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Potenze del Golfo Persico nel XX secolo: evoluzione geostrategica dell'area e country focus sul Qatar

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea in Studi Internazionali LM-52

TESI DI LAUREA

POTENZE DEL GOLFO PERSICO NEL XX SECOLO:

EVOLUZIONE GEOSTRATEGICA DELL’AREA E COUNTRY

FOCUS SUL QATAR

CANDIDATA

RELATORE

Giovanna Ventimiglia

Prof. Francesco Tamburini

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Indice

Introduzione ... 4

Abbreviazioni ... 7

Capitolo primo: Il Golfo Persico, importanza geostrategica dell’area ... 9

1. Dagli shock petroliferi alla guerra del Golfo: la “frana” per i Paesi del Golfo Persico ... 9

2. La Guerra del Golfo e le sue conseguenze ... 17

3. I Flussi di lavoro nel Golfo Persico ... 20

Capitolo secondo: L’accordo economico unificato e la creazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) ... 24

1. Nascita del GCC ... 24

1.1 Istituzioni del GCC ... 30

2. Il GCC e l’UE: cooperazione e diversi modi di intendere il regionalismo ... 31

3. 1988, Accordo di Cooperazione: evoluzione, limiti e traguardi del dialogo GCC-UE ... 38

Capitolo terzo: La sicurezza nel Golfo Persico ... 49

1. La sicurezza “regionale” ... 49

1.1 la Twin Pillars policy e l’importanza delle relazioni tra Iran, USA e UK... 49

1.2 La sicurezza marittima ... 55

2. Nuove forme di protezione all’interno del GCC: la Peninsula Shield Force (PSF) ... 59

3. Affermazione e sviluppo del partenariato con la NATO: la nascita dell’ICI ... 63

4. Export armi: relazioni con l’Italia ... 66

Capitolo quarto: Il Qatar e il rapporto con l’Arabia Saudita ... 72

1. Indipendenza, trasformazione e modernizzazione del Qatar nel XX secolo ... 72

1.1. Democratizzazione ... 78

1.2 Libertà di espressione ... 80

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2. Grado di istituzionalizzazione dello Stato e industrializzazione ... 82

3. Breve excursus sull’Arabia Saudita: complessità socio-culturali e geopolitica .. 87

3.1 USA-Arabia Saudita: questione di petrolio e sicurezza ... 89

3.2 Relazioni strategiche tra UE e Arabia Saudita ... 92

4. Sicurezza esterna del Qatar: rapporto con l’Arabia Saudita ... 93

Conclusioni ... 98

Appendice ... 101

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Introduzione

Sarebbe stato difficile presagire, agli inizi del ‘900, l’importanza che il territorio del Golfo Persico avrebbe acquisito nel corso del tempo grazie alla scoperta del petrolio e ai cambiamenti epocali che ne sono derivati, primo fra tutti, la sua capacità di soppiantare il carbone come fonte di energia fondamentale per il mondo industrializzato.

La scoperta di grandi giacimenti di petrolio nell’area del Golfo Persico innescò un effetto di rivalutazione di questa zona, vista in passato come poco importante sulla scena mondiale in quanto abitata prevalentemente da pastori e caratterizzata da infinite distese di terra desertica o quasi.

Le ondate di benessere che invasero la regione in seguito al rinvenimento del greggio e la conseguente dipendenza del mondo industrializzato da quest’ultimo fece immediatamente comprendere all’Occidente l’urgenza di garantirsi delle forniture sicure ed affidabili.

Questo lavoro si propone di fornire un excursus sui principali eventi verificatisi principalmente nel corso del XX secolo, concentrandosi su alcuni passaggi storici rilevanti che hanno comportato un’acquisizione di importanza geostrategica dei Paesi presenti nell’area del Golfo. Si è ritenuto poi importante soffermarsi sullo status del dialogo instaurato dai Paesi del Golfo con le altre Potenze mondiali, in particolare l’Unione Europea, da cui è stata tratta ispirazione per la creazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC).

Il primo capitolo è articolato in modo tale da fornire un inquadramento storico dell’area di interesse, ponendo l’accento sugli episodi più significativi che hanno contribuito a plasmare un turning point nel lungo processo di formazione dell’identità delle moderne monarchie del Golfo: gli Shock Petroliferi e la Guerra del Golfo.

Il secondo capitolo si occupa di analizzare le esigenze che hanno mosso i Paesi del Golfo ad unirsi in un patto di sicurezza, il GCC, aprendo la strada ad un’analisi più accurata delle istituzioni che lo caratterizzano e al suo rapporto con un’altra Organizzazione particolarmente rilevante nel mondo Occidentale, ovvero l’Unione Europea. Questa esposizione è uno spunto interessante sia per esplorare il diverso modo di approcciarsi al regionalismo delle due istituzioni, sia per analizzare lo status delle relazioni EU-GCC le quali, nell’interesse

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principalmente economico di entrambe le parti, hanno compiuto un graduale processo di avvicinamento fino a giungere alla firma dell’Accordo di Cooperazione nel 1988 del quale quindi si analizzano le evoluzioni, i limiti e le conquiste, concludendo questa digressione con un bilancio provvisorio dei traguardi raggiunti e degli ostacoli che devono ancora essere superati.

Il terzo capitolo invece si occupa di un aspetto particolarmente importante per qualunque parte del mondo ma soprattutto per questa zona, ovvero la sicurezza. Si intende in questo senso analizzare l’evoluzione della sicurezza “regionale” dopo che la Gran Bretagna smise di essere il “baluardo di protezione” di diversi Paesi del Golfo, soprattutto i più piccoli, come il Qatar. Ciò ha avuto come immediata conseguenza il porre gli Stati Uniti di fronte ad un dilemma strategico: in piena Guerra Fredda e impegnati in Vietnam, gli Stati Uniti si “servirono” dei loro alleati Iran e Arabia Saudita, dando vita alla Twin

Pillar Policy, grazie alla quale queste due Potenze locali avrebbero potuto

proteggere la Regione dall’eventuale influenza Sovietica.

Si passa poi ad analizzare quanto il GCC sia stato efficace nel porre in essere relazioni proficue, anche in termini di traffico di armamenti, con le Potenze Occidentali; quanto siano forti i partenariati che ha posto in essere con Organizzazioni Internazionali come la NATO; quanto siano valide le politiche di sicurezza rivolte a rafforzare la stabilità interna, non sempre scontata, attraverso nuove forme di protezione come la Peninsula Shield Force (PSF), un esercito difensivo multilaterale.

L’ultimo capitolo, infine, si concentra su uno dei Paesi più piccoli del Golfo Persico: il Qatar. Nei secoli scorsi, nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventato uno dei i Paesi più avanzati, ricchi e influenti del Golfo Persico, poiché si trattava di un territorio scarsamente abitato composto da poche tribù nomadi. Alcune di queste, tra cui la famiglia Al-Khalifah, riuscirono a conquistare e mantenere un forte controllo sul territorio. Con l’arrivo della Gran Bretagna nella zona, nonostante venisse riconosciuto inizialmente da Londra come protettorato del Bahrain e poi ottenne il riconoscimento come entità statale con il Trattato del 1916, di fatto il Qatar rimase per diverso tempo strettamente legato all’influenza britannica.

Inizialmente, la fonte primaria di sostentamento del Qatar era il commercio delle perle. Il motivo principale di questo sottosviluppo era dovuto alla politica

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di isolamento che la Gran Bretagna aveva attuato per evitare che i Paesi del Golfo crescessero economicamente. Tuttavia, con le prime scoperte petrolifere e gli ingenti surplus che ne derivarono, iniziarono investimenti in programmi di modernizzazione e diversificazione industriale. Sebbene il Qatar si fosse uniformato a questa tendenza, rimaneva tra i Paesi più arretrati del Golfo. Considerato che le casse del sovrano coincidevano con le casse dello Stato e che il sovrano era il padrone degli affari di Stato, solo una parte della rendita petrolifera veniva devoluta alla spesa pubblica. La svolta è avvenuta con l’ascesa al potere di Hamad bin Khalifah Al-Thani nel 1995 che, grazie alla sua politica riformista e dinamica, ha modificato la concezione del Qatar spogliandolo di quell’immagine di Paese arretrato e conservatore.

Si conclude il capitolo con un breve excursus storico su un altro dei Paesi del Golfo Persico che, nel corso degli anni, è riuscito ad imporre la propria rilevanza localmente ed internazionalmente, stipulando strategiche cooperazioni con USA e UE: si tratta dell’Arabia Saudita. Le relazioni tra quest’ultimo e il Qatar si sono rivelate a tratti altalenanti e uno dei picchi più recenti e significativo è stato la decisione, presa insieme a Bahrain, Egitto ed Emirati Arabi, di interrompere i rapporti diplomatici. Le conseguenze per il Qatar non sono state poche, soprattutto a livello economico. Sebbene il Qatar abbia sin da subito trovato degli escamotage per sopravvivere, ciò che ha colpito della vicenda è stato il parere, diffusosi a livello internazionale, sul Consiglio di Cooperazione del Golfo, rivelatasi ancora acerbo nell’ambito delle risoluzioni delle controversie interne.

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Abbreviazioni

BBC: British Broadcasting Corporation

BCE: European Central Bank, Banca Centrale Europea BCN: armi batteriologiche, chimiche e nucleari

CEE: Comunità Economica Europea CEO: Amministratore delegato CIG: Gulf Investment Corporation CT: cooperazione antiterrorismo DEA: Dialogo Euro-Arabo DM: Dialogo Mediterraneo FTA: Free Trade Agreement

GCC: Gulf Cooperation Council, Consiglio di Cooperazione del Golfo GNL: gas naturale liquefatto

ICI: Cooperation Initiative

ICJ: International Court of Justice, Corte Internazionale di Giustizia IMF: International Monetary Fund

ISAF: International Security Assistance Force, Forza internazionale di stabilizzazione e assistenza

LN: Lega delle Nazioni

MAECI: Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale MEF: Ministero dell'economia e delle finanze

MEFTA: Middle East Free Trade Area

MODA: Ministero della Difesa e dell’Aviazione saudita

NATO: North Atlantic Treaty Organization, Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord

NWO: New World Order, Nuovo ordine mondiale OIG: Organizzazione internazionali governative ONG: Organizzazione non governativa

ONU: United Nations, Organizzazione delle Nazioni Unite OPEC: Organization of the Petroleum Exporting Countries Organizzazione dei Paesi esportatori di Petrolio

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PESC: Politica estera e di sicurezza comune PSF: Peninsula Shield Force

PSI: Proliferation Security Initiative

QEWC: Qatar Electricity and Water Company

Q-TEL: Qatar Public Telecommunications Corporation RRC: Texas Railroad Commission

SOCAL: Standard Oil of California

SUA: Convention for the suppression of unlawful acts against the safety of

Maritime navigation, Convenzione sulla Sicurezza della navigazione marittima

UAMA: Unità nazionale per le autorizzazioni dei materiali di armamento UE: Unione Europea

UK: United Kingdom, Regno Unito

UNCLOS: United Nations Convention on the Law of the Sea, Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare

UNSCOM: United Nations Special Commission UPM: Unione per il Mediterraneo

USA: United States of America, Stati Uniti d’America

USMTM: United States Military Training Mission in Saudi Arabia WMD: Weapon of Mass Destruction, Armi di distruzione di massa

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Capitolo Primo

Il Golfo Persico: importanza geostrategica dell’area

1. Dagli shock petroliferi alla guerra del Golfo: la “frana1” per i Paesi del Golfo

Persico

Nessuno avrebbe mai potuto immaginare, all’inizio del XX secolo, che il petrolio sarebbe diventato uno strumento così importante nella trasformazione del paesaggio, nella modificazione degli stili di vita e soprattutto nello spostamento degli equilibri mondiali e di potere2. La dipendenza dal petrolio ha provocato una corsa sfrenata al suo approvvigionamento, generando una polarizzazione tra i Paesi in possesso di questo bene, i cosiddetti Paesi oil-rich, e quelli non in possesso, o oil-poor.

La scoperta del petrolio in Bahrain del 1932 portò ad apprendere che i Paesi del Golfo custodivano nel loro sottosuolo i due terzi delle riserve mondiali di petrolio3; di esso, i Paesi del GCC ne custodiscono il 48,1%, oltre al 38,4% del totale delle riserve di gas mondiali4. Le implicazioni che questa nuova scoperta portava con sé erano molte. Nel corso dei secoli precedenti, infatti, i territori arabi affacciati sul Golfo Persico5 si erano distinti per la loro marginalità

rispetto al sistema mondiale e per la loro povertà in confronto al resto del Medio Oriente e Nord Africa. Essi si basavano su un’economia prettamente di sussistenza per via della scarsità di precipitazioni e di acque potabili, la carenza di terreni coltivabili, le complessità che permeavano le loro società, i loro costumi e la loro religione.

Le ondate di benessere che invasero la regione in seguito al rinvenimento del greggio furono sensazionali; il petrolio mediorientale era preferibile poiché

1 Lo storico britannico Eric J. Hobsbawm in una delle sue opere più note, Il Secolo Breve, definisce gli anni che vanno dal 1979 (gli anni della fine della prosperità portata dal Boom Economico), al 1989 (con la caduta del Muro di Berlino), gli anni della Frana. E. J. Hobsbawm, Il Secolo Breve, 1914-1991, Milano, RCS Libri, 1994.

2 D. Yergin, The Prize: the Epic Quest for Oil, Money and Power, New York, Simon & Schuster, 2001, XVI.

3 P. Wulzer, Dalla dottrina Eisenhower alla dottrina Carter. Gli Stati Uniti e la «sicurezza per delega» nel Golfo Persico (1956-1980), Roma, Edizioni nuova cultura, 2016, p. 20.

4 BP Statistical Review of World Energy, June 2012, pp. 6-29.

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oltre ad essere il più abbondante, era anche il più economico da produrre6. I sei Stati fondatori del GCC coprono un’area di 2.5 milioni di km, ovvero l’82% dell’intera superficie della Penisola Arabica; questo territorio assume una forma rettangolare, con un’espansione di circa 2000 km in larghezza e 2300 km in lunghezza, che si affaccia su tre specchi acquatici differenti: il Golfo Persico ad est, il Mar Rosso ad ovest e il Mar Arabico a sud7.

Le caratteristiche geografiche di una regione hanno da sempre un ruolo cruciale nella definizione degli assetti politici e sociali della stessa. Nel caso della Penisola Arabica sono stati tre gli elementi che hanno contribuito a plasmare il recente sviluppo delle economie dei Paesi del GCC: l’abbondanza di idrocarburi, la scarsità di acqua e la presenza di manodopera qualificata.

Da ciò deriva l’importanza crescente di questi Paesi nel mercato mondiale dell’energia. Per quanto riguarda la scarsità di acqua, le precipitazioni medie annue nei Paesi del GCC sono inferiori ai 400 mm e le terre coltivabili costituiscono meno del 2% delle terre totali. Questi dati rendono la sicurezza alimentare un problema di considerevole importanza per la Penisola Arabica: la dipendenza del Golfo Persico dalle importazioni di cibo e la sua conseguente vulnerabilità geo-economica può essere in qualche modo assimilata alla dipendenza dei Paesi industrializzati dall’importazione del suo petrolio8. Per

citare un esempio, gli Emirati Arabi Uniti importano circa il 90% dei prodotti alimentari e degli alimenti finiti. Pertanto, rappresentano un Paese particolarmente interessante per le imprese mondiali del settore, che hanno il vantaggio di poter offrire prodotti di cui il mercato locale riconosce e apprezza l’alto livello qualitativo9. La forte necessità di importazioni alimentari è resa

necessaria dalla scarsità di acqua in generale, e, più in particolare, dalla dipendenza dall’acqua potabile, che oscilla tra il 40-43% in Oman e Arabia

6 A. Richards e J. Waterbury, A Political Economy of the Middle East Boulder, CO, Westview Press, 2009, p. 82.

7 M. Riad, Geopolitics and Politics in the Arab Gulf States (GCC), GeoJournal 13.3, 1986, pp. 201-203.

8 Durante l’embargo del petrolio arabo del 1973 gli Stati Uniti minacciarono un possibile blocco delle forniture di cibo alla regione. Proprio da qui nacque il tentativo dei Paesi del Golfo di rendere il Sudan il fornitore ufficiale di prodotti alimentari per l’intera regione del Golfo, idea che venne successivamente abbandonata. E. Woertz, Oil For Food: Big Business in the Middle East, The World Financial Review, http://www.worldfinancialreview.com/?p=2773.

9 Dossier Arabia Saudita, l’impresa verso i mercati internazionali, Ministero dello sviluppo economico, https://www.assolombarda.it/fs/201011916564_216.pdf, pp. 39-44.

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Saudita e l’85-99% nei restanti Paesi del GCC10.

Il terzo ed ultimo fattore, vale a dire la manodopera, è ambivalente: i Paesi del Golfo Persico sono fortemente dipendenti dalla forza-lavoro proveniente dall'estero che ha portato nel tempo ad alti tassi di disoccupazione domestica, motivata dal fatto che i posti di lavoro creati dalle industrie ad alta concentrazione di capitale sono limitati, e che la popolazione autoctona manca delle competenze per ricoprire ruoli che richiedono maggiori qualifiche o semplicemente trova i salari e le condizioni di lavoro dei salariati provenienti dall'estero inaccettabili.

Queste premesse ci permettono di guardare al Golfo Persico come al «Centro di gravità del petrolio mondiale»11, un’area economica e strategica dotata di una rilevanza mondiale imprescindibile; è pertanto interesse degli Stati Uniti, dell’Occidente e più in generale del mondo intero che tale regione non sia destabilizzata12. La storia dei vent’anni dopo il 1973 è quella di un mondo che

ha perso i suoi punti di riferimento e che è scivolato nell’instabilità e nella crisi13. La situazione non era certo diversa per i Paesi del Golfo, che, sul finire degli anni ’70, dovettero affrontare un periodo di continue sfide:

la caduta dello Shah dell’Iran, nel quadro della Rivoluzione Iraniana del gennaio 1979;

 l’intervento sovietico in Afghanistan nel dicembre dello stesso anno;

 lo scoppio della Guerra del Golfo tra Iran e Iraq, nel settembre del 1980. Questi episodi resero la regione del Golfo un luogo in continuo fermento politico, minacciato dall’incessante rischio di un confronto diretto da parte delle superpotenze, oltre che un inarrestabile focolaio di tensioni interne.

La caduta dello Shah di Persia che portò alla Rivoluzione Iraniana fu senza ombra di dubbio una delle cause principali della crescente precarietà del Golfo in quanto ebbe l’effetto di sottrarre alle potenze occidentali, ed in particolar

10 A. Richards e J. Waterbury, A Political Economy of the Middle East Boulder, CO: Westview Press, 2009, p. 46.

11 D. Yergin, The Quest: Energy, Security and the Remaking of the Modern World, New York, Penguin Press, 2011, p. 548.

12 V. Strika, La Guerra Iran-Iraq e la Guerra del Golfo, Quadro regionale e prospettive di pace, Napoli, Liguori Editore, 1993, p. 71.

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modo agli Stati Uniti, il loro alleato speciale in Medio Oriente14.

La Rivoluzione Iraniana affondava le sue radici nel clima di diseguaglianza interna e repressione politica presente in Iran sul finire degli anni ’70; il petrolio, come accennato precedentemente, giocò anche in questo caso un ruolo imprescindibile. I germi della Rivoluzione possono essere ricondotti indietro nel tempo nel 1952, quando l’allora primo ministro Muhammed Mossadeq decise di nazionalizzare il petrolio iraniano.

Sebbene tale azione muovesse dalla persuasione che il controllo estero del greggio rendeva il suo Paese eccessivamente sensibile ai voleri della corona britannica e alla Anglo-Iranian Oil Company, il conseguente boicottaggio del petrolio iraniano da parte delle compagnie petrolifere occidentali, diede avvio ad una crisi economica che portò al ritorno al potere dello Shah della dinastia Pahlavi15.

L’Iran fu così costretto ad accettare la denazionalizzazione dell’industria petrolifera, concedendo all’America il 40% dei suoi possedimenti. L’obiettivo principale era che l’Iran divenisse il maggior potere all’interno della regione, oltre che uno degli attori principali sul piano della politica economica internazionale. Ciò portò Mossadeq a perseguire politiche che avrebbero minacciato il suo stesso regime; le strategie implementate facevano per la maggior parte leva sul petrolio, sul potenziamento dell’educazione e sul conseguente rafforzamento della classe media, sulla negligenza dell’agricoltura in favore di una rapida urbanizzazione e su un conseguente risveglio della coscienza politica della popolazione16. Parallelamente, nei primi anni ’80, emerse in Medio Oriente un nuovo assetto multipolare causato dall’abbandono dell’Egitto del suo status di Paese campione del Panarabismo17, oltre che al suo

declino economico che generò la conseguente ascesa di nuove potenze regionali. Fu proprio questo il solco all’interno del quale andò ad inserirsi la crescita ed il consolidamento dell’influenza e della rilevanza regionale delle monarchie del Golfo. Ciononostante, appariva ancora lontana l’elezione di un Paese

14 H. A. Jawad, Euro-Arab Relations, A study in collective diplomacy, New York, Ithaca Press, 1992, pp. 166-167.

15 F. Halliday, “The Gulf War and its aftermath: First Reflections”, International Affairs, Vol. 67, No. 2 1991, p. 182.

16 R. Hinnebusch, The International Politics of the Middle East Manchester, Manchester University Press, 2003, p. 188.

17 Così come auspicato dal raìs egiziano Gamal Abd-el Nasser, che anelava alla creazione di un unico Stato arabo, di cui l’Egitto sarebbe stato promotore e guida.

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egemone a regolare il conflitto inter-arabo o posto alla difesa degli arabi dalle minacce esterne. In questo scenario l’Arabia Saudita assunse timidamente il timone della leadership panaraba, forte dell’influenza che sarebbe stata in grado di esercitare in Occidente in qualità di produttore trainante dell’OPEC per la difesa degli interessi degli arabi, e usando il suo benessere economico per moderare gli stessi conflitti inter-arabi. Tuttavia, la sua debolezza dal punto di vista militare la rese estremamente vulnerabile all’andatura incerta dei mercati energetici e dipendente dagli Stati Uniti in materia di sicurezza e di difesa militare. Tutti i Paesi erano in questo momento storico abbastanza forti da potersi proteggere dall’egemonia degli altri, ma assolutamente non disposti a sacrificare i loro interessi e le loro aspirazioni in nome di un bene comune18. Facendo adesso un piccolo passo indietro al 1973, è necessario soffermarsi sulle contingenze che hanno condotto al primo shock petrolifero che non sono state messe in moto soltanto dalla scarsità di greggio, bensì da una congiuntura di avvenimenti e circostanze che hanno preparato il terreno allo sfociare di una vera e propria crisi. All’alba degli anni ’70 risultò sempre più evidente che il mantenimento del benessere conseguente al Boom Petrolifero del dopoguerra, che si basava sui prezzi bassi del petrolio e su un’offerta in continua crescita, era nelle mani del Medio Oriente, unica regione al mondo capace di coprire i suoi crescenti fabbisogni. Ciò fece sì che ingenti investimenti si spostassero dai Paesi politicamente più stabili - nella fattispecie, Stati Uniti e Venezuela - a quelli con costi di produzione più bassi (appunto la regione del Golfo Persico). Tra il 1955 e il 1971 gli Stati Uniti assistettero ad un crollo dell’attività di perforazione e in meno di un decennio gli investimenti in esplorazione e produzione si attestarono ad appena il 25% degli investimenti totali dell’industria petrolifera19.

Nel tentativo di soddisfare una domanda in continua ascesa la Texas

Railroad Commission (RRC)20, arbitro della produzione petrolchimica

statunitense, approvò nel 1971 l’immissione nel mercato dell’intera capacità produttiva disponibile nel Paese. Senza risolvere i problemi reali del mercato, la decisione della Commissione produsse l’effetto di esaurire la capacità produttiva

18 F. Halliday, Rethinking International Relations, Londra, MacMillan, 1994, pp. 124-46, in Hinnebusch, The International Politics, Manchester, Manchester University Press, 2003, p. 183. 19 L. Maugeri, L’era del Petrolio, Mitologia, storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, Milano, Feltrinelli, 2007, p.126.

20 Si tratta dell’agenzia statale che regola l’industria petrolifera, gli oleodotti (oltre al GPL, il carbone e miniere di uranio), garantendo la sicurezza di ciascuno di questi settori.

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inutilizzata del mondo occidentale, privando così i Paesi industrializzati di quel margine di sicurezza su cui avevano potuto contare fin dagli anni ’50. Si trattò certamente di un cambiamento importante nella storia del petrolio, in seguito al quale l’Occidente, almeno in apparenza, si mostrò estremamente più vulnerabile al ricatto petrolifero da parte dei Paesi arabi.

Tuttavia, molti altri fattori contribuirono a plasmare la genesi degli shock petroliferi. Alla degenerazione della crisi contribuirono in larga misura anche le politiche economiche e di regolamentazione dell’amministrazione Nixon, il quale, nell’agosto del 1971, istituì un rigido controllo dei prezzi per tentare di tamponare l’inflazione crescente, piaga dell’economia americana. I prezzi del petrolio vennero mantenuti artificialmente bassi proprio in concomitanza con la crescita della domanda estera e con la produzione al massimo della sua capacità. La scelta di Nixon ebbe due conseguenze negative: da un lato incentivò i consumi petroliferi del Paese, dall’altro scoraggiò l’esplorazione e lo sviluppo in territorio nazionale, a completo vantaggio delle importazioni21. Fu questa serie di circostanze a portare allo scoppio del primo shock petrolifero.

Su tutta la crisi del Mondo Arabo degli anni ‘70, la questione petrolifera ebbe una rilevanza cruciale; essa ebbe l’effetto di portare a galla dinamiche sotterranee decisive22. Nei decenni precedenti il petrolio, che nel 1972

rappresentava i due terzi della materia prima impiegata in tutto il mondo per la produzione di energia, veniva estratto da impianti sempre più numerosi e in quantità in costante aumento. In un simile contesto, i processi di estrazione, commercializzazione e lavorazione del greggio divenivano un problema con il quale il mondo occidentale industrializzato, al contrario di quello orientale che poteva contare sulle risorse sovietiche, non poteva esimersi dal fare i conti.

La scoperta dei nuovi giacimenti petroliferi in Algeria e Kuwait aveva portato, nei primi anni ’60, alla costituzione dell’OPEC; il regime di produzione del greggio continuava ad essere abbondante, soprattutto tenendo in considerazione la domanda carente ed i prezzi bassi della sua produzione.

La cosiddetta “Guerra del Petrolio” si è svolta su due fronti paralleli: le restrizioni alla produzione e la rapida impennata dei prezzi. Sul primo fronte la

21 L. Maugeri, L’era del Petrolio, Mitologia, storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, Milano, Feltrinelli, 2007, p.127.

22 G. Formigoni, Storia della politica internazionale nell’età contemporanea, Bologna, il Mulino, 2000, p. 385.

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battaglia è stata combattuta dai Paesi arabi (tranne l’Iraq), mentre sul secondo dai Paesi esportatori del Golfo (quindi dall’Iran e da alcuni Paesi arabi: Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Abu Dhabi, Qatar)23.

All’inizio del 1973 il prezzo del petrolio continuava ad aggirarsi attorno ai 3 dollari al barile. Tuttavia, fu proprio la scoperta di nuovi giacimenti nel Mare del Nord a lasciar intravedere un potenziale aumento nei prezzi di produzione, oltre che la minaccia di un nuovo produttore in grado di intaccare la leadership dell’OPEC.

Fu con queste premesse che il 16 ottobre del 1973 il prezzo di un barile di petrolio fu portato a 5 dollari, fino a farlo giungere, nel dicembre dello stesso anno, agli 11,65 dollari24. La sconfitta israeliana degli eserciti arabi nel 1967

aveva già preparato il terreno per un’esplosione dei prezzi del petrolio, innescando un enorme flusso di rendite all’interno della regione. La guerra portò inoltre alla chiusura del Canale di Suez, deviando le rotte del trasporto del greggio verso il Capo di Buona Speranza, innalzando i costi di trasporto e spostando l’attenzione dell’acquirente occidentale verso il petrolio meno costoso, quello proveniente da Suez e dalla Libia.

Quando Nixon il 13 ottobre decise, nel contesto della guerra dello Yom

Kippur del 1973, di fornire armi ed assistenza militare agli israeliani, l’Arabia

Saudita dichiarò immediatamente un embargo petrolifero ai danni degli Stati Uniti e dei Paesi Bassi. La reazione più immediata da parte delle compagnie petrolifere fu di riallocare le forniture mondiali di energia; il prezzo finale pattuito in seguito alle contrattazioni fra Arabia Saudita e Iran fu di 11,65 dollari al barile. Dal momento che quasi tutta la capacità in eccesso era posseduta dai Paesi dell’OPEC, non c’era altra scelta per i Paesi consumatori che quella di arrendersi a qualsiasi prezzo, o quasi25.

La pesante crisi economica determinata dall’instabilità monetaria internazionale26, sommata allo shock petrolifero, diede vita ad un fenomeno

nuovo che univa all’inflazione un rallentamento nella produzione, e che fu

23 G. Grossi, La Guerra del Petrolio, chi manovra la nuova «grande crisi»? Roma, Giulio Savelli Editore, 1974, p. 5.

24 E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali, dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994, 1229.

25 A. Richards e J. Waterbury, A Political Economy of the Middle East Boulder, CO: Westview Press, 2009, p. 54.

26 Dovuta alla sospensione della convertibilità del dollaro in oro, decisa nel 1971 all’indomani della guerra del Vietnam, a causa del grave indebitamento statunitense.

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denominato “stagflazione”27. La recessione che colpì l’economia mondiale nel 1974-76 subì le conseguenze della crisi, spingendo i Paesi industrializzati ad indebolire la domanda, riducendo la produzione per diminuire i costi. Nel biennio 1973-74 ebbe luogo un grandissimo spostamento di ricchezze all’interno dei confini dei Paesi dell’OPEC. Ancora più duramente colpiti furono i Paesi del Terzo Mondo, la cui crescita fu inibita dai prezzi oramai insostenibili dei prodotti energetici28. In tutto il mondo si ricercavano fonti di energia alternative; Tuttavia gli Stati Uniti, il maggior consumatore mondiale, a dispetto delle aspettative di Nixon29, continuavano a rifornirsi dall’OPEC passando da un consumo del 38% nel 1974 ad un consumo totale del 47% nel 1979. Daniel Yergin, uno dei maggiori storici del petrolio di tutti i tempi, afferma che «nessun altro boom, in un’industria dominata da boom, può rivaleggiare in alcun modo con la febbre portata, alla fine degli anni ’70, dal secondo shock petrolifero30».

In effetti la sua incredibile risonanza fu amplificata dal fatto che esso, a differenza del primo, fu frutto di contingenze prettamente storiche riconducibili alla rivoluzione iraniana31 che provocò infatti un rallentamento nella produzione, con una diminuzione di 2 milioni di barili al giorno.

I sauditi, che producevano già vicini alla capacità massima,

27 Si tratta di una recessione combinata con l’inflazione. V. Vidotto, ed., Atlante del Ventesimo Secolo, I documenti essenziali 1969-2000, Bari: Editori Laterza, 2010, p. 61.

28 E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali, dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994, 1230.

29 Dal discorso alla nazione che il presidente repubblicano Richard Nixon tenne di fronte al Congresso il 7 novembre 1973: «A causa della guerra, quasi tutti i fornitori mediorientali di petrolio hanno ridotto la produzione e hanno tagliato le forniture destinate agli Stati Uniti […] dobbiamo, pertanto, affrontare un fatto estremamente serio: stiamo andando verso la più grave crisi energetica dalla Seconda guerra mondiale in poi. Questo inverno avremo forniture di petrolio almeno del 10% - con punte fino al 17% - inferiori rispetto al fabbisogno previsto. […] Come nazione, dobbiamo darci un assetto nuovo. A breve termine, questo assetto vuol dire che dobbiamo usare meno energia. A lungo termine, significa che dobbiamo sviluppare nuove fonti di energia per far fronte alle nostre esigenze senza dover dipendere da nessun paese straniero. […] Può rincuorarci sapere che negli Stati Uniti abbiamo metà delle riserve mondiali di carbone conosciute. Abbiamo fonti di gas naturale enormi e non ancora sfruttate. Abbiamo la tecnologia nucleare più avanzata che l’uomo conosca. Abbiamo petrolio nelle nostre piattaforme continentali. Abbiamo argille petrolifere nella parte occidentale degli Stati Uniti, e alcune delle menti tecniche e scientifiche più brillanti del mondo. In breve, abbiamo tutte le risorse necessarie per affrontare la grande sfida che ci attende. Ora dobbiamo solo dimostrare la volontà di farlo». Da V. Vidotto, ed., Atlante del Ventesimo Secolo, I documenti essenziali 1969-2000, Bari, Editori Laterza, 2010, pp. 61-70.

30 D. Yergin, The Prize: The Epic Quest for Oil, Money and Power, New York, Simon and Schuster, 1991, p. 715.

31 Vale a dire la Rivoluzione che, nel 1979, rovesciò il regime dell’ultimo monarca dell’Iran, lo Scià Reza Pahlavi, al fine di trasformare il Paese in una Repubblica Islamica. L. Fawcett, International Relations of the Middle East, New York, Oxford University Press, 2008, pp. 315-16.

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conseguentemente agli Accordi di Camp David e alla negligenza della questione palestinese32, decisero di ridurre immediatamente la produzione, facendo

schizzare i prezzi alle stelle. Le ripercussioni sui mercati internazionali furono sensazionali, sebbene senza dubbio meno rilevanti di quelle provocate dal primo

shock petrolifero.

L’arma petrolifera cominciava dunque in questo preciso momento storico a mostrarsi al resto del mondo con la stessa irruenza che mostrerà poi negli anni a venire. Sebbene l’importanza economica di questo bene non sia in alcun modo da tralasciare, è sul piano politico che esso riesce ad esprimere tutta la sua rilevanza, rendendo tutti i Paesi dipendenti dalle forniture erogate dai Paesi dell’OPEC estremamente vulnerabili alle sue politiche e facendo sì che essi prestino una particolare attenzione a non deteriorare le loro relazioni diplomatiche con i Paesi membri33.

2. La Guerra del Golfo e le sue conseguenze

La portata della Guerra del Golfo ha dato misura dell’importanza del Golfo Persico in quanto cuore pulsante della produzione petrolifera mondiale34. La crisi innescata dall’invasione irachena del Kuwait, infatti, non fu soltanto una delle maggiori crisi globali del dopoguerra, ma anche un evento unico e singolare, i cui tratti salienti, secondo Fred Halliday, erano principalmente tre: anzitutto si trattava del primo conflitto dai tempi della Prima Guerra Mondiale a coinvolgere la totalità degli eserciti dei Paesi arabi; secondo, le divisioni interne erano aggravate dal fatto che l’intero Mondo Arabo era coinvolto tanto nella guerra quanto nel futuro processo di pace contro i tre attori non-arabi della

32 Gli Accordi di Camp David furono firmati presso la residenza omonima del Presidente degli Stati Uniti d’America il 17 settembre 1978; essi si mossero in due direzioni parallele: la prima riguardava la normalizzazione delle relazioni tra Egitto ed il vicino Israele, attraverso la firma di un Trattato di Pace siglato sei mesi dopo, il 26 marzo 1973. La seconda dimensione riguardava il quadro della Pace in Medio Oriente; questo passaggio è considerato come un vero e proprio spartiacque per il Medio Oriente moderno: esso, sebbene sia valso il premio Nobel per la pace all’allora Presidente egiziano Anwar Sadat e al Primo Ministro israeliano Menachem Begin, fu considerato dal resto dei Paesi Arabi come un vero e proprio tradimento. A seguito degli Accordi di Camp David, molti paesi Arabi decisero di interrompere le loro relazioni diplomatiche e commerciali con l’Egitto in segno di protesta. J. Wynbrandt e Fawaz A. Gerges, A Brief History of Saudi Arabia, New York, Checkmark Books, 2010, p. 239.

33 E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali, dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994, 1231.

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regione: Israele, Iran, Turchia; infine, si trattava del primo intervento di massa delle forze statunitensi all’interno dell’area, fatta eccezione per i due interventi minori in Libano (quello del 1958 e quello del 1982-84)35.

La Guerra del Kuwait del 1990-1991, il primo reale conflitto a scatenarsi dopo la fine della Guerra Fredda, rappresentò un ennesimo elemento di divisione regionale. Sebbene ironicamente il vero motivo dello scontro, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, venne risolto con l’espulsione delle forze irachene alla fine del febbraio 1991, il conflitto lasciò dietro di sé innumerevoli questioni irrisolte, di politica interna come di politica estera36.

Il 2 agosto 1990 le truppe irachene occuparono il territorio dello stato del Kuwait finché, qualche settimana dopo, il governo di Baghdad ne dichiarò l’annessione come diciannovesima provincia dell’Iraq37. Il dittatore iracheno

Saddam Hussein tentava in questo modo di impadronirsi di una zona di cruciale importanza, tanto economica quanto strategica. Il Kuwait aveva infatti fatto parte, fino alla Prima guerra mondiale, dell’Impero Ottomano.

Nel 1923 i suoi confini vennero fissati con la creazione, a sud, di una “zona neutrale” tra il Kuwait e l’attuale Arabia Saudita, della quale i due Paesi avrebbero spartito i giacimenti di petrolio. I due Stati erano tuttavia governati secondo modalità molto diverse: in Iraq era al governo un gruppo repubblicano di ispirazione panaraba, mentre il Kuwait era retto da uno sceiccato conservatore che basava la sua economia sulle rendite petrolifere.

Dal momento dell’indipendenza del Kuwait il governo iracheno aveva presentato innumerevoli rivendicazioni territoriali. Fu però durante la guerra con l’Iran, dal 1980 al 1988, che si risvegliarono le ambizioni panarabe di Saddam Hussein, grazie all’auspicio di un appoggio fornito dagli statunitensi e dai sovietici unito al desiderio di poter estendere le risorse petrolifere irachene. L’annessione del Kuwait avrebbe inoltre fornito all’Iraq un ruolo di rilievo nell’intricata scacchiera del Medio Oriente in un momento di crisi degli equilibri imposti dalla Guerra Fredda, fornendo ad esso gli strumenti necessari per divenire una potenza egemone, concentrando a sé gran parte del greggio della

35 F. Halliday, “The Gulf War and its aftermath: first reflections”, International Affairs, Vol. 67, No. 2, 1991, p. 233.

36 R. Hinnebusch, The International Politics of the Middle East Manchester, Manchester University Press, 2003, p. 206.

37 S.C. Tucker, The Encyclopedia of Middle East Wars: The United States in the Persian Gulf, Afghanistan and Iraq Conflicts, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2010, p. 352.

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Penisola Arabica. C’era bisogno di una mobilitazione internazionale affinché Saddam Hussein potesse rinunciare al suo piano; fu in questa cornice che giunse la risoluzione 660 dell’ONU che chiedeva il ripristino dello status quo e il ritiro delle forze irachene. Sul piano interazionale, il progetto di Saddam Hussein raccolse tiepidi consensi.

La voce degli Stati Uniti, con il sostegno di Francia e Gran Bretagna e con l’approvazione cinese, chiedeva ripetutamente che venissero rispettati i dettami imposti dalla risoluzione 660 dell’ONU38. La ricerca di una soluzione pacifica si

protrasse fino al 28 novembre 1990, quando il Consiglio di Sicurezza condannò, attraverso una risoluzione, il tentativo di “pulizia etnica” messo in atto dall’Iraq ai danni del Kuwait, fissando al 15 gennaio dell’anno successivo un ultimatum per la risoluzione pacifica della controversia.

La controffensiva armata, guidata dagli Stati Uniti con il sostegno di 29 Paesi, ebbe inizio il giorno successivo allo scadere dell’ultimatum; i tentativi di Saddam di passare al contrattacco furono fallimentari, e lo portarono a firmare, il 3 marzo, il cessate il fuoco definitivo. Il territorio iracheno veniva così diviso in tre fasce, una delle quali sottoposta ai controlli dell’ONU e le restanti due no

fly zones aperte unicamente alla sorveglianza. Per garantire l’adempimento di

quanto imposto dall’ONU fu creata una commissione ad hoc denominata UNSCOM; parallelamente, venne istituito un embargo sulle merci irachene, dal quale esso riuscirà a divincolarsi, seppure in parte, solo nel 199639.

All’indomani della risoluzione del conflitto, la situazione in Medio Oriente si presentava come tutt’altro che distesa. La guerra non aveva trasformato radicalmente il sistema mediorientale, il quale, contro ogni attesa, restava intrappolato nelle solite, consuete logiche di potere. Quello che essa riuscì a fare, però, fu aprire la regione ad una maggiore penetrazione estera. L’egemonia americana, ben lontana dall’aver garantito la sicurezza nella regione, si è rivelata controproducente ai fini dell’ordine regionale; infatti, ampie fette della società autoctona continuano a rigettare la concezione secondo cui non esista uno status

quo accettabile per il Medio Oriente che non includa al suo interno gli interventi

38 Il Consiglio delle Nazioni Unite, attraverso la Risoluzione 662 del 1990, stabiliva che «[…] the annexation of Kuwait by Iraq under any form and whatever pretext has no legal validity, and is considered null and void». A. Kaczorowska, Public International law, Fourth Edition, London, Routledge, 2010, p. 288.

39 E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali, dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994, pp. 1349-1358.

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dell’Occidente40.

3. I Flussi di lavoro nel Golfo Persico

I flussi di lavoro nel Golfo Persico rappresentano il maggiore strumento di integrazione economica regionale. Tali flussi possono essere divisi approssimativamente in due grandi «canali» e «tre fasce» 41: i due grandi «canali» sono i flussi migratori che si indirizzano verso i Paesi dell’Unione Europea, e quelli che si dirigono verso i Paesi del GCC. Le «fasce» invece si applicano ai vari Paesi che ricevono o che inviano lavoratori migranti: la prima fascia è costituita dai Paesi unicamente riceventi dell’Unione Europea e del GCC; la seconda fascia consiste nei Paesi che inviano forza lavoro e che ne ricevono a loro volta dai Paesi più poveri; la terza ed ultima fascia è rappresentata dai Paesi più poveri, principalmente dell’Africa sub-Sahariana o del Sud-Est asiatico, che inviano forza lavoro ai Paesi della fascia intermedia senza mai riceverne in cambio.

Per quanto riguarda il secondo “canale” emerge come i Paesi del Golfo Persico rappresentino il centro attrattore di un particolare sistema migratorio che include l’Africa Orientale, parte del mondo Arabo, e l’Asia Meridionale. In questi Paesi, nel 2017, si trovava uno stock migratorio42 stimato in 28 milioni di

stranieri, circa la metà dello stock migratorio dell’America del Nord e più di un terzo di quello dell’intera Europa. Quello del Golfo è, dunque, un sistema migratorio del tutto atipico nel panorama mondiale. I migranti provengono da Paesi poverissimi e vanno verso Paesi ricchi43 ma con indici di sviluppo umano molto bassi per via della presenza di autoritarismo politico, altissime disuguaglianze, ruolo subordinato della donna, scarso rispetto dei diritti umani. La popolazione straniera supera di numero quella autoctona, ma la separatezza

40 R. Hinnebusch, The International Politics of the Middle East Manchester, Manchester University Press, 2003, pp. 237-239.

41 A. Richards e J. Waterbury, A Political Economy of the Middle East Boulder, CO, Westview Press, 2009, pp. 387-389.

42 Lo stock migratorio è costituito dalla popolazione nata fuori dal Paese di residenza secondo le stime – basate su inchieste e censimenti – fatte dalle Nazioni Unite.

43 Il Qatar precede gli Stati Uniti nella graduatoria dei Paesi col reddito pro capite più alto, gli Emirati precedono il Giappone, il Kuwait la Spagna. L. Ruggerone e R. Hamaui, Il Mediterraneo degli altri: Le rivolte arabe tra sviluppo e democrazia, Milano, Università Bocconi Editore, 2011, cap II.

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economica e sociale rispetto a questa e gli scarsi diritti di cui gode, rende la società profondamene duale. Lo sviluppo demografico dei paesi del Golfo è stato vertiginoso (Tabella 1) grazie alla elevata natalità, accompagnata dagli intensi flussi di immigrazione ed è caratterizzata da una struttura per età molto giovane44.

I cicli del mercato petrolifero hanno profondamente segnato le vicende migratorie della penisola. In una prima fase, l’immigrazione proveniva dal mondo Arabo (Palestinesi per lo più), ma l’evoluzione del panarabismo e il timore di sovversione da parte degli immigrati arabi, favorì l’immigrazione da altri Paesi. Questo cambiamento strutturale si accelerò all’inizio degli anni ’90, con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e la guerra del Golfo.

44 Età mediana di 26 anni, 20 anni in meno che in Italia. M. Baldwin-Edwards, Labour Immigration and Labour Markets in GCC Countries: National patterns and Trends, London, LSE, 2011.

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Nel 1991 vennero espulsi dal Kuwait 350.000 Giordani e Palestinesi, e 800.000 Yemeniti dall’Arabia Saudita45. Le provenienze dall’Asia presero il

sopravvento.

La tendenza generale vuole che la manodopera che non richiede particolari qualifiche o il servizio domestico sia oggi esercitato dagli asiatici, mentre gli arabi tendono a trovare con maggiore facilità impiego per mansioni qualificate o semi-qualificate46.

Nel 1990, lo stock migratorio rappresentava poco più di un terzo della popolazione dei sei Paesi; nel 2017 la quota ha raggiunto la metà (con un minimo del 37% in Arabia Saudita e un massimo dell’ 88,4% negli Emirati). Si tratta di uno stock composto per i tre quarti da maschi (Figura 2), impiegato in grande prevalenza nel settore privato, nelle costruzioni, nelle attività manifatturiere, nelle vendite, nei servizi domestici. Un paradosso è che l’intensa immigrazione si associa con livelli di disoccupazione molto alti nelle popolazioni autoctone degli Stati. Ciò è spiegato dalla scarsa attrattività del settore privato, per i bassi salari e le difficili condizioni di lavoro, dalla formazione inadeguata e dal ricco welfare che la rendita petrolifera riserva ai cittadini nativi. In anni recenti, le politiche si stanno orientando verso un maggior controllo dell’immigrazione e maggiori stimoli alla popolazione nativa, per riequilibrare un mercato del lavoro profondamente diviso e inefficiente.

45 P. Fargues e F. De Bel-Air, Migration in the Gulf States. The Political Economy of Exceptionalism, p. 144, in Diego Acosta Arcarazo e Anja Wiesbrock (a cura di), Global migration : old assumptions, new dynamics, Volume 1, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2015, pp. 139-166.

46 M. Baldwin-Edwards, Labour Immigration and Labour Markets in the GCC Countries: National Patterns and Trends, Research Paper, Kuwait Programme on Developement, Governance and Globalisation in the Gulf States, London, LSE Global Governance, 2011.

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Il dualismo della società è rafforzato dal sistema di reclutamento dei migranti, detto Kalafa, che si basa sulla piena responsabilità assunta dallo

sponsor e datore di lavoro del migrante. Quest’ultimo può ottenere un visto di

entrata solo se ha uno sponsor, senza il quale non può avere un contratto di lavoro e un permesso di residenza; può lavorare solo per lo sponsor e per la durata del contratto. Da anni si parla di riforma di questo sistema medievale, che diviene via via meno funzionale col modernizzarsi dell’economia e della società. Spingono a questo le pressioni internazionali per un maggior rispetto dei diritti dei migranti. Paghe basse, orari lunghi, segregazione residenziale, abusi frequenti, forti ostacoli ai ricongiungimenti familiari scavano un solco profondo tra la società immigrata e quella nativa. Fargues e De Bel-Air osservano che «in conseguenza dell’aumento della domanda di migranti nel mercato del lavoro e la loro persistente esclusione dalla cittadinanza, c’è una distanza crescente nelle prerogative e nei diritti nelle popolazioni degli Stati del Golfo. Quelli con pieni diritti di cittadinanza formano una proporzione sempre più piccola della

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popolazione totale. C’è un punto di rottura oltre il quale questa situazione diventerà insostenibile?» 47. Le popolazioni migranti, sebbene ricoprano un ruolo

strategico importante per i Paesi riceventi del GCC, pongono le autorità di fronte a continue sfide quali l’inadeguatezza delle infrastrutture, il monitoraggio dei migranti, la tassazione, i matrimoni misti e l’integrazione dei figli di migranti in società complesse quali quelle delle monarchie del Golfo. La presenza di gruppi così numerosi di immigranti solleva altresì questioni delicate dal punto di vista culturale, dell’identità nazionale, della sicurezza e della composizione etnica a lungo termine48.

Capitolo secondo

L’accordo economico unificato e la creazione del Consiglio di

Cooperazione del Golfo (GCC)

1. Nascita del GCC

Le potenze del Golfo Persico sono state gli unici Stati della regione ad essere riusciti a definire una cornice di cooperazione regionale49. Riunirsi

all’interno di un’organizzazione portava con sé due intenti fondamentali: rafforzare lo status quo dei Paesi del Golfo Persico nei confronti degli altri attori regionali e costruire una nuova “identità” in opposizione con l’ideologia araba dominante, cercando di risolvere i problemi sub-regionali attraverso il supporto di attori non arabi50. Infatti, per quanto ciascun Paese presenti caratteristiche sue proprie che lo distinguono da tutti gli altri, restano salde le affinità a livello

47 P. Fargues e F. De Bel-Air, Migration in the Gulf States. The Political Economy of Exceptionalism, p. 144, in D. Acosta Arcarazo e A. Wiesbrock (a cura di), Global migration:old assumptions, new dynamics, Volume 1, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2015, pp. 139-166.

48 AA. VV., “Migrant Labour in the Gulf”, Working Group Summary Report, Washington, CIRS, Center for International and Regional Studies, Georgetown University School of Foreign Service in Qatar, 2011, p. 12.

49 F. Zallio, Non solo petrolio: Mutamenti economici e politici nelle monarchie del Golfo, in Zallio, F. (ed.), L’Europa e il Golfo, I vicini lontani, Milano, Egea- monografie ISPI, 2006, p. 1. 50 M. Legrenzi, “Did the GCC Make a Difference? Institutional Realities and (Un)Intended Consequences”, in C. Harders, M. Legrenzi, Beyond Regionalism? Regional Cooperation, Regionalism and Regionalization in the Middle East, Alderhot, Ashgate Publishing Limited, 2008, p. 107.

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culturale, politico-istituzionale e socio-economiche51. All’inizio degli anni ’80, nella regione si iniziarono a percepire i forti limiti delle politiche di welfare che a partire dagli anni ’70 erano state avviate; queste avevano consentito rapidi progressi a livello di infrastrutture e offerta dei servizi alla popolazione locale ma avevano comportato un aumento della spesa pubblica. Iniziò quindi a farsi strada la consapevolezza che una strategia alternativa, che si traducesse in integrazione regionale, era fondamentale per una crescita economica sostenuta52. Gli eventi politici ed economici che hanno avuto luogo nella regione53 sono stati i motori dello sviluppo del GCC come luogo d’incontro per gli interessi dei Paesi che si affacciano sul Golfo Persico54 e come esperienza per i cittadini di nozioni importanti come quelle di cittadinanza e partecipazione55.

Il Gulf Cooperation Council nacque tra il 4 febbraio e il 26 maggio 1981. Il 4 febbraio i Ministri degli Affari Esteri di Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Oman e Emirati Arabi Uniti e Qatar si incontrarono a Riyadh, in Arabia Saudita, e decisero di formare un Consiglio di Cooperazione che comprendesse i loro Stati, di fondare un Segretariato, e di tenere dei summit periodici.

La firma poi del Nizam asasi li-majlis ta’awun li-duwal khalij

al-‘arabiyyah (Statuto del Consiglio di Cooperazione dei paesi arabi del Golfo) da

parte dei Capi di Stato, il 25 maggio 1981, fu il risultato del riconoscimento di una più chiara convergenza di interessi politici ed economici56.

Il modello cui cercò di conformarsi il GCC da subito fu la Comunità Europea; l’obiettivo, infatti, era quello di creare uno spazio economico integrato che distanziò di fatto l’organizzazione dal panorama delle altre associazioni del mondo arabo, nelle quali le questioni economiche e commerciali ricoprivano ruoli secondari57. La fondazione dell’organizzazione era da attribuire alla

51 E. Maestri, La regione del Gulf Cooperation Council (GCC), sviluppo e sicurezza umana in Arabia, Milano, Franco Angeli, 2009, p. 141.

52 Ibidem, p. 142.

53 La crisi petrolifera del 1970, la Rivoluzione Iraniana del 1979, la guerra Iran-Iraq del 1980-1988 e l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990-1991.

54 L. Low e L. Carlos Salazar, The Gulf Cooperation Council, a Rising Power and Lessons for ASEAN, Singapore, Institute of Southeast Asian Studies, 2011, p. 5.

55 M. Legrenzi, Did the GCC Make a Difference? Institutional Realities and (Un)intended Consequences, EUI RSCAS, 2006/01 Retrieved from Cadmus, European University Institute Research Repository, at: http://hdl.handle.net/1814/3924, p. 108.

56 E. Maestri, La regione del Gulf Cooperation Council (GCC) sviluppo e sicurezza umana in Arabia, Milano, Franco Angeli, 2015, p. 142.

57 C.F. Doran, Economics and Security in the Gulf, in D.E. Long, C. Koch (eds.), Gulf Security in the Twenty-first Century, Abu Dhabi, Bloomsbury Publishing PLC, 1997, p. 197.

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volontà di tutelare «eredità comuni» degli Stati membri e sviluppare la cooperazione in diversi campi, con la consapevolezza che ciò avrebbe portato sviluppo e stabilità ai loro popoli.

Una commissione speciale di esperti inaugurò due incontri, il primo a Riyadh il 24 febbraio; la commissione era presieduta dal capo della delegazione saudita, l’Ambasciatore Shaykh Ismail ash-Shura, e includeva esperti degli altri Stati del GCC. Il secondo incontro si tenne invece a Muscat, in Oman, dove la sessione fu inaugurata il 7 marzo. Al termine di tali incontri, vennero presentati ai Ministri degli Esteri quattro bozze di documenti sulle strutture e le funzioni del GCC, ovvero la Carta del GCC, le Regole e Procedure del Consiglio Supremo, le Regole e Procedure del Consiglio Ministeriale e lo Statuto Interno per il Segretariato Generale.

Il primo summit del GCC ebbe inizio il 25 maggio; il giorno successivo Abdallah Yaqub Bisharah, Segretario Generale del GCC, tenne la sua prima conferenza stampa ad Abu Dhabi. Tra i punti avanzati egli affermò che i membri rimanevano Stati sovrani indipendenti, eguali nonostante la sede del GCC fosse in Arabia Saudita e che il «Consiglio non [era] esattamente politico…[poiché dava priorità] alle questioni economiche»58. In questo scenario emerse

l’importanza dell’Arabia Saudita come guida per bilanciare i diversi vincoli interni ed esterni che i Paesi del GCC dovevano affrontare. Ciò era motivato dalla sua partecipazione al G20, dal suo ruolo di ospite del segretariato della OIC59, e dalla sua autoproclamata leadership religiosa.

Così come espresso nella carta costitutiva siglata a Riyadh l’11 novembre 1981, gli Stati aderenti al Consiglio di Cooperazione del Golfo si impegnavano a sincronizzare le loro politiche in materia di: spostamenti di capitale e persone ed

58 H.A. Jawad, Euro-Arab Relations, A study in collective diplomacy, New York, Ithaca Press, 1992, p. 13.

59 L’Organizzazione della Cooperazione islamica (OIC) è nata nel 1969 a seguito della riunione degli Stati fondatori e della redazione della Carta costitutiva, nella capitale marocchina Rabat. L’atto costitutivo ha fatto seguito alla Guerra dei sei giorni, in un momento storico in cui i Paesi arabi e musulmani sentivano l’esigenza di rivendicare la propria appartenenza ai valori dell’Islam nei confronti della comunità internazionale. L’OIC infatti si rifà all’idea di Umma, vale a dire la comunità dei credenti musulmani. Si tratta dunque di un’organizzazione che riunisce tutti i Paesi a maggioranza musulmana del mondo e si prefigge lo scopo di proteggere e salvaguardare i valori socio-economici della cultura musulmana, promuovere la solidarietà tra gli Stati membri, la cooperazione, la pace e la sicurezza internazionale. I Paesi fondatori dell’Organizzazione furono 25, mentre oggi i membri dell’OIC sono 57. Tale numero rende l’Organizzazione la seconda più grande tra gli osservatori delle Nazioni Unite – status concesso all’OIC nel 1975. Da T. Kayaoglu, The Organization of Islamic Cooperation, Politics, Problems and potential, London, Routledge, 2015, p. 18.

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esercizio di attività economiche; agricoltura; cooperazione allo sviluppo; Cooperazione finanziaria e monetaria60.

Durante la ventiduesima sessione del Consiglio Supremo tenutasi il 31 dicembre 2001, fu ampliato l’Accordo Economico Unificato del 1981 puntando al potenziamento delle relazioni economiche internazionali, dell’unione doganale, del mercato comune, dell’unione economica e monetaria, dell’educazione e diminuzione dell’analfabetismo, dei trasporti, delle infrastrutture e delle comunicazioni61. L’unione monetaria e la creazione di un mercato mobiliare rappresentarono un argomento chiave del dibattito interno.

Il Consiglio Supremo, durante il summit di Muscat del 2001, decise di fissare un calendario per l’adozione di una moneta unica, il Khaleeji, ancorata al dollaro a partire dal primo Gennaio 201062. Il progetto intendeva chiaramente porsi come replica dell’esperienza di unificazione monetaria dell’UE, pur con la variante del collegamento ad una valuta esterna. Non è casuale la sottoscrizione nel 2002 da parte delle autorità del GCC di un accordo con la BCE per l’elaborazione di uno studio sui requisiti e sulle misure necessarie per il conseguimento dell’unione monetaria nella regione63. Presentando una rapida

analisi dei potenziali costi e benefici64 insiti nell’unione monetaria nei Paesi del

GCC, possiamo rilevare quattro categorie di costo, ovvero: costi relativi alla cessione della sovranità monetaria; costi relativi all’armonizzazione di determinate pratiche economiche nazionali in tema di scambi, investimenti e lavoro; costi relativi all’applicazione di principi di convergenza basati sui criteri elencati nel Trattato di Maastricht; costi politici, i quali incarnavano i timori che la perdita di potere sovrano da parte di uno Stato potesse rafforzare la posizione di una particolare nazione, l’Arabia Saudita.

La perdita del controllo sovrano sulla politica monetaria è generalmente considerato il maggior costo associato all’implementazione di una moneta unica.

60 “The Unified Economic Agreement Between the Countries of the Gulf Cooperation Council”, from http://www.worldtradelaw.net/fta/agreements/gccfta.pdf.

61 “Al-Ittifaqiya al-Iqtisadiya baina daul Majlis al-Taʿāwun al-Khalyji”, da www.gcc-sg.org. 62 La cui entrata in vigore continua ad essere procrastinata ed è stata recentemente posticipata non oltre il 2020, http://www.ameinfo.com/gcc-monetary-union-reality-344965.

63 V. Duwal, “Al khalij tukallif, al bank al-markazi al-urubbi dirasah al-wahdah al-naqdiyyah”, i Paesi del Golfo hanno affidato alla BCE uno studio sull’unione monetaria, in “Suq al-mal” (mercato finanziario), Oman, Agosto-Ottobre, 2002, n. 20, p. 26.

64 V. Talbot, La UE e il CCG tra libero scambio e integrazione regionale, in Il Medio Oriente tra boom economico e instabilità, Quaderni di Relazioni Internazionali ISPI, n.5, Roma, Egea, 2007, p. 44.

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Finora, numerosi studi sono giunti alla conclusione che per i Paesi membri non ci sarebbero grandi perdite sotto questo punto di vista65, grazie alla struttura

fissa dei tassi di cambio e alla decennale uniformità della politica monetaria nella regione66. Tuttavia, tra le varie preoccupazioni che si generarono, si nota

quella relativa alla sovranità fiscale, tema di cui spesso si fanno portatori i difensori di talune pratiche economico-finanziarie prive della trasparenza che un’unione monetaria dovrebbe invece sostenere.

I conti di molte nazioni del GCC, infatti, sono spesso caratterizzati da una certa opacità e la supervisione legislativa risulta carente. Ad esempio, nel 2002, un report del Fondo Monetario Internazionale ha stabilito che il 20% dei ricavi di idrocarburi dell’Arabia Saudita non venne riportato nel bilancio statale67. Per

valutare eventuali costi dell’unione monetaria di carattere politico invece, bisogna considerare le dinamiche di potere regionali. L’Arabia Saudita viene da sempre considerata la nazione più potente e importante del Golfo e lo dimostra anche il fatto che, dal momento della creazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, la sua capitale Riyadh ospita la sede del Segretariato del GCC68. Una particolare preoccupazione per gli Stati più piccoli riguarda la probabilità che l’Arabia Saudita eserciti il potere politico ed economico a suo esclusivo vantaggio. Molti studiosi concordano sul fatto che timori del genere rappresentino una delle principali cause del rallentamento del processo di integrazione economica nel Golfo69.

Soffermandoci adesso sugli eventuali benefici di un’unione monetaria si possono annoverare: la riduzione dei costi di transazione e dei rischi connessi al tasso di cambio e d’interesse; l’aumento degli scambi commerciali; la maggior trasparenza sui prezzi praticati; un ambiente di business migliore; il rafforzamento e la rinnovata coesione insita in una singola entità: il Consiglio di

65 U. Fasano, Monetary Union Among Member Countries of the Gulf Cooperation Council, IMF Occasional Paper 223, International Monetary Fund, Washington D.C., 2003, p. 20.

66 M. Trabelsi, Is the announced monetary union in GCC countries feasible? A multivariate structural VAR approach, Middle East Development Journal, Vol. 4, No. 1, Economic Research Forum, Il Cairo, 2012.

67 R. Khalaf, Saudi Arabia urged to spped up economic reform, da Financial Times, Londra, 23 ottobre 2002, p. 17.

68 A.H. Cordesman, Saudi Arabia Enters the 21st Century, Praeger/Greenwood, Washington D.C., 2003, p. 30.

69 M. Legrenzi, The Gulf Cooperation Council in light of international relations theory, International Area Studies Review, Vol. 5, No. 2, Oslo, 2002.

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Cooperazione del Golfo risulterà maggiormente influente nelle negoziazioni economiche e politiche internazionali70.

Il periodo di vita iniziale dell’organizzazione (1981-1983) fu segnato dalla creazione di un’area di libero scambio, attraverso l’abolizione dei dazi doganali sui prodotti dei paesi membri del GCC e dall’istituzione della Gulf Investment

Corporation (CIG), con sede in Kuwait, primo importante passaggio di uno

sviluppo regionale coordinato. Si promosse la realizzazione di vari progetti congiunti di diversificazione nel settore industriale e agricolo e si affermò come una delle più importanti istituzioni finanziare regionali71. Come indicato da uno studio dell’IMF: «The monetary union is likely to promote policy coordination,

reduce transaction costs, and increase price transparency, resulting in a more stable environment for business and facilitating investment decisions»72.

Tuttavia gli analisti tendono a ricondurre i benefici più immediati ad una serie di iniziative di più largo respiro che hanno comportato una maggiore integrazione del mercato del GCC oltre che un ulteriore impulso alla diversificazione economica; ad un più forte aumento del commercio interno all’area; ad un potenziamento delle relazioni bancarie e finanziarie tra i Paesi membri; alla creazione di istituzioni centralizzate con un reale potere decisionale.

La firma di un Accordo di unione monetaria, paragonabile al trattato di Maastricht, e la formulazione di uno Statuto per un Consiglio Monetario del Golfo, rappresentano due passi positivi compiuti nel 2008 e rimandano ad una precisa volontà politica di preparazione alla moneta unica sul piano istituzionale, legale, operativo. Il Consiglio Monetario è chiamato ad agire da precursore della Banca Centrale del GCC, attraverso la corretta gestione di tutti gli aspetti tecnici, un percorso che certamente richiederà ancora del tempo73.

70 Ibidem.

71 J.W. Twinam, The Gulf Cooperation Council, Washington DC, Middle East Policy Council, 1992, pp. 111-112.

72 U. Fasano, Z. Iqbal, Common currency, in Finance & Development. A quarterly magazine of the IMF, 2002, n. 4, p. 2, disponibile sul sito web http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2002/12/fasano.htm.

73 E. Maestri, La regione del Gulf Cooperation Council (GCC) sviluppo e sicurezza umana in Arabia, Milano, Franco Angeli, 2015, p. 175.

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