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Il successo dell'azienda attraverso la Balanced Scorecard: uno strumento per gestire strategicamente gli Intangibles.

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Strategia, Management e Controllo

TESI DI LAUREA

Il successo dell’azienda attraverso la Balanced Scorecard:

uno strumento per gestire strategicamente gli intangibles.

Relatore:

Prof. Nicola Giuseppe Castellano

Candidato:

Milena Nutile

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INDICE

_____________________________________________________

Prefazione 5

CAPITOLO I – INTRODUZIONE ALLA BALANCED SCORECARD 6

1.1. Cenni storici 6

1.2. L’approccio di Kaplan e Norton 8

1.3. Metodologia di applicazione 9

1.4. Analisi delle quattro prospettive 13

1.4.1. La prospettiva economico-finanziaria 13

1.4.2. La prospettiva del cliente 15

1.4.3. La prospettiva dei processi gestionali interni 16

1.4.4. La prospettiva di apprendimento e crescita 18

CAPITOLO II – GLI INTANGIBLE ASSETS 22

2.1. Considerazioni iniziali: l’intangibile come fonte di vantaggio competitivo 22

2.2. Definire gli intangibles 27

2.3. Il capitale umano: cos’è e come misurarlo 31

2.3.1. Come monitorare e valutare il capitale umano? Un approccio alternativo alla Balanced Scorecard 33

2.4. Il capitale strutturale 37

2.5. Il capitale relazionale 39

CAPITOLO III – BALANCED SCORECARD ED INTANGIBLES: GESTIRE IL SUCCESSO DELL’AZIENDA 43

3.1. Perché bisogna misurare per poter gestire: Le tecnologie di Business Intelligence 43

3.2. La Balanced Scorecard: dove individuare gli Intangibles? 46

3.3. Balanced Scorecard e capitale umano 49

3.3.1. Capacità del personale 49

3.3.2. Motivazione, Empowerment e Allineamento 51

3.4. Balanced Scorecard e capitale organizzativo 54

3.4.1. Il sistema informativo aziendale e tecnologie di supporto 54

3.4.2. Innovazione di prodotto/processo 55

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3.5. Balanced Scorecard e capitale relazionale 59

CAPITOLO IV – DALLA TEORIA ALLA PRATICA: CASI DI AZIENDE CHE HANNO ADOTTATO LA BALANCED SCORECARD PER MONITORARE GLI INTANGIBLES 63

4.1. Il caso Southwest Airlines 65

4.2. Il caso Informatica Trentina S.p.A. 68

4.3. Il caso Sediin S.p.A 79

4.4. Il caso KappAhl 84

CAPITOLO V – CONCLUSIONI 89

Bibliografia 100

Sitografia 106

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5

PREFAZIONE

Il presente lavoro ha lo scopo di evidenziare come la Balanced Scorecard sia uno strumento in grado di supportare le imprese nel processo di attuazione della strategia, consentendo un allineamento tra la strategia stessa e la struttura1. L’azienda, una volta

che ha definito la propria mission, può plasmare la Balanced Scorecard cercando di adattare le varie dimensioni del modello in virtù del proprio indirizzo strategico.

Partendo da una panoramica sulla struttura della Balanced Scorecard, verrà poi rapportata agli intangibles, mettendo in luce come essa sia idonea a gestire strategicamente il capitale intangibile presente in azienda, il quale rappresenta attualmente uno dei più rilevanti fattori critici di successo che permette all’azienda di perseguire un vantaggio competitivo in un ambiente sempre più complesso e dinamico.

A fronte di tale studio verranno presi in considerazione alcuni casi di aziende che hanno fatto della Balanced Scorecard un valido strumento per gestire aspetti diversi della propria strategia, lontani dalla rappresentazione contabile.

1 “Allineamento strategico – come usare la Balanced Scorecard per aumentare la competitività” (D. Kaplan – D.P. Norton)

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6

CAPITOLO I – INTRODUZIONE ALLA BALANCED SCORECARD

1.1. CENNI STORICI

Negli anni ’70 – ’80 vi era un forte orientamento verso l’interno dell’azienda, verso il passato e verso dimensioni economico-finanziarie della gestione. In quegli anni la strategia prevalente era la leadership di costo e tutta la partita si giocava sull’efficienza. Il focus era su indicatori contabili, orientati ai risultati e completamente svincolati dalla gestione operativa. Chiaramente tutto sfociava in una miopia di breve periodo, che non arrivava a cogliere gli elementi che determinavano il successo competitivo dell’azienda. Con il passare del tempo i modelli di misurazione delle performance sono andati via via evolvendosi, adattandosi sempre di più alle nuove esigenze delle aziende, pur conservando parzialmente dei limiti che verranno superati solo attraverso la Balanced Scorecard, un modello sicuramente più semplice ma soprattutto flessibile.

La Balanced Scorecard (BSC), letteralmente “scheda di valutazione bilanciata”, nasce proprio con l’obiettivo di porre rimedio ai limiti e all’obsolescenza dei modelli tradizionali di monitoraggio delle performance, traducendo la strategia dell’azienda in indicatori di performance (scorecard) più evoluti ed assicurando al contempo l’equilibrio tra le prestazioni (balanced) considerando sia aspetti di natura finanziaria sia aspetti di natura non finanziaria che dovrebbero condurre l’impresa a livelli di performance superiori e sostenibili nel tempo (Bogni, 2009).

L’ideazione della Balanced Scorecard si deve a R. Kaplan - professore di contabilità dell’Harvard Business School di Boston - e a D. Norton - fondatore e presidente della Renaissance Solutions, un’impresa di consulenza di Lincoln (Massachussets) -, i quali in un articolo risalente agli inizi degli anni ’90, proposero un approccio olistico e multidimensionale alla misurazione delle performance che andasse oltre i limiti che presentavano tutti gli altri strumenti di misurazione fino ad allora utilizzati. Questi ultimi, infatti, si concentravano principalmente, se non esclusivamente, sugli aspetti economico-finanziari senza guardare a tutte quelle dimensioni aziendali che, viste congiuntamente, erano funzionali a garantire all’azienda performance migliori e successo competitivo. La proposta di Kaplan e Norton nasceva, quindi, dalla consapevolezza dell’assoluta carenza delle tradizionali misure nel monitorare le performance di aziende ad alta professionalità, con patrimoni di competenze e di altre risorse intangibili elevati. Arroccate sulla loro staticità, non riuscivano a fornire alle imprese le giuste informazioni

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7

per riuscire a farsi strada in un contesto sempre più dinamico, innovativo e tecnologico che iniziava a proporre continuamente nuove sfide da affrontare.

Alla base dello strumento vi era l’idea di individuare una serie di parametri-obiettivo tra loro bilanciati, idonei a tradurre la strategia in azione e a catturare le dimensioni intangibili della gestione, consentendo un ampio monitoraggio delle performance aziendali: in questo modo la Balanced Scorecard si configurava come uno strumento per realizzare un controllo di gestione innovativo.

L’innovatività risiede in primis nello stretto legame che essa ha con la strategia; infatti i parametri-obiettivo devono essere un’espressione degli obiettivi strategici o dei fattori critici di successo dell’azienda2. Inoltre, l’elemento distintivo consiste anche nello

sguardo a 360° della performance aziendale in quanto la BSC cerca di prendere in considerazione più prospettive, soprattutto connesse ad elementi non visibili nei report aziendali.

La BSC mantiene le tradizionali misure finanziarie che, però, “raccontano la storia di eventi passati”3 e per questo motivo finiscono con l’essere inadeguate per guidare e

valutare il percorso di creazione di valore futuro da parte delle aziende attraverso investimenti in clienti, fornitori, dipendenti, processi, tecnologia ed innovazione. Pertanto la BSC finisce con l’integrare le misure finanziare delle performance passate con le misure di drivers relativi alle performance future.

2 I fattori critici di successo “sono quel numero limitato di aree, su cui l’azienda deve focalizzare il

raggiungimento di risultati positivi per assicurare all’azienda un rendimento competitivo positivo”-

Rockart (1982)

Sono le variabili su cui il management può agire con le sue decisioni e che possono incidere in modo significativo sulla posizione competitiva dell'impresa all'interno del settore in cui essa opera. Tali fattori variano e hanno importanza diversa a seconda del settore.

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1.2. L’APPROCCIO DI KAPLAN E NORTON

Nel tempo l’impostazione che si è più ampiamente diffusa è proprio quella di Kaplan e Norton secondo cui le prospettive di analisi sono quattro (figura 1):

1) Prospettiva economico-finanziaria 2) Prospettiva dei clienti

3) Prospettiva dei processi gestionali interni 4) Prospettiva di apprendimento e crescita

(Figura 1) – The Balanced Scorecard Provides a Framework to Translate a Strategy into Operational Terms

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Source: Robert S. Kaplan and David P. Norton, “Using the Balanced Scorecard as a Strategic Management

System”, Harvard Business Review (January-February 1996): 76.

Centro cardine e punto di convergenza di tutte e quattro le prospettive è la dimensione “Vision e Strategia”, per evidenziare, come prima descritto, l’indissolubile legame dello strumento con la strategia dell’azienda.

Prima di analizzare nel dettaglio le singole prospettive, bisogna precisare che la BSC non si riduce solo a queste dimensioni di analisi ma alla base vi è un preciso disegno di come lo strumento debba essere impostato affinché possa avere successo.

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1.3. METODOLOGIA DI APPLICAZIONE

Ancor prima di applicare quella che propriamente è la Balanced Scorecard, ovvero un cruscotto composto da pochi ma significativi indicatori, vi è una sorta di “fase preparatoria” che ha lo scopo di guidare il processo di traduzione della strategia in azione. L’impostazione dovrebbe essere vista come un processo che consta di una serie di fasi che il management dovrebbe seguire e che possono essere raggruppate a loro volta in tre macro-fasi:

 Descrizione della strategia  Misurazione della strategia  Gestione della strategia

Prima di tutto bisogna definire la Mission, ossia chiedersi in cosa l’azienda vuole eccellere.

In funzione della Mission, è necessario individuare quali sono gli obiettivi strategici in cui la Mission stessa si concretizza.

Vanno poi identificati i fattori critici di successo, ossia quegli elementi che consentono all’azienda di distinguersi rispetto ai competitors ed in grado di garantire un vantaggio competitivo durevole nel tempo.

Lo step successivo consiste nella costruzione della mappa strategica, in grado di cogliere le relazioni di causa-effetto tra obiettivi, variabili e processi critici. Essa rappresenta il punto di arrivo delle fasi precedenti; infatti, proprio definendo la mappa strategica si potrebbe identificare la prima macro-fase relativa alla descrizione della strategia.

La seconda macro-fase, la misurazione della strategia, riguarda l’applicazione della BSC. È a questo punto che si inseriscono le quattro prospettive prima definite dal momento che bisogna identificare misure ed indicatori: per ognuna di esse è necessario capire cosa si deve misurare e qual è il parametro più consono per farlo.

L’ultima macro-fase è quella della gestione della strategia in cui bisogna elaborare dei piani di azione, ossia definire le azioni da porre in essere per raggiungere i target desiderati, traducendo quindi la strategia in termini operativi. Bisogna fare della strategia il lavoro quotidiano di ciascun attore aziendale; essa deve pervadere tutta l’azienda ed avere una forte sponsorizzazione da parte del leader. Deve essere declinata in obiettivi via via più dettagliati: ai livelli più elevati si avranno obiettivi volti alla realizzazione del vantaggio competitivo e quindi più tempestivi; ma ai livelli più bassi vi saranno obiettivi più puntuali, di breve periodo, orientati più alla precisione che alla tempestività.

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A tal proposito, infatti, D’Aries e Nonini sostengono come nel settore privato la Balanced Scorecard abbia goduto di successo nella fase di programmazione strategica proprio perché da un lato essa permette di ‘‘tradurre” la strategia in termini operativi, mentre dall’altro, permette di “comunicare” la strategia a tutti i livelli dell’organizzazione.4

Di tutto il percorso di implementazione, il passaggio degno di particolare nota è prima di tutto la mappa strategica (figura 2). Essa rappresenta il punto di partenza in quanto racchiude e sintetizza gli obiettivi che l’azienda si propone di perseguire. Permette, cioè, di avere uno sguardo d’insieme sulla strada che l’azienda stessa vuole intraprendere, andando a distinguere quattro aree: un’area rivolta alle persone e ai sistemi informativi (prospettiva di apprendimento e sviluppo), un’area rivolta ai processi interni, un’area rivolta al cliente e quindi al mercato ed infine un’area rivolta ai risultati economico-finanziari.

(Figura 2) – Mappa strategica secondo il modello di Kaplan e Norton

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Per ogni area bisogna distinguere una serie di obiettivi, i quali sono posti in relazione tra loro mediante rapporti di causalità. Questo vuol dire che, partendo dalla parte bassa della mappa strategica, ogni obiettivo è causalmente correlato agli obiettivi superiori, o meglio ogni obiettivo è funzionale alla realizzazione degli obiettivi sovrastanti.

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Non è di certo una casualità che alla base della mappa strategica vi sia proprio la prospettiva di apprendimento e sviluppo. È chiaro, pertanto, come questa dimensione e gli obiettivi in essa presenti rappresentino le fondamenta affinchè l’azienda possa creare valore nel lungo periodo e di qui già si evince la capacità del modello in questione di saper cogliere gli elementi intangibili della gestione. Infatti, è proprio grazie all’entità del capitale informativo, del capitale umano e del capitale organizzativo che l’azienda è in grado di poter raggiungere gli obiettivi che si è posta in termini di processi interni (miglioramento dei processi operativi interni, miglioramento dei processi di gestione del cliente, innovazione di prodotto/servizio). Questi obiettivi costituiscono a loro volta la base per quelli relativi alla dimensione successiva del cliente e del mercato. Consequenzialmente tutte le relazioni tra i vari obiettivi confluiscono nella prospettiva economico-finanziaria: si tratta di andare ad osservare come gli obiettivi delle varie prospettive permettono di conseguire i risultati economico-finanziari desiderati e quindi consentono di raggiungere determinati livelli di produttività e crescita, che sono senza dubbio funzionali a soddisfare l’azionista.

Quindi, se la base della mappa racchiude gli elementi intangibili, nel mezzo vi è la dimensione più operativa della gestione per poi arrivare al vertice in cui vi saranno gli indicatori cosiddetti “lagging” ossia quelli più tradizionali di fatturato e redditività, come il ROI, il ROE, il MOL, etc., i quali misurano dei risultati a consuntivo.

Tali indicatori si contrappongono a quelli di natura non finanziaria definiti “leading” che, invece, sono i driver del successo futuro ossia il loro valore è espressione della performance futura dei lagging indicators secondo una relazione di causa-effetto sancita attraverso la strategia.

È proprio il termine “bilanciata” che vuole indicare l'equilibrio creato tra le misure di risultato e quelle che indirizzano le performance future (Monti, 2003).

Kaplan e Norton sottolineano come sia fondamentale la presenza di entrambe le tipologie di indicatori per avere una Balanced Scorecard costruita correttamente.5

Dunque, l’essenza della mappa strategica si riassume nel dire che tutte le relazioni in essa presenti individuano l’obiettivo causa da quello che ne è conseguenza, partendo dalla parte più intangibile e arrivando agli indicatori “più concreti” economico-finanziari. L’influenza che un obiettivo ha su un altro apparentemente diverso non è, però, unidirezionale o univoca bensì si potrebbero immaginare una serie di linee di connessione

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tra gli obiettivi posti nelle varie prospettive che stanno ad indicare come, in realtà, essi abbiano uno stretto legame non solo con l’area o l’obiettivo immediatamente successivi ma sono la causa di effetti visibili anche in aree più lontane. Per esempio gli obiettivi che vengono realizzati nella sfera degli intangibles hanno un impatto sulla sfera operativa (area dei processi interni) poiché se l’azienda è dotata di personale preparato, competente, vuol dire che avrà una migliore produzione e riuscirà a gestire meglio anche le relazioni con i clienti (area del cliente). Consequenzialmente questo avrà un impatto sul fatturato e quindi si può notare come appunto un obiettivo posto alla base riesca ad avere un forte impatto su un obiettivo posto al vertice.

Va infine sottolineato che la mappa strategica va contestualizzata e definita in relazione al particolare tipo di business e alla specifica strategia, andando ad evidenziare nessi causali tra gli obiettivi che siano robusti e sostenibili nel tempo.

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1.4. ANALISI DELLE QUATTRO PROSPETTIVE

Una volta definita, la strategia va misurata e per tale fine si ricorre alla Balanced Scorecard, un insieme di indicatori funzionali a gestire strategicamente l’azienda.

Il modello di Kaplan e Norton non deve essere applicato pedissequamente dalle aziende ma deve essere calato nella realtà aziendale e quindi le quattro prospettive rappresentano solo una proposta per semplificare la spiegazione del modello. A queste dimensioni possono esserne aggiunte altre: la BSC deve essere come “un guanto cucito su misura” per l’azienda e non un modello da seguire così come descritto. Infatti spesso vengono aggiunte altre dimensioni, come la prospettiva sociale oppure la prospettiva etica soprattutto se si tratta di aziende che fanno leva su questi aspetti per perseguire il vantaggio competitivo.

Avendo ben chiara quale sia la strategia e la mission aziendale, per ognuna delle prospettive il controller deve definire degli obiettivi cardine tra loro collegati e coerenti con la strategia; deve poi individuare delle misure (indicatori) adeguate da poter utilizzare per realizzare quegli obiettivi. È necessario che tali indicatori siano chiari, efficaci e selettivi onde evitare il rischio di essere fuorvianti. Selezionati gli indicatori più opportuni, bisogna dare un target, fissare cioè un livello da raggiungere.

Infine, a fronte dell’obiettivo prescelto e del target individuato, bisogna capire quali sono le azioni, le iniziative da porre in essere finalizzate al raggiungimento dell’obiettivo e quindi all’attuazione della strategia stessa.

A differenza del budget che è gran parte scollegato dalla strategia poiché va a considerare solo gli aspetti economico-finanziari, la BSC è uno strumento di controllo strategico atto a garantire il monitoraggio e la realizzazione della strategia.

1.4.1. LA PROSPETTIVA ECONOMICO-FINANZIARIA

“Per riuscire sul piano economico-finanziario, come dovremmo presentarci ai nostri

azionisti?”6

È questo il quesito che si pongono gli autori del modello: tale dimensione rende esplicito l’impatto che la strategia ha sulla creazione di valore per gli azionisti e considera, pertanto, il punto di vista e le aspettative degli azionisti. Il focus qui è sui risultati

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economico-finanziari ed è in questa prospettiva che rientreranno tutti gli indicatori contabili tradizionali (ROI, ROE, indici di cash flow, di fatturato, etc.).

“The financial perspective contains outcome measures that result from achievement of

objectives in the lower perspectives”7

Gli obiettivi presenti nella prospettiva economico-finanziaria sono finalizzati ad orientare la ricerca e la definizione degli obiettivi di tutte le altre prospettive del cruscotto: tutte le misure scelte dovrebbero costituire infatti un anello della catena di rapporti causa-effetto che determinano un miglioramento della performance finanziaria.

L’errore in cui incorrono molte imprese è spesso quello di proporre obiettivi economico-finanziari uguali per tutte le unità di business. In questo modo probabilmente si riesce ad avere un criterio omogeneo di valutazione dei manager delle varie unità, ma non si tiene conto del fatto che le singole business unit possono porre in essere strategie del tutto differenti sebbene esse poi convergano verso la stessa strategia definita ex-ante. Sarebbe dunque più consono individuare una serie di indicatori per ogni unità di business che siano molto più accurati e coerenti.

Inoltre gli autori mettono in luce come le aziende abbiano due leve fondamentali per la

loro strategia finanziaria: crescita dei ricavi e produttività. Il primo ha generalmente due componenti: costruire il franchising con ricavi da nuovi mercati, nuovi prodotti e nuovi clienti; e aumentare il valore per i clienti esistenti approfondendo le relazioni con loro attraverso vendite estese - ad esempio prodotti cross-selling o offrendo prodotti in bundle anziché singoli prodotti.

La strategia di produttività di solito si compone di due parti: migliorare la struttura dei costi dell'azienda riducendo le spese dirette e indirette e utilizzare le attività in modo più efficiente riducendo il capitale fisso e il fattore lavoro necessario per supportare un

determinato livello di business.8

7 “La prospettiva finanziaria contiene misure di risultato che derivano dal raggiungimento di obiettivi nelle prospettive inferiori”

Kaplan e Norton –“The Balanced Scorecard. Translating Strategy into Action”

8 “Companies have two basic levers for their financial strategy: revenue growth and productivity. The

former generally has two components: build the franchise with revenue from new markets, new products, and new customers; and increase value to existing customers by deepening relationships with them through expanded sales—for example, cross-selling products or offering bundled products instead of single products.

The productivity strategy also usually has two parts: improve the company’s cost structure by reducing direct and indirect expenses, and use assets more efficiently by reducing the working and fixed capital needed to support a given level of business”

Balanced Scorecard – “Having Trouble with your strategy? Then map it”. Harvard Business Review – by R.Kaplan and D.Norton (September 01,2000)

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Dunque gli obiettivi selezionabili in questa prospettiva possono essere molteplici (incremento dei ricavi o anche riduzione dei costi): tutto dipende dal binario su cui l’azienda vuole viaggiare ed in funzione di ciò, si dovranno selezionare adeguate misure, target e quindi capire di conseguenza le iniziative più opportune da realizzare.

1.4.2. LA PROSPETTIVA DEL CLIENTE

“Per realizzare la nostra visione, come dovremmo presentarci alla nostra clientela?”9

Nell’era della old economy la gestione dei clienti si concentrava sulle transazioni: era importante promuovere e vendere le merci realizzate dall’impresa; le strategie di business erano guidate dal prodotto. Il successo delle imprese si basava principalmente sulla gestione dei costi e sulle economie di scala, fornendo prodotti a prezzi che creavano buoni margini pur continuando a risultare sostenibili per la clientela. Non costituiva una priorità instaurare rapporti con la clientela, priorità che invece emerge con l’avvento della new

economy10: il cliente è posto al centro delle strategie per la creazione del valore11. La

“customer satisfaction” diventa un modo di concepire il business e una fonte di vantaggio competitivo. Sono infatti i clienti ora a guidare e trainare la domanda secondo una logica di gestione degli ordini pull ossia “tirati” dal mercato, dal cliente e non più push, imposti dall’azienda sul mercato a prescindere dalla reale domanda. Diventa un fattore critico di successo per l’azienda riuscire a soddisfare le esigenze del cliente prima dei competitors. Chiaramente le esigenze informative cambiano: diventa necessario acquisire, mantenere ed incrementare rapporti a lungo termine e redditizi con i clienti target.

Nella prospettiva in analisi si evidenza la necessità di creare valore per il cliente finale al fine di assicurare il successo dell’azienda nel tempo. Questa è dunque una dimensione che guarda all’esterno dell’azienda, al mercato.

Coerentemente alla strategia, l’impresa deve individuare i segmenti di mercato ed il target di clientela a cui rivolgersi e raccogliere tutte le informazioni necessarie per soddisfare i particolari bisogni. In funzione di ciò, dovranno essere definiti obiettivi, misure, target e quindi azioni da porre in essere per ogni tipologia di segmento prescelto.

9 Riferimento (figura 1) - schema BSC Kaplan e Norton

10 Il termine fu coniato nel 1998 dal saggista statunitense Kevin Kelly ("New Rules for a New Economy") 11 Rif. Carlo De Benedetti, “New economy. Una rete per l'economia del futuro - La rivoluzione della net

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Si tratta qui di obiettivi che hanno lo scopo di migliorare la soddisfazione del cliente e la sua successiva fidelizzazione. Le misure dovranno essere in grado di monitorare anche il tipo di relazione che l’azienda riesce ad instaurare con il cliente.

Bisogna quindi capire cosa genera valore per il cliente; se l’obiettivo è proprio incrementare la soddisfazione del cliente, esempi di misure potranno riguardare il servizio offerto, la qualità piuttosto che la disponibilità o i tempi di consegna del prodotto, il numero di reclami, il numero dei clienti che riacquistano.

Riprendendo un passaggio del lavoro di Kaplan e Norton:

“Il fulcro di qualsiasi strategia aziendale è la value proposition del cliente, che descrive il mix unico di attributi di prodotto e servizio, relazioni con i clienti e immagine aziendale offerti da un'impresa. Definisce in che modo l'organizzazione si differenzia dai concorrenti per attirare, trattenere e approfondire le relazioni con i clienti target. La value proposition è cruciale perché aiuta un'organizzazione a collegare i suoi processi

interni a risultati migliori con i propri clienti”12.

1.4.3. LA PROSPETTIVA DEI PROCESSI GESTIONALI INTERNI

“Per soddisfare i nostri azionisti e la nostra clientela, in quali processi dovremmo

eccellere?”13

Questa è la prospettiva che, contrariamente alla precedente, guarda all’interno dell’azienda. Si tratta di individuare tutti quei processi gestionali interni che sono determinanti per il successo aziendale e nei quali l’azienda deve eccellere al fine di soddisfare la clientela e conseguire gli obiettivi economico-finanziari. Di qui si evince ancora una volta il nesso di causa-effetto che lega tutte le prospettive della BSC, per cui gli obiettivi di una dimensione sono funzionali al perseguimento degli obiettivi di altre dimensioni.

12 “The core of any business strategy is the customer value proposition, which describes the unique mix of

product and service attributes, customer relations, and corporate image that a company offers. It defines how the organization will differentiate itself from competitors to attract, retain, and deepen relationships with targeted customers. The value proposition is crucial because it helps an organization connect its internal processes to improved outcomes with its customers.”

Balanced Scorecard – “Having Trouble with your strategy? Then map it”. Harvard Business Review – by R.Kaplan and D.Norton (September 01,2000) 13 Riferimento (figura 1) - schema BSC Kaplan e Norton

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Se l’azienda riesce a migliorare i processi interni, sarà capace di perseguire gli obiettivi della dimensione della clientela avendo sicuramente risvolti positivi sugli obiettivi economico-finanziari futuri.

Rientreranno in questa prospettiva i processi di marketing, di progettazione, di fabbricazione, il processo di gestione del magazzino, il processo di gestione delle relazioni con il cliente.

Un obiettivo perseguibile in questo contesto potrebbe riguardare, per esempio, l’innovazione aziendale e quindi utilizzare misure come il numero di nuovi prodotti realizzati in un certo arco temporale oppure il tempo necessario a lanciare un nuovo prodotto sul mercato (time to market) visto rispetto a quello dei competitors. Ancora, l’entità degli investimenti in R&S confrontati con quelli dei concorrenti.

Kaplan e Norton più recentemente hanno presentato un’evoluzione della prospettiva dei processi interni articolata in quattro tipologie di processi: 14

operation management process customer management process innovation process

regulatory and social process.

Gli “operation management process” (letteralmente: “processi di gestione delle operazioni”) sono incentrati sullo sviluppo delle relazioni con i fornitori, sulla gestione del processo di produzione dei prodotti e sevizi, di distribuzione e consegna dei prodotti ai clienti e infine sulla gestione dei rischi.

I “customer management process” sono i processi di gestione della clientela che riguardano la selezione e acquisizione dei clienti, il rafforzamento ed accrescimento della relazione con gli stessi cercando di mantenerla stabile nel tempo.

Gli “innovation process” (processi di innovazione), si concentrano sulla gestione dell’innovazione al fine di sviluppare nuovi prodotti, processi, e servizi, permettendo spesso all’azienda di penetrare nuovi mercati e segmenti di clientela.

I “regulatory and social process” (letteralmente: “processi normativi e sociali”) sono processi che mirano a favorire l’inserimento dell’impresa nella comunità e nei paesi in cui si ritrova a svolgere la propria attività economica. I processi in questione possono riguardare l’ambiente o la comunità locale, la sicurezza e la salute, l’occupazione.

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Operare in questa maniera significa per l’azienda poter godere di una buona reputazione e ciò contribuisce ad attrarre e mantenere personale altamente qualificato, rendendo i processi più efficienti ed efficaci.

1.4.4. LA PROSPETTIVA DI APPRENDIMENTO E CRESCITA

“Per realizzare la nostra visione, come incrementeremo la nostra capacità di cambiare

e migliorare?”15

Questa è la prospettiva che in particolare si riconnette al presente studio, ossia fa da ponte di collegamento tra la Balanced Scorecard e i cosiddetti “intangibles”, che verranno più ampiamente definiti nel prosieguo del lavoro.

Lo scopo di questa dimensione è quello di gettare le basi per le altre tre prospettive. Rappresenta a mio avviso la prospettiva più rilevante perché solo se dotata di solide radici, l’azienda può crescere, svilupparsi ed adattarsi ai continui e spesso repentini cambiamenti che caratterizzano l’ambiente esterno, rispondendo al suo primario finalismo ossia quello di essere un “istituto economico destinato a perdurare nel tempo”16.

Tale prospettiva non fa altro che costruire l’impalcatura a sostegno del miglioramento in un’ottica di medio-lungo termine. Se l’azienda non investe nella formazione e nell’aggiornamento del personale e in nuovi sistemi informativi e procedure, difficilmente si potranno raggiungere obiettivi ambiziosi di lungo termine inerenti la clientela ed i processi interni, con inevitabili ripercussioni negative anche sui risultati economico-finanziari.

Il cambiamento del ruolo del lavoratore che da mero esecutore di mansioni definite ed imposte dall’alto in una logica top-down passa a centro propulsore di idee, soluzioni volte a realizzare il miglioramento continuo, ha necessariamente imposto una riqualificazione del personale che deve essere adeguatamente formato affinchè affianchi a capacità manuali anche capacità creative, capacità di problem solving. Si fa strada il “knowledge

worker” (il lavoratore della conoscenza)17 che fa del sapere e della tecnica il suo modus

operandi; viene concepito come “maglia di una ragnatela economica”18 dove ogni

individuo è interconnesso con l’altro. Di contro diventa importante per l’azienda

15 Riferimento (figura 1) - schema BSC Kaplan e Norton

16 Gino Zappa, “Le produzioni nell’economia delle imprese”, vol. I, Giuffrè, Milano, 1957, p. 37 17 Cfr. Butera F., Donati E. e Cesaria R. (1997)

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misurare: la soddisfazione del personale, funzionale per il raggiungimento di migliori livelli di produttività; la qualità del servizio offerto ai clienti; la fedeltà del personale, che determina la condivisione degli obiettivi e dei valori aziendali; la conoscenza dei processi; la sensibilità alle richieste della clientela.

È d’altro canto importante anche che i dipendenti possano aver accesso ad informazioni dettagliate sui clienti, sui processi interni e sulle conseguenze economiche delle loro decisioni. Di qui la rilevanza in questa prospettiva anche dei sistemi informativi aziendali, il cui sviluppo ed aggiornamento spesso va a costituire uno degli obiettivi cardine. Altro obiettivo importante può essere il miglioramento del clima aziendale, misurato, per esempio, attraverso il numero di suggerimenti (indice di un certo coinvolgimento del personale, la cui creatività viene adeguatamente stimolata); oppure attraverso il tasso di turnover: se elevato, esso è un chiaro sintomo che qualcosa in azienda non funziona perché probabilmente i dipendenti non sono soddisfatti del contesto lavorativo oppure non sono abbastanza motivati.

Come esemplificazione di possibili obiettivi e correlate misure, Kaplan e Norton propongono lo schema (figura 3)19:

19 Tratto da: “The Balanced Scorecard—Measures that Drive Performance” by R.Kaplan and D.Norton Schema riferito alla Electronic Circuits Inc.(ECI)

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20 (Figura 3) ECI’s Balanced Business Scorecard

Mentre uno schema sintetico e molto esaustivo dei principali indicatori utilizzabili per le diverse prospettive può essere il seguente (Figura 4):

(Figura 4) – Alcuni indicatori per le prospettive più comunemente incluse nella BSC

PROSPETTIVA ECONOMICO-FINANZIARIA PROSPETTIVA CLIENTI

• Attività totali (L.) • Attività totali/addetto (L.) • Fatturato/totale attività (%)

• Fatturato derivante da nuovi prodotti o attività (L.)

• Fatturato/addetto (L.) • Reddito/totale attività (%)

• Reddito derivante da nuovi prodotti o attività (L.) • Reddito/addetto (L.) • Valore di mercato (L.) • Numero di clienti (n.) • Quota di mercato (%) • Vendite annue/cliente (L.) • Clienti persi (n., %)

• Tempo medio per la gestione rapporti con i clienti • Clienti/addetto (n., %)

• Vendite concluse/contratti di vendita (%) • Indice di soddisfazione dei clienti (%) • Indice di fedeltà dei clienti (%) • Costo/cliente (L.)

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21 • ROA (%) • ROCE (%) • Margine di contribuzione (%) • Margine di contribuzione/addetto (L.) • Flusso di cassa (L.) • Solvibilità (%) • ROI (%) • Costi totali (L.)

• Numero di visite ai clienti (n.) • Numero di reclami (n.) • Spese di marketing (L.)

• Indice di immagine di marca (%) • Durata media dei rapporti coi clienti (n.) • Dimensione media dei clienti (L.) • Categorie di clienti (%)

• Visite dei clienti in azienda (n.) • Tempo medio tra contratto e vendita (n.) • Spese per servizi/cliente/anno (L.)

PROSPETTIVA PROCESSI AZIENDALI PROSPETTIVA INNOVAZIONE E SVILUPPO

• Spese amministrative/fatturato totale (%) • Durata dei processi interni (m.)

• Consegne puntuali (%) • Lead Time medio (n.)

• Lead Time per lo sviluppo prodotto (n.) • Lead Time da ordine a consegna (n.) • Lead Time per forniture (n.) • Lead Time per produzione (n.)

• Tempo medio per il decision-making (n.) • Turnover del magazzino (n.)

• Miglioramenti nella produttività (%) • Potenza dell’IT (n.)

• Potenza dell’IT/addetto (n.)

• Rinnovamento delle dotazioni IT (L., %) • Emissioni inquinanti nell’ambiente (n.) • Impatto ambientale dell’uso dei prodotti (n.) • Costo degli errori amm.vi/ fatturato (%) • Spese amm.ve/addetto (%)

• Contratti archiviati senza errori (n.)

• Spese di R&S (L.)

• Spese di R&S/spese totali (%) • Spese di sviluppo dell’IT/spese IT (%) • Ore in R&S (%)

• Investimento in formazione/clienti (n.) • Investimento in ricerca (L.)

• Investimento in formazione su nuovi prodotti (L.) • Investimento in sviluppo di nuovi mercati (L.) • Comunicazioni dirette ai clienti/anno (n.) • Brevetti (n.)

• Età media dei brevetti (n.)

• Miglioramenti suggeriti/addetto (n.)

• Spese per lo sviluppo di competenze/addetto (L.) • Indice di soddisfazione degli addetti (n.) • Spese di marketing/cliente (L.)

• Indice di empowerment (n.)

• Quota di addetti con età inferiore a x (%) • Spese non di prodotto/cliente/anno (L.)

• Tasso di nuovi prodotti per copertura catalogo (%)

PROSPETTIVA RISORSE UMANE

• Indice di leadership (n.) • Indice di motivazione (n.) • Numero di dipendenti (n.) • Turnover del personale (%)

• Numero medio anni di servizio del personale (n.) • Età media del personale (n.)

• Tempo per la formazione (giorni/anno) (n.) • Personale temporaneo/personale permanente (%) • Quota del personale con istruzione universitaria

(%)

• Assenteismo medio (n.)

• Numero di donne manager (n.) • Numero di domande di assunzione (n.) • Indice di empowerment (n.)

• Quota del personale con età minore di x anni (%) • Costo annuale di formazione pro-capite (L.) • Personale che dedica +/- del 50% del tempo a …

(n.)

• Costo annuo pro-capite dei programmi di assistenza (L.)

• Numero di addetti full-time temporanei (n.) • Numero di addetti part-time (n.)

Fonte: Olve et al. (1999)20

20 Tratto da: “Performance Drivers: A Practical Guide to Using the Balanced Scorecard” – M. Wetter, J. Roy, N.G. Olve, 1999

(23)

22

CAPITOLO II – GLI INTANGIBLE ASSETS

2.1. CONSIDERAZIONI INIZIALI: L’INTANGIBILE COME FONTE DI

VANTAGGIO COMPETITIVO

“Un’impresa è intrinsecamente fragile se il suo valore aggiunto si distingue più per gli

assets concettuali che per il patrimonio fisico […]. La fiducia e la reputazione possono

svanire durante la notte. Una fabbrica non può.” (Alan Greenspan, 2002)21

Identificare e misurare il valore degli intangibles, intesi in via del tutto generica ed introduttiva come capitale umano, capitale organizzativo e relazionale, marchi, brevetti, proprietà intellettuale, è una sfida ancora oggi aperta in campo economico.

Gli intangibili hanno una natura intrinsecamente complessa e multidimensionale, oltre ad incorporare livelli di rischio22 elevati: è la loro stessa inconsistenza fisica a renderne

difficile la contestualizzazione nonché la misurazione.

Il “fenomeno” degli intangible assets è ritenuto la principale, se non proprio l’unica, giustificazione alla base dello scostamento che sovente si riscontra tra il valore contabile di una società e il valore espresso dal mercato azionario, scostamento che è tanto più accentuato quanto maggiore è il peso che gli intangibles rivestono in azienda, la quale arriva a caratterizzarsi per un elevato contenuto tecnologico ed innovativo.

L’evidenza empirica conferma che il mercato tende ad assegnare alle aziende un valore di gran lunga superiore rispetto al valore contabile; tale maggior valore chiaramente varia nel tempo ma anche da un settore di attività all’altro ed è attribuibile a fattori specifici relativi al sistema economico, al settore e all’impresa.

Le aziende in cui è preponderante l’intensità degli intangibili hanno in linea di massima un rendimento significativamente maggiore rispetto ad aziende che sono deficitarie in tal senso e quindi le prime sono sottovalutate dal mercato finchè i benefici dell’investimento in intangibili diventano evidenti: a questo punto il mercato corregge al rialzo la sua valutazione. Più benefici tendono a manifestarsi, più cresce il gap tra valore contabile e valore di mercato dell’azienda stessa. Spesso il valore contabile, il “valore di libro”23 da

solo riesce a spiegare non più del 30% del valore di mercato delle aziende “intangible

21 “A firm is inherently fragile if its value added emanates more from conceptual as distinct from physical assets […]. Trust and reputation can vanish overnight. A factory cannot.”

22 L’accezione di rischio a cui si fa riferimento è quella utilizzata in finanza, intesa sia come possibilità di perdita (e quindi come scostamento negativo) che come possibilità di guadagno (scostamento positivo). 23 “Intangile Assets. Profili economici e aspetti valutativi”- A. Panno (2011)

(24)

23

intensive”, valore che sale al 75% nel momento in cui vengono inserite proxy del capitale intangibile.

A tal proposito sarebbe interessante osservare un confronto tra alcune delle principali multinazionali presenti sul mercato (figura 5):

(Figura 5) – Il valore reale dell’azienda

Fonte: Brembo, 2005

Pur trattandosi di aziende che operano perlopiù in settori differenti, questo grafico vuole essere esemplificativo di come il valore contabile rappresenti solo una modesta componente del valore “reale” dell’azienda. Se si guarda a multinazionali come Coca-Cola piuttosto che Microsoft, si percepisce immediatamente che il valore contabile si attesta su livelli davvero minimi. Questo vuol dire che la maggior parte del loro valore di mercato è spiegato attraverso un qualcosa che non è tangibile.

Infatti, nel 2015 l’allora amministratore delegato di Coca-Cola sottolineava come“il forte coinvolgimento e impegno di tutti i dipendenti, a cui l’azienda ha dedicato 2.700 ore di formazione in più rispetto al 2014, ha consentito di rafforzare i risultati, con una prospettiva di crescita sostenibile a lungo termine”.

Ed ancora: “abbiamo ampliato il processo di ascolto dei nostri stakeholder, coinvolgendo numerosi interlocutori esterni appartenenti a diverse categorie (clienti, fornitori, media, università, associazioni no profit, associazioni di consumatori) per conoscere la loro prospettiva”24.

24 Fonte: Relazione sulla gestione (2005)

(25)

24

Investire sul capitale umano, sulla crescita professionale, sulle relazioni con i diversi stakeholder aziendali e su altri elementi intangibili come la sostenibilità ambientale, ha permesso all’azienda di creare quel valore aggiuntivo in grado di spiegare il sostanziale gap tra valore contabile e valore di mercato.

Allo stesso modo, prendendo in considerazione come altro esempio Microsoft, dai dati di bilancio e dalla relazione sulla gestione si può osservare come l’azienda abbia investito sulla formazione, sull’innovazione, sullo sviluppo di nuove tecnologie per rimanere all’avanguardia ed in continua crescita, sulla creazione di partnership e collaborazioni e come questa si sia dimostrata una strategia vincente, traducendosi in livelli elevati di profitti: “i profitti realizzati nel corso del 2005 sono lievitati di quasi 3 miliardi di dollari, raggiungendo la cifra record di 39,79 miliardi di dollari. L’utile operativo ha subito un incremento del 61%.”25

Questo dimostra ancora una volta come investire negli elementi intangibili sia estremamente vantaggioso per l’azienda, la quale ha la possibilità di essere molto più competitiva sul mercato e di avere conseguentemente un ritorno in termini di fatturato. In un contesto sempre più competitivo, in continuo divenire, complesso e globalizzato in cui vige la legge darwiniana della “selezione naturale” per cui solo chi si dimostra più forte sopravvive, le aziende hanno iniziato a far leva su uno sfruttamento sempre più intensivo degli intangibles per poter raggiungere posizioni competitive dominanti che si traducessero in nuovi e addizionali extraprofitti.

Il primo modello industriale valido sino agli anni ’70-’80 assicurava alle aziende un vantaggio competitivo basato sullo sfruttamento delle economie di scala nel processo produttivo. Si trattava della cosiddetta “produzione di massa”, in cui i prodotti erano omogenei e a basso contenuto di conoscenza. In questa fase i consumatori ricercavano i prodotti al più basso prezzo possibile, mentre le imprese ricercavano l’efficienza interna ovvero produrre determinati livelli di output al minor costo possibile: efficienza produttiva e leadership di costo erano la chiave per perseguire il vantaggio competitivo, creando valore sia per il cliente sia per chi apportava capitale proprio.

L’incapacità che un ulteriore sfruttamento dei tradizionali fattori di produzione garantisse profitti sopra la media in un sistema trainato dal rapido avvento del progresso tecnologico e di competenze sempre più specializzate, ha generato un cambio di rotta per cui sfruttare

(26)

25

le economie di scala è risultato non più sufficiente a garantire il successo durevole dell’impresa.

“Le attività materiali, che storicamente sono state la maggiore sorgente di reddito, sono divenute meno uniche (esclusive) e non garantiscono più extrareddito. […] L’accresciuta competizione mondiale ha innalzato la domanda per l’innovazione di processo e per aumento della qualità, che possono essere ottenuti soltanto grazie a personale dipendente ricco di talento; pertanto la ricerca di maggiore innovazione aumenta l’importanza del capitale umano”.26

La relazione secondo cui maggiori input debbano generare maggiori output è destinata prima o poi ad interrompersi perché i tradizionali fattori produttivi sono caratterizzati da una produttività marginale decrescente per cui, oltre un certo livello, un loro maggiore sfruttamento non garantisce più opportunità di crescita: a questo punto solo il progresso tecnologico, e quindi investimenti in capitale intangibile, può sostenere una crescita di lungo periodo.

È possibile affermare che si è passati “da una economia tangible asset-intensive ad una economia intangible asset-intensive” (Panno, 2011).

Prima di tutto in questo passaggio va detto che l’attenzione delle imprese si sposta da un’efficienza interna ad un’efficienza esterna: il fattore decisivo diventa la capacità dell’impresa di soddisfare i gusti e le aspettative dei potenziali acquirenti, differenziandosi dai concorrenti. Per ottenere questa efficienza diventa fondamentale investire in innovazione (ricerca e sviluppo, addestramento del personale, information

technology, politiche di espansione e rafforzamento delle relazioni con i clienti e di

fidelizzazione) e adattarsi in maniera proattiva ai cambiamenti di mercato nonché alle nuove necessità dei consumatori. Questi ultimi, potendo scegliere come allocare il proprio reddito, non scelgono più un prodotto/servizio solo in funzione del prezzo ma in base al miglior rapporto qualità-prezzo: le scelte saranno orientate verso quel prodotto/servizio con un valore aggiunto percepito27 uguale o superiore al costo monetario.

Il successo competitivo ruota ora intorno alla capacità dell’azienda di differenziarsi dai competitors attraverso un processo di continua innovazione, ponendo l’attenzione sul cliente e i suoi diversi bisogni e sull’eccellenza e la qualità dei servizi offerti.

26 Zingales, 2000

27 Il valore aggiunto per il cliente (customer value added) è la differenza tra il valore soggettivo attribuito dal cliente al bene/servizio acquistato, ed il costo (prezzo di vendita) sostenuto per acquistare il

bene/servizio. Il valore soggettivo per il cliente è una funzione (positiva) del valore intrinseco del bene, della qualità, del design, del marchio, dell’immagine aziendale, etc.

(27)

26

Potrebbe dunque risultare inadeguato a rappresentare un sistema economico in cui la crescita è dominata dagli asset immateriali, il modello di mercato teorizzato inizialmente da Adam Smith, basato sulla concorrenza perfetta. Esso infatti prevede la presenza sul mercato di numerose aziende che forniscono un prodotto indifferenziato ed omogeneo, in cui tutte hanno libero accesso ad un insieme di possibilità di produzione e le economie di scala sono sufficientemente piccole per cui nessuna impresa può dominare il mercato con costi di produzione bassi. Laddove si raggiungessero posizioni monopolistiche, anche temporanee, si produrrebbe un risultato inefficiente per cui diventa necessario intervenire con manovre di politica economica per ripristinare l’efficienza del sistema.

Nel modello competitivo, quindi, si esclude a priori la possibilità dell’avvento di monopoli temporanei basati sul vantaggio competitivo offerto, ad esempio, dai diritti di proprietà intellettuale: non si considera affatto che le aziende possano utilizzare le risorse a disposizione per inventare nuovi prodotti da lanciare sul mercato o ideare processi innovativi o nuovi modelli produttivi.

Di contro diventa molto più attualizzabile e moderno il paradigma di J. Schumpeter (1942), incentrato sulla creatività e sul profitto: egli infatti prevede una ricompensa (il profitto appunto) per il cambiamento; solo i soggetti dotati di capacità, abilità e attitudine ad innovare sono in grado di catturare i benefici delle loro attività sotto forma di profitti derivanti da monopoli temporanei. È proprio l’esistenza di tali profitti attesi a fornire all’azienda l’incentivo a rischiare ed investire, consentendole di crescere.

La teoria della “distruzione creativa” proposta da Schumpeter risulterebbe, dunque, più efficace della “mano invisibile” di Smith.

(28)

27

2.2. DEFINIRE GLI INTANGIBLE ASSETS

In letteratura e in contabilità vengono proposte numerose definizioni del concetto di risorse immateriali, di capitale intellettuale e di asset intangibili28.

Secondo l’OIC 24, le immobilizzazioni immateriali sono caratterizzate dalla mancanza di tangibilità. Sono costituite da costi che: non esauriscono la loro utilità in un solo periodo (quello di sostenimento), ma manifestano la capacità di produrre benefici economici in un arco temporale di più esercizi.29

Secondo lo IAS 3830, invece, si definiscono attività immateriali le attività non monetarie

e prive di consistenza fisica che soddisfano i seguenti requisiti: • identificabilità

• controllo

• benefici economici futuri

Con “identificabilità” si intende la capacità dell’attività immateriale di essere chiaramente distinta dall’avviamento, ossia di essere:

• separabile, scorporabile dall’entità e vendibile, data in licenza, locata etc.; • derivante da diritti contrattuali o da altri diritti legali.

Con “controllo” si intende la capacità dell’entità di:

usufruire dei benefici economici futuri derivanti dall’attività immateriale; • limitare l’accesso da parte dei terzi a tali benefici.

(È generalmente testimoniata dalla presenza di una tutela legale sull’attività) Infine, i “benefici economici futuri” possono includere:

Proventi derivanti dalla vendita di prodotti/servizi;

• Risparmi di costo (es. uso della proprietà intellettuale in un processo produttivo).

28 In questo lavoro tali termini sono considerati tutti sinonimi

29 Si rimanda al principio contabile nazionale OIC 24, che ha lo scopo di disciplinare i criteri per la rilevazione, classificazione e valutazione delle immobilizzazioni immateriali, nonché le informazioni da presentare nella nota integrativa.

30 Si rimanda al principio contabile internazionale IAS 38 la cui finalità è quella di definire il trattamento

contabile delle attività immateriali non specificatamente trattate in altri Principi. Il presente Principio richiede che le entità rilevino un'attività immateriale se, e solo se, vengono soddisfatte specifiche condizioni. Il Principio precisa, inoltre, come determinare il valore contabile delle attività immateriali e richiede informazioni specifiche in merito alle attività immateriali.

(29)

28

Per comprendere meglio a cosa ci stiamo riferendo, è utile prendere in considerazione la distinzione (solitamente presentata a livello internazionale)31 del capitale intellettuale in

tre componenti32:

 capitale umano  capitale strutturale  capitale relazionale

“Il valore d'impresa non deriva direttamente da una sola delle componenti considerate,

ma dalla interazione tra tutte loro. Non importa quanto forte è un’organizzazione in uno o due di queste componenti, se la terza componente è debole o, peggio, non funziona, l'organizzazione non può trasformare il suo capitale intellettuale aziendale in valore”.

(Edvinsson e Malone, 1997)33

A sostegno di questa asserzione lo schema mostra come esista una relazione circolare tra le tre diverse tipologie di capitale: il capitale umano (conoscenze, competenze, professionalità) è alla base dello sviluppo del capitale organizzativo o strutturale (modelli organizzativi, procedure, strumenti di comunicazione, brevetti), in quanto solo un personale qualificato, adeguatamente addestrato, competente può essere in grado di

31 Definizione degli intangibili proposta dall’Unione Europea nel “MERITUM Project” (Measuring Intangibles to Understand and Improve Innovation Management), nota come definizione delle tre C 32 Il capitale intellettuale è qui un altro modo per intendere gli intangibles

33 “Intellectual Capital: Realizing Your Company's True Value by Finding Its Hidden Brainpower”– L.Edvinsonn, M.Malone

CAPITALE

UMANO ORGANIZZATIVO CAPITALE RELAZIONALE CAPITALE

RISULATI ECONOMICI

CREAZIONE DEL VALORE

(30)

29

sviluppare idee creative, innovative; di rispettare le procedure; di utilizzare correttamente la tecnologia, i sistemi informativi e gli strumenti di comunicazione.

Il capitale umano ed il capitale organizzativo a loro volta sono connessi al capitale relazionale (immagine e reputazione dell’azienda, soddisfazione e fidelizzazione del cliente) sempre perché un personale competente e addestrato è capace di capire le esigenze che provengono dal cliente e di saperle soddisfare a pieno, innescando poi il processo di fidelizzazione per cui il cliente, soddisfatto, si rivolgerà in futuro di nuovo all’azienda. Chiaramente ciò è possibile solo se a supporto vi è un sistema organizzativo, procedure di gestione delle richieste e strumenti di comunicazione validi ed idonei a poter fare tutto questo ed in grado al contempo di contribuire al miglioramento dell’immagine nonché della reputazione aziendale.

Se tutta l’ingranaggio funziona bene, si tradurrà senza dubbio in migliori livelli di performance e più elevati risultati economici, generati, per esempio, da maggiori vendite e quindi da un incremento di fatturato, oppure da minori costi sostenuti pur riuscendo a mantenere gli stessi livelli qualitativi e quindi senza intaccare la soddisfazione del cliente. Questo è possibile se l’azienda investe, ad esempio, sul capitale organizzativo/strutturale e quindi introducendo processi o tecnologie innovative. Basti pensare che investimenti in software avanzati di gestione o evasione degli ordini, permettono all’azienda di risparmiare proprio sui costi legati a tali processi.

In questo modo si crea valore per l’azienda: creare valore per l’azienda significa andare ben oltre il mero risultato di periodo. Aldilà delle più svariate teorie di quantificazione del valore creato dall’impresa sotto forma di profitto che eccede il rendimento soddisfacente34, creare valore per tutti gli stakeholder che gravitano intorno all’azienda

34 Si fa riferimento all’EVA (Economic Value Added) che mostra l'effettiva capacità dell'azienda di produrre ricchezza.

EVA= NOPAT – (WACC x CI) dove:

NOPAT (Net Operating Profit After Taxes) = Reddito dopo le imposte;

WACC (Weighted Average Cost of Capital) = Costo medio ponderato del capitale raccolto; CI = Capitale Investito (capitale netto + debiti finanziari).

Gli indicatori di redditività tratti dal bilancio privilegiano prospettive temporali di breve periodo (non considerando la redditività prospettica o la capacità di generare flussi finanziari prospettici). Si può in questo modo avere un utile di esercizio senza avere, però, creazione di valore. Per esempio il reddito a breve può migliorare rinunciando ad investimenti in R&S, formazione, sistemi informativi, tecnologia, ma in tal caso l’aumento di redditività nasconde una perdita di valore nel tempo.

Attraverso l’EVA, invece, si ha creazione di valore quando EVA>0: in tal caso l’azienda riesce a produrre una ricchezza tale da remunerare tutti i fattori produttivi, comprendendo una congrua remunerazione di tutto il capitale investito in azienda (sia di terzi che proprio, il cui costo è inteso come costo-opportunità), ma riesce a generare anche un extra-profitto. Proprio questo extra-profitto identifica il valore

(31)

30

vuol dire riuscire ad instaurare con ognuno di essi uno scambio reciproco di flussi di informazioni, conoscenze, esperienze, anche cooperando e co-creando per riuscire a dare allo specifico stakeholder (sia esso cliente esterno, dipendente, azionista o fornitore) quel

quid in più che le altre aziende competitrici non sono capaci di dare e per cui saranno

disposti a sopportare un sacrificio (in termini di prezzo pagato, lavoro prestato, capitali investiti, materie prime o risorse fornite).

La creazione di valore sprona l’azienda a continuare ad investire su quegli intangibles che sono alla base di questo valore e quindi, di nuovo, il flusso circolare riparte e funzionerà tanto meglio quanto maggiore sarà la capacità dell’azienda di riuscire a sfruttare e a valorizzare a pieno e nel miglior modo possibile tali assets.

delle risorse presenti in azienda, ossia a fronte della propria struttura organizzativa e dei propri investimenti.

(32)

31

2.3. IL CAPITALE UMANO: COS’E’ E COME MISURARLO

Il capitale umano rappresenta il valore generato dalle persone che a vario titolo prestano il proprio lavoro all’interno dell’organizzazione. È quindi costituito dall’insieme delle competenze, esperienze, specializzazioni, dalla motivazione e dal talento degli individui; dalla loro capacità di affrontare e risolvere i problemi, dalle attitudini manageriali presenti in ciascun dipendente dell’azienda.

Il capitale umano può essere considerato come una combinazione di diversi fattori: le caratteristiche individuali che ogni persona possiede (intelligenza, energia, attitudine positiva); la capacità di imparare (prontezza, immaginazione, creatività); la predisposizione a condividere le informazioni (lavoro di squadra, orientamento verso obiettivi condivisi).

Il punto di forza di ogni organizzazione è l’individuo, che attraverso la sua intelligenza ed il suo patrimonio intellettuale determina il successo, o ancora meglio, il futuro valore dell’impresa, che dipende da come essa sia in grado di gestire e valorizzare questi capitali intangibili, che non compaiono nel bilancio tradizionale, ma che rappresentano elementi di importanza critica. Basti pensare che è solo grazie al capitale umano che in azienda è possibile introdurre le innovazioni tecnologiche e organizzative dalle quali dipende la produttività dei fattori.

Le competenze individuali, per trasformarsi in valore, devono essere consapevolmente utilizzate e promosse a livello organizzativo: l’azienda deve investire affinché queste competenze, abilità, conoscenze possano svilupparsi, potenziarsi e crescere.

Gestire strategicamente il capitale umano significa investire su tre componenti:  sapere,

 saper fare,  saper essere.

Il “sapere” riguarda essenzialmente la sfera della conoscenza teorica. È la dimensione più quantificabile per certi versi (ad esempio attraverso titoli di studio), che può costituire anche una modalità di selezione del personale da parte delle aziende. Per migliorare, ampliare la dimensione del sapere e della conoscenza, diventa importante da un lato la propensione da parte del soggetto ad un costante aggiornamento, dall’altro lato l’attenzione che l’azienda pone a favorire tale crescita conoscitiva.

Il “saper fare” attiene al campo pratico: si tratta della capacità dell’attore aziendale di saper svolgere la mansione o, più in generale, il lavoro cui è preposto e di farlo nel modo

(33)

32

giusto. Molto spesso il saper fare deriva da un processo di comunicazione delle competenze attraverso cui il sapere viene tramandato in azienda: non è raro, infatti, che le imprese affianchino al personale altamente qualificato e solitamente più anziano dal punto di vista lavorativo, lavoratori meno esperti affinché possano acquisire, appunto, quel saper fare nel modo più efficace possibile. Si parla in questo caso di “training on the

job” (addestramento sul campo). Investire sul saper fare significa, appunto, investire

sull’addestramento dei dipendenti, a tutti i livelli aziendali.

Il “saper essere” è, invece, la dimensione più “nascosta”, intrinseca dell’individuo, legata al proprio background, al proprio vissuto: è l’insieme dei suoi ideali, valori; è il suo modo di essere; il modo con cui riesce a relazionarsi e a comunicare con altri soggetti sia interni che esterni all’azienda; è la capacità di lavorare in team, di far propri i valori aziendali e l’interesse dell’azienda, senza subordinarlo al proprio. Il saper essere diventa importante almeno quanto il saper fare. In questo caso l’azienda deve investire nella formazione: essa è qualcosa di più complesso rispetto all’addestramento proprio perché investe l’individuo sotto molteplici aspetti che esulano dal semplice saper svolgere una mansione, una procedura o un processo.

In generale, sarebbe opportuno considerare tutto quanto è correlato al discorso del capitale umano non come un semplice costo, ma come un investimento per il futuro, che avrà i suoi frutti nel medio/lungo periodo e che garantirà il successo all’azienda. Questo poiché si tratta di un fattore cruciale per rispondere in modo articolato, efficace ed innovativo ai bisogni reali dei clienti/utenti ma anche per riuscire ad individuare nuove aree di intervento o di posizionamento sul mercato.

È interessante prendere in considerazione uno schema proposto da Stewart35, per cui gli

addetti di un’azienda possono essere suddivisi in una griglia (figura 6):

(34)

33 (Figura 6)

VALORE AGGIUNTO

Basso Alto

Bassa Manodopera specializzata, staff

Figure chiave, non necessariamente ai vertici dell’organizzazione

SOSTITUIBILITA’

Alta Manodopera non specializzata

Manodopera con forte impatto sulle relazioni con i clienti/utenti

L’autore sottolinea come il vero capitale umano si trovi nel quadrante caratterizzato da una bassa sostituibilità e da un alto valore aggiunto: “Il capitale umano di un’azienda si

trova in questo quadrante e rappresenta il suo patrimonio”. L’autore precisa anche che

non è possibile possedere con forza il capitale umano ma è necessario che l’azienda si impegni a generare nell’individuo un senso di appartenenza all’organizzazione per cui è l’individuo stesso a prestare volontariamente il proprio lavoro in azienda, condividendone i valori, le strategie e gli obiettivi. Solo in questo modo è possibile trarre il maggior valore possibile dal capitale umano, che altrimenti rappresenterebbe solo una fonte di costo per l’azienda piuttosto che una fonte di ricchezza.

2.3.1. COME MONITORARE E VALUTARE IL CAPITALE UMANO? Un approccio alternativo alla Balanced Scorecard

L’attività di monitoraggio e valutazione del capitale umano procede parallelamente ai processi di formazione per osservare se gli interventi posti in essere riescono a produrre i risultati auspicati dall’azienda e se questi siano coerenti con la strategia. Si tratta di effettuare una valutazione:

ex-ante: per valutare il livello di conoscenze e competenze delle risorse umane, per capire il punto da cui partire per svilupparle e potenziarle;

• in itinere: si tratta in questo caso di un’attività di monitoraggio delle competenze acquisite o possedute;

(35)

34

• ex-post: è la vera e propria attività di valutazione, finalizzata a constatare se gli individui, a fronte dei piani di formazione ed acquisizione di nuova conoscenza, abbiano generato i risultati desiderati e programmati dall’azienda coerentemente agli obiettivi strategici.

In relazione alla necessità di una formazione continua per sviluppare a pieno tutte le potenzialità del capitale umano e per rilevare informazioni utili a supportare processi decisionali a vari livelli, è interessante prendere in considerazione il modello gerarchico dei quattro livelli di D. Kirkpatrick in riferimento al monitoraggio e valutazione, appunto, della formazione del capitale umano. (figura 7)36

(Figura 7) – Hierarchy of evaluation

_________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

_______________________________________________________________________________________

Si tratta di un approccio basato su quattro livelli, per ciascuno dei quali l’autore indica procedure e misurazioni specifiche, applicabili in qualsiasi contesto organizzativo. La chiave di lettura è dal basso verso l’alto e ogni step è funzionale per quello successivo: 1) “Gradimento”: al primo gradino gerarchico si va a rilevare la soddisfazione espressa dai partecipanti di un determinato percorso formativo, relativamente agli aspetti didattici, organizzativi, logistici, sociali, motivazionali, comprese le percezioni di utilità e difficoltà del percorso stesso.

(36)

35

Lo strumento di misurazione utilizzato è il questionario di feedback, per avere da un lato una quantificazione del gradimento da parte dei partecipanti, dall’altro lato anche delle informazioni attraverso cui poter migliorare in futuro.

Il punto debole in questo step è la negligenza con cui gli individui tendono a compilare tali questionari, percepiti spesso come una perdita di tempo piuttosto che come strumento di miglioramento organizzativo.

2) “Apprendimento”: contrariamente all’elevata soggettività del primo livello, questo si caratterizza per una maggiore oggettività in quanto analizza l’efficacia reale del percorso formativo dal punto di vista della didattica. Si tratta, cioè, di valutare se e in che misura tale percorso sia stato idoneo ad accrescere le competenze e le conoscenze degli individui che si tradurranno, poi, in migliori performance individuali.

In questo caso gli strumenti di misurazione utilizzati sono test, esercitazioni, check list. Spesso i test vengono svolti sia prima che dopo il corso, sottoponendo le medesime domande proprio per constatare se il corso sia riuscito o potenziare, appunto, conoscenze e competenze.

3) “Trasferimento sul lavoro”: questa è la fase più tangibile di tutto il processo legata al monitoraggio dei comportamenti. Per poter apportare benefici concreti all’organizzazione e migliorarne quindi le performance, è fondamentale che l’individuo utilizzi nella pratica ciò che ha appreso. Sorge quindi la necessità di andare a quantificare l’utilizzo sul lavoro delle nuove conoscenze e competenze acquisite. Gli strumenti impiegati per la misurazione e valutazione sono finalizzati a rilevare aspetti prettamente comportamentali e consistono in test ed indici di efficacia.

4) “Risultati di business”: ultimo step è quello della valutazione dell’impatto della formazione sulle performance aziendali in termini di migliori risultati. Bisogna valutare il grado di raggiungimento degli obiettivi strategici e quindi si guarda ad aspetti come: la riduzione dei costi, il miglioramento dell’efficienza nei processi, il miglioramento del clima aziendale.

Gli strumenti utilizzati qui sono relativi, appunto, alla sfera dei risultati dei business: indici di efficienza (come giornate di formazione per addetto), indici di impatto (come impatto economico, soddisfazione del cliente, miglioramento del ciclo produttivo), anche se quello più utilizzato è il ROI. L’autore fa riferimento ad una particolare tipologia di ROI che definisce “ROI della formazione”:

(37)

36

ROI =

Si tratta di un’analisi costi benefici che riesce a mostrare l’impatto di tutto il percorso formativo sui risultati dell’organizzazione.

I benefici si riferiscono all’incremento: dell’efficienza, della customer satisfaction, della produttività; oppure alla riduzione del turnover, in quanto, più esso si riduce, più questo è un sintomo che l’individuo si sente soddisfatto del proprio lavoro e quindi tende a svolgerlo meglio e ciò comporta di conseguenza per l’azienda minori costi per assumere e formare nuovo personale competente. Altri benefici riguardano: l’immagine e il clima aziendale, la soddisfazione del personale, il numero di conflitti risolti.

I costi sono invece legati al servizio fornito e quindi, per esempio, alla logistica, al salario dei docenti, al materiale utilizzato per la formazione, alla retribuzione dei partecipanti (laddove sia prevista).

Benefici della formazione Costi della formazione

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