• Non ci sono risultati.

Organizzazione, management e modelli di business delle società di calcio: il caso Ac Pisa 1909

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Organizzazione, management e modelli di business delle società di calcio: il caso Ac Pisa 1909"

Copied!
126
0
0

Testo completo

(1)

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

STRATEGIA, MANAGEMENT E CONTROLLO

“ORGANIZZAZIONE, MANAGEMENT E

MODELLI DI BUSINESS DELLE SOCIETÀ

DI CALCIO: IL CASO A.C. PISA 1909”

Relatore: Prof. Luca Anselmi Candidato: Daniele Freggia

(2)

“Chi sa solo di calcio

non sa niente di calcio”

José Mourinho

(3)

INDICE

INTRODUZIONE ... 5

1. L'EVOLUZIONE DELLE SOCIETÀ DI CALCIO: DALLE ORIGINI AD OGGI. ... 8

1.1 Agli albori del calcio ... 8

1.2 Gli anni '60 e '70: dalle associazioni alle società per azioni. ... 11

1.3 La Legge n. 91 del 23 marzo 1981 ... 15

1.4 La Legge Bosman ... 17

1.5 L'avvento nel calcio delle televisioni a pagamento ... 24

1.6 Il Decreto n. 282/2002, noto come “Decreto Salva Calcio” ... 28

1.7 Il Manuale delle Licenze UEFA e il Fair Play Finanziario ... 30

1.8 Considerazioni e prospettive future ... 34

2. L'AZIENDALIZZAZIONE DELLE SOCIETA' CALCIO: ORGANIZZAZIONE, MANAGEMENT E BUSINESS MODEL ... 37

2.1 La gestione strategica ... 37

2.2 Il modello Soriano ... 41

2.3 Il mecenatismo sportivo ... 45

2.4 Il modello dell'autofinanziamento ... 48

2.5 Il funzionamento dei modelli sotto il profilo gestionale ... 51

2.6 L’appeal internazionale: modelli chiusi e aperti ... 55

2.7 La valorizzazione del brand nel settore calcistico ... 58

2.8 L'evoluzione delle sponsorizzazioni: da sponsorship a partnership ... 63

2. 9 Da ultras a clienti, da tifosi a member ... 66

2.10 Il merchandising ... 68

2.11 Rischi tipici e opportunità del business calcistico ... 74

3. IL CASO AC PISA 1909 ... 77

3.1 Dalle origini all'era Corrado ... 77

3.2 Palmarès e colori sociali ... 80

(4)

3.4 La pianificazione strategica ... 83

3.5 La nuova gestione Corrado ... 85

3.6 La nuova Arena Garibaldi ... 100

3.7 Intervista al Presidente Corrado ... 106

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ... 118

BIBLIOGRAFIA ... 123

SITOGRAFIA ... 124

(5)

INTRODUZIONE

"Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Il calcio è molto, molto di più".1 Bill Shankly, grande allenatore dello storico Liverpool (sedette sulla panchina dei reds per 15 anni, dal '59 al '74) e vero maestro nel trascinare le folle, ci aiuta subito a capire la rilevanza che il "fenomeno" calcio ha assunto con il tempo nella vita dell’uomo. Se, infatti, in passato il calcio era considerato un semplice divertimento sportivo, negli anni si è evoluto fino a trasformarsi in un fenomeno globale: il calcio è praticato in tutto il mondo, dai marciapiedi delle favela brasiliane agli stadi inglesi dal prato perfetto. È lo sport che unisce due stranieri in una conversazione e interi Paesi durante la Coppa del mondo. I calciatori vengono venduti da una squadra all’altra e da nazione a nazione, e vengono seguiti da allenatori e manager con background internazionali.

Si tratta quindi di un fenomeno sociale ed interculturale che coinvolge intere comunità, che è ormai entrato nelle vite di un’ampia percentuale della popolazione mondiale e che continua ad aumentare il suo valore sociale ed economico. La FIFA ha svolto uno studio nel 2006, pubblicato nel 2007, il “Big Count 2006”, che ha rilevato come nel mondo ci siano 265 milioni di persone che praticano il gioco del calcio, di cui 38 milioni tesserati in varie società. Lo stesso studio ha rilevato che il totale delle persone direttamente coinvolte nel calcio sono circa 270 milioni, incluso anche arbitri e funzionari, pari a circa il 4% della popolazione mondiale.

Il calcio rappresenta dal punto di vista economico una vera e propria industria che può essere misurata sia in termini di percentuale sul PIL nazionale dei singoli paesi, sia in termini di diffusione e penetrazione mediatica a livello globale. OpenEconomics, utilizzando un modello di Social Accounting Matrix, ha simulato l’effetto diretto, indiretto e indotto generato sull’economia nazionale dal in termini di contributo alla formazione del PIL, valore aggiunto, redditi delle famiglie e delle imprese, entrate fiscali, produzione industriale e occupazione,

1

(6)

ottenendo i seguenti risultati:

• il contributo alla crescita del PIL è superiore allo 0,7%;

• il valore aggiunto generato per l’economia italiana è superiore ai 21,8 miliardi di euro;

• i redditi delle famiglie e delle imprese generati sono pari a 22,5 miliardi di euro;

• le entrate fiscali sono superiori a 8,9 miliardi di euro; • la produzione attivata supera i 31,5 miliardi di euro;

• l’occupazione diretta, indiretta e indotta generata è pari a 139 mila unità di lavoro qualificato e a 113 mila unità di lavoro non qualificato, per anno.

Questa analisi mostra come nel complesso il sistema calcio in Italia generi redditi per le famiglie direttamente e indirettamente coinvolte per oltre 22 miliardi di euro, garantendo lavoro a oltre 250 mila persone.

Queste prerogative lo rendono un contesto articolato, che si distingue dai settori economici più tradizionali dove gli obiettivi economici di profitto prevalgono per definizione. Nel calcio, e in generale nello sport, si intrecciano infatti più dimensioni: quella economica, quella sportiva e quella sociale. Gli obiettivi potenziali dei club professionistici possono essere diversi (ad esempio vittorie sportive, profitti, visibilità del proprietario del club) e possono essere anche ispirati dal contesto locale di riferimento. In altre parole, le società sportive possono essere interessate a sviluppare relazioni stabili e durature con il proprio territorio, tenendo così in considerazione le esigenze della comunità locale, con l’obiettivo finale di fare in modo che il sostegno al club diventi un tratto distintivo dell’identità individuale dei cittadini della comunità stessa. Il settore calcio è quindi diventato, negli ultimi venti anni, uno sport ad alta intensità di business, caratterizzato da un’elevata diffusione presso il pubblico di qualsiasi età e nazione, e capace di generare notevoli flussi finanziari. Inoltre, il mercato calcistico sta attirando sempre più interessi pubblici e privati. In Italia, ad

(7)

esempio, il giro d’affari relativo al settore calcistico è di 3 miliardi e 700 milioni di euro di fatturato, con oltre 1 miliardo di euro di contribuzione al Fisco italiano, e con il coinvolgimento di quasi 235.000 volontari e oltre 40.000 risorse retribuite.

A livello economico, il settore calcistico incide per il 46% del fatturato dello sport business mondiale (26,6 miliardi di euro rispetto ai 57,3 totali). 2

Oggi, una società di calcio può essere considerata in tutto e per tutto come un’azienda, caratterizzata da una ben definita e regolata forma giuridica, da una natura operativa economica, con lo scopo di raggiungere l’equilibrio economico, e da una domanda diffusa e ben definita, che deve essere soddisfatta attraverso lo svolgimento dell’attività produttiva.

Nella prima parte di questa tesi si procederà all'analisi dell'evoluzione del calcio sotto i profili sportivo e normativo.

Nella seconda parte, invece, poseremo l'attenzione sul processo di aziendalizzazione delle società calcio nel mondo, approfondendo gli aspetti organizzativi e gestionali dei club calcistici, nonché le strategie attuate per il raggiungimento del vantaggio competitivo. Oltre a questi aspetti, verranno analizzati anche i modelli di governance applicabili alle società di calcio ed il ruolo che ricopre il management nella gestione economica e sportiva.

Nella terza ed ultima parte, infine, sarà presentato il caso dell’AC Pisa 1909: in particolare verranno analizzati strategie, modello organizzativo e prospettive future della realtà calcistica pisana, anche grazie all’intervista diretta all’attuale presidente Giuseppe Corrado.

(8)

1. L'EVOLUZIONE DELLE SOCIETÀ DI CALCIO:

DALLE ORIGINI AD OGGI

1.1 Agli albori del calcio

Figura 1. La teoria dell’evoluzione del calcio 3

Prima di analizzare le particolarità della "azienda-calcio” è doveroso compiere una breve digressione storica dell’evoluzione delle società di calcio e delle norme che le hanno accompagnate in questo percorso. E' difficile pensare di poter comprendere realmente un fenomeno se non se ne conoscono le origini.

Il nostro excursus storico inizia nel 1857 in Inghilterra, con la nascita della prima vera società calcistica del panorama mondiale: lo Sheffield F.C.. Negli anni successivi alla fondazione dello Shieffield F.C. nacquero altre dieci società di

(9)

calcio inglesi e il 26 ottobre del 1863 i loro rappresentanti, riunitisi nella Taverna Massonica dei Liberi Muratori (Free mason’s tavern) nel quartiere di Lincoln, diedero vita all’English Football Association, l’attuale F.A. (la federcalcio inglese). Nelle prime riunioni tecniche, aventi lo scopo di redigere un regolamento ufficiale universalmente riconosciuto, si raggiunse l’accordo su: misura del campo (al massimo 120 metri di lunghezza e 90 metri di larghezza), misura e peso della palla (71 centimetri di circonferenza), numero dei giocatori (11 per squadra), tempo di gioco (90 minuti divisi in due tempi), falli, punizioni. Rimaneva l’annoso problema dell’uso delle mani; la soluzione fu quella di punire “rigorosamente” questo tipo di fallo, e nello stesso tempo fu deciso che soltanto un giocatore, il portiere, potesse utilizzare piedi e mani per parare la palla, ma soltanto nella sua area (detta appunto poi area di rigore).4 Successivamente alla definizione rigorosa delle regole, la prima gara ufficiale del calcio moderno avvenne il 20 luglio 1871, giorno in cui fu disputata la F.A. Challenge Cup (l’odierna Coppa d'Inghilterra).

In Gran Bretagna il calcio si affermò ben presto come fenomeno sportivo e sociale, capace di coinvolgere migliaia di spettatori e affollare gli stadi. Alla passione degli studenti si aggiunse quella degli imprenditori (che divennero dei mecenati dell’arte calcistica), dei ceti medi e dei colletti bianchi delle manifatture e delle banche.

Con l’inizio del 1900 il football oltrepassò i confini anglosassoni diffondendosi nel resto d’Europa.

Il 21 maggio 1904 a Parigi fù fondata la F.I.F.A. (Fédération Internationale de Football Associations), mentre quattro anni più tardi, nel 1908, il calcio fece il suo ingresso nel programma dei Giochi Olimpici moderni.

In Italia il primo club nacque nel 1891, anno della fondazione dell’Internazionale Torino, la cui denominazione derivava dal fatto che nella squadra potessero giocare persone di varia nazionalità. In questi primi anni di calcio le squadre nacquero come aggregazione di soggetti impegnati nella pratica sportiva, quindi,

(10)

in forma sostanzialmente associazionistico-ricreativa, modellate sullo schema giuridico delle associazioni non riconosciute (art 36, 37 e 38 c.c.). Il fine dell’associazione non era quello lucrativo, ma bensì quello connesso alla mera attività sportiva ed alla relativa promozione; ciò che risultava rilevante era il vincolo che legava l’associato all’associazione e di conseguenza il tesseramento presso la F.I.G.C. (Federazione Italiana Giuoco Calcio). Tali associazioni, inoltre, non possedevano personalità giuridica ed il finanziamento era costituito dall’apporto di beni da parte degli associati che rappresentavano garanzia verso i terzi mediante il “fondo comune” ma con la responsabilità che rimaneva in capo agli stessi associati.

La crescente e continua espansione del calcio a livello mondiale e la grande attenzione che si era creata intorno al fenomeno, resero subito evidente il fatto che il solo apporto degli associati non sarebbe più stato capace e idoneo a sostenere le spese: sia il numero dei partecipanti, sia il livello tecnico delle competizioni si stavano moltiplicando in rapida progressione, generando un vertiginoso aumento dei costi.

A partire dagli anni '60, per sopperire al crescente aumento dei costi, fu introdotta una remunerazione per gli eventi sportivi da parte delle associazioni. Si trattò del primo vero segnale che negli anni a seguire il calcio si sarebbe evoluto in un vero e proprio business.

Il calcio non era più solo un gioco, ma un prodotto che si stava effettivamente affermando come un fenomeno socio-economico di massa a rilevanza globale che, grazie anche alla diffusione dei mezzi di informazione, doveva essere venduto ad un prezzo proporzionale alla qualità dell’offerta e alla misura della domanda.

Nonostante le associazioni calcistiche fossero costituite in maggioranza da sportivi professionisti, una normativa specifica del relativo rapporto di lavoro fu emanata solo con la legge n. 91/81 che affermava: “sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la

(11)

qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica”.

1.2 Gli anni '60 e '70: dalle associazioni alle società per azioni.

L’attenzione al risultato sportivo ed il nuovo contesto socio-economico, nel quale si trovarono ad operare, finì con l’incentivare gli stessi club ad incrementare gli investimenti, al fine di competere per risultati sportivi sempre più prestigiosi. Tra gli ulteriori fattori che guidarono l’aumento degli investimenti, possiamo ricordare:

a) la nascita di competizioni internazionali;

b) la progressiva attenzione al calcio dei media e in particolare delle televisioni; c) il progressivo coinvolgimento del pubblico nella vicenda agonistica.

La figura dell’atleta praticante-associato non era più al passo con i tempi e con l'evoluzione del calcio: l'avvicendamento con la figura del calciatore professionista che diventava soggetto autonomo rispetto all'associazione, legato da un vero e proprio contratto, il quale rendeva la propria prestazione dietro il pagamento di un compenso, fu un conseguente cambiamento.

Questo nuovo modus operandi incentrato sull’acquisto dei migliori calciatori al fine di raggiungere risultati sportivi di prestigio causò però l’aumento dell’indebitamento dei club.

Il peso crescente della gestione sempre più onerosa e l’avvento del professionismo indussero le associazioni calcistiche a rivolgersi al mercato nel tentativo di intercettare l’interesse degli imprenditori e avvicinarli al progetto sportivo: stava così nascendo la figura del cosiddetto “mecenate sportivo” che, investendo risorse nel settore, si aspettava vantaggi a beneficio della propria impresa.

(12)

quella che i successi in campo sportivo, sia a livello nazionale che internazionale, avrebbero potuto portare dei vantaggi in termini di pubblicità e visibilità e di conseguenza anche sul piano economico.5

La risonanza del fenomeno calcistico, sia a livello sociale sia a livello economico, condusse a una situazione di crisi delle associazioni calcistiche esistenti riconducibile a due cause tra loro interconnesse:

a) l’inadeguatezza organizzativa della forma associativa che non poteva più considerarsi adeguata alla gestione di un’attività economica che aveva raggiunto dimensioni di un certo rilievo;

b) una gestione improntata spesso sull’improvvisazione del “management” e non all'altezza della gestione della nuova realtà sportiva che richiedeva sempre più specifiche competenze.

Negli anni ‘60, in concomitanza con l'aumento dell'importanza economica e finanziaria assunta dal calcio, il quale iniziava ad evidenziare le sue enormi potenzialità in termini di movimento di denaro e di capitali, le problematiche amministrative e la mancanza di adeguate forme di controllo sull’attività gestionale delle associazioni calcistiche iniziarono ad essere troppo pericolose per non essere considerate.6

Si osservava, quindi, l’esigenza di una radicale modificazione normativa, dati i nuovi ed evidenti aspetti imprenditoriali che stavano assumendo sempre maggiore rilevanza e che necessitavano di una più adeguata regolamentazione giuridica.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio, visti i nuovi scenari che si stavano formando, cercò, attraverso alcuni provvedimenti, di guidare il processo di transizione dalla forma associativa a quella societaria ed avviare un piano di risanamento.

Tale percorso fu avviato attraverso due delibere:

5 A.Tanzi, Le società calcistiche. Implicazioni economiche di un gioco 6 G.Rusconi, Il bilancio d’esercizio nell’economia delle società di calcio

(13)

• la delibera n.51 del Consiglio Federale della FIGC del 16 settembre 1966, con la quale si stabiliva lo scioglimento delle associazioni calcistiche militanti nei campionati professionistici con contestuale nuova costituzione in veste di società commerciali, munite di personalità giuridica, individuata quale condizione imprescindibile per l’iscrizione al campionato di calcio relativo alla stagione sportiva 1966/1967. Inoltre, stabiliva la nomina di un commissario straordinario per ciascuna di esse, al quale venivano attribuiti pieni poteri gestionali, per la durata di un anno dalla data del passaggio delle consegne (30 settembre 1966), allo scopo di procedere alla liquidazione delle associazioni calcistiche e alla loro trasformazione e costituzione in società per azioni;

• la delibera del Consiglio Federale della FIGC del 21 dicembre 1966, con la quale si stabiliva e si imponeva a tutte le “nuove società” uno statuto tipo che arrivasse a configurare una tipologia di società per azioni anomala poiché, se da un lato si riconosceva la possibilità di realizzare utili di bilancio, ammettendo pertanto lo scopo di lucro in senso oggettivo, dall’altro si escludeva la distribuzione ai soci di tali utili. Infatti, eventuali utili di bilancio dovevano essere destinati al potenziamento dell’attuazione delle finalità di carattere sportivo. 7

Con l'obbligo della forma societaria, contemplato nel primo provvedimento, si resero applicabili ai club numerose norme riguardanti la formazione e la pubblicità del bilancio d’esercizio, che avrebbero dovuto garantire una più prudente e trasparente amministrazione ed informativa, nonché la possibilità di facilitare i controlli da parte della federazione stessa o di suoi organi delegati. Lo “Statuto-tipo”, introdotto, invece, con i provvedimenti del Dicembre ’66, arrivò a configurare una nuova e particolare tipologia di società per azioni, opportunamente creata per i club professionistici. L’imposizione del divieto di lucro in senso soggettivo, ovvero l’impossibilità di distribuire gli utili ai soci,

(14)

trova le sue radici storiche nell’incompatibilità tra sport e profitto e costituì il principale ostacolo all’affermazione della nuova società sportiva professionistica e alla diffusione di un’effettiva cultura di impresa nella conduzione di questi club.

Tale sistema di controlli, predisposto con lo scopo di risanare le posizioni debitorie dei club, non generò gli effetti desiderati, neanche nel medio – lungo periodo. Negli anni ’70, infatti, la necessità di capitali sempre crescenti per competere a livello internazionale e l’impossibilità per gli azionisti di veder remunerato economicamente tale investimento, portò alle seguenti, e quasi naturali, conseguenze:

• sfruttamento dei successi e delle affermazioni sportive come “cassa di risonanza” da parte dei presidenti e degli altri azionisti, nell’investimento nella società sportiva. Considerando la diffusione mediatica e sociale di questo sport, parve subito evidente come il coinvolgimento nelle società di calcio fosse in grado di garantire enormi ritorni di immagine e di popolarità;

• scarsa attenzione alle condizioni di equilibrio economico - finanziario nelle gestione; il divieto di trarre benefici diretti fece sì che la sensibilità alla produzione di ricchezza risultasse del tutto secondaria rispetto agli altri vantaggi ottenibili dalla visibilità derivante dalla gestione del club.8 Partendo da questi presupposti, nonostante la moltiplicazione delle fonti di ricavo intervenute nel corso degli anni ’70 e l’aumento di rigidità dei controlli federali, le società calcistiche si trovarono in una situazione di squilibrio gestionale definito “catastrofico” nel rapporto finale di una ricerca sul risanamento delle società calcistiche commissionata, al tempo, dalla FIGC.

Le perdite complessive rilevate dai conti delle società di serie A e B ammontavano a circa 44 milioni di euro (86 miliardi di lire) nel 1980, contro i

(15)

circa i circa 9,5 milioni di euro (18 miliardi di lire) del 1972.9 Una tra le principali determinati dell’aumento dei costi di gestione e, quindi dell’aggravarsi della crisi, fu senza dubbio riconducibile all’aumento delle remunerazioni generate dall’ingaggio dei migliori calciatori professionisti. Per cercare di ottenere i migliori risultati sportivi, i club tramite la rete di osservatori selezionavano, in tutte le nazioni del mondo, i migliori atleti, i quali, però, chiedevano ingaggi sempre più alti.

L’imposizione del divieto di lucro soggettivo, che come detto trovava le sue radici storiche nell’incompatibilità tra sport e profitto, costituì, un importante ostacolo all’affermazione di una nuova società sportiva professionistica improntata alla ricerca di condizioni di efficienza ed economicità.

1.3 La Legge n. 91 del 23 marzo 1981

Nell’anno 1981 si cercò di rimediare tale situazione: entrò in vigore la legge n. 91/1981 (c.d. legge sul professionismo sportivo), con la quale il legislatore disciplinò in maniera organica per la prima volta la materia calcistica, con l'obiettivo di risolvere definitivamente le difficoltà gestionali e di bilancio incontrate dalle società calcistiche nell’esercizio della loro attività.

La legge 91/81 sostituì le vecchie regolamentazioni, innovando la disciplina con alcune importanti regole che qualificavano la società sportiva professionistica attraverso la forma giuridica, l’oggetto sociale e il divieto di finalità di lucro. In particolare, riguardo alla forma giuridica allargava la possibilità di svolgere attività sportiva professionistica anche alle S.r.l. e non più alle sole S.p.A.

Inoltre, per quanto riguardava il legame tra sportivo professionista e la relativa società di appartenenza, la legge 91/1981 eliminava la posizione dominante assunta in precedenza dalle società nei confronti del calciatore: quest’ultimo, infatti, anche dopo la scadenza del contratto era costretto ad accettare la

(16)

destinazione decisa dal club vedendo così limitata la sua libertà contrattuale. La nuova legge pose rimedio all’istituto del vincolo stabilendo nell’articolo 16: “le limitazioni alla libertà contrattuale dell’atleta professionista, individuate come <vincolo sportivo> nel vigente ordinamento sportivo, saranno gradualmente eliminate entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, secondo modalità a parametri stabiliti dal CONI, in relazione all’età degli atleti, alla durata ed al contenuto patrimoniale del rapporto con le società”.

La nuova disciplina, oltre a riconoscere al giocatore una propria autonomia e una propria professionalità, introdusse anche un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato, quello del lavoratore sportivo, in base al quale il calciatore professionista viene assimilato al lavoratore dipendente, sebbene con alcune eccezioni.

In particolare le prestazioni dell’atleta diventano di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti (art. 3):

a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo;

b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento;

c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali, oppure cinque giorni ogni mese, ovvero trenta giorni ogni anno.

Il rapporto tra la società e il calciatore si costituisce con la stipula di un contratto in forma scritta, la cui durata non può essere superiore ai 5 anni. A tale rapporto di lavoro non sono applicabili alcune disposizioni di legge ritenute non compatibili con il tipo di attività svolta. In particolare, si tratta delle disposizioni relative al licenziamento, alla risoluzione del contratto, al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato. Inoltre, le ipotesi nelle quali risulta possibile il licenziamento del calciatore sono esplicitamente previste dal contratto-tipo predisposto dalla Federazione e dall’Associazione Italiana Calciatori (Aic).

(17)

La regolamentazione dei rapporti tra società e calciatori professionisti che garantiva maggiore autonomia e libertà agli atleti, rafforzando la loro posizione ed il divieto di lucro, finirono per aggravare la situazione già critica del sistema calcio negli anni ’80 e 90’. Infatti, tali disposizioni comportarono una diminuzione del controllo sui diritti pluriennali alle prestazioni sportive dei propri calciatori da parte delle società (principale asset strategico di cui disponevano): per evitare di ricorrere al mercato per l’acquisto di nuovi calciatori, i club si trovarono costretti a corrispondere remunerazioni più alte ai propri atleti per indurli a rimanere nella stessa squadra alla scadenza del contratto.

Gli effetti delle disposizioni gravarono sui conti delle società sportive, contribuendo ad incrementare i costi di gestione e, di conseguenza, a peggiorare la già difficile situazione economica in cui si trovava il settore del calcio.

Inoltre la conferma dell’assenza della finalità di lucro, nonostante la rilevante dimensione economica assunta da molte società sportive, portò i presidenti a poter lucrare solo in modo indiretto utilizzando l'investimento nel calcio come strumento di pubblicità per i propri affari, creando di conseguenza un grande freno agli investimenti nel settore calcio.

1.4 La Legge Bosman

Negli anni '90 l'ordinamento comunitario irruppe negli ordinamenti giuridici sportivi nazionali con la sentenza della Corte di Giustizia europea 15 dicembre 1995, passata alla storia come caso Bosman, calciatore sottoposto dalla Corte di Appello di Liegi al giudice comunitario mediante lo strumento del rinvio pregiudiziale. La questione che Bosman, giocatore militante nella Serie B belga, proponeva al cospetto della Corte di Liegi era legata alle difficoltà di passaggio dello stesso da una società ad un’altra. Bosman si trovò, alla scadenza del rapporto contrattuale con la società di appartenenza, limitato nella sua libertà di circolazione e di concorrenza con i suoi colleghi professionisti: lo spostamento ad un’altra società era reso più difficile in forza dell’indennità che la nuova

(18)

società avrebbe dovuto corrispondere per il trasferimento; inoltre, la disciplina nazionale poneva limiti al tesseramento di cittadini comunitari ed extracomunitari. In estrema sintesi, il giudice comunitario dispose che:

a) l’art. 48 del Trattato Ce osta all’applicazione di norme emanate da associazioni sportive (nazionali, sovranazionali e/o internazionali) ai sensi delle quali un calciatore professionista cittadino di uno Stato membro, alla scadenza di un contratto che lo vincoli ad una società, possa essere ingaggiato da una società di un altro Stato membro solo previo versamento alla società di provenienza di una qualsivoglia indennità (di trasferimento, formazione o promozione);

b) l’art. 48 del Trattato Ce osta all’applicazione di norme emanate da associazioni sportive, secondo le quali, nelle competizioni dalle stesse organizzate, le società calcistiche possano schierare solo un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri.10

La Corte di Giustizia, facendo applicazione dell’art. 48 del trattato Ce in tema di libera circolazione delle persone, nel ritenere incompatibili con il diritto comunitario della concorrenza una serie di vincoli, previsti dal diritto statuale interno, al trasferimento ad altra società di un giocatore di calcio professionista e la limitazione del numero dei calciatori professionisti comunitari nelle partite tra società di calcio, ha raggiunto al livello comunitario ciò che gli Stati membri spesso non sono riusciti ad ottenere da soli: la sottomissione delle autorità sportive.

Gli effetti di questo provvedimento furono notevoli non solo dal punto di vista sportivo, ma anche per quel che era inerente agli aspetti legislativi ed economici del calcio.

In Italia, la sentenza provocò la dichiarazione di illegittimità:

a) dell’indennità di preparazione e promozione per il trasferimento di un giocatore giunto a fine contratto;

a) del limite riguardante il numero di stranieri comunitari da schierare in campo

10

M. Coccia, L’indennità di trasferimento e la libera circolazione dei calciatori professionisti nell’Unione europea, in “Rivista Diritto Sportivo”, n.3/1994.

(19)

nelle competizioni europee.

L’abolizione dell’indennità di preparazione crea diversi problemi alle società che avevano iscritto in bilancio degli importi corrispondenti ai premi che pensavano di ottenere, qualora il giocatore, giunto alla naturale conclusione del contratto, avesse concordato il trasferimento ad altra società. Venendo meno tale premio per effetto della sentenza citata, le società aggravarono notevolmente la situazione economica dei propri bilanci.

Fu necessario, dunque, intervenire a livello legislativo con un provvedimento che mitigasse le conseguenze negative prodotte dalla sentenza.

A livello statale, si prese atto della pronuncia con il D.L. 20 settembre 1996 n. 485 (c.d. Decreto Bosman o Decreto spalma perdite), convertito nella legge n. 586 del 18 novembre 1996, la quale ridisegnò la disciplina dei trasferimenti dei calciatori professionisti, tenendo conto non solo della sentenza Bosman, ma anche delle indicazione dottrinali che seguirono.

Effettivamente, la legge n. 586/96, nel modificare l’art. 6 della legge n. 91/81, eliminò l’indennità di preparazione e promozione con riferimento ad ogni tipo di trasferimento di atleta professionista (a prescindere dalla sua cittadinanza), compresi quelli che si verificavano tra società di uno stesso Stato membro (cosiddetti trasferimenti interni) o quelli che coinvolgevano cittadini di paesi terzi, formalmente esclusi dal giudicato della Bosman, il quale, come detto, concerneva solo i trasferimenti di cittadini comunitari tra due o più Stati membri. L’art. 6 della legge n. 91/81, nella versione novellata, introdusse nell’ordinamento il premio di addestramento e formazione tecnica, riconosciuto solo in caso di stipula del primo contratto professionistico e solo a favore della società, o della associazione sportiva, presso la quale l’atleta ha svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile. Il legislatore, nel riconoscere tale residua operatività del premio, ha, indubbiamente, ritenuto la suddetta disposizione compatibile con i principi della sentenza Bosman, laddove è lecito avere seri dubbi sulla legittimità della scelta normativa, in quanto il versamento del premio in questione può, anch’esso, costituire un non trascurabile ostacolo alla libertà di concorrenza e di circolazione del lavoratore sportivo professionista,

(20)

che deve invece essere assicurata nella sua interezza proprio quando il calciatore è nel momento forse più delicato, ovvero quando deve prendere appunto la decisione di svolgere a titolo professionale l’attività agonistica.

Allo scopo di attenuare nel tempo gli effetti negativi derivanti dall’abrogazione dell’indennità di trasferimento, la legge n. 586/96 introdusse, inoltre, una serie di disposizioni sui bilanci delle società sportive professionistiche, in base alle quali le società poterono eliminare dall’attivo dello stato patrimoniale i crediti maturati per le indennità di preparazione, senza evidenziare la sopravvenienza passiva, ma iscrivendo, sempre nell’attivo del bilancio, un’ulteriore posta a carattere pluriennale, da ammortizzare in tre anni. Venne, quindi, data la possibilità alle società sportive non di svalutare in un’unica soluzione il valore iscritto in bilancio dell’indennità di preparazione e promozione che non sarebbe stato mai più incassato, ma di diluire tale svalutazione in tre esercizi.

Il risultato che si raggiunse fu quello di non “appesantire” il primo bilancio post-decreto, ma di consentire di spalmare la perdita in più anni.

Andando oltre il recepimento della sentenza Bosman, la legge 485 introdusse anche un’importantissima novità: fece ufficialmente confluire le società sportive nell’alveo delle società di capitali consentendo loro, in ottemperanza al disposto dell’art. 2247 del codice civile, di perseguire finalità lucrative soggettive, al contrario dell’articolo 10, secondo comma, della legge 91/81, il quale sanciva che l’atto costitutivo dovesse prevedere che gli utili fossero interamente reinvestiti nella società per il perseguimento esclusivo dell’attività sportiva.11 Lo scopo di lucro sancisce il passaggio del mondo del calcio professionistico ad un sistema business oriented.

Venne, altresì, stabilito che “l’atto costitutivo deve prevedere che la società possa svolgere esclusivamente attività sportive ed attività ad esse connesse o strumentali”: si dette così il via libera alla differenziazione delle fonti di guadagno.

11 M. Nicoliello, Stato dell'arte e prospettive dell'azienda calcio in Italia : un approccio economico

(21)

L’introduzione dello scopo di lucro comportò il bisogno di remunerare il capitale investito, implicando l’individuazione di politiche d’impresa volte a fronteggiare i costi, a mantenere l’equilibrio finanziario e ad assicurare la solidità patrimoniale della società nel medio lungo periodo.

Il legislatore consentì a tali società di operare anche in aree diverse ed ulteriori rispetto a quelle strettamente sportive ed agonistiche, così da estendere l’attività d’impresa verso segmenti contigui come sponsorizzazioni, diritti televisivi, vendita di spazi pubblicitari e servizi legati al merchandising. Sostanzialmente, si favorì la raccolta del capitale di rischio tra il pubblico dei risparmiatori.

Infine, riguardo ai vincoli alla distribuzione dell’utile, si dispose che nell’atto costitutivo vi fosse inserita una quota parte degli utili, non inferiore al 10%, destinata a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva. Tale disposizione fu prevista affinché, in seguito alla sentenza Bosman, non vi fosse un impatto negativo sui settori giovanili, poiché eliminando l’indennità di preparazione e promozione le società avrebbero perso ogni interesse economico ad investire nei “vivai”.

Il 1996, oltre che per gli effetti prodotti dalla sentenza Bosman e dal D.L. n. 485/96, si distinse per altri diversi eventi che rivoluzionarono come non mai il mondo del calcio italiano ed incisero notevolmente sulla gestione delle società calcistiche:

• l’arrivo, nel campionato, di decine di calciatori provenienti da altre nazioni e campionati (46 in serie A, 18 in serie B e 8 in serie C alla fine del 1996), ma soprattutto, cosa mai accaduta prima, il trasferimento di più di venti calciatori italiani verso federazioni estere;

• la possibilità di quotazione in Borsa delle società calcistiche;

• la possibilità di vedere in diretta, per gli abbonati della televisione a pagamento nella formula pay per view, tutti gli incontri di serie A e B, a partire dal campionato 1996/97;

• la stipula di un accordo commerciale tra Juventus e Milan, con lo scopo di valorizzare congiuntamente alcuni “prodotti” legati al calcio, quali eventi, pubblicità e merchandising;

(22)

• l’aumento dei ricavi provenienti, o potenzialmente ricavabili, dallo sfruttamento dei marchi, del patrimonio di immagine e dei bacini territoriali di utenza delle diverse squadre, insieme alla crescita della concorrenza esercitata da alcuni campionati esteri ed alle conseguenze della sentenza Bosman, che ha fortemente aumentato la tentazione dei grandi club di forzare la mano verso la costituzione di una Superlega calcistica europea;

• la ricerca di soluzioni originali per aumentare la vendita dei prodotti col marchio della squadra, ha spinto molte società ad utilizzare divise dai colori mai visti in precedenza, infrangendo il tabù pluridecennale dell’invarianza dei colori sociali;

• la continua richiesta da parte dei maggiori club di una diversa modalità di ripartizione dei proventi derivanti dal Totocalcio, dal Totogol e dai diritti televisivi, ispirata al criterio della mutualità in favore di quote di distribuzione proporzionali al richiamo commerciale e sportivo esercitato per veder così incrementare le entrate;

• il discusso proposito della Juventus di abbandonare lo stadio “Delle Alpi” di Torino, troppo costoso, eccessivamente distante dalla città, scarsamente funzionale e tale da non garantire al club la gestione in proprio dei diritti pubblicitari, proposito che non è stato attuato fino al 2011, anno della nascita dell'Allianz Stadium;

• la sconfitta della Rai all’asta per la trasmissione non codificata del campionato di calcio della stagione 1996/97 a vantaggio di Telemontecarlo e anche l’aggiudicazione, sempre a Telemontecarlo, dei diritti di trasmissione della partita Inghilterra-Italia del 12 febbraio 1997; (con conseguente prima visione su TV privata della Nazionale di calcio italiana);

• lo spostamento di alcune partite della Seria A al sabato, per garantire maggiori introiti televisivi e, presumibilmente, più pubblico negli stadi; • la comparsa di alcuni corsi universitari espressamente indirizzati alla

(23)

formazione degli operatori delle organizzazioni calcistiche.12

Con gli eventi del 1996, il percorso che doveva condurre il calcio italiano a far parte dell’industria mondiale dell’intrattenimento – ovvero di quel settore di attività economiche straordinario e unico come il cinema, i parchi divertimento e i concerti – fu finalmente delineato.

Da quel momento in poi le società non poterono più prescindere da una corretta e trasparente gestione economico-finanziaria fondata sul controllo dei costi e sull’incremento dei ricavi al fine di ottenere utili d’esercizio. In tal senso divenne fondamentale fare proprie le strategie di mercato già sviluppate con grande successo dai club calcistici inglesi ma ancora poco sfruttate dai club italiani o addirittura ignorate per diverse motivazioni e problematiche.

In conclusione si può evidenziare come le principali conseguenze derivanti dall’introduzione dello scopo di lucro nel calcio possano essere suddivise in dirette ed indirette come mostrato nella figura seguente.

Figura 2. Implicazioni della Legge n.586/96 13

(24)

Le conseguenze dirette implicano il bisogno di remunerare il capitale investito attraverso l’individuazione di politiche d’impresa con lo scopo di fronteggiare i costi, di mantenere l’equilibrio finanziario e di mantenere la solidità patrimoniale della società nel medio-lungo periodo.

Le conseguenze indirette impongono al club sportivo di aziendalizzarsi anche attraverso un rinnovamento manageriale in grado sia di valorizzare le diverse funzioni d’impresa, sia di sfruttare tutte le aree strategiche d’affari della società. In un simile processo di cambiamento, pertanto, il ruolo del management quale portatore di valori aziendali e sportivi diviene di fondamentale importanza fungendo da garante alla redditività di lungo periodo.

Un ulteriore provvedimento di importanza rilevante si è avuto nel 1997 con l'approvazione di un nuovo regolamento per l’ammissione al mercato azionario, il quale ridusse notevolmente i precedenti vincoli. In particolare venne meno l’obbligo di presentazione degli ultimi tre bilanci in utile, un limite che sarebbe stato penalizzante per le società sportive. Per queste ultime, anche se il bilancio dovesse essere momentaneamente in perdita, per l’ingresso e la permanenza nel mercato borsistico occorre dimostrare che gli assetti organizzativi e patrimoniali siano in grado di assicurare stabili ricavi nel tempo che attenuino l’aleatorietà delle entrate legate ai risultati sportivi.

1.5 L'avvento nel calcio delle televisioni a pagamento

Dopo la legge Bosman, il secondo evento che rivoluzionò il sistema, a partire dalla stagione 1996/1997, fu l’ingresso delle tv a pagamento nel mondo del calcio.

Tale avvento aumentò il numero di spettatori della competizione sportiva e, di conseguenza, la quantità di liquidità immessa nel sistema calcistico. Questo si manifestò subito (e ancora oggi lo è) un fenomeno di impatto cruciale sull’intero 13 M. Braghero-S. Perfumo-F. Ravano, Per sport e per business: è tutto parte del gioco

(25)

mondo del calcio, in quanto i ricavi da diritti televisivi, a livello di sistema, passarono da circa 1 milione di euro della stagione 1980/1981 a oltre i 500 milioni di euro della stagione 2000/2001.

Le società di calcio, mosse dalla ricerca del risultato sportivo, e consapevoli degli effetti della sentenza Bosman sulla perdita di controllo sui calciatori, iniziarono a investire sistematicamente l’incremento dei proventi da diritti tv nel mercato per acquisire le performance dei migliori giocatori, alimentando il circolo vizioso sulle remunerazioni corrisposte ai calciatori. La ricerca dei fuoriclasse e l’aumento della forza contrattuale dei calciatori indotti dalla sentenza Bosman, spinse le società a spendere cifre sempre crescenti in stipendi e cartellini sino ad arrivare a somme da capogiro, convinte che gli introiti negli anni a seguire avrebbero consentito di sostenere la folle corsa al rialzo degli ingaggi.

La lievitazione dei prezzi dei calciatori più famosi determinò, già a partire dalla fine degli anni ’90, un effetto a cascata anche sulle quotazioni e sugli stipendi dei calciatori più modesti e tecnicamente meno dotati, provocando, così, un incremento generalizzato degli ingaggi. L’incremento sempre maggiore degli stipendi dei calciatori determinò, infatti, un costo crescente per le società a fronte di una diminuzione reale degli introiti derivanti dalla cessione dei calciatori, incoraggiati sempre di più a raggiungere la scadenza del contratto per rivendicare un aumento dell’ingaggio. Le maggiori somme pagate in stipendi generarono un impoverimento generale dei club, nonostante la significativa crescita del volume di affari.

Tutto questo accadde sulla base del presupposto che i tassi di incremento dei diritti televisivi registrati nel corso degli anni ’90 si sarebbero ripetuti anche in futuro. Alla fine degli anni ’90, infatti, il calcio rappresentava un business inarrestabile, e le costanti perdite di bilancio non spaventavano i presidenti delle società. Si vennero così a creare tutti i presupposti per lo scoppio della “bolla” che sarebbe seguita di lì a poco.

La rilevanza assunta dalle Pay-tv spinse il Legislatore ad intervenire attraverso il D Lgs. n. 15/1999, convertito, con modificazioni, nella legge 78/1999. Attraverso il provvedimento, il legislatore pose il limite del 60% ai diritti in forma criptata

(26)

acquisibili per le partite di serie A della stagione 1999/2000 da parte di un singolo operatore.

Nacque il principio della soggettività dei diritti televisivi, per il quale, la titolarità dei diritti televisivi criptati per le partite del campionato di calcio non era più in capo alla Lega, ma alle singole società calcistiche: esse potevano contrattare direttamente con le emittenti televisive l’importo per la cessione di tali diritti relativi agli incontri giocati “in casa”.

Dopo lo scoppio della bolla del 2002, l'inefficiente gestione della rapida espansione dei ricavi televisivi e l'insufficiente diversificazione delle entrate, portò al formarsi di una bolla speculativa di ingenti proporzioni, alimentata principalmente dal perpetuarsi del meccanismo delle plusvalenze da un lato, e dall'eccessiva fiducia riposta nelle potenzialità di crescita dei diritti televisivi, Internet e new media dall'altro. I diritti attraversarono una fase di sostanziale contrazione fino alla stagione 2004/2005, in cui si ebbe l’ingresso nel mercato del digitale terrestre che si affiancò a Sky nel satellitare. Ciò consentì, insieme all’aumento dei ricavi televisivi per la partecipazione alle competizioni europee, una nuova ripresa di questa fonte di ricavo.

Riguardo all'ultimo decennio dei diritti televisivi, nel 2008 è entrata in vigore la legge Melandri-Gentiloni che regola i rapporti economici tra Lega, televisioni e società sportive. Mossa dal fatto che circa il 40% del budget dei club dipendono dai ricavi di trasmissione televisiva, la disposizione statuisce la vendita centralizzata dei diritti per promuovere da un lato l’equilibrio competitivo tra i club e dall’altro la regolamentazione del mercato, affinché il gioco rientri nei limiti della concorrenza. I proventi dei diritti televisivi vengono distribuiti per il 40% in parti uguali tra tutti i club di Serie A, per il 30% sulla base dei risultati sportivi conseguiti, e per il restante 30% in base al bacino d'utenza. Del 30% relativo al risultato sportivo, il 10% è determinato in base ai risultati conseguiti dalla stagione 1946/1947, il 15% in base ai risultati delle ultime 5 stagioni e il restante 5% in base all'esito dell'ultimo campionato. Del 30% relativo al bacino d'utenza, invece, il 25% è determinato in base al numero di sostenitori di ogni

(27)

squadra e il 5% in base alla popolazione del comune di residenza del club.14 A partire dalla stagione 2018/2019 è entrata in vigore la modifica della legge Melandri che cambia il criterio di suddivisione dei ricavi: la fetta da dividere in parti uguali salirà al 50%, diminuirà il peso dei tifosi (dal 30% al 20%), mentre, tra i risultati sportivi, crescerà il peso dell’ultimo campionato (dal 5% al 15%) e caleranno le voci relativi alla storia (dal 10% al 5%) e all’ultimo quinquennio (dal 15% al 10%). La ratio di tale modifica è di favorire le società più piccole in moda tale da rendere il campionato più avvincente e interessante.

Considerando i risultati del campionato in corso, la suddivisione sarebbe la seguente:

Figura 3. Diritti TV Serie A 2018-2021, le stime con il nuovo contratto 15

(28)

1.6 Il Decreto n. 282/2002, noto come “Decreto Salva Calcio”

Per tamponare la falla creata dai costi crescenti e dalle prospettive incerte di guadagno, negli anni '90 si ricorse, in maniera sistematica, alla pratica chiamata con l’espressione di “doping-amministrativo”, sottolineando il fatto che il verificarsi di fenomeni quali la falsificazione dei bilanci o il mancato pagamento delle imposte finivano per riflettersi anche sulla regolarità sportiva delle competizioni. Infatti, gli amministratori dei club che utilizzavano spontaneamente tale prassi potevano, a parità di altre condizioni, ingaggiare i migliori giocatori o permettersi una “rosa” di atleti più ampia, spesso restando impuniti. Peraltro, se i comportamenti chiaramente contrari all’ordinamento giuridico rimanevano episodi relativamente circoscritti, pratiche “più lecite” – ma non per questo corrette – divennero un malcostume diffuso. Il riferimento è alla sopravvalutazione dei giocatori nelle operazioni di scambio, che permettevano l’iscrizione in bilancio di importanti plusvalenze alla società cedente, cui non corrispondeva analoga componente negativa per la società cessionaria, dato che quest’ultima ammortizzava l’investimento nell’arco di durata (di solito quinquennale) del contratto con il calciatore. Tali operazioni furono determinanti per garantire la riduzione delle perdite d’esercizio e per evitare deficit patrimoniali che avrebbero richiesto enormi ricapitalizzazioni di molte società, pena la loro scomparsa dalla scena calcistica italiana. Tuttavia, i benefici di tali operazioni nel bilancio delle società erano soltanto temporanei: se nell'anno in cui avveniva lo scambio poteva essere contabilizzato l’alto componente economico positivo, negli anni seguenti il maggior valore avrebbe portato ad un incremento degli ammortamenti, la cui compensazione avrebbe richiesto, a meno di procedere ad altre operazioni di scambio a “valori gonfiati”, inderogabili apporti di capitale netto per coprire le perdite.

Per evitare il crac del sistema, il legislatore andò incontro ai club professionistici con l’emanazione del Decreto Legge n. 282 del 24 Dicembre del 2002,

15

(29)

efficacemente definito “Decreto Salva Calcio” che, convertito nella legge n. 27 del 21 febbraio 2003, introdusse alcune previsioni di carattere eccezionale riguardo alla disciplina del bilancio delle società sportive.

L'obiettivo di questo provvedimento fu quello di dare la possibilità, alle società sportive professionistiche, di distribuire in dieci anni le svalutazioni derivanti da perdite durevoli di valore dei diritti alle prestazioni dei calciatori, anziché spesarle nell’esercizio in cui sono maturate, in deroga ai principi ed alle regole ordinariamente applicabili in sede di formazione del bilancio.

In particolare, alle società coinvolte è stato permesso di limitare gli effetti della crisi sul risultato economico dell’esercizio e sul patrimonio netto, per evitare a dette società l’adozione immediata di eventuali provvedimenti previsti dagli articoli 2446 e 2447 del codice civile e per consentire loro di rinegoziare, con adeguato respiro di tempo, gli assetti contrattuali complessivi e di assumere le decisioni più opportune per ribilanciare gli assetti patrimoniali, finanziari ed economici.16

Il requisito per poter procedere alla svalutazione dei diritti pluriennali era l’esistenza, all’entrata in vigore della norma, di una “perdita durevole” di valore dei diritti non recuperabile e determinata per mezzo di una perizia all’uopo realizzata.

Dalla perizia giurata, redatta in forma analitica, devono risultare: 1) il valore attribuibile a ciascun diritto pluriennale;

2) i criteri di stima adottati;

3) le ragioni che suggeriscono l’adozione e gli elementi che inducono a considerare che le svalutazioni siano di natura durevole.

In suddetto documento si nota come l’ammontare delle svalutazioni riferibili a ciascun diritto pluriennale debba essere calcolato confrontando il relativo valore di stima con il valore contabile al netto degli ammortamenti comprensivi della quota di competenza dell’anno in cui si effettua la svalutazione. La previsione dei

(30)

diritti pluriennali in questione deve essere effettuata in base a ragionevoli ipotesi di fruizione della loro prevedibile destinazione: vendita oppure impiego nell’attività sportiva della società.

Il documento chiarisce, inoltre, che il processo di ammortamento dei diritti pluriennali sulle prestazioni dei calciatori, dopo la svalutazione, continua ad essere calcolato sulla base della durata del contratto, ma assume come valore di riferimento il costo del diritto “post-svalutazione”.

Mediante la legge in esame si raggiunse, quindi, il risultato di non appesantire i bilanci di risultati economici negativi, ma di diluire queste perdite in più anni. Tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, però, venne avviata un’indagine a livello europeo per verificare se la Legge 27/2003 non violasse la normativa UE, in materia di:

• norme contabili, consentendo di ammortizzare i diritti alle prestazioni dei calciatori per un periodo maggiore rispetto alla loro utilizzazione;

• aiuti di stato, concedendo un indebito aiuto in termini di deducibilità fiscale delle perdite d’esercizio.

La procedura di infrazione posta in essere dalla Commissione Europea nel 2004 si chiuse con l’emanazione del Decreto Legge n. 115 del 30 giugno 2005, convertito dalla Legge n. 168 del 17 agosto 2005. L’art. 6 c. 2 di tale legge stabilì il dimezzamento da dieci a cinque anni del periodo di ammortamento delle svalutazioni.

1.7 Il Manuale delle Licenze UEFA e il Fair Play Finanziario

L'ascesa del calcio a livello internazionale ha portato, nel quadro evolutivo, ad un incremento dei controlli sulle situazioni economiche, finanziarie e patrimoniali delle società di calcio professionistiche.

L’UEFA (Unione delle Federazioni Calcistiche Europee), l'organo amministrativo, organizzativo e di controllo del calcio europeo, ha infatti avviato

(31)

nell’ultimo ventennio una nuova visione gestionale, predisponendo una serie di strumenti normativi orientati ad incentivare le “best practice” di una corretta gestione economico – finanziaria e di un virtuoso modello di stampo europeo.17 Nel 1999, sotto una precisa richiesta delle stesse società professionistiche, venne promosso, sviluppato e realizzato dalla UEFA il sistema delle Licenze che fu introdotto simultaneamente in 52 Federazioni calcistiche europee.

Il “Manuale per l’ottenimento della Licenza UEFA” rappresenta il primo, ambizioso tentativo di introdurre un sistema di certificazione della qualità della gestione di una società di calcio professionistica, in tutti gli aspetti che la compongono. Entrato in vigore nel Luglio del 2003, ha trovato la sua prima applicazione nel corso della stagione 2004/2005, nella quale erano ammesse a partecipare alle competizioni europee per club organizzate dalla UEFA solo le società che erano in possesso della Licenza.

La finalità perseguita non è quella di imporre restrizioni alle federazioni o alle leghe, o di rendere maggiormente difficile la partecipazione delle società alle competizioni europee, ma di favorire la crescita organizzativa e gestionale dell’intero sistema calcistico europeo.

In Italia, la disciplina nazionale applicabile per il conseguimento della Licenza UEFA è contenuta nel Manuale delle Licenze UEFA Edizione 2015, il quale individua 36 criteri specifici del sistema di licenza che possono essere suddivisi in cinque categorie principali, vale a dire:

I. criteri sportivi;

II. criteri infrastrutturali; III. criteri organizzativi; IV. criteri legali;

V. criteri economico-finanziari.

17 G. Gravina, Il bilancio d’esercizio e l’analisi delle performance nelle società di calcio

(32)

Il rilascio della Licenza da parte della Federazione nazionale attesta il raggiungimento di un determinato livello qualitativo e permette alle società, insieme al conseguimento del titolo sportivo, di partecipare alle competizioni UEFA; la Licenza rilasciata dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio è valida soltanto per una stagione sportiva.

Le società che ottengono la Licenza e si qualificano per una competizione UEFA sono soggette ad un processo di monitoraggio da parte della UEFA, e, inoltre, sono tenute a rispettare le regole contenute nelle UEFA Club Licensing and

Financial Fair Play Regulations.

Il sistema delle Licenze UEFA si pone i seguenti obiettivi:

• promuovere e migliorare il livello qualitativo del calcio europeo in tutti i suoi aspetti;

• promuovere la formazione e l’educazione dei giovani calciatori in tutti i club;

• garantire un adeguato livello di organizzazione e competenza manageriale all’interno dei club;

• migliorare le infrastrutture sportive, con particolare attenzione alle condizioni di sicurezza e alla qualità dei servizi per spettatori e media; • migliorare la gestione economica e finanziaria delle società calcistiche,

aumentarne l’efficienza e la credibilità a beneficio dell’intero movimento calcistico;

• garantire la regolarità delle competizioni sotto il profilo economico-finanziario;

• garantire il regolare svolgimento delle competizioni internazionali per l’intera stagione sportiva;

• promuovere lo sviluppo di un sistema di benchmarking a livello europeo sui criteri previsti dal Manuale.

(33)

avviato con il sistema della Licenza, ha introdotto, nel Maggio del 2010, un nuovo quadro normativo attraverso il “Regolamento per l’ottenimento della Licenza per club e sul Fair Play Finanziario”18.

I criteri economico – finanziari, che già nella precedente stesura della Licenza rappresentavano uno degli elementi indispensabili per avere accesso all’attività organizzativa della UEFA su scala continentale, sono stati ulteriormente rafforzati, non rendendosi più necessario solo il rispetto di obblighi documentali ma anche di quelli legati a precisi parametri.

Nell’ambito di quelli più generali legati all’attività di promozione e incremento degli standard gestionali dei club, perseguiti attraverso la crescita del livello manageriale e infrastrutturale – organizzativo accanto a quelli puramente sportivi, gli obiettivi principali della UEFA delineati mediante le norme di Fair Play Finanziario sono:

• introdurre più disciplina e razionalità nel sistema finanziario dei club; • ridurre la pressione delle voci salari e trasferimenti e limitare l’effetto

inflazionistico;

• incoraggiare i club a competere nei limiti dei propri introiti;

• incoraggiare investimenti a lungo termine nel settore giovanile e nelle infrastrutture;

• difendere la sostenibilità a lungo termine del calcio europeo a livello di club;

• assicurare che i club onorino i propri impegni finanziari con puntualità.19

Nel concepire questo strumento di regolamentazione, l’UEFA ha cercato di adottare un processo graduale che, attraverso un’adeguata opera di “educazione”, portasse i club europei a raggiungere con relativa facilità gli standard richiesti, in particolare attraverso l’attivazione di un percorso virtuoso.

18https://www.uefa.com/MultimediaFiles/Download/Tech/uefaorg/General/02/26/77/91/2267791_DOWN

LOAD.pdf

(34)

Pur con le immancabili eccezioni e con un orizzonte temporale decisamente ampio, il Fair Play Finanziario è un forte segnale che può rappresentare una pietra miliare nel riformare e trasformare dalle fondamenta le strategie gestionali dei club.

1.8 Considerazioni e prospettive future

Il calcio, come la storia ci ha insegnato, è un percorso a tappe. Oltre 100 anni fa, quando in Inghilterra fu fondato lo Sheffield F.C., sembrava impossibile poter immaginare che un semplice divertimento sportivo sarebbe divenuto uno dei più importanti business al mondo. Così com’era difficile immaginare la creazione di un Mondiale che avrebbe coinvolto tutte le Nazioni del mondo, o l'istituzione della Coppa dei Campioni, o quella della successiva Coppa UEFA, o ancora le future rivoluzioni che hanno portato all'attuale formato della Champions League e dell'Europa League.

Recentemente abbiamo assistito a una altra grande rivoluzione che ha portato all'introduzione della tecnologia a supporto degli arbitri: il VAR (Video Assistant Referee). Il campionato massimo italiano, in particolare, è stato il primo tra i maggiori campionati europei ad introdurla. Grazie al VAR sarà possibile

correggere decisioni chiaramente sbagliate o segnalare episodi gravi o importanti sfuggiti all'occhio dell'arbitro mediante l'utilizzo di immagini video. Viene naturale chiedersi allora come cambierà ancora in futuro il calcio.

In tal senso non possiamo allora non considerare l'idea dell'investitore americano Stephen Ross, già organizzatore della International Champions Cup che si svolge in estate e che coinvolge i più importanti club europei, di creare una SuperLega con 24 squadre provenienti dai cinque principali campionati europei che andrebbe a sostituire la Champions League. Così come è stato in passato per altri cambiamenti, oggi potrebbe sembrare un'idea pazza e impraticabile la proposta dall'investitore americano, ma chissà che in futuro non possa compiersi un'altra rivoluzione calcistica. Nel frattempo, secondo Sportbild, Ross avrebbe già tenuto

(35)

delle riunioni con alcuni club, mostratisi favorevoli al cambiamento. Il nuovo torneo, secondo l'idea dello statunitense, vedrebbe coinvolte sempre le stesse società, senza possibilità quindi di eventuali retrocessioni e promozioni. Ross vorrebbe inoltre rimuovere il Fair Play Finanziario, in modo tale che le squadre sarebbero libere di acquistare giocatori senza preoccuparsi dei paletti attualmente imposti sulle spese da effettuare all'interno della sessione di mercato. Un campionato per ricchi quindi, che vedrebbe protagonisti i migliori giocatori ed allenatori del mondo ed escluderebbe, per forza di cose, la possibilità del trionfo di qualche "piccola" squadra, con potenzialità economiche inferiori rispetto alle più importanti società europee. Se si fa riferimento al campionato italiano, possiamo notare che negli ultimi anni il divario tra le "grandi" e le "piccole" società calcio si sta facendo sempre più ampio: è impossibile non fare riferimento agli otto scudetti e alle quattro coppe Italia consecutive conquistate dalla Juventus. Lo stesso discorso si può fare per gli altri campionati europei ad esclusione della Premier League dove esiste ancora equilibrio tra i vari club. Il basso livello di incertezza dei massimi campionati europei registrato negli ultimi anni potrebbe portare, nel lungo periodo, ad un calo di interesse dei tifosi nei confronti del calcio e una conseguente diminuzione degli introiti derivanti dai diritti commerciali delle competizioni sportive. La creazione di una superlega, inoltre, potrebbe non solo giovare ai grandi club che vi partecipano, ma anche alle società più piccole potrebbero trarne beneficio. Infatti, queste ultime, tornerebbero ad essere protagoniste nei rispettivi campionati nazionali e a non essere più semplici comparse. I piccoli club, senza le grandi potenze del calcio europeo, guadagnerebbero maggiore visibilità nelle competizioni nazionali e le stesse competizioni godrebbero di maggiore equilibrio e quindi maggiore interesse. Ecco che l'idea di una superlega, si fa sempre più interessante e certamente in futuro ne risentiremo parlare spesso.

In ogni caso, tutte le società di calcio professionistiche, che non vogliono solo recitare il ruolo di comparsa ma affermarsi ad alti livelli ed ottenere importanti risultati economici e sportivi, devono sapere cogliere, interpretare e talvolta anticipare i segnali del cambiamento. Diventa quindi fondamentale sapersi

(36)

adeguare alle dinamiche del mercato: la sola gestione puramente sportiva e tecnica del calcio non è più sufficiente; è necessario per le società calcio diventare delle vere e proprie aziende in tutti gli aspetti e proprio di questi parleremo nel secondo capitolo.

(37)

2. L'AZIENDALIZZAZIONE DELLE SOCIETA' CALCIO:

ORGANIZZAZIONE, MANAGEMENT E BUSINESS

MODEL

2.1 La gestione strategica

“Le squadre sono imprese. La cosa più prossima al calcio è una major che produce pellicole cinematografiche. La partita è una pellicola della durata di 90 minuti, lo stadio è la sala cinematografica. Lo sfruttamento televisivo è praticamente analogo a quello di un film. Attorno allo stesso film vanno poi forgiate attività collaterali: i miei modelli di sviluppo sono la Walt Disney e la Warner. In quel senso io sviluppo il Milan: quando venne acquistata la società nel 1986, la biglietteria rappresentava ben il 90% del fatturato totale. Oggi il marketing mix è così diviso: 60% diritti tv, 25% sponsorizzazioni ed attività commerciali e solamente il 15% dovuto alla biglietteria. Dunque l’85% va conquistato come in qualunque altra impresa.”. L’ex amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, descrive così le società di calcio moderne, sottolineando come negli anni si siano evolute e trasformate in un grandissimo business. Per le società protagoniste del grande show del calcio professionistico, la soluzione preferibile per non cadere in situazioni di squilibrio economico è la diversificazione dei ricavi e la ricerca della minore dipendenza possibile dai risultati sportivi.

Attualmente, in Italia, l’unica società che ha realmente innovato il proprio modello di business adeguandolo a questo calcio moderno è stata la Juventus. L'efficace analogia tra i club di calcio e le major cinematografiche, descritta da Adriano Galliani e riportata poco sopra, fa da apri strada per analisi ulteriori. Come le grandi produzioni cinematografiche mirano ad ingaggiare lo staff migliore composto dai più bravi attori e dai più competenti registi, per attrarre il maggior numero di spettatori possibile, allo stesso modo i club professionistici cercano di ingaggiare i migliori giocatori ed i migliori allenatori rispetto ai

(38)

principali competitors, in maniera tale da raggiungere determinati successi che possano catalizzare nuovi clienti-tifosi creando un circolo virtuoso. Come abbiamo visto nel capitolo 1, negli anni c’è stato un progressivo aumento delle somme versate dalle televisioni per l’acquisizione dei diritti televisivi: di conseguenza questo ha garantito alle squadre di grandi dimensioni, la possibilità di investire in maniera importante per rinforzare la propria squadra. Il fine ultimo di queste società, come abbiamo accennato poco sopra, era quello di innescare un circolo virtuoso, ben rappresentato dall’immagine seguente.

Figura 4. Ciclo virtuoso20

Non sempre però le società calcio sono riuscite a innescare questo circolo virtuoso: il rischio è quello di cadere invece in un circolo vizioso come successo alle società calcio negli anni '90, con il conseguente scoppio della bolla venutasi a creare, come visto nel precedente capitolo.

Per capire approfonditamente il modello di business che la maggior parte delle società intende perseguire, bisogna tener presente che l’attenta diversificazione dei ricavi e la ricerca della minore dipendenza possibile dai risultati sportivi

Riferimenti

Documenti correlati

I diversi modelli di business sono importanti perché portano benefici diversi tenendo in considerazione situazioni di mercato diverse Quindi adottare un determinato modello di

Tanto bene, anzi, il tema della reliquia affatturata si accordò alla sensibilità del secondo Ottocento che lo si ritrova anche nelle pagine d’alcuni romanzi che sovrannaturali

Poi c’è il problema di spiegare perché rimase assassinato sia molto più marginale di rimase ucciso e su questo l’analisi di Telve, basata sull’abbassamento del grado

25 Although Iain Hamilton Grant maintains that nature-philosophy is already a sort of positive philosophy, since its sources cannot be thought in advance (according to the

In essence, this theory models nematic liquid crystals as relaxing nematic elastomers, i.e., materials characterised by an anisotropic neo-Hookean elastic energy and a fast

Ritenuto pertanto di dover aggiornare – alla luce dei dati di spesa e consumo dell’anno 2010 nonché del confronto con i dati nazionali (cfr. rapporto OSMED anno 2010) – il

&#34; La versione php del programma rappresenta il primo approccio allʼimplementazione del paradigma “Internet” per lʼutilizzo dellʼapplicativo. Oltre alla scontata

§  Un appropriato rapporto tra invesFmenF e finanziamenF di breve durata. §  Un appropriato rapporto tra invesFmenF e finanziamenF di