma Pag. 61

5.1 L’esperienza del Governo Letta e la Commissione per le Riforme

Costituzionali Pag. 61

5.2 Il superamento del bicameralismo paritario, una più completa regolazione dei processi di produzione normativa e, in particolare,

una più rigorosa disciplina della decretazione di urgenza. Pag. 62 5.3 La discussione riguardo alla forma di governo in seno alla Commissione Pag. 66 5.3.1 La forma di governo parlamentare del Primo Ministro Pag. 67 5. 4 Le motivazioni dell'attuale progetto di riforma Pag. 69 5.5 Le linee di indirizzo dell'attuale progetto di riforma Pag. 70 5.6 I contenuti dell'attuale riforma costituzionale Pag. 72 5. 7 Un dibattito molto accesso riguardo all'attuale progetto di riforma Pag. 78 5.7.1 Il cammino della riforma: le modifiche approvate al testo in

prima lettura al Senato Pag. 79

5.7.2 Il progetto di riforma e le modifiche indirette sulla forma di

governo Pag. 81

5.7.3 Il senato delle autonomie ed il suo ruolo all'interno

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5.7.4 Il progetto di riforma e gli organi di garanzia costituzionale Pag. 89 5.7.5 la semplificazione amministrativa ed i rapporti tra lo Stato

e le autonomie territoriali Pag. 91

6 Una nuova legge elettorale: l'Italicum Pag. 92

6.1 La sentenza della Corte Costituzionale n.1 2014 Pag. 92 6.1.1. I vincoli per la stesura della nuova legge elettorale Pag. 102 6.2 Il modello “Italicum”: i principi fondamentali del testo di legge Pag. 111

6.3 L'Italicum e il suo funzionamento Pag. 114

6.4 L'Italicum allo specchio: Pregi e difetti dell'attuale proposta di

legge elettorale Pag. 116

6.5 Voto segreto e questione di fiducia, due forzature nel procedimento

di approvazione Pag. 117

6.6 L'italicum: i riflessi sulla forma di governo Pag. 120 6.7 Il sistema elettorale del “Sindaco d'Italia” Pag. 121 7 Il ruolo del leader verso il premierato assoluto? Pag. 122 7.1 L'odierna trasformazione del ruolo del Pres. del Consiglio verso il premierato? Alcuni fattori che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa transizione Pag. 125 7.2 il premierato assoluto, un 'evoluzione incompiuta Pag. 126

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Premessa

Questo lavoro di tesi si propone di indagare l'evoluzione del ruolo di Presidente del Consiglio avvenuta in Italia a partire dall'unificazione fino ad arrivare alle ultime vicende. Oggi tale figura si trova al centro dibattito proprio per la cronica debolezza degli esecutivi che si sono succeduti nella storia italiana. Da qui l'esigenza o l'auspicio di un rafforzamento della figura dl Pres. del Consiglio che sembra ormai improrogabile. La farraginosità dei processi legislativi, l'abuso della decretazione d'urgenza e della questione di fiducia, ma forse in modo ancor più grave l'alterazione della gerarchia delle fonti e le difficoltà nell'attuare una legislazione alluvionale confusa, sono i sintomi di un sistema che ha bisogno di radicali cambiamenti. L'attuale passaggio riformatore rappresenta infatti solo l'ultima tappa di un percorso lungo e tortuoso che pian piano cercheremo di ricostruire e che si auspica possa creare le condizioni necessarie per garantire un ciclo politico-istituzionale, economico e sociale più virtuoso e possa quindi rilanciare la competitività del Paese. In realtà riusciamo a comprendere meglio la questione se riconduciamo ad un unico disegno la riforma costituzionale, con i regolamenti parlamentari, ma soprattutto con la legge elettorale. Le modifiche in via indiretta sulla forma di governo previste dalla riforma costituzionale e il modello Italicum rispondo senza dubbio ad una logica unitaria: rafforzare l’efficienza dei processi decisionali e favorire la stabilità dell’azione di governo in modo da garantire quella rapidità e incisività delle decisioni che costituiscono la premessa indispensabile per agire con successo nel contesto della competizione globale. L'obiettivo sarà proprio quello di capire quali scenari si potrebbero aprire in seguito a tali modifiche e se saranno in grado di centrare l'ambizioso traguardo.

Per far questo sarà necessario però partire dall'epoca statutaria, infatti già nel neonato Stato italiano si riscontra il problema del riconoscimento di una posizione giuridica del Presidente del Consiglio. Aspettativa che però rimarrà per molti anni disattesa, tanto è vero che ben presto il nostro Paese conoscerà fenomeni che ne caratterizzeranno la storia istituzionale come l'avvento dei governi di coalizione, ma soprattutto per del c.d. Feudalesimo ministeriale, che contribuiranno a creare un clima di forte instabilità e che sarà alla base della svolta autoritaria fascista.

La questione rimarrà di primaria importanza anche con la svolta repubblicana, fondamentale in questo senso sarà proprio l'analisi del dibattito avvenuto in seno all'

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Ass. Costituente che porterà ad una soluzione conosciuta come proposta Perassi. Tale soluzione di fatto andrà a ricucire una spaccatura che si era creata tra due schieramenti opposti circa il riconoscimento di un rilievo costituzionale verso la figura del Pres. del Consiglio, ma rimarrà una posizione ambigua (per alcuni flessibile) che sì sarà in grado di adattare la figura alle esigenze dei vari contesti storici, ma che di fatto non permetterà un riconoscimento tale da garantire un effettivo potere di direzione e coordinamento sull'azione di Governo.. Sarà sempre in Assemblea Costituente che si affronterà per la prima volta il problema tra rappresentanza e governabilità che riaffiorerà più volte nel dibattito italiano

Il periodo successivo, l'età degasperiana, costituirà oggetto di un'attenta analisi data la presenza di alcune peculiarità che non si riscontreranno più nella esperienze successive e forse rappresenta il momento in cui la figura del nostro Pres. del consiglio più si è avvicinata alla figura del premier britannico. Negli anni successivi, si aprirà invece un periodo di forte instabilità politica e governativa ed in questa cornice, a risentirne maggiormente sarà proprio il ruolo del Presidente del Consiglio costretto a svolgere una continua mediazione tra le diverse componenti della maggioranza, ma anche tra le correnti del suo stesso partito. La paura che l'adozione di una certa linea politica potesse segnarne la sorte porterà infatti ad un progressivo indebolimento della sua figura e quindi ad una sostanziale incapacità di esercitare un potere di direzione e coordinamento nei confronti dei singoli ministri.

Negli anni '80 e '90 quindi nascerà l'esigenza di ristrutture l'impianto costituzionale per cercare di far uscire il Paese da quello stato di crisi semipermanente in cui era sprofondato, tentativi che però si concluderanno in nulla di fatto. L'unico intervento degno di nota, anche se non riuscirà a centrare pienamente gli obiettivi prefissati, sarà rappresentato dalla legge n. 400 del 1988 che, dopo un’attesa lunga quarant’anni, costituisce il provvedimento con cui il Parlamento ha dato finalmente attuazione all’art. 95, 3° comma, Cost..

L'altro passaggio importante è invece scandito dalla scelta operata a partire dal 2001 di indicare direttamente nel contrassegno elettorale di ciascuno schieramento politico il nome del candidato destinato a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio, pratica che assieme alla spettacolarizzazione della campagna elettorale e del dibattito politico ha portato alla creazione di leader facilmente vendibili mettendo così in secondo piano

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idee e programmi. Il tutto nel nome di una sorta di democrazia della diretta che sposta l'attenzione dalle piazze agli studi televisivi ed è fruibile comodamente dal divano di casa.

E' quindi indiscutibile come l'attuale passaggio riformatore unito alla nuova legge elettorale possa rappresentare quantomeno una speranza di cambiamento, pur consapevoli che da soli non riusciranno certo a risolvere la cronica fragilità degli esecutivi sempre più consapevoli che l'essenza del problema sia piuttosto da ravvisare nella crisi del sistema partitico.

1. IL RUOLO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NELL'EPOCA STATUTARIA

Nel corso del periodo statutario, l’apparato amministrativo a supporto del Presidente del Consiglio segue da vicino il concreto evolversi dei rapporti tra Re, Governo e Parlamen-to. È possibile individuare cinque fasi nelle quali tale struttura ha assunto caratteristiche diverse:

• fase di stretta applicazione dello Statuto, • il periodo della sinistra al potere,

• la fase crispina, • l’età giolittiana • il ventennio fascista.

1.1 La fase di stretta applicazione dello Statuto

Fino al 1876, non esisteva «un autonomo spazio» per la figura del Presidente del Consi-glio e, di conseguenza, mancavano completamente i presupposti per l’istituzione di un apparato operativo posto alle sue dirette dipendenze1. I protagonisti indiscussi del nuovo

sistema istituzionale, nonostante la forte personalità di Cavour, furono infatti il Re e il Parlamento2. Il riconoscimento di una posizione giuridica del Presidente del Consiglio, 1 I. Tucci, Aspetti storici del problema della Presidenza del Consiglio dei Ministri,in E. Spagna Musso

(cur.), Costituzione e struttura del Governo, il problema della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Padova 1979, p.31

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elemento fondamentale per la creazione di un apparato della Presidenza, venne ostacolato sia dal Parlamento, «geloso delle sue prerogative da poco strappate al potere sovrano», sia dal Re, non disposto a correre il rischio della creazione di un ulteriore centro di potere in grado di ridurre la sua influenza3.

La forma di governo rinvenibile nello Statuto albertino si basava su un sistema monarc-hico-rappresentativo (art. 2) nell’ambito del quale il potere esecutivo apparteneva al Re (art. 5), che lo esercitava per mezzo di ministri responsabili (art. 67) da lui nominati e revocati (art. 65)5. L’art. 67 non specificava, tuttavia, verso chi fosse operante tale re-sponsabilità: se nei soli confronti del Re, delle Camere, oppure di entrambi4. Da una

parte, infatti, in base all’art. 65, sembrava logico e corretto ritenere che quest’ultimi ri-spondessero del loro operato soltanto dinanzi al Re; dall’altra, visto il carattere rappre-sentativo dell’intero sistema sancito nell’art. 2, tale responsabilità si prestava ad essere configurata anche verso la Nazione e i suoi rappresentanti, tanto più che lo stesso Statu-to stabiliva espressamente che «le leggi e gli atti del Governo non hanno vigore se non sono muniti della firma d’un Ministro» (art. 67, 2° comma). Fin da quando si insediò il primo Governo Balbo apparve quindi naturale ricercare l’espressa fiducia da parte della Camera elettiva. Il passaggio dalla monarchia costituzionale pura alla monarchia parla-mentare non fu tuttavia istantaneo, bensì lento e graduale, con continui momenti evolu-tivi ed involuevolu-tivi5. Se da un lato, infatti, il rapporto tra Governo e Parlamento si delineò,

quasi immediatamente, secondo modalità che potevano dare l’idea della piena afferma-zione di un sistema parlamentare, se non altro perché la fiducia della Camera fu da subito ritenuta indispensabile; dall’altro lato, il Re conservò per lungo tempo una vera e propria ingerenza sulle prerogative proprie dell’Esecutivo, costretto ad una continua ricerca, soprattutto rispetto al gabinetto inglese, di un proprio spazio di manovra6.

D’altronde, in un quadro politico-costituzionale nel quale la base elettorale era limitata e disomogenea e i partiti politici si trovavano ancora in uno stato embrionale, il Re non poteva non continuare a svolgere un ruolo di primo piano. Basti pensare, ad esempio,

3 I. Tucci, Aspetti storici del problema della Presidenza del Consiglio dei Ministri,in E. Spagna Musso (cur.), Costituzione e struttura del Governo, il problema della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Padova 1979, p.32 e sul punto S.Merlini Il Governo Costituzionale p.24 sottolinea che “Carlo Alberto prima e Vittorio Emanuele II dopo, manifestano tutta lo loro ostilità verso una figura, che dentro il Consiglio dei Ministri, possa assumere la direzione del Governo.

4 R.Martucci, Storia costituzionale italiana dallo Statuto Albertino alla Repubblica, Roma 2002, p. 41 5 G. Maranini, Storia del potere in Italia,Firenze 1967, p .155

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come per lungo tempo, di fronte alla mancata definizione della titolarità della Presidenza del Consiglio, era il Sovrano stesso a presiedere il Consiglio dei Ministri; o ancora, al fatto che le dimissioni da parte del Presidente non comportavano automaticamente quelle del Governo nella sua interezza7 .

Nella prima fase dell’ordinamento statutario non esisteva dunque né un Presidente del Consiglio, né un Governo inteso come «organismo unitario», e se tale termine era utiliz-zato, come ad esempio negli artt. 59 e 60 dello Statuto, veniva implicitamente sottintesa l’aggiunta «Governo del Re»8. La sostanziale debolezza emergeva anche dalla tendenza

del Presidente del Consiglio ad assumere ad interim i ministeri più importanti (Interni, Esteri o un Ministero economico). Quasi tutti i Presidenti erano infatti consapevoli che per poter avere una qualche forma di superiorità politica all’interno del Consiglio dei Ministri occorreva disporre di uno o più apparati ministeriali9

Ciò detto, non mancarono in epoca statutaria iniziative volte a rafforzare il Governo e in particolare la figura del Presidente del Consiglio, vero punto debole del sistema delinea-to dallo Statudelinea-to. In quest’ottica vanno letti tutti quei decreti che, sulla base del modello inglese, hanno cercato a più riprese di definire un’area riservata all’indirizzo politico del governo: il decreto d’Azeglio del 1850, il decreto Ricasoli del 1867 (rimasto in vigore solo un mese e in parte ripreso dal decreto Depretis nel 1876), e il decreto Zanardelli del 1901. Tali provvedimenti si muovevano tutti in una duplice direzione: da un lato, ricon-durre nell’area di competenza del Governo tutte le questioni riguardanti l’organizzazio-ne dell’amministraziol’organizzazio-ne, la nomina degli alti funzionari dello Stato, l’ordil’organizzazio-ne pubblico e la politica estera; e dall’altro lato, garantire l’unità di azione dell’Esecutivo, valorizzan-do il ruolo del Consiglio dei Ministri10. Tuttavia, la mancanza in questa fase storica dei

grandi partiti di massa, portatori di un programma di governo comune in grado di impe-gnare l’azione politico-amministrativa di tutti i membri del Governo, finì per incorag-giare l’affermazione del c.d. “ministerialismo”. Non a caso, quando Ricasoli tentò, con il regio decreto 28 marzo 1867, n. 3619, di attribuire al Presidente un ruolo di supremazia all’interno del Consiglio dei Ministri, «si determinarono critiche

7 C. Colapietro, Il Governo e la Pubblica Amministrazione,in F. Modugno (cur.), Lineamenti di Diritto Pubblico, Torino2012, p. 359

8 C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Roma 1936 9 S. Merlini, Il Governo costituzionale, cit., p. 27. 10 S. Merlini, il Governo costituzionale, p. 178

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violentissime»11. Tale decreto, revocato appena un mese dopo da Rattazzi12, apparve fin

da subito prematuro13, non solo in riferimento all’interpretazione rigida dello Statuto, il

quale si limitava a menzionare il Re e i Ministri, ma anche in relazione al pensiero prevalente dell’epoca che configurava il Presidente in una posizione «paritaria e fungibile con quella degli altri Ministri»14.

1.2 La fase della sinistra al potere

Una prima distinzione istituzionale tra Parlamento, Re e Governo si cominciò a delineare soltanto nel 1876 con l’avvento al potere della sinistra. In questa seconda fase, il carattere composito della maggioranza e le continue ingerenze della Corona convinsero Depretis ad adottare il decreto 25 agosto 1876, n. 3289, che oltre ad indicare le materie da sottoporre alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, definiva anche i poteri del Presidente del Consiglio riconoscendogli, fra l’altro, il compito di mantenere l’uniformità dell’indirizzo politico-amministrativo dei Ministeri. Nelle intenzioni di De-pretis tale decreto doveva, innanzitutto, «trasformare la nuova amministrazione in un or-gano formalmente primus inter pares», e in secondo luogo, «accentuare l’autonomia del Governo nei confronti della Corona». Il Re, infatti, «avrebbe dovuto riconoscere che i Ministri, operanti sotto la direzione del loro Presidente e vincolati da una precisa re-sponsabilità politica nei confronti del Parlamento, esercitavano collegialmente il potere esecutivo e, pertanto, non potevano più essere considerati agenti subalterni del Sovrano, data la riconosciuta autorità del suo leader al quale dovevano far capo per ogni scelta e decisione politica riguardante il dicastero al quale erano preposti»15.

Questo riconoscimento, tuttavia, non determinò un rafforzamento della posizione del Presidente del Consiglio che rimaneva sostanzialmente debole. Rispetto al precedente decreto Ricasoli, il regio decreto n. 3289 del 1876 si preoccupava di introdurre alcune importanti modifiche «favorevoli alle prerogative della corona». Si pensi, ad esempio, all’art. 8 del decreto Ricasoli, che con una formulazione quasi identica all’attuale art. 92

11 P.A. Capotosti, Presidente del Consiglio dei Ministri, p.135

12 Il r.d. n. 3619 del 1867 venne abrogato poche settimane dopo le dimissioni di Ricasoli dalla carica di Presidente del Consiglio (10 aprile 1967) dal suo successore Rattazzi con regio decreto 28 aprile 1867, n. 3664.

13C. Mortati, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Roma 1936 14 P.A. Capotosti, Presidente del Consiglio dei Ministri, p.135

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Cost., attribuiva al Presidente del Consiglio il compito di proporre al Re la nomina dei Ministri nonché di controfirmare i relativi decreti. Il contenuto di tale articolo, che cir-coscriveva la prerogativa regia, venne infatti confermato soltanto nella parte in cui si at-tribuiva al Presidente del Consiglio il compito di controfirmare i decreti di nomina dei Ministri16.

L’attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di mantenere l’uniformità dell’indirizzo politico-amministrativo dei Ministeri presupponeva inoltre la creazione di una struttura amministrativa che fosse in grado di predisporre tutta l’attività preparatoria e strumentale connessa con tale potere, che «non poteva più continuare ad essere espli-cata dal personale del Ministero di cui era titolare di volta in volta il Presidente stesso»17.

Depretis aveva cercato, invece, di istituire un vero e proprio Ministero della presidenza del consiglio presentando alla Camera un progetto di legge (mai approvato) intitolato «Determinazione del numero dei Ministeri ed istituzione del Consiglio del tesoro». Nel-la reNel-lazione di presentazione del disegno di legge Depretis spiegò che il Ministero delNel-la presidenza del consiglio era necessario per mantenere, tra i vari dicasteri, «la maggior possibile uniformità di criteri nelle questioni politiche e istituzionali e nelle materie atti-nenti alle legislazioni e alle basi costitutive dell’amministrazione».

Complessivamente, la resistenza dei singoli Ministri ad assumere un ruolo gerarchicam-ente inferiore al Presidgerarchicam-ente del Consiglio, la difficoltà dell’ambigerarchicam-ente politico a riconos-cere un ruolo di supremazia al Primo Ministro, determinarono la sostanziale inattuazio-ne del decreto del 1876, che rimase inattuazio-nei fatti «lettere morta»18.

1.3 La fase crispiana

A partire dal 1887 la situazione cambiò radicalmente. Crispi, succeduto a Depretis nella carica di Presidente del Consiglio, consapevole delle difficoltà legate al consolidamento della Presidenza mediante lo strumento legislativo, si rivolse al Re per stabilire con re-gio decreto l’assetto della sua segreteria (rere-gio decreto 4 settembre 1887, n. 4936). Tale decreto, in realtà, non era finalizzato a dotare il Presidente di un’adeguata struttura di

16 S. Merlini, Il Governo costituzionale, p. 25

17 E. Rotelli, La Presidenza del Consiglio dei Ministri, il problema del coordinamento

dell’amministrazione centrale in Italia (1848-1948), Milano 1972, p.80

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segreteria in grado di supportare la sua attività, ma, piuttosto, a sottrarre al Parlamento la materia relativa all’organizzazione dell’amministrazione centrale dello Stato. Per il perseguimento di questo obiettivo Crispi aveva utilizzato un espediente di natura giuri-dica, cioè la necessità di ristabilire «la rigida applicazione dei principi dello Statuto in base ai quali, l’organizzazione del potere esecutivo, ivi compresa quella della Presiden-za del Consiglio, spettavano al Re». Si trattava dunque di «una prova di forPresiden-za» da parte del potere esecutivo nei confronti del Parlamento che solo formalmente era stata avviata dalla Corona19 .

Con la legge 12 febbraio 1888, n. 5195, Crispi ottenne dal Parlamento il riconoscimento dell’autonomia organizzativa del Governo. Tale legge si componeva di due soli articoli: nel primo si affermava che «il numero e le attribuzioni dei Ministeri sono determinati con decreto reale», nel secondo si introduceva per ogni Ministero un Sottosegretario di Stato, al quale veniva attribuito il compito di sostenere la discussione degli atti e delle proposte del ministero nel ramo del Parlamento di appartenenza.

Tuttavia, il precario equilibrio del sistema politico-istituzionale suggerì a Crispi di non adottare alcun provvedimento, per non portare «alle estreme conseguenze una norma ot-tenuta con fatica e suscettibile di approfondire lacerazioni esistenti». La legge crispina finì, in ogni caso, per portare al centro del dibattito politico-istituzionale il problema dell’egemonia dell’esecutivo e in particolare del predominio della volontà del Presiden-te del Consiglio. Negli anni successivi assunse così un grande rilievo il decreto 14 no-vembre 1901, n. 466 (c.d. decreto Zanardelli)20.

Con tale provvedimento si chiarirono, da un lato, i poteri attribuiti al Consiglio dei Mi-nistri, attraverso l’espressa previsione delle materie di sua competenza e, dall’altro lato, si cercò di valorizzare la figura del Presidente del Consiglio, ribadendo il potere-dovere del Presidente di mantenere l’uniformità di indirizzo politico e amministrativo dei Mini-steri. Tale valorizzazione, tuttavia, non essendo accompagnata dalla creazione di una struttura in grado di supportare l’attività del Presidente del Consiglio, finì per potenziare il principio collegiale.

19 I. Tucci, Aspetti storici del problema della Presidenza del Consiglio dei Ministri,in E. Spagna Musso (cur.), Costituzione e struttura del Governo, il problema della Presidenza del Consiglio dei Ministri,

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1.4 L'età giolittiana

Durante l’età giolittiana una qualche forma di prevalenza del Presidente del Consiglio fu comunque possibile grazie al continuo sforzo del Presidente stesso «di riportare la base della sua autorità e la fonte della sua legittimazione in Parlamento», dove poteva contare su «solide maggioranze parlamentari» create attraverso «operazioni di vertice» e «ac-cordi personali»21.

Una significativa evoluzione del ruolo del Presidente del Consiglio si ebbe nel 1913 con l’introduzione del suffragio universale maschile e la conseguente avanzata dei partiti di massa. Subito dopo le elezioni politiche, emersero infatti le prime difficoltà da parte del Presidente del Consiglio nel costruire maggioranze parlamentari basata su logiche personali. Questo sistema di «personalizzazione della vita politica» entrò definiti-vamente in crisi nel 1919 con l’introduzione del sistema elettorale proporzionale. Le nuove elezioni determinarono uno «stravolgimento della tradizionale geografia par-lamentare» aggravando in maniera irreversibile la crisi politico-costituzionale dello Stato liberale22. Si affermò, infatti, un sistema pluripartitico caratterizzato da una

«elevata polarizzazione ideologica», che impediva «la tradizionale manipolazione giolittiana»23

A partire dal 1919, la formazione dei governi si caratterizzò soprattutto per le lunghe ed estenuanti trattative tra l’incaricato alla presidenza e le varie forze politiche non solo in relazione al programma di governo, ma soprattutto per la distribuzione dei Ministeri e per la scelta dei singoli Ministri, fino al punto che quest’ultimi divennero dei veri e pro-pri rappresentanti dei partiti di appartenenza24. L’affermazione dei governi di coalizione

finì per favorire il c.d. “feudalesimo ministeriale”, a scapito sia del principio di collegia-lità che dell’autonomia del Presidente del Consiglio, ridotto ormai a «supremo modera-tore e conciliamodera-tore dei gruppi»25.

21 G. Pitruzzella, Il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’organizzazione del Governo, Padova 1986 p. 19

22 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848/1994, Roma-Bari 2007, p. 167

23 G. Pitruzzella, Il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’organizzazione del Governo, Padova 1986 p. 21

24 Colapietro C., Il Governo e la Pubblica Amministrazione,in F. Modugno (cur.), Lineamenti di Diritto Pubblico, Torino, 2012 , p.360

25 G. Ambrosini, La trasformazione del regime parlamentare e del governo di gabinetto, in “Il circolo giuridico”, 1922, p. 104

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1.5 Il ventennio fascista

Subito dopo la fine del conflitto, cominciò a farsi strada l’idea che solo un governo “for-te” avrebbe potuto rispondere in maniera adeguata alle crescenti difficoltà economiche e sociali che stava attraversando il Paese.

A segnare l’inizio del mutamento di regime, fu sicuramente la marcia su Roma del 1922 e la successiva nomina di Mussolini quale Presidente del Consiglio. Da un punto di vi-sta normativo, la definitiva trasformazione del ruolo del Presidente del Consiglio si rea-lizzerà, tuttavia, solo dopo l’approvazione delle c.d. legge “Rocco” sulle attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo26.

La legge 24 dicembre 1925, n. 2263, modificava profondamente i rapporti tra il Presid-ente del Consiglio e i Ministri, garantendo al primo «poteri e prerogative estranei alla tradizione e alla prassi seguita fino al 1922», che ne aveva fatto un primus inter pares27.

Il Presidente del Consiglio si trasformava in un autentico “Capo gerarchico” rispetto al quale i Ministri risultavano «semplici esecutori di ordini»28. La responsabilità dei

Mini-stri, nominati e revocati dal Re su proposta del Capo del Governo, veniva inoltre estesa anche nei riguardi del Primo Ministro. Con l’attribuzione al Capo del Governo della pie-na responsabilità dell’indirizzo politico generale del Governo, lo stesso Consiglio dei Ministri si trasformava in un organo con funzioni prevalentemente consultive. La c.d. “legge Rocco” non si limitò peraltro a disciplinare i rapporti tra gli organi di governo, ma realizzò una vera e propria rottura della forma di governo parlamentare instauratasi nel periodo statutario. In particolare, il suddetto provvedimento subordinava il potere le-gislativo completamente alla volontà dell’Esecutivo: da un lato, escludendo qualsiasi forma di relazione fiduciaria tra Governo e Parlamento, e dall’altro lato, affidando al Capo del Governo penetranti poteri di condizionamento dell’attività legislativa29. Si

pensi, ad esempio, al potere attribuito al Primo Ministro di fissare l’ordine del giorno delle Camere, o ancora, al potere di richiedere – entro tre mesi – il riesame da parte del-l’Assemblea delle proposte respinte da uno dei rami del Parlamento.

26 S. Labriola, Storia della Costituzione italiana, Napoli 1995, p. 240

27C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848/1994, Roma-Bari 2007, p. 167

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2 L'ORGANIZZAZIONE MINISTERIALE

Ripercorrendo l'epoca statutaria, possiamo ricostruire brevemente anche gli effetti che i mutamenti dell'organizzazione ministeriale hanno avuto sull'organizzazione del Gover-no e soprattuto sulla figura del Pres. del Consiglio.

Cavour al fine di ribadire la competenza dell’Esecutivo di disporre, regolare e organiz-zare l’amministrazione, il 5 marzo 1852, presentò al Parlamento subalpino un progetto di legge intitolato “Ordinamento dell’amministrazione centrale dello Stato, della

conta-bilità generale e della Corte dei conti”con il quale, da un lato, si permetteva al

Parla-mento di esprimersi sui principi con cui il Governo intendeva ordinare l’amministrazio-ne e, dall’altro lato, si conferiva all’Esecutivo il potere di completare il disposto legisla-tivo mediante regolamenti. La riforma proposta da Cavour era strettamente connessa con il nuovo ordinamento costituzionale delineato nel 1848 dallo Statuto albertino. La soluzione adottata prevedeva infatti l’abolizione del modello organizzativo misto (Aziende e Ministeri) vigente nel Piemonte pre-costituzionale30 e l’introduzione di un

nuovo sistema, di tipo gerarchico-piramidale, in grado di garantire il controllo dell’am-ministrazione da parte del Governo. La necessità di affidare al Ministro la piena respon-sabilità del proprio dicastero rispondeva all’esigenza di «collegare questi ultimi al Go-verno e, conseguentemente, al Parlamento, del quale il GoGo-verno era espressione». I prin-cipi che ispirarono la riforma cavouriana miravano, da un lato, a garantire l’omogeneità organizzativa dell’amministrazione e, dall’altro lato, l’attribuzione al Ministro – nella sua “duplice veste” di vertice politico e vertice amministrativo La riunificazione della responsabilità politica e gestionale nella figura del Ministro poteva infatti realizzarsi solo attraverso l’abolizione delle aziende e il passaggio delle loro competenze sotto la diretta responsabilità del Ministro. Il sistema proposto da Cavour derivava sia dalla tra-dizione sabauda, di stampo gerarchico-militare, sia dal modello napoleonico, ampia-mente diffuso in tutta Europa. Alle strette dipendenze del Ministro, «centro dell’azione amministrativa», la riforma prevedeva poi la figura del Segretario generale. Quest’ulti-mo «doveva assicurare che le direttive del Ministro discendessero nei livelli sottostanti sino a raggiungere (…) i gradini più bassi; i direttori generali, subito sotto il Segretario generale, avrebbero avuto responsabilità di dirigere più divisioni, esercitando la loro competenza su un complesso di materie omogenee. Quindi una struttura di questo tipo,

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garantiva l’esecuzione meccanica degli ordini impartiti dal Ministro, unico responsabile dell’attività di direzione e di esecuzione del dicastero.

Nel 1884 Depretis, che aveva assunto nuovamente la carica di Presidente del Consiglio già dal 1881, presentò alla Camera un progetto di legge per il «Riordinamento dell’am-ministrazione centrale». La riforma si proponeva non tanto di regolare i rapporti tra go-verno e amministrazione – ma piuttosto della distribuzione delle competenze. In partico-lare, il progetto Depretis prevedeva l’istituzione del Ministero della presidenza del con-siglio, di un Ministero delle poste e telegrafi, di un Consiglio del tesoro nonché la crea-zione della figura dei Sottosegretari di Stato.

Altra tappa fondamentale di questo cammino è data dal progetto di legge intitolato «Riordinamento dell’amministrazione centrale dello Stato». Tale progetto, organizzato in cinque articoli prevedeva, l’istituzione del Ministero della presidenza del consiglio, conferiva al Governo il potere di accrescere o diminuire il numero dei Ministeri median-te decreti reali e introduceva la figura del Sottosegretario di Stato. Tuttavia, dopo un ampio dibattito parlamentare venne ridotto a soli due articoli: il primo stabiliva che «il numero e le attribuzioni dei Ministeri sono determinati con decreto reale», il secondo in-troduceva la figura del Sottosegretario di Stato conferendo al Governo il compito di di-sciplinare, mediante regio decreto, le relative competenze e attribuzioni.

Durante l'età giolittiana, gran parte dell'attenzione fu spostata essenzialmente sull'attri-buzione della competenza circa la determinazione del numero dei Ministeri. In questo frangente storico, si volle restituire come sottolineò lo stesso Pelloux nella relazione di presentazione del disegno di legge – «al potere legislativo una facoltà (…) da esso inseparabile per evidenti ragioni di ordine politico e finanziario». Lo stesso Pelloux ri-cordò come fu eccessivo ciò che la legge 12 febbraio 1888, n. 5195, che aveva concesso al Governo: la facoltà, a suo avviso eccessiva, di stabilire con decreti reali il numero dei Ministeri. Il testo venne poi ripresentato da Saracco prima e Zanardelli dopo riuscendo a completare il suo iter solo nel Luglio del 1904. fu sancito così la definitiva competenza del Parlamento in ordine alla determinazione del numero dei Ministeri. Complessiva-mente, nel periodo in esame, si contrapposero due fondamentali correnti di pensiero. Da un lato vi erano i sostenitori della legge crispina che richiamavano il principio della di-visione dei poteri. Da tale principio «facevano discendere la facoltà del potere esecutivo di organizzarsi nel modo che credeva migliore», anche perché «gli eventuali abusi da

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parte dell’esecutivo» potevano essere contrastati dal Parlamento attraverso la legge di bilancio, negando i relativi fondi per il funzionamento dei nuovi apparati. Dall’altro lato vi erano, invece, i «fautori della competenza legislativa», le cui ragioni, con l’approvazione della legge n. 372 del 1904, finirono per prevalere. Quest’ultimi sostenevano che «la divisione dei poteri non andava intesa nel senso meccanico di un’assoluta separazione». In realtà «l’ordinamento dei Ministeri non era un provvedimento di pura natura amministrativa, ma anche di ordine costituzionale, essendo fondamentale per tutto l’ordinamento dello Stato». Quanto alla legge di bilancio evidenziavano il pericolo che tale legge potesse trasformarsi nella «legge delle leggi» rendendo inutili tutte le altre. Infine, prospettavano il rischio che il sistema di creazione dei Ministeri, mediante decreto reale, «potesse dar luogo a gravi e arbitrarie alterazioni nell’ordinamento amministrativo»31

Con l’avvento al potere del fascismo, nella logica della supremazia dell’Esecutivo, non poteva non prevalere il principio già sostenuto da Crispi, secondo il quale la materia re-lativa all'organizzazione ministeriale non poteva che essere competente l'Esecutivo stesso. Nel 1922, una volta assunto l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri, Mussolini ottenne, con l’approvazione della legge 22 novembre 1922, n. 1722, i “pieni poteri” per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione. al-l’organizzazione del governo fosse di competenza esclusiva del Governo. Nel 1926 con l’approvazione delle c.d. leggi “fascistissime”, (legge 24 dicembre 1925, n. 2263, e leg-ge 31 leg-gennaio 1926, n. 100) venne sancito il definitivo «arretramento» del potere legi-slativo in favore dell’esecutivo adeuando «la struttura dell’ordinamento statale alle aspi-razioni autoritarie del partito e del suo leader»32. Ne scaturì un mutamento radicale

del-l’ordinamento costituzionale, che assunse le caratteristiche di un vero e proprio “Regi-me del Capo del Governo”33. La prima di queste leggi risolveva innanzitutto a favore

dell’Esecutivo la competenza nell’organizzazione delle strutture governative rimettendo il numero e le attribuzioni dei Ministeri a decreti reali (art. 4).Il vero obiettivo della leg-ge n. 100 del 1926 era infatti quello di marginalizzare il ruolo del Parlamento trasfor-mando il Governo nel vero centro di produzione normativa. In particolare, le disposizio-ni contenute nella suddetta legge incidevano, da un lato, sul potere regolamentare e,

dal-31 E. Gatta, Ministero e Ministro, Torino 1957, p. 723

32C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848/1994, Roma-Bari 2007, p. 167

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l’altro lato, sulla potestà normativa primaria.

Per quanto concerne la potestà normativa primaria, la legge n. 100 del 1926 disciplinava per la prima volta la delega legislativa e la decretazione d’urgenza nel tentativo, solo apparente, di codificare la prassi dell’Italia liberale. In base a quanto stabilito dall’art 3 del suddetto provvedimento si riconosceva in primo luogo al Governo la possibilità di deliberare decreti legislativi, fondati su una legge delega e nel rispetto dei limiti che la stessa stabiliva. Sicuramente più innovativo era il riconoscimento al Governo del potere di emanare decreti legge nei casi di urgenza e assoluta necessità. Per evitare il controllo giurisdizionale, la legge stabiliva innanzitutto che solo il Parlamento poteva sindacare l’effettiva sussistenza di tali presupposti34 .Veniva poi escluso l'obbligo dell’immediata

presentazione del decreto alle Camere per l’eventuale conversione, che andava effettuata entro un termine decisamente lungo (due anni). In caso di mancata con-versione, la decadenza del decreto aveva infine efficacia solo ex nunc. Complessiva-mente, l’assenza «dei limiti delle materie per le quali erano ammessi i decreti legge e l’ampio margine di tempo per la loro conversione vanificarono nella pratica le garanzie con le quali il legislatore aveva cercato di limitare l’uso del decreto legge»35.

In conclusione, il radicale cambiamento nella funzione legislativa realizzato dalla legge n. 100 del 1926 scaturì un sistema nel quale il Governo poteva finalmente disporre di un potere illimitato e fuori da ogni controllo, mentre il Parlamento veniva ridotto ad un ruolo del tutto secondario.

3 IL RUOLO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NELL'ESPERIENZA RE-PUBBLICANA

3.1 Il presidente del Consiglio nel dibattito in Assemblea Costituente

Il dato di partenza per poter analizzare la figura del Presidente del Consiglio dei Ministri nel periodo repubblicano è rappresentato sicuramente dal dibattito che si tenne in sede di Assemblea costituente intorno all’art. 95 della Costituzione. A condizionare in modo determinante le scelte dei Padri costituenti fu soprattutto la necessità di adottare un

mo-34 S. Labriola, Storia della Costituzione italiana, Napoli1995, p. 244

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dello nettamente alternativo rispetto alla precedente esperienza fascista, che aveva visto l’avvento del «Regime del Capo del Governo»36.

Prima ancora che in Assemblea costituente, la Sottocommissione “Problemi

Costituzio-nali” pur riconoscendo che «in tutti gli Stati a forma parlamentare (…) il Capo del

Go-verno è qualcosa di più che un primus inter pares» – evidenziò «che non convenisse stabilire legislativamente tale preminenza»37. In seno alla Sottocommissione, la suddetta

proposta fu oggetto di una vivace discussione che vide contrapporsi due opposti indiriz-zi: il primo, sostenuto dagli onorevoli Lussu, Tosato e Mortati, sottolineava la necessità di riconoscere al Presidente del Consiglio un rilievo costituzionale autonomo o comun-que preminente rispetto agli altri Ministri, in modo da assicurare stabilità al Governo; il secondo, che aveva negli Onorevoli Terracini e La Rocca i suoi principali esponenti, era invece favorevole ad una soluzione collegiale. A mediare tra questi due orientamenti fu la successiva proposta dell’On. Perassi che, da un lato, sostituiva l’espressione «è

re-sponsabile» contenuta nell’originale formulazione dell’art. 20 con il termine «dirige» e,

dall’altro lato, integrava l’art. 19 del progetto specificando che «il Primo Ministro e i

Ministri sono collegialmente responsabili della politica generale del Governo e ciascu-no di essi degli atti di sua competenza».

In Aula furono respinti sia l’emendamento del partito comunista diretto a rimuovere la figura del Primo Ministro, di cui era primo firmatario l’On. La Rocca, sia quello presen-tato dal partito socialista, che eliminava la responsabilità del Primo Ministro per la dire-zione della politica generale. Fu invece accolto l’emendamento Costa che sostituiva l’e-spressione «Primo Ministro» con quella di «Presidente del Consiglio». L’ampio dibatti-to non portò tuttavia all’affermazione né del principio monocratico, né del principio col-legiale: si mantenne, infatti, «una situazione di incertezza» per la presenza di principi difficilmente conciliabili tra loro38. Nel periodo successivo alla fase costituente,

l’ambi-guità del dettato costituzionale ha condotto la dottrina a sostenere differenti tesi sul mo-dello di governo accolto in Costituzione. Si distinguono, in particolare, tre fondamentali ricostruzioni: a) una prima linea interpretativa che ha esaltato il principio monocratico sostenendo la supremazia del Presidente del Consiglio; b) un secondo orientamento, che in aperta contrapposizione al periodo fascista, ha invece sostenuto la prevalenza del

36 C. Mortati, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Roma 1936,

37 Ministero per la costituente-commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello stato, Relazione

all’Assemblea costituente

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principio collegiale; c) un terzo indirizzo, infine, che non ha aderito né alla linea mono-cratica né a quella collegiale, attestandosi su una posizione mediana39.

Secondo il primo orientamento, il Presidente del Consiglio verrebbe a costituire il vero interprete dell’indirizzo governativo essendo responsabile della politica generale del Governo. Pur riconoscendo infatti che «l’indirizzo generale politico e amministrativo cui il gabinetto si deve uniformare non può essere espressione del Presidente del Consi-glio», ma del Consiglio dei Ministri, si evidenzia che «le linee generali di tale indirizzo precedono in certo modo la stessa compagine del gabinetto, come risulta dal fatto che la designazione del Presidente da parte del Capo dello Stato, prima della scelta dei Mini-stri, è fatta in considerazione degli orientamenti di cui lo stesso è ritenuto esponente»40.

Il secondo orientamento ha invece posto l’accento sul principio collegiale qualificando il Presidente del Consiglio come primus inter pares. Né il Presidente del Consiglio, né tantomeno i singoli Ministri, si troverebbero in una posizione tale da poter imporre un proprio programma politico41. In mancanza di effettivi poteri sanzionatori, il Presidente

del Consiglio potrebbe contrastare le iniziative politiche assunte dal Consiglio dei Mini-stri soltanto al «prezzo delle sue dimissioni». Ne consegue che «la parte essenziale del suo sforzo deve dunque tendere a far prevalere il principio collegiale»42.

Il terzo orientamento, che sembra essere il più convincente, anche alla luce dei lavori dell’Assemblea costituente, esclude sia la prevalenza del principio monocratico sia di quello collegiale ravvisando «una compresenza» nella norma costituzionale di entrambi i principi: se da un lato non sembra possibile affermare la netta prevalenza del Presiden-te del Consiglio, dal momento che a quest’ultimo spettano autonomamenPresiden-te solo poPresiden-teri di coordinamento, direzione e promozione, e non di determinazione; dall’altro lato, l’at-tribuzione al Presidente del Consiglio della responsabilità della politica generale del Go-verno non sembra far prevalere neanche la tesi opposta. Dall’art. 95 si desume, infatti, che «la direzione e il coordinamento unitario dell’indirizzo governativo» spettano al Presidente del Consiglio, mentre «la determinazione dell’indirizzo stesso» è senz’altro attribuita alla competenza collegiale del Consiglio dei Ministri43.

Secondo questo indirizzo, l’art. 95 Cost. – contemperando al suo interno

monocratici-39 G. Staderini, L’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri,Padova 1979, p.207 40 C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1969,

41 P.A. Capotosti, Presidente del Consiglio dei Ministri,Milano, 1986, pag 140. 42 L. Paladin, Governo italiano, in Enc. Dir.,Vol. XIX, Milano, 1976, 706 ss.

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smo e collegialità – sarebbe dunque una norma «elastica» in grado cioè di adattarsi al mutare della situazione politica44. La normativa costituzionale dedicata al Presidente del

Consiglio, lascia aperta la strada a diverse soluzioni, in funzioni degli equilibri che di volta in volta si realizzano tra le diverse forze politiche.

Strettamente legato poi alla struttura del Parlamento vi era la questione dei principi co-stituzionali in tema di rappresentanza politica. L'art.5 prevedeva infatti che la Camera fosse eletta a suffragio universale e diretto, furono però presentati diversi emendamenti ma con la conclusione di non privilegiare all'interno della Costituzione un sistema elet-torale piuttosto che un altro45 . Si arrivò a tale conclusione per “ragioni tecniche”, ma in

realtà: nella seconda sottocommissione era già affiorato, in realtà, a proposito dei siste-mi elettorali, lo scontro fra i grandi partiti di massa, tutti favorevoli al proporzionale di lista, ed i partiti minori, soprattutto quelli di tradizione liberale e liberale democratica, favorevoli, invece, all’uninominale e, quindi, ad un sistema tendenzialmente maggiori-tario46. La partita però non si stava giocando soltanto sulla scelta del sistema elettorale

per la Camera, ma anche sulla composizione del Senato , fra la DC, orientata a favore di una composita rappresentanza degli interessi sociali e politici, e i comunisti e socialisti favorevoli, invece, ad un Senato che rappresentasse solo gli interessi politici generali del Paese.

La discussione si spostò poi sui rapporti fra elettori ed eletto e quindi sull'eventuale grandezza dei collegi elettorali. Secondo Togliatti l'esigenza doveva essere quella di non distaccare troppo l'eletto dall'elettore perché in questo modo sarebbe divenuto soltanto il rappresentante di un partito e non più di un rappresentante di una massa vivente che egli in qualche modo deve conoscere e con la quale egli deve avere rapporti personali e di-retti47. Su questo punto vi era piena coincidenza anche con le esigenze e le opinioni dei

democristiani e dei socialisti e, più in generale, con quella “convenzione proporzio-nalistica” che tendeva ad allargare al massimo la partecipazione politica attraverso il si-44 G. Staderini, L’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Padova. 1979

45 L’on. Antonio Giolitti (appartenente al gruppo del PCI) presentò un emendamento in base al quale dopo le parole suffragio universale e diretto si sarebbe dovuto aggiungere la frase “...e segreto, secondo il sistema

proporzionale”; emendamento che fu giustificato proprio in considerazione “...della influenza grandissima del sistema di elezione sulla fisionomia della rappresentanza...”e perché il sistema proporzionale era quello che consnsentiva “ di esprimere nella assemblea legislativa la reale influenza che i partiti hanno nel Paese...”.

Sul punto S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema della elettività del Senato della Repubblica) , pubblicato in www.Osservatoriosullefonti.it.

46 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

della elettività del Senato della Repubblica) , pubblicato in www.Osservatoriosullefonti.it.

47 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

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stema dei partiti e che aveva consentito, dopo l’unanimismo del CLN, di eleggere la Co-stituente e di iniziare il processo di ricostruzione di uno Stato democratico48. La legge

elettorale per la Camera, approvata dalla stessa Costituente avrebbe, poi, cercato un compromesso, che avrebbe unito lo scrutinio di lista nazionale al sistema delle preferen-ze: cosicché l’eletto avrebbe potuto , come rappresentante del partito, interpretare le istanze politiche generali del corpo elettorale e interpretare, invece, come designato at-traverso il sistema delle preferenze, le esigenze di quella parte dell’elettorato che egli “doveva conoscere e con la quale egli doveva avere rapporti personali e diretti”.

Più complessa è la questione riguardante la composizione e l' elezione del Senato, il testo dell’art. 55 del Progetto di Costituzione prevedeva che quest'ultimo fosse eletta su base regionale; che a ciascuna regione, salvo la valle d’Aosta, fossero attribuiti almeno cinque senatori, più un senatore ogni duecentomila abitanti o frazione superiore a centomila e che nessuna regione potesse avere un numero di senatori superiore a quello dei suoi deputati eletti nell’altra camera. Per quello che riguarda il sistema di elezione, il terzo comma dell’art. 55 prevedeva che i senatori fossero eletti per un terzo dai membri del consiglio regionale e per due terzi, a suffragio universale e diretto, dagli elettori che avessero superato il venticinquesimo anno di età. All'interno della a Commisssione dei 75 a proposito del Senato stava, in realtà, una concezione profondamente diversa della stessa idea della rappresentanza che si sarebbe dovuta esprimere nella seconda camera. Camera che avrebbe dovuto esprimere, secondo il progetto elaborato da Mortati, una pluralità di diversi interessi: da quelli delle diverse categorie professionali, a quelli più specificamente territoriali fino a quelli che richiedevano il concorso di speciali competenze per l’attività legislativa49. Dopo che l'ordine del giorno Piccioni-Moro50 fu

respinto la discussione riprese in merito a tre punti salienti: la “base regionale” del Senato; un numero minimo di senatori attribuito a ciascuna regione; un sistema di elezione “misto” dei senatori:eletti per un terzo dai consigli regionali e per due terzi

48 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

della elettività del Senato della Repubblica) , pubblicato in www.Osservatoriosullefonti.it.

49 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

della elettività del Senato della Repubblica) , pubblicato in www.Osservatoriosullefonti.it.

50 L'emendamento prevedeva che la se conda camera avrebbe risposto “...alla necessità di integrare la

rappresentanza politica in modo che essa rispecchi la realtà sociale nelle sue varie articolazioni e tutti gli interessi politicamente rilevanti (…) chiamando a partecipare alla seconda camera i gruppi nei quali spontaneamente si ordinano le realtà sociali (…) secondo un criterio di ripartizione a base territoriale regionale (…) mediante elezioni a doppio grado (ispirate al) criterio della proporzione con l’entità numerica delle categorie, insieme a

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dagli elettori a suffragio universale e diretto51.

In quest'ottica si mosse l'emendamento Nitti, infatti per controbilanciare una prima Ca-mera eletta con un sistema proporzionale che si traduceva in un predominio dei partiti più che degli elettori, Nitti propose un Senato che avrebbe dovuto essere eletto sulla base di un senatore ogni duecentomila abitanti (salvo la attribuzione ad ogni regione di almeno tre senatori) attraverso circoscrizioni elettorali che dovevano eleggere un solo senatore ciascuna, mentre si prevedeva che i senatori elettivi durassero in carica sei anni e che fossero rinnovabili per un terzo ogni due anni. Tale emendamento ebbe il merito di cambiare radicalmente il rapporto tra Stato e Regioni rispetto a quello sinora contenuto nel progetto di Costituzione in quanto le regioni non sono state da noi configurate come organi di potere politico. “Noi non abbiamo creato uno Stato federale per cui debba di-scenderne naturalmente una rappresentanza delle regioni nella seconda camera. Noi ab-biamo creato la regione come ente puramente autonomo ed incluso nell’unità politica dello Stato”52. Il numero fisso di cinque senatori per ogni Regione doveva essere letto

come la volontà di “rafforzare le Regioni”, ed in particolare quelle più piccole, evitando che la voce dei loro senatori (comunque eletti) diventasse irrilevante nel confronto nu-merico con i senatori eletti dalle Regioni maggiori.

La questione fu molto dibattuta e altri ordini del giorno furono presentati, ma il proble-ma che fu definitivamente risolto solo nella seduta del 7 ottobre con la approvazione (190 voti favorevoli e 181 contrari) di un nuovo o.d.g. presentato, ancora, a nome di Nitti (ma sottoscritto, fra gli altri, da Laconi, Togliatti, Bozzi, Perrone Capano, Colitto) nel quale si affermava: “La Assemblea Costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale”53. Fu poi accetta la

proposta di Alberti di nominare nel Senato, come senatori a vita, gli ex presidenti della Repubblica e di consentire al capo dello Stato di nominare cinque senatori a vita fra cittadini che avessero illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Ugualmente, una volta escluso il principio della elezione dei senatori da parte dei consigli regionali, la Assemblea non incontrò difficoltà nell’aderire alle richieste di Mortati di assicurare a tutte le regioni, anche alle più

51 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

della elettività del Senato della Repubblica) , pubblicato in www.Osservatoriosullefonti.it.

52 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

della elettività del Senato della Repubblica) , pubblicato in www.Osservatoriosullefonti.it.

53 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

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piccole, esclusa la Valle d’Aosta, un numero minimo di sette senatori.

Sarà poi la legge 6 Febbraio n.1948 n.29 a stravolgere il significato della elezione del Senato con suffragio universale diretto ed in base al collegio uninominale deliberata, nella seduta del 7 ottobre 1947. Si ottenne infatti ciò che desideravano alcuni dei partiti di massa e, fra essi, quelli che avevano condotto una tenace opposizione ad una signifi-cativa differenziazione fra il sistema elettorale della Camera e quello del Senato: la uni-ficazione del sistema politico italiano attraverso la intermediazione necessaria ed unifi-cante dei partiti malgrado la presenza del collegio uninominale. Se è vero, infatti, che la elezione del Senato rimase caratterizzata, fino alla riforma del 1993 dalla presenza del collegio uninominale, il principio dell’obbligo di collegamento fra i candidati introdus-se, di fatto, nella elezione del Senato quel principio della lista di partito sul quale si sa-rebbero fondate anche le elezioni della camera dei deputati e il sistema elettorale fu, così, riunificato attorno alla competizione fra i partiti, mettendo in secondo piano quella composizione fra i candidati che era, invece, fondamentale nelle prospettive di Nitti e nella sua idea del Senato di garanzia54.

3.2 La valorizzazione del ruolo del Presidente del Consiglio nel periodo degasperia-no

Negli anni successivi all’elezione del primo Parlamento repubblicano (18 aprile 1948) la forma di governo «a fattispecie aperta» delineata dai Padri costituenti si è caratteriz-zata soprattutto per la valorizzazione dell’Esecutivo e, al suo interno, del Presidente del Consiglio.

La particolarità di questa esperienza è legata a molteplici fattori destinati peraltro a non ripetersi nelle legislature successive. Tra questi va sottolineata, innanzitutto, la persona-lità assolutamente carismatica di De Gasperi, in grado di controllare, almeno fino al suo V Governo, non solo le diverse istanze avanzate dalle correnti in seno al suo partito (la D.C.), ma anche quelle provenienti dagli alleati di Governo. De Gasperi preferì ripro-porre la c.d. formula del quadripartito – già sperimentata nel “periodo transitorio”55

con la presenza nel Governo anche dei tre partiti laici (P.S.L.I., P.R.I. E P.L.I.). Il leader

54 S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole ( rileggendo gli Atti dell'Assemblea Costituente sul problema

della elettività del Senato della Repubblica) , pubblicato in www.Osservatoriosullefonti.it.

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democristiano era infatti consapevole che non sarebbe stato possibile governare senza l’appoggio di tali partiti, non solo per l’influenza che questi avevano nella vita economi-ca italiana, ma anche per contrastare le forti ingerenze clerieconomi-cali.

In questa prima fase, l’Esecutivo si dedicò soprattutto ai problemi economici mettendo in atto una serie di riforme dirette principalmente alla ricostruzione materiale del Pae-se56. Tale processo non fu tuttavia accompagnato, per ragioni strettamente politiche, da

quello altrettanto fondamentale volto ad attuare il nuovo ordinamento costituzionale. Si preferì infatti “congelare” tutte quelle parti della Costituzione che potevano ridurre od ostacolare l’azione dell’Esecutivo (in particolare le Regioni, la Corte costituzionale e il Referendum abrogativo)57. In questo periodo la figura del Presidente del Consiglio si

av-vicinò molto a quella del Premier britannico58, non solo per l’unione personale tra lea-dership e premiership, circostanza che peraltro non si sarebbe più ripetuta fino agli anni

novanta, ma anche in relazione alla nomina del Presidente del Consiglio, al punto che lo stesso De Gasperi venne considerato indirettamente investito alla guida del governo dal-la volontà popodal-lare59.

Ciò detto, occorre tener presente che il quinquennio degasperiano non si caratterizzò mai per la piena affermazione di un modello di “democrazia maggioritaria”. Innanzitut-to, non si affermò il principio fondamentale del c.d. “sistema Westminster”, ovvero il «reciproco riconoscimento» tra maggioranza ed opposizione della «legittimità a gover-nare»60. I risultati elettorali del 18 aprile 1948, determinarono non solo l’avvio della c.d.

“conventio ad excludendum”61 ovvero di quella lunga stagione politica caratterizzata

dall’esclusione dei partiti di sinistra dall’area di governo, ma anche del mancato ricono-scimento da parte di quest’ultimi, del diritto della D.C. e dei suoi alleati della legittimità di governare. In secondo luogo, soprattutto a partire dal Governo De Gasperi VI (27 gennaio 1950 – 16 luglio 1951), gli stessi margini di manovra del Presidente comincia-rono ad essere messi in discussione. Di fronte alle continue richieste degli alleati di maggiore visibilità politica, il leader democristiano fu infatti costretto ad allargare pro-gressivamente la compagine governativa, sacrificando il peso del suo partito all’interno del governo.

56S. Vassallo Il centrismo, in La politica italiana, Dizionario critico 1945-95, Roma-Bari, 1995, p.91 ss 57 L. Paladin, Per una storia Storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004 p.88

58 G. Rizza, Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Napoli 1970, p.24 59 G. Rizza, Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Napoli 1970, p.24 60 L.Elia, Governo (forme di), Tomo I, Milano 1999, p.640

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Complessivamente, nel corso della I Legislatura repubblicana, il “feudalesimo ministe-riale”, che aveva fortemente caratterizzato in negativo la precedente esperienza statuta-ria, fu solo in parte arginato da De Gasperi. Esemplari, in tal senso, sono i molteplici «interventi polemici del Presidente del Consiglio nei confronti dei Ministri in relazione ad esternazioni o a confidenze giornalistiche e illazioni», nonché i continui «richiami (…) al principio di collegialità di coordinamento nella determinazione delle politiche in-tersettoriali»62.

I vari rimpasti di governo che si susseguirono in questo periodo se da un lato evidenzia-no l’abilità di De Gasperi nel mantenere la guida del Goverevidenzia-no maevidenzia-novrando i rimpasti stessi, dall’altro lato costituiscono un indice emblematico delle difficoltà dello statista trentino di garantire stabilità ai governi da lui presieduti.

Nella direzione del rafforzamento dell’Esecutivo si muoveva anche la riforma elettorale nota come “legge truffa”63. Tale provvedimento, che segna l’epilogo del periodo

dega-speriano,aveva come obiettivo principale la stabilizzazione del Governo mediante la modifica del sistema elettorale della Camere e l’introduzione di un premio di maggio-ranza alla coalizione che avesse ottenuto il 50 per cento più uno dei voti validi. Sul fini-re delle Legislatura ci si fini-rendeva infatti conto che soltanto attraverso un’ampia maggio-ranza parlamentare sarebbe stato possibile garantire «un Premier con un maggiore ascendente sul Governo, un Esecutivo non subalterno ai gruppi parlamentari e un rap-porto più equilibrato tra rappresentanti parlamentari e partiti»64 . Tale provvedimento fu

aspramente criticato dall’opposizione soprattutto con riferimento all’entità del premio di maggioranza che garantiva alla coalizione che avesse raggiunto il 50 per cento più uno dei voti validi, il 65 per cento dei seggi elettorali.

All’indomani delle elezioni del l953 il suddetto premio non scattò per poco più di cin-quantamila voti. Le conseguenze di quella sconfitta furono durissime. Il mancato rag-giungimento da parte della D.C. del suddetto quorum provocò non solo «la crisi della formula del 18 Aprile», ma soprattutto «l’eclissi politica di De Gasperi che a quella scelta si era legato»65.

62 G. Tarli Barbieri, La forma di governo nella prima legislatura: un premierato ante litteram?, Bologna 2010, p.442

63 Craveri, De Gasperi e la legge elettorale del 1953, in Quad. Fior., 1990, p. 164 ss.. 64 G. Quagliarello, Cinquanta anni dopo. La riforma elettorale del 1953, Bologna, 2004, p.72

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3.3 La lunga stagione del parlamentarismo consensuale

I risultati elettorali del 1953 misero innanzitutto in luce l’impossibilità di riproporre la politica di coalizione degasperiana. La D.C. non aveva più la maggioranza assoluta, di conseguenza, l’alleanza con i partiti laici, voluta da De Gasperi per esigenze politiche, risultava ora fondamentale per assicurare al Governo la fiducia parlamentare.

Si aprì così un periodo di forte instabilità politica e governativa: da un lato, gli alleati storici della D.C. potevano finalmente rivendicare un ruolo determinante nella coalizio-ne; dall’altro lato, il partito di maggioranza relativa non sembrava più in grado di espri-mere al suo interno un leader capace di contenere i continui contrasti tra le diverse cor-renti del partito.

In questa cornice, a risentirne maggiormente fu il ruolo del Presidente del Consiglio co-stretto a svolgere una continua mediazione tra le diverse componenti della maggioranza. La mancanza di una solida base parlamentare, necessaria per garantire la governabilità, determinò una situazione di “crisi semipermanente” che impediva al Pres. Del Consiglio non solo di imporre una propria linea politica, ma addirittura di affrontare «la discussio-ne delle questioni più scottanti», discussio-nella consapevolezza che ciò avrebbe potuto «segnare la sua sorte»66.

Il graduale logoramento della maggioranza centrista costituì la “chiave di volta” per una apertura della D.C. verso la componente più moderata della sinistra: il P.S.I. Questo pro-cesso di avvicinamento tra socialisti e democristiani, avviatosi sul finire della III Legi-slatura con l’astensione del P.S.I. al Governo Fanfani III, si completò soltanto nella IV Legislatura con l’ingresso del partito socialista nel Governo Moro I (1963)67.

Sul piano istituzionale, l’avvento del centro-sinistra comportò conseguenze profonde nei rapporti tra Parlamento e Governo. L’Esecutivo perse progressivamente il suo ruolo di indirizzo politico sia per l’incapacità di realizzare programmi unitari e stabili, sia per l’eccessiva debolezza della figura del Presidente del Consiglio, che non riusciva ad eser-citare alcun potere di coordinamento e direzione nei confronti dei singoli Ministri68.

Quest’ultimi, infatti, invece di essere nominati sulla base di una proposta formulata del Presidente del Consiglio (art. 92 Cost.), risultavano essere espressione delle indicazioni

66 L. Paladin, Per una storia Storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004 p. 126 67 G. Mammarella, Il centro-sinistra, in La politica italiana. Dizionario critico 1945 -95, Roma-Bari,

1995, p. 197

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vincolanti dei partiti della coalizione e delle diverse correnti dei partiti69.

Parallelamente all’instabilità dei governi, acquistò sempre più importanza il Parlamento. Il rapporto tra maggioranza e opposizione divenne infatti meno rigido consentendo la partecipazione attiva delle minoranze alle decisioni politiche.

La collocazione del Parlamento al centro della vita istituzionale del paese fu favorito, da un lato, dall’estrema fragilità dei governi e, dall’altro lato, dall’ampio ricorso alle Com-missioni deliberanti.

La maggioranza, infatti, per evitare che la discussione di determinati disegni di legge si svolgesse direttamente in Assemblea (e non correre quindi il rischio di un loro eventuale insabbiamento) preferiva concludere accordi con l’opposizione direttamente in Com-missione70 In questo nuovo clima politico (con l'apertura della sinistra al Governo)

ven-ne peraltro completata l’attuazioven-ne di alcuni importanti istituti previsti dalla Costituzio-ne fino ad allora rinviati, quali il Referendum abrogativo, lo Statuto dei lavoratori e l’Ordinamento regionale71.

Con le elezioni del 1976 si entrò in una situazione di vero e proprio “consociativismo”. A seguito del risultato elettorale, si formò infatti un governo monocolore che non aveva una maggioranza, ma si basava sulle astensioni delle opposizioni. In tal modo si supera-va in parte la stessa “conventio ad excludendum” nei confronti del partito comunista. Quest’ultimo, pur non avendo rappresentanti nel governo, risultava infatti determinante per le sorti dell’Esecutivo72.

La “centralità del Parlamento” raggiunse la sua massima espansione nel 1978 con il IV Governo Andreotti, che ottenne la fiducia dalla maggior parte delle forze politiche pre-senti in Parlamento (i voti contrari furono soltanto trenta). In questa contesto politico-i-stituzionale, il Parlamento non si limitava più ad approvare le leggi, a dare la fiducia al Governo e a portare avanti un’attività di controllo sull’operato dell’Esecutivo, ma elabo-rava direttamente, attraverso il concorso di tutti partiti, la politica generale del governo. La situazione si modificò nuovamente a partire dal 1979. Con l’uscita del Partito Comu-nista dal “governo di unità nazionale” iniziò infatti una nuova fase in cui divenne predo-minate il tema della governabilità mentre quello della rappresentatività, a lungo al

cen-69 S. Merlini, Il Governo costituzionale, Roma 1995, p.65

70 L. Paladin, Per una storia Storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004 p. 126

71 La complessa stagione dell’attuazione della Costituzione venne inaugurata nel 1956 con l’entrata in funzione della Corte costituzionale, seguita due anni dopo dall’istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura

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