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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA
Dipartimento di Scienze Politiche
CORSO DI LAUREA IN STUDI INTERNAZIONALI
Lo sviluppo locale nella cooperazione internazionale: il
caso Cesvium in Burkina Faso
Relatore: Gabriele Tomei Candidata: Alessandra Marsiglia
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Indice
Introduzione
4Capitolo I: L’evoluzione del concetto di sviluppo
1.1 Il concetto sociologico di sviluppo e la sua evoluzione storica
61.2 Il ruolo del colonialismo
101.2.1. Il processo di decolonizzazione
121.2.2 Conferenza di Bandung e la nascita del terzo mondo
141.3 La cooperazione allo sviluppo
161.4 Nuovi obiettivi di sviluppo dagli MDGs/SDGs e Agenda 2030
20Capitolo II: Dallo sviluppo locale allo sviluppo umano
2.1 Introduzione
252.1.1 Lo sviluppo locale nella teoria economica: uno sguardo ai Distretti
Industriali
262.1.2 Da un'analisi dei Distretti allo Sviluppo Locale
312.1.3 Il territorio nello sviluppo locale
332.2 Politiche sullo sviluppo locale e governance
362.3 Dall’ISU alle nuove prospettive di sviluppo umano
41Capitolo III: Il Burkina Faso, una storia incompleta
3.1 Introduzione
453.1.1 Il Burkina Faso quando era Alto Volta
463.1.2 Il Socialismo Africano
473.1.3 L’indipendenza
503.1.4 Il post-indipendenza
513.2 Thomas Isidore Noël Sankara
523.3 La nascita del Paese degli Uomini integri
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3.4.1 Aspetti antropologici e culturali
613.5 Lo sviluppo economico del Burkina Faso
653.6 La cooperazione per lo sviluppo
673.7 I principali progetti della cooperazione nel Burkina Faso
68Capitolo IV: Studio del caso Cesvium
4.1 La storia del Centro di Sviluppo Umano
764.2 Iniziative e progetti
784.2.1. L’acqua
804.2.2 Istruzione
834.2.3 Sanità
894.2.4 Amministrazione ed anagrafe del Comune di Nagbingou
954.2.5 Agricoltura
994.2.6 Le donne nella società burkinabè
1014.3 Prospettive e compiti futuri: il Cesvium verso quale direzione?
107Conclusioni
111Bibliografia
Sitografia
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Introduzione
Nel presente elaborato viene affrontato il tema dello sviluppo, a partire dalla sua concezione sociologica e filosofica per collegarsi, infine, alla teoria economica e sottolineare come, sulla base dei diversi approfondimenti, emerge la sua natura interdisciplinare e multidisciplinare.
Legato alla nascita della sociologia, il concetto di sviluppo si collega alla scienza sociale e anzi ne costituisce un binomio inscindibile, essendo anch’esso sorto dal tentativo di spiegare i problemi della società e della sua evoluzione. Da esso si consolida la dicotomia tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati e dalla dualità di questi due concetti ho approfondito il fenomeno storico della colonizzazione, da quando nell’ultimo decennio del XV secolo gli europei entrano in contatto con terre e popoli sconosciuti. Il fenomeno della colonizzazione si è protratto nei secoli, fino all’inizio del ‘900 quando il mondo risultava dominato dalle potenze europee ed extra europee (USA, Australia, Canada). A prescindere dal pretesto, la colonizzazione ha procurato danni enormi, ed in parte irreversibili, ai paesi dominati e le ragioni dell’espansione coloniale, non sono da ricollegare solo ed esclusivamente ad un ‘vantaggio economico’, quanto al ruolo civilizzatore di cui l’Europa si è fatta carico. Il primo capitolo affronta anche il fenomeno della decolonizzazione, che la storiografia riconduce al continente asiatico (India 1947), per poi espandersi negli anni ’50 fino al continente africano. Il risveglio nazionalista ha spinto definitivamente le potenze europee fuori dalle colonie, che da quel momento in poi si sono trovate ad affrontare nelle singole storie nazionali e civili il peso del dominio passato. Nasce, così, il Terzo mondo alla Conferenza afro-asiatica riunitasi a Bandung in Indonesia dal 18 al 24 aprile 1955; tra i popoli partecipanti nasce la coscienza di una comune identità e di un comune destino politico.
Quali sono stati i risultati del processo di colonizzazione e decolonizzazione? Tra i tanti effetti nasce la cooperazione allo sviluppo, una politica che attraverso finanziamenti ed interventi intende aiutare quei paesi che oggi si chiamano “partner”, ma che a metà del secolo scorso erano definiti sottosviluppati. Sulla scia dei cambiamenti politici ed economici, la cooperazione si propone obiettivi che parlano di sviluppo umano e di sviluppo sostenibile (definiti con la Carta di Copenaghen del 1995) sino a giungere ai nuovi obiettivi di sviluppo dagli MDGs/SDGs e Agenda 2030. I nuovi obiettivi si
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concentrano su quelle aree definite critiche, quali persone, pianeta, pace, prosperità, quindi quegli aspetti centrali per l’umanità ed il pianeta.
Nel secondo capitolo il tema dello sviluppo locale viene affrontato in chiave economica, sottolineando l’importanza dei fattori territoriali, politici e sociali che sostengono i processi di sviluppo. A partire dai primi studi economici del Distretto Industriale, questa parte espone il processo che ha spinto la teoria economica ad occuparsi dei contesti storici e sociali, valorizzando il locale all’interno dei processi produttivi.
Sulla base degli approfondimenti teorici condotti, questa parte della tesi argomenta la necessità di superare l’idea che il modello di sviluppo sia univoco ed universale e difende la possibilità di moltiplicare i percorsi di sviluppo sulla base delle caratteristiche specifiche di ogni luogo e delle politiche adottate. Il tema dello sviluppo locale è indissolubilmente legato allo sviluppo umano. Lo United Nations Development Programme elabora il concetto di Sviluppo Umano e il suo relativo indice di misurazione (ISU). La nuova strategia ridefinisce così il concetto di bisogni fondamentali in modo più sofisticato, ampliandolo con le nozioni di capabilities dell'economista Amartya Sen. Nel terzo capitolo viene ripercorsa la storia del Burkina Faso, a partire dalla sua ‘giovane’ nascita passando ad approfondire la figura considerevole che Sankara ha rappresentato per questo paese. Dalla nascita del ‘paese degli uomini integri’ vengono esposti alcuni aspetti antropologici e culturali del popolo burkinabè, sino a conoscerne tradizioni ed usanze. In tema di sviluppo, nell’ultima parte del capitolo sono analizzati i maggiori progetti di cooperazione e sviluppo fra Italia e Burkina Faso e le principali aree di intervento della cooperazione italiana nel paese.
Il seguente lavoro si conclude con lo studio del caso del Centro di Sviluppo Umano (Cesvium), la onlus che opera nella regione di Namentenga in Burkina Faso. In quest’ultima parte vengono affrontate per paragrafo le grandi aree in cui il Cesvium è intervenuto, tra cui acqua, sanità ed educazione etc. Insieme ad un breve intervento del fondatore Silvano Orlandi, attraverso una breve intervista da me condotta, la parte finale propone un’analisi utile a creare in futuro nuovi interventi di aiuto più evoluti e vicini ai sistemi locali.
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Capitolo I: L’evoluzione del concetto di sviluppo
1.1 Il concetto sociologico di sviluppo e la sua evoluzione storica
Innanzitutto è opportuno ricordare che la sociologia si afferma come disciplina autonoma nel corso del XIX secolo, quale branca specifica delle scienze umane e sociali, che ha il fine di analizzare e comprendere le trasformazioni dovute al processo di industrializzazione dal quale, all’epoca, fu investita l’Europa occidentale. Il concetto di sviluppo, pertanto, rimanda alle radici stesse della disciplina, sia in relazione al tentativo di spiegazione dei problemi della emergente società capitalistica tra Sette e Ottocento, sia in riferimento all’evoluzione successiva della società moderna. Sotto questo profilo si può quindi dire che sociologia e sviluppo costituiscono un binomio inscindibile. La sociologia dello sviluppo e dei paesi in via di sviluppo si configura, invece, in modo più specifico; essa ha un proprio oggetto d’indagine, acquisito fin dalla nascita nel secondo dopoguerra, allorché sulla scena politica internazionale fecero la loro comparsa molti paesi che in passato erano stati colonizzati dalle potenze europee e che, a seguito dell’affrancamento da esse, si trovarono di fronte ai problemi della crescita e dello sviluppo, ovvero al mantenimento dell’indipendenza appena conquistata.1
Nella gran parte del mondo attuale, avanzato o arretrato, industrializzato o no, sviluppato o sottosviluppato, tutti hanno dimestichezza con il contenuto suggestivo e ipnotico che il termine «sviluppo» evoca. La varietà dei contenuti e degli aspetti associati allo sviluppo non ha impedito che un nucleo dell’idea di sviluppo rimanesse dominante: un processo di cambiamento delle strutture economiche e uno straordinario potenziamento delle capacità produttive che ha consentito di avere a disposizione una quantità di beni e servizi di molto superiore rispetto ad un passato anche recente, e che ha parallelamente cambiato in modo radicale le strutture e le situazioni economiche e sociali, i modi di pensare e di essere, i modelli culturali, i comportamenti e le aspettative. L’aumento senza precedenti della quantità di beni e servizi mediamente a disposizione, ossia in sostanza una maggiore ricchezza disponibile, rimane comunque l’aspetto che per primo viene evocato.2
1 A. Bianco, Introduzione alla sociologia dello sviluppo, FrancoAngeli, Milano, 2007 2 G. Bottazzi, Sociologia dello sviluppo, Laterza, Bari, 2014
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Naturalmente tale termine era già in uso dal XV secolo, sebbene con il significato, come recita il dizionario, di sciogliere un viluppo, svolgere. Successivamente, una maggiore diffusione ebbe il termine, usato come sostituto nella visione deterministica dell’autonomismo sociale, di progresso.
Quest’ultimo, nella seconda metà dell’Ottocento, sospinto dalla pervasiva onda evoluzionista, domina il nascente pensiero sociologico impegnato a cercare le leggi della società, benché spesso si accontenti di enunciare delle mere successioni di stadi storici per descrivere il radioso cammino delle società. Sebbene la prospettiva evoluzionistica sia andata rafforzandosi insieme, con l’affermarsi dell’evoluzionismo in campo biologico, essa conoscerà, poi, in particolarmente fra le due guerre mondiali, un sensibile declino, seguito da una fase di oblio dalla quale a mala pena sembra uscire solo negli ultimi trent’anni nei quali si segnala fra gli intellettuali una qualche ripresa d’interesse. L’idea di sviluppo ha le sue radici, sul piano filosofico, nel concetto di progressi prodotto dall’illuminismo e, su quello sociologico, nel concetto, di estrazione positivista, di evoluzione socio-culturale, sebbene le sue radici affondino in contesti culturali ancora più lontani. Va inoltre sottolineato come le idee di progresso e poi di sviluppo siano un’eredità prettamente europea. A buon diritto, Paul Valéry, osserva a tal proposito: «ovunque domini lo spirito europeo, si vede emergere il massimo di bisogni, il massimo di lavoro, il massimo di capitale, il massimo di rendimento, il massimo di ambizione, il massimo di potenza, il massimo di modificazione della natura esteriore, il massimo di relazioni e di scambi» (cit. in Scidà 2000, p. 15). Questa considerazione si rispecchia, per altro, nel modo stesso con cui i popoli europei e poi per estensione del mondo occidentale, mondo che, con formula infelice, si autoproclama “sviluppato”, finiscono per definire, creando un’opposta locuzione, gli “altri”, i “diversi” da loro. Nasce e si consolida così, fin dalla comparsa dei Paesi ex-coloniali come entità sovrane autonome sulla scena internazionale, la ben nota formula dicotomica: Paesi sviluppati e sottosviluppati. Questi ultimi saranno chiamati, per la verità, in vari altri modi e neppure l’autentico sforzo della diplomazia delle Nazioni Unite per creare un’espressione più neutrale, come sarà quella di «Paesi in via di sviluppo», sia riuscito né a censurare la sua matrice evoluzionista, né a mutare la percezione stigmatizzante di tale locuzione presso l’opinione pubblica internazionale.3
Il lungo periodo di dibattito delle idee si va gradualmente sedimentando in un prevalente orientamento di tipo universalista ed evoluzionista, così che il progresso, tende ad essere ritenuto il destino di ogni società umana, il fine verso cui ogni collettività sociale evolve.
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Schematizzando, si può osservare come buona parte dei padri della sociologia leggano il cambiamento sociale tramite tipologie semplificatorie che, di volta in volta, hanno assunto forme dicotomiche, di continuum o di veri e propri stadi.
L’esempio certamente più emblematico di questo modo di procedere nel leggere le trasformazioni delle società è rappresentato dalla visione polarizzata fra società tradizionale e società moderne. Il profilo delle prime è disegnato portando in primo piano caratteri come: le dimensioni assai limitate; un’organizzazione sociale poco differenziata; la scarsa partecipazione politica e la debole strutturazione del potere; l’analfabetismo diffuso; i ruoli sociali ascrittivamente determinati; i comportamenti dettati prevalentemente dalle credenze religiose, dalle emozioni e dalle consuetudini. Le società moderne, al contrario, sono descritte da caratteri come: le ampie dimensioni: la crescente divisione del lavoro e differenziazione dell’organizzazione sociale; l’alta partecipazione politica ad una complessa strutturazione del potere; la scolarizzazione di massa; i ruoli sociali solitamente acquisiti e comportamenti nei quali prevalgono l’individualismo, il calcolo, la fiducia nella scienza e il contratto nel regolare le relazioni sociali.
Il fulcro fondamentale su cui ruota tuta la nuova percezione con cui la sociologia tramite i suoi strumenti legge le trasformazioni del sistema sociale evidenziate dall’industrialesimo è rappresentato dal concetto di differenziazione e complessità sociale, messo a fuoco, con diversificate accezioni e conseguenze, da molti studiosi alla fine dell’Ottocento, trascurando però l’evoluzione naturale a tutto vantaggio di quella socio-culturale. Nel suo Principi di sociologia, Herbert Spencer, definisce la legge dell’evoluzione articolandola in due sub-processi necessari e complementari: l’integrazione e la differenziazione. È proprio in base al grado di differenziazione conseguito dalle diverse società che queste possono essere ordinate secondo stadi di evoluzione progressiva: da quello primitivo a quello militare per giungere infine a quello industriale; e più in generale dalle società semplici ed omogenee fino a quelle via via sempre più complesse ed eterogenee. Se nella visione di Spencer le collettività sociali evolvono transitando necessariamente dall’omogeneità incoerente alla eterogeneità coerente, meno ottimistica la visione che ci viene da Georg Simmel come pure da Èmile Durkheim. Il primo rileva come il processo di differenziazione sociale presenti in realtà anche elementi di potenziale disintegrazione insiti nel medesimo processo quando, anziché orientare le parti verso l’interdipendenza funzionale, si traduce in conflitti generatori di tendenze contrastanti e involutive. Al contrario di Spencer per Georg Simmel, la differenziazione, non è così semplice, infatti Durkheim condivide con Simmel
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il timore che la differenziazione non presupponga necessariamente l’integrazione ma possa sempre volgersi in disintegrazione sociale (anomia). In epoca successiva, è Talcott Parsons a proporre il contributo più sistematico e completo della morfologia del mutamento sociale inquadrando la differenziazione sociale nel sistema del mutamento strutturale a fianco del processo di adattamento, di inclusione e di generalizzazione del valore. Il mutamento evolutivo, per questo autore, ha luogo quando le parti generatesi con la differenziazione si sono adattate funzionalmente agli specifici compiti del nuovo e più complesso ambiente che deve essere capace di integrare le diverse parti includendole nel sistema attraverso l’affermarsi e il generalizzarsi di modelli di valore tali da legittimare la vasta gamma di funzioni ed obiettivi connessi alla differenziazione delle parti. Negli anni a noi più vicini, tuttavia, una parte significativa di scienziati sociali è andata concentrando la sua attenzione, anche con riferimento allo sviluppo, sulle problematiche connesse alle crescenti tensioni, generate dall’incremento della differenziazione delle funzioni sociali che sembra andare di pari passo con le difficoltà d’integrazione del sistema, che segnano profondamente la modernità.
Sia pur per sommi capi si è tentato in pochi tratti di rendere un essenziale schizzo del percorso compiuto dalla sociologia per edificare, non senza notevoli difficoltà, le basi per una concezione dello sviluppo più scientificamente fondata.
Il più eminente compito della sociologia, in competizione con le altre scienze sociali, era riuscita a ritagliarsi fin dal dopoguerra nel campo dello sviluppo consisteva essenzialmente nello studiare le condizioni, valutare i progetti e i loro costi sociali, misurare i risultati conseguiti dai processi di modernizzazione con riferimento alle relazioni sociali fra individui organizzati in società.
Difficile da fare, perché in questa prospettiva l’economia risulta ovviamente la scienza sociale che svolge il ruolo dominate e intorno alla quale ruotano gli eventuali contributi di tutte le altre.
Così ad esempio, Joseph A. Kahl, sociologo americano che in questo campo condurrà forse le prime indagini empiriche sistematiche impegnandosi sia ad individuare batterie di indicatori della modernità che ad applicarli nella sua più nota ricerca al Brasile ed al Messico, non conseguirà praticamente alcun effetto pratico sulla politica di questi Paesi. Altrettando si può dire, d’altra parte, delle indagini realizzate da Gino Germani, in Argentina come pure riguardo ai risultati dell’importante indagine, condotta da Alex Inkeles e David H. Smith dell’Università di Harvard, dal titolo Becoming Modern?
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Effettuata su un campion di 6000 individui in Argentina, Cile, India, Israele, Nigeria e Bangladesh.4
1.2 Il ruolo del colonialismo
Il sottosviluppo diventa un problema alla fine della seconda guerra mondiale. Ma la sua storia comincia molto prima e da essa non è possibile prescindere, poiché la gran parte del sottosviluppo riguarda paesi e regioni del mondo che hanno conosciuto, in varie forme e con varia intensità, l’esperienza della colonizzazione da parte dei paesi europei. L’ultimo decennio del XV secolo rappresenta un tornante particolarmente significativo per la storia del mondo contemporaneo: nel 1492 Cristoforo Colombo sbarca in America, e, nel 1498, Vasco da Gama doppia il Capo di Buona Speranza e raggiunge l’Asia attraverso l’Oceano Indiano. Da quel momento, gli europei entrano in contatto, in maniera non più episodica, con terre e popoli sconosciuti. Nell’arco di quattro secoli, questo contatto diventerà sempre più sistematico e sempre più squilibrato a vantaggio dei diversi paesi europei. All’inizio del Novecento, con qualche piccolissima eccezione, tutto il mondo risultava dominato, direttamente o indirettamente, dalle potenze coloniali europee, a fianco delle quali si collocavano quelle «neo-Europe» - dagli USA all’Australia, dal Canada all’Argentina – che erano state popolate dalla espansione demografica europea. La vicenda del colonialismo è una pagina di storia complessa come poche, che abbonda di luoghi comuni e di pregiudizi, i principali dei quali riguardano l’idea che lo sviluppo dell’Occidente sia stato possibile grazie alle materie prime saccheggiate nelle colonie, che i paesi colonizzati siano stati sbocchi commerciali non decisivi, ma importanti per la produzione delle metropoli imperialiste, che il colonialismo, dell’introduzione della medicina moderna, dell’istruzione, dell’introduzione di costumi e pratiche più «civili», della creazione di alcune infrastrutture che sarebbero state alla base di quel poco di progresso economico che i paesi di nuova indipendenza avrebbero conosciuto, per cui il colonialismo avrebbe iniziato e non terminato un’opera di civilizzazione della quale si dovrebbe addirittura rimpiangere la fine. Ma interrogarsi sul perché «le conseguenze negative del colonialismo, se in effetti vi furono, non cessarono con la decolonizzazione» è domanda polemica e priva di senso: dopo il colonialismo nulla sarà più come prima nel Terzo Mondo. Al di là del presunto vantaggio ricavato dall’Occidente, il colonialismo ha prodotto danni enormi ai paesi dominanti, a prescindere dall’intenzionalità di questi
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danni. Alla luce della paziente ricostruzione di una documentazione statistica comparata, si può affermare con sufficiente certezza che, fino alla metà del XIX secolo, lo scarto tra i diversi paesi nei livelli di sviluppo economico e tecnico fosse poco rilevante. Le condizioni di vita erano, in sostanza, molto vicine: il contadino cinese, il contadino azteco o il contadino calabrese vivevano probabilmente una vita che – dal punto di vista materiale- era molto simile, visto che tutti si situavano a un livello prossimo alla sussistenza. In effetti, fino al 1830 la crescita del reddito, nel mondo, è stata molto lenta, qualcosa come lo 0,04% all’anno. Quando a metà Ottocento, si registra una crescita più marcata dell’Europa occidentale e delle sue colonie di popolamento, il divario tra l’Occidente e le parti più povere del mondo rimaneva solamente dell’ordine di 3 a 1. Da quel momento, la forbice tra Occidente e terzo mondo si allarga in modo impressionante, come conseguenza principale della rivoluzione industriale. L’Europa, «a causa delle strutture sociali ed economiche ancor più, forse, che per motivi di superiorità tecnica», (Sociologia dello sviluppo, Laterza G. Bottazzi), è stata la sola in grado di condurre a buon fine la rivoluzione macchinista, a seguito dell’Inghilterra. Ma questa rivoluzione non è stata solamente uno strumento di sviluppo in sé. È stata uno strumento di denominazione e di distruzione delle concorrenze internazionali. Meccanizzandosi, l’industria dell’Europa è divenuta capace di estirpare l’industria tradizionale delle altre nazioni. Le innovazioni agricole e industriali si diffusero progressivamente dall’Inghilterra verso l’Europa continentale, propagando come un’onda la rivoluzione industriale e raggiungendo, in circa due secoli, tutti i paesi oggi sviluppati. Esistono certamente fattori naturali che hanno impedito il processo di trasmissione della rivoluzione industriale: la distanza geografica, la densità di popolazione e soprattutto la differenza climatica, che «ha svolto un ruolo, non solamente a causa della dominante negativa dei climi tipici della quasi totalità dei paesi sviluppati, ma essenzialmente per il fatto che la rivoluzione agricola si è prodotta in climi temperati e con delle tecniche adatte a questi climi». Ma alla fine del XIX secolo, erano intervenuti fattori «perturbanti», ad arrestare la forse ancora possibile diffusione della rivoluzione industriale, ossia la dominazione coloniale.
È possibile che le ragioni dell’espansione coloniale non vadano cercate solo nelle forze economiche, in coerenza con le necessità dell’accumulazione capitalista, quanto in una serie di altre motivazioni che avrebbero costituito un insieme contingente, non coerente, di circostanze. Le motivazioni economiche certamente sono esistite, come anche le esigenze strategiche e militari, ma una delle altre motivazioni sulla quale insistono gli
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storici che tradiscono una certa «nostalgia» della fase coloniale e imperialista è la missione civilizzatrice dell’Europa, l’obbligo morale per i cristiani di una civiltà più progredita di aiutare i popoli arretrati a migliorarsi.5 Questo portò gli europei a porre un
dominio incontrastato, durato almeno fino agli inizi del XX secolo, in Asia e Africa e nell’Oceano Pacifico.
1.2.1. Il processo di decolonizzazione
Per decolonizzazione si intende il processo storico che ha portato alla nascita di stati indipendenti dove prima c’erano possedimenti coloniali.
La storiografia ha posto gli inizi del fenomeno nel continente asiatico nel primo decennio seguente la fine del Secondo conflitto mondiale, mentre la sua estensione in Africa avvenne a partire dalla seconda metà degli anni ‘50. Si tratta di una periodizzazione degli eventi tradizionale e da molti punti di vista condivisibile, sempre che sia ben chiaro come il fenomeno si presti anche a riflessioni diverse, essendo stato complesso, frastagliato e complicato da fattori che in esso intervennero pur non essendo parte diretta del rapporto esclusivo tra colonie e madrepatrie.
Il cammino verso l’indipendenza ebbe inizio in Asia e sin dalla fine del Secondo dopoguerra. In particolare, nel 1947, a seguito delle spinte di movimenti nazionalisti la cui origine può essere posta attorno agli anni ’80 dell’Ottocento, il subcontinente indiano, fino ad allora sotto controllo inglese, fu abbandonato dal Regno Unito, ottenendo l’indipendenza, ma subendo la tragedia di gravi conflitti interni che causarono milioni di morti e la spartizione del territorio in due nuovi Stati (l’India e il Pakistan) sorti su base religiosa. Nonostante ciò, abbastanza incomprensibilmente le vicende indiane sono state spesso interpretate dagli storici come la prova della maggiore capacità di Londra nella gestione della propria decolonizzazione, superiore a quella mostrata in quegli stessi anni dalla Francia e, successivamente, dal Portogallo. Di fatto, la Gran Bretagna non si impegnò militarmente nel subcontinente indiano solo per l’impossibilità pratica di sostenere un conflitto in uno spazio così vasto, che, mostrandosi insofferente alla dominazione straniera, costringeva Londra ad ammettere di non poter controllare un impero solo attraverso l’uso della sola forza navale che, in quanto tale, non era in grado di determinare gli equilibri regionali. A riprova che i governi inglesi ebbero un approccio molto meno pacifico alla decolonizzazione e non ebbero scrupoli nel combattere guerre
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nel post-1945 in territori che facevano parte del vecchio impero, se ritenuto utile o necessario, vi è il fatto che la Gran Bretagna fu protagonista in Malaysia di un lungo conflitto, condotto con mezzi anche brutali, durato dal 1948 al 1960, contro una guerriglia sostenuta dalla minoranza cinese. Tale conflitto principiò più o meno simultaneamente all’inizio del cammino verso l’indipendenza intrapreso dalla Penisola indocinese. Non solo: in Kenya Londra represse la sollevazione Mau-Mau con una guerra brutale contro le popolazioni Kikuyu che lasciò una grave eredità non ancora del tutto riassorbita; e fu protagonista di un conflitto nel Borneo, alla metà degli anni ‘60 per contrastare l’aggressione indonesiana. Ciò mostra una predisposizione britannica al conflitto che non appare troppo diversa da quella coeva francese. In sostanza, dovendo confrontarsi con nazionalismi locali emersi proprio grazie al contatto con l’idea di nazione che era stata importata dall’Europa con la colonizzazione, le varie potenze imperiali adottarono modi non molto differenti quando si scontrarono con il desiderio di indipendenza dei popoli a loro soggetti. Se del Regno Unito si è detto e se gli Stati Uniti garantirono la libertà alle Filippine senza eccessivi traumi (ma, è bene ricordarlo, essi avevano combattuto con ostinazione il movimento indipendentista locale nei primi anni del ‘900) assicurando una transizione abbastanza tranquilla, l’uscita di scena di Paesi Bassi e Francia fu ben più sanguinosa, almeno per le due madrepatrie. Il risveglio nazionalista indonesiano aveva avuto inizio negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale e si era rafforzato durante le due guerre (nonostante la repressione olandese) e con l’occupazione giapponese. Esso portò a un conflitto dopo il 1945 durato quattro anni, conclusosi con l’indipendenza raggiunta da quasi tutto il territorio dell’attuale Indonesia. Nell’Indocina francese le vicende furono anche più drammatiche. Se i nazionalismi locali avevano avuto in fondo identica genesi e sviluppo di quelli di altri paesi asiatici, il cammino verso l’indipendenza dei popoli fu molto più complicato. Costretti a circa dieci anni di guerra contro la Francia, Vietnam, Laos e Cambogia subirono ancor più che non la Malaysia l’intrecciarsi delle loro vicende con la grande frattura politico-ideologica mondiale determinatasi con l’emergere della Guerra fredda, che complicò non poco i rapporti regionali, con l’inserimento del conflitto tra colonizzatori e colonizzati entro quello tra Est e Ovest. Un fenomeno, tra l’altro, che provocò profonde fratture anche nelle singole società, ben presto divise non solo tra fautori della collaborazione con gli antichi dominatori coloniali e nazionalisti, ma anche tra alleati del mondo occidentale capitalista e sostenitori del blocco sovietico. Successivamente, grazie alla sempre minore capacità delle potenze coloniali di controllare i territori amministrati, al palese desiderio dei singoli
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popoli di ottenere la propria indipendenza e alle spinte dell’opinione pubblica internazionale a favore dei movimenti anti-colonialisti, anche in Africa la decolonizzazione ebbe inizio. E anche stavolta tali trasformazioni furono accettate in vario modo dalle potenze coloniali: alle volte furono accolte di buon grado, altre volte furono subite senza reagire, ovvero, in determinate occasioni, esse produssero guerre lunghe e penose. Se l’indipendenza dell’Africa sub-Sahariana francese non causò nella prima fase enormi problemi alla madrepatria e agli Stati di nuova formazione, l’Algeria fu teatro di una tragica guerra per le popolazioni locali, tra le quali a tutti gli effetti i pieds-noirs bianchi e gli arabi collaborazionisti: come ampiamente studiato dalla storiografia francese e internazionale6, esse furono costrette per anni in una guerra senza quartiere,
che si intrecciò al breve, ma significativo, episodio dell’intervento anglo-francese a Suez nell’autunno 1956. Queste riflessioni servono a meglio chiarire il rapporto tra i due blocchi e le superpotenze che li guidavano da un lato, e potenze regionali e le vicende della decolonizzazione in Asia e Africa, dall’altro.7
1.2.2 Conferenza di Bandung e la nascita del terzo mondo
Le pressioni dirette e indirette cui sono sottoposti i paesi in via di sviluppo spiegano come essi accolgano le offerte di aiuto con molte riserve.8 Sospettando l’esistenza di moventi
politici e militari a lunga scadenza, rischi di interferenze nei loro affari interni, e tentativi per impedire loro di porsi il più rapidamente possibile sulla via dell’industrializzazione. Le popolazioni dominate, mano a mano che prendono coscienza delle possibilità di reale indipendenza, oppongono rifiuti sempre più decisi ad essere “rappresentati” dalle grandi potenze “bianche”: questo risveglio della piena coscienza della propria forza e delle proprie possibilità è l’elemento dominante e più importante della Conferenza afro-asiatica riunitasi a Bandung in Indonesia dal 18 al 24 aprile 1955, la prima conferenza internazionale dei popoli di colore nella storia dell’umanità.
A Bandung nacque il Terzo mondo perché per la prima volta i popoli emergenti presero coscienza di una comune identità e di un comune destino politico. È tuttavia in Africa che il processo di decolonizzazione proseguì ad un ritmo più accelerato, favorito da una
6 L. Valent, Decolonizzazione e decolonizzazioni: una ricostruzione storica, in Rivista di studi letterari e culturali, altre
modernità, Editoriale a cura di V.Russo, M. Scaramucci, n.16 del 2016, Milano
7 Ibidem.
8 S. Magagnoli, Dal Colonialismo al Neocolonialismo
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circostanza che mostrò in tutta evidenza l’impotenza dell’Europa, insieme alle sue non ancora sopite velleità colonialistiche. La storia delle lotte per l’indipendenza dei popoli africani è ormai inestricabilmente connessa a quella per l’unità africana. È evidente infatti che la divisione degli africani non può che accentuarne la debolezza e favorirne la subordinazione alle potenze straniere. Secondo Senghor, (Senghor, Léopold Sédar: Letterato e uomo politico senegalese (Joal 1906-Verson, Normandia, 2001). Bandung rappresentò «la presa di coscienza, da parte dei popoli di colore, della loro eminente dignità. È la fine del complesso di inferiorità». L’indipendenza politica, pur costituendo per i popoli nuovi, un passo decisivo sulla via dell’emancipazione, non ne era ancora una garanzia sufficiente. L’arretratezza economica, la fragilità delle strutture sociali, la mancanza di tradizioni democratiche, la debolezza assoluta in campo internazionale, misero i popoli del Terzo mondo in condizioni di subire nuove forme di egemonia politica ed economica. La prima Conferenza degli Stati Africani indipendenti venne convocata ad Accra, capitale del Ghana, nel 1958, con l’obiettivo moderato di arrivare a posizioni comuni in politica estera e con quello più ambizioso di giungere ad una organizzazione permanente fra gli Stati africani indipendenti. Contemporaneamente alle prime rivendicazioni di unità, iniziò un contrasto fra una corrente, guidata da Léopold Sédar Senghor, favorevole alla federazione fra le ex-colonie francesi nel quadro della Comunità franco-africana e una corrente, più intransigente, guidata da Nkrumah e Sékou Touré, favorevole all’indipendenza prima, e poi all’unità.
Gli Stati africani, liberi dal dominio coloniale si riunirono ad Addis Abeba, in una grande Conferenza panafricana in cui finalmente il tema di dare un assetto istituzionale all’ideale dell’unità africana era all’ordine del giorno. Ma ad Addis Abeba la volontà di indipendenza e di unità non prevalse sulle gelosie e gli interessi nazionali. La sola voce che si levò appassionata a difesa dell’ideale dell’unità, da realizzarsi con vere istituzioni federali, cioè un governo, un parlamento, un esercito e una moneta unica, fu quella di Nkrumah. Così il «minimo comun denominatore» mantenendo intatta la sovranità di ogni Stato e creando una organizzazione per l’Unità Africana (OUA) che imitando l’ONU, nei fatti non risulterà altro che una conferenza diplomatica periodica, con qualche ufficio di segreteria permanente. Essa è la dimostrazione più evidente che l’obiettivo dell’unità africana è fallito. Del resto la subordinazione dell’Africa alle grandi potenze, che si aggrava ogni giorno di più e che mostra tutta la validità e la saggezza degli avvertimenti inascoltati di Nkrumah.9
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1.3 La cooperazione allo sviluppo
La cooperazione allo sviluppo è nata dopo la seconda guerra mondiale, come una politica dei paesi più ricchi per aiutare i più poveri a “svilupparsi”. Questa politica è stata attuata attraverso i finanziamenti e le organizzazioni dei paesi donatori e si è tradotta in una molteplicità d’interventi nei paesi che oggi si chiamano “partner” e che all’inizio si chiamavano “sottosviluppati”. L’idea di questa politica ha accompagnato la nascita delle Nazioni Unite nel 1945. Dopo la tragedia della guerra e la vittoria sul nazismo, la cooperazione allo sviluppo era parte della generale volontà di mantenere la pace e la sicurezza internazionale e di proseguire sulla via, appena intrapresa, della decolonizzazione. Essa si proponeva d’aiutare a stabilire relazioni più amichevoli tra i popoli, riducendo gli squilibri tra Sud e Nord e lottando contro la povertà. La cooperazione fu organizzata progressivamente come sistema per spendere le risorse che i governi dei paesi donatori riservavano all’aiuto pubblico allo sviluppo. Per spendere queste risorse, i donatori hanno fatto leggi, regolamenti, procedure e organizzazioni specializzate. 10
In quanto parte integrante - o strumento - della politica estera, la cooperazione allo sviluppo viene definita all’interno di politiche nazionali e sovranazionali di ampio respiro che ne orientano e/o determinano priorità, modi e strategie di intervento. Sulla base di questo articolato processo di definizione /negoziazione della politica di cooperazione allo sviluppo, anche l’Italia aderisce sia all’obiettivo globale della “lotta contro la povertà” che all’obiettivo regionale della stabilità delle frontiere europee sul Mediterraneo, a sud e a est. Nel nuovo contesto negoziale e internazionale in cui è inserita, la cooperazione italiana, in generale, sembra orientarsi nella seconda metà degli anni novanta sulla base di criteri geopolitici più che di interessi strettamente economici.
Nel corso degli anni ’90, in uno scenario internazionale segnato da importanti mutamenti politici ed economici, da aggiustamenti strutturali e dall’emergere di nuovi rapporti tra locale e globale che hanno annullato la semplicistica suddivisione tra nord e sud del mondo, la cooperazione internazionale ha dovuto rinunciare al suo tradizionale schema operativo, basato essenzialmente sul centralismo decisionale e sull’assistenzialismo. Per le società occidentali, in verità, riflettere sulle modalità del cooperare ha rappresentato un passaggio obbligato e contestuale al nuovo modo di intendere lo sviluppo. Nel contesto di tali ripensamenti le politiche di cooperazione si pongono così nuove priorità,
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orientandosi essenzialmente verso gli obiettivi dello “sviluppo umano”, dello sviluppo sostenibile” e dello “sviluppo partecipativo”. Questi ultimi approcci, pur interessando in modo differenziato doversi organismi internazionali nei primi anni ’90, hanno trovato la loro sintesi nella nozione di “sviluppo umano sostenibile”, definito, in occasione del Vertice di Copenaghen nel 1995, come «processo che, centrato sulla persona umana e sulla soddisfazione dei bisogni di tutte le persone, riconosce l’importanza della partecipazione attiva delle comunità locali ai modelli di sviluppo». 11
I dieci impegni di Copenaghen:
“1) Creare condizioni economiche, politiche, sociali, culturali, legali che rendano possibile il raggiungimento dello sviluppo sociale.
2) Sradicare la povertà nel mondo, con azioni decisive a livello nazionale e con una cooperazione internazionale ritenendo ciò un imperativo etico, sociale, economico dell'umanità.
3) Promuovere il pieno impiego come base prioritaria delle nostre politiche economiche sociali e rendere possibile che tutti gli uomini e le donne ottengano adeguati livelli di sussistenza grazie a un lavoro liberamente scelto.
4) Promuovere l'integrazione sociale incoraggiando società che siano stabili, giuste, sicure, basate sulla proporzione e il rispetto di tutti i diritti umani e sulla non-discriminazione, sulla tolleranza, sul rispetto delle diversità con pari opportunità, sulla solidarietà, sicurezza, partecipazione di tutti, incluse le persone e i gruppi più deboli e svantaggiati.
5) Promuovere il pieno rispetto della dignità umana e raggiungere l'eguaglianza e l'equità tra uomini e donne, riconoscere e accrescere la partecipazione e i ruoli direttivi delle donne nella vita politica, civile, economica, sociale e culturale.
6) Promuovere e raggiungere un paritario e universale accesso all'educazione e alle cure mediche primarie, garantire a tutti un alto livello di salute fisica e mentale; eliminare le disuguaglianze, superando distinzioni di razza, origini, età, salute e rispettando le diverse culture.
7) Accelerare lo sviluppo economico, sociale dell'Africa e dei paesi sottosviluppati. 8) Qualora vengano approvati programmi di aggiustamento strutturale, essi includono impegni a livello si sviluppo sociale con lo scopo, in particolare, di sradicare la povertà,
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promuovendo un impegno a tempo pieno e produttivo, e di accrescere l'integrazione sociale.
9) Incrementare notevolmente e/o utilizzare più efficacemente le risorse stanziate per lo sviluppo sociale in modo da raggiungere le finalità del Vertice grazie all'azione a livello nazionale e la cooperazione a livello regionale e internazionale.
10) Promuovere una migliore struttura per la cooperazione internazionale, regionale e sub-regionale per lo sviluppo sociale, con spirito associativo, grazie alla Nazioni Unite e ad altre istituzioni multilaterali”.12
In questo quadro contraddittorio emerge negli stessi anni Novanta l’impegno diretto di nuovi soggetti nella cooperazione internazionale. Enti locali, associazioni non tradizionalmente impegnate nello sviluppo, comitati locali, cooperative sociali, botteghe del mondo, organismi di categoria e professionali, mondo del lavoro, università e semplici gruppi di cittadini danno vita a quella che nel tempo viene chiamata “cooperazione decentrata”.
La cooperazione decentrata, da parte sua, intercetta precisamente l’esigenza di costruire nuove relazioni tra istituzioni e gente comune, tra locale, nazionale e internazionale, che diversi studi fondati su una base empirica estremamente ampia, hanno messo inevidenza (Pharr e Putnam, 2000; World Bank, 2000-2001; Commonwealth Foundation,1999). In tal modo essa è portata a fare i conti, a livello strategico e nelle pratiche quotidiane, con uno snodo decisivo della governance con la presa di coscienza dell’inconsistenza sia di un consenso inteso come presupposto e non come risultato di un processo che coinvolge attori molteplici e portatori di interessi eterogenei e spesso confliggenti, sia di un modo indifferenziato di guardare ai conflitti che ne coglie solo la carica dissolvente e ignora l’intreccio di tendenze e direzionalità che in ognuno di essi si cela. La cooperazione decentrata, inoltre, mentre fa del rapporto pubblico-privato l’asse strategico dei partenariati e delle strutture d’interazione create, concorre a problematizzare il locale, mettendone in luce sia gli elementi di diversità e conflittualità interna, sia la varietà e mobilità delle delimitazioni. Conseguentemente essa non definisce in modo rigido e predefinito le sue aree di intervento ma lascia che siano le specificità dei processi a farlo.
Tale approccio le consente di cogliere il locale
come punto d’incontro di direzionalità molteplici, provenienti dal territorio ma anche da llostato e dal contesto internazionale, e di collocarsi al di là di un’altra delle
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contrapposizioni che tradizionalmente hanno dominato e indebolito le politiche di cooperazione, quella tra approccio top-down e approccio bottom-up allo sviluppo.13
Un’azione, cioè, che si svincola dal livello centrale dei governi e mette in rapporto diretto comunità e persone di luoghi diversi. Il principio guida è il co-sviluppo, per cui i problemi planetari vanno affrontati congiuntamente e non riguardano solo i paesi impoveriti. E la strada è quella di mobilitare tutte le componenti di un territorio, sia al nord sia al sud del mondo, anziché due soli partner “professionisti” dello sviluppo.
Non esiste una definizione condivisa di cooperazione decentrata. Spesso la si identifica con la cooperazione realizzata o finanziata in autonomia da comuni, province e regioni, come fa ad esempio il Ministero degli Affari Esteri italiano. Per altri è un processo più complesso in cui partecipano molti attori, non guidati necessariamente dall’ente pubblico. Il modello sperimentato dall’UNDP a partire dagli anni Ottanta, e poi codificato a metà anni Novanta nei Programmi di Sviluppo Umano, pone al centro i Comitati Locali misti pubblico-privato. Questi si relazionano coi propri governi centrali attraverso la mediazione della stessa UNDP. Tale metodologia operativa cerca di conciliare l’ampia partecipazione dei differenti portatori d’interessi con una forte guida programmatica sui processi di sviluppo.
L’Unione Europea invece definisce la decentrata non in base a chi promuove la cooperazione – se autorità centrale, locale o organismo privato – ma al suo modo di agire, che deve essere paritario, processuale e partecipativo. Su questa linea per intervenire in ex Jugoslavia il Consiglio d’Europa promuove le Agenzie della Democrazia Locale. Le ADL – almeno quelle meglio funzionanti – sono forse l’esempio più riuscito di partnership tra istituzioni pubbliche locali e associazionismo privato. Non a caso si sviluppano nel contesto balcanico, che anche per la sua vicinanza geografica è stato il principale laboratorio della cooperazione decentrata europea.
Queste ed altre esperienze simili svolte nel quindicennio passato mostrano anche limiti e debolezze: come ad esempio l’eccessiva proliferazione di soggetti coinvolti, che può produrre scarso coordinamento e frammentazione degli interventi. Oppure le motivazioni spurie di alcuni, in particolare imprenditori e camere di commercio, che possono intendere la cooperazione decentrata come una via di espansione economica all’estero. Infine, a volte nei paesi impoveriti la disgregazione sociale è tale da rendere difficile e poco comprensibile l’approccio partecipativo richiesto dalla cooperazione decentrata. Oggi tutte le componenti che operano nella cooperazione internazionale – governi,
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organismi multilaterali, ONG, enti e associazioni locali - dichiarano necessaria una sua riforma. Diversi però sono gli orientamenti su come attuarla. Sul versante governativo, l’attenzione sembra concentrarsi sul calo complessivo delle risorse, anche per via dei tagli ai bilanci pubblici. Emergono perciò tentativi nuovi di raccogliere fondi per lo sviluppo dai privati: multinazionali, fondazioni, singoli cittadini. Nel mondo non governativo, le ong, specie quelle di dimensioni maggiori, provano a rispondere alla crisi attraverso una migliore strutturazione interna ed una maggiore efficienza tecnica. Ne discende la spinta ad aggregarsi tra più sigle per rafforzare le azioni di lobby democratica sui governi, o per grandi campagne di raccolta fondi quali Italiaiuta e Agire. Altre ONG puntano invece al radicamento territoriale ed al rapporto con le comunità di provenienza. Affiancano così ai progetti di cooperazione all’estero interventi rivolti alla propria realtà locale, ad esempio alle comunità immigrate, al commercio equo e solidale oppure all’animazione socio-economica del territorio.
Infine, la novità della decentrata sembra evolvere verso due possibili modelli: uno incentrato su sistemi territoriali integrati di cooperazione, dove attorno ad istituzioni pubbliche locali attive si costituiscono tavoli di lavoro misti, partnership pubblico - privato e collaborazioni tra mondo economico e no profit; l’altro è un modello in cui l’ente locale non entra nel processo di cooperazione ma eroga finanziamenti a soggetti del proprio territorio per loro progetti autonomi di sviluppo.14
1.4 Nuovi obiettivi di sviluppo dagli MDGs/SDGs e Agenda 2030
Al summit dell’ONU sullo sviluppo sostenibile, tenutosi a New York il 25 Settembre 2015, i governi dei 193 paesi membri, si sono riuniti per adottare la nuova “Agenda per lo sviluppo sostenibile (2030 Agenda for Sustainable Development)”. Al suo interno include 17 obiettivi (Sustainable Development Goals - SDG) per uno sviluppo sostenibile globale entro il 2030. L’ONU, attraverso il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo – UNDP, si impegna a supportare i governi di tutto il mondo verso questo grande obiettivo comune.
I SDG sono stati pensati come proseguimento degli obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals), otto obiettivi che nel 2000 tutti gli stati membri
14 Fonte: http://www.unimondo.org/Guide/Sviluppo/Cooperazione-internazionale-allo-sviluppo/(desc)/show.
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dell’ONU si sono impegnati a realizzare entro il 2015. Da quando i MDG sono stati adottati, sono stati raggiunti importanti traguardi, tuttavia gli obiettivi prefissati non sono stati completamente realizzati. E’ da questo parziale fallimento che nascono il bisogno e la voglia di fare di più. I SDG presentano un’agenda più ambiziosa, in quanto per esempio cercano di eliminare la povertà piuttosto che ridurla, e includono traguardi più impegnativi sulla sanità, l’educazione e la parità di genere. Rispetto ai MDG, questi nuovi obiettivi sono ritenuti universali, poiché riguardano tutti i paesi e tutti gli abitanti del mondo. Sono inoltre più complessi e completi, perché includono problematiche nuove, come il cambiamento climatico, il consumo sostenibile, l’innovazione in tutti i campi e l’importanza di assicurare pace e giustizia a tutti.15
Gli obiettivi sono stati sviluppati su quelle che sono state considerate aree critiche, quindi di importanza fondamentale per l’umanità e il pianeta:
Persone
Siamo determinati a mettere fine alla povertà e alla fame in tutte le loro forme e dimensioni e garantire che tutti gli esseri umani possano soddisfare i loro poteri in dignità e uguaglianza e in un ambiente sano.
Pianeta
Siamo determinati a proteggere il pianeta dal degrado, anche attraverso il consumo e la produzione sostenibili, gestendo in modo sostenibile le proprie risorse naturali e prendendo urgenti azioni sul cambiamento climatico, in modo da poter sostenere le esigenze delle generazioni attuali e future.
Prosperità
Siamo determinati a garantire che tutti gli esseri umani possano godere di una vita prospera e soddisfacente e che il progresso economico, sociale e tecnologico si verifica in armonia con la natura.
Pace
Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che sono libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere uno sviluppo sostenibile senza pace e senza pace senza sviluppo sostenibile.
15 Fonte:
http://www.improntaetica.org/wp-content/uploads/2015/12/Sintesi_Sustainable-Development-Goals_DEF.pdf
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Associazione
Siamo determinati a mobilitare i mezzi necessari per attuare questa agenda attraverso un partenariato globale rivitalizzato per lo sviluppo sostenibile, basato su uno spirito di solidarietà globale rafforzata, incentrato in particolare sulle necessità dei più poveri e vulnerabili e con la partecipazione di tutti i paesi, tutte le parti interessate e tutte le persone.
Gli interlinkages e la natura integrata degli obiettivi di sviluppo sostenibile sono di fondamentale importanza per assicurare che sia realizzato lo scopo del nuovo Agenda. Se realizziamo le nostre ambizioni in tutta la portata del programma, le vite di tutti saranno profondamente migliorate e il nostro mondo sarà trasformato in meglio”.16
I 17 obiettivi sono:
1- Sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo.
2 - Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare l’alimentazione e promuovere l’agricoltura sostenibile.
3 - Garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età.
4 - Garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti.
5 - Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze.
6 - Garantire la disponibilità e la gestione sostenibile di acqua e servizi igienici per tutti. 7 - Garantire l’accesso all’energia a prezzo accessibile, affidabile, sostenibile e moderna per tutti.
8 - Promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena occupazione e il lavoro dignitoso per tutti.
9 - Costruire un’infrastruttura resiliente, promuovere l’industrializzazione inclusiva e sostenibile e sostenere l’innovazione.
10 - Ridurre le disuguaglianze all’interno dei e fra i Paesi.
11 - Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili. 12 - Garantire modelli di consumo e produzione sostenibili.
13 - Adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici e le loro conseguenze.
14 - Conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine.
16 Organizzazione delle Nazioni Unite, Assemblea Generale, Settantesima edizione punti dell’Agenda 16 e 116, 21
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15 - Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e invertire il degrado dei suoli e fermare la perdita di biodiversità.
16 - Promuovere società pacifiche e inclusive orientate allo sviluppo. sostenibile, garantire a tutti l’accesso alla giustizia e costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli.
17 - Rafforzare le modalità di attuazione e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.
Dei diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile del Millennio, da raggiungere entro il 2030, i 193 leader mondiali che nel 2015 sottoscrissero il documento di impegno scelsero di mettere al primo posto la povertà estrema. Assieme agli altri due fronti di intervento, contrastare le inuguaglianze e contrastare i cambiamenti climatici, la lotta alla povertà rappresenta su tutti l’impegno attraverso il quale sarà poi possibile declinare il traguardo degli altri obiettivi. I dati oggi disponibili mostrano che gli indici di povertà estrema si sono ridotti di più del 50%, ma ciò nonostante il numero di persone costrette a vivere con meno di 1,25 dollari al giorno sono una su cinque nei 19 paesi in via di sviluppo per un totale di oltre 400 milioni di persone, tante quante quelle che guadagnano poco più di 1,25 dollari.
Un numero aumentato nell’ultimo triennio a causa di quelle che la FAO ha definito “crisi protratte”. Si tratta di guerre, attività intensive di land grabbing, siccità e alluvioni che investono soprattutto le regioni dell’Asia meridionale e dell’Africa Subsahariana. Le medesime da cui si sono generati negli ultimi decenni i principali flussi migratori non unicamente, come certa politica vuol far credere, verso l’Europa ma anche e soprattutto migrazioni a medio e corto raggio che generano ulteriori squilibri economici e sociali. Nelle due regioni, per avere una percezione chiara del fenomeno, un bambino su sette al di sotto dei cinque anni non possiede un’altezza adeguata alla sua età. È l’eterno ritorno del “Biafra” rimasto nell’immaginario collettivo come il simbolo del fallimento di politiche internazionali incapaci di generare processi redistributivi di risorse. Ma se il Biafra degli anni ’80 e ’90, che oggi ritorna allargato ai nomi di decine di paesi, seppure come sbiadito ricordo, è ancora vivo nella nostra memoria lo è soprattutto pe la quantità di immagini di bambini malnutriti in fin di vita che abbiamo visto scorrere davanti ai nostri occhi, occhi di mammiferi che secondo un principio naturale hanno la precipua certezza che la prole richiede tempo e dedizione per essere concepita, allevata e resa indipendente. Il bambino che muore è la nostra prole che muore, ecco perché quelle
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immagini restituiscono immediatamente il senso della fame. Ma la povertà è forse qualcosa di gran lunga peggiore. Essa va ben oltre l’assenza di guadagno. Fame e malnutrizione sono solo due delle sue manifestazioni, le altre come l’accesso limitato all’istruzione, l’accesso limitato ai servizi di base, l’esclusione sociale, la discriminazione ed anche l’esclusione ai processi decisionali fanno della povertà assoluta il peggior nemico della democrazia e delle libertà. Prefiggersi dunque di dimezzare la quota di individui che vivono in condizioni di miseria, implementare sistemi di protezione sociale, riportare ad un livello accettabile l’accesso alle risorse economiche, alla proprietà privata, ai servizi di base, alle risorse naturali, alla microfinanza e non da ultimo alle nuove tecnologie, vuol dire favorire quei processi in grado di fornire mezzi adeguati, coo-perazione allo sviluppo in primis, per restituire possibilità ad una parte di umanità che oggi non sa neppure di avere diritto ad una vita più dignitosa.17
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Capitolo II: Dallo sviluppo locale allo sviluppo umano
2.1 Introduzione
L’idea di sviluppo è stata associata per molto tempo al modello economico delle maggiori potenze industrializzate e su tale convinzione si sono basate tutte le elaborazioni teoriche mirate a ridurre le disuguaglianze sul reddito pro-capite e a ridurre i ritardi di crescita tra i paesi industrializzati ed il resto del mondo. Si è cominciato a constatare già negli anni ’70 che i modelli applicati nei paesi in via di sviluppo hanno portato a risultati diversi da quelli immaginati; tra gli anni ’80 e ’90 abbiamo assistito ad un declino delle condizioni economiche in Africa ed America Latina, addebitati sostanzialmente al deterioramento delle ragioni di scambio, ai crescenti obblighi per l’indebitamento con l’estero, alla stagnazione dei flussi di aiuti e al crescente protezionismo delle economie avanzate.18 Parimenti il rapido sviluppo della società dell’informazione globale, la
liberalizzazione dei mercati, la deregolamentazione delle attività economiche hanno inciso su questo disequilibrio mondiale aumentando il divario tra i paesi. Così negli anni ’90 emerge la necessità di riconsiderare i rapporti socio-economici su scala globale e redigere le nuove linee guida di sviluppo umano e localmente sostenibile.
La Carta di Copenaghen del 1995 individua una serie di punti relativi allo sviluppo della persona umana, alla soddisfazione dei bisogni di tutti gli individui, riconosce l'importanza della partecipazione attiva delle comunità locali ai processi di sviluppo, punta alla revisione delle strategie di crescita socio-economica ed all’'indispensabile partecipazione diretta di tutti i soggetti sociali ai processi decisionali e di sviluppo. La Carta di Copenaghen si inserisce in un contesto storico post-bellico e in cammino verso la fase della post-modernità e nel corso degli anni ha portato a nuove strategie e nuove azioni sui territori; ha cambiato la forma della politica e di conseguenza delle istituzioni favorendo la costruzione di una cittadinanza attiva.
Lo sviluppo per gran parte dell’umanità è già tutto dentro la Carta di Copenaghen, anche se modelli con la testa rivolta al passato e tesi ad uno sviluppo che si avvita solo su sé stesso è ancora incarnato nelle società mondiali.19
Per questo, ancora oggi, si discute di nuove prospettive di sviluppo; dalla scuola
18 UNDP, 1993
19Sisinnio Guido Milano, Sviluppo locale, territori e cooperazione in Le vie contemporanee dello sviluppo locale, di
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becattiniana, e il filone di studi a cui ha dato origine, riprendendo i concetti marshalliani di economie esterne e di distretto industriale, sino ad arrivare alle entità locali, caratterizzate dalla presenza di una comunità socialmente coesa, che condivide competenze e valori. È a partire dalle analisi e dalle riflessioni che si sviluppano attorno alle economie distrettuali che prende corpo il paradigma dello sviluppo locale.
L'obiettivo del capitolo è quello di volgere uno sguardo ai nuovi approcci sullo sviluppo e come queste nuove metodologie possano essere alla base di una nuova strategia di lotta contro la povertà, la disuguaglianza e l'esclusione sociale.
2.1.1 Lo sviluppo locale nella teoria economica: uno sguardo ai Distretti Industriali Nel suo libro Elements of Economics del 1929, Alfred Marshall afferma che quando si fa riferimento ad un Distretto si indica un’unità socio-economica costituita da un insieme di imprese, facenti parte di uno stesso settore produttivo e localizzate in un’area circoscritta, fra le quali vi è collaborazione, ma anche concorrenza.20
Sulla base di questa definizione, approfondendo lo studio dei distretti industriali bisogna quindi tenere in considerazione fattori come:
la realtà socio-economica la concentrazione territoriale la divisione del lavoro tra imprese.
Caratterizzante per il concetto è l'idea di “atmosfera industriale” che rivela il distretto nelle sue componenti sociali, culturali, storiche e produttive, viene interiorizzata dall’impresa distrettuale in maniera pressoché determinante. Già con Marshall emergeva l'imprescindibilità della comunità e dell'impresa, in quanto entrambe condividevano gli stessi valori. “Il forte radicamento all’interno del contesto socio-culturale locale, l’intensa compenetrazione produttiva con le altre imprese locali, la dimensione assai ridotta, l’esistenza di un soggetto imprenditoriale dai connotati socio culturali definiti e con un’influenza sulla vita aziendale piuttosto determinante ed, infine, l’influenza protettiva sia alla nascita che all’uscita esercitata dal sistema distrettuale costituiscono, nel loro insieme, una cornice fedele della natura dell’impresa distrettuale”21 Questo concetto
20A. Marshall, Principles of Economics, VIII Ed
21R. Varaldo, L. Ferrucci, La natura e la dinamica dell’impresa distrettuale in Il Distretto industriale tra logiche di
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richiede un'applicazione in ambito territoriale più ristretta, che non è né il mondo, né la nazione intesa in senso politico, né la singola impresa. E’ un aggregato produttivo, il distretto industriale, che nel processo di sviluppo e trasformazione segue una sua coerenza, un percorso socioeconomico. La particolarità di questo concetto sta nel fatto che esso include, come forza produttiva, il territorio, la sua storia che si rivela in valori, conoscenze e costumi, concetti che però approfondiremo in seguito. Quindi non si parla più di una forma organizzativa del processo produttivo, ma di un ambiente dove si intersecano imprese e relazioni.
Da questa idea si fa strada, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, lo studio di Giacomo Becattini che porterà negli anni successivi ad una ricca stagione di approfondimenti e teorie da parte di economisti e sociologi. Gli anni ottanta serviranno a mettere a fuoco i caratteri del Distretto Industriale e la dimostrazione della sua competitività rispetto alla grande impresa. Negli anni novanta aumenta l’interesse internazionale sullo studio dei distretti, ma in Italia fervono gli studi. Proprio in questo decennio i distretti ricevono anche il primo riconoscimento giuridico italiano, in quanto entità distrettuale con la Legge 335/1991, art. 36 che enuncia: '”Si definiscono sistemi produttivi locali i contesti produttivi omogenei, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, e da una peculiare organizzazione interna.”22
Di base lo studio sui Distretti Industriali ha approfondito degli aspetti che il grande dibattito sui sistemi economici aveva tralasciato, forse perché si trattava di un campo troppo incerto e discutibile da un punto di vista prettamente economico. Nell'approfondimento di questi aspetti si è potuto constatare che il capitalismo è una totalità sociale in cui l'economico produttivo e il socio-culturale si alimentano e condizionano a vicenda.23 Questa teoria affonda le sue radici nella grande intuizione di
Weber; i fattori sociali possono interagire tra loro e svilupparne altri, ciò che ha fatto nascere il capitalismo non è qualcosa di economico, è un’etica, lo spirito imprenditoriale deve avere sempre un’etica di partenza.24 Il sociologo tedesco sosteneva che l’aver
elevato il fattore economico a unico dato determinante per comprendere la storia fosse un errore, in quanto questo tralasciava innumerevoli altre influenze, tra cui quella sociale. I distretti industriali rappresentano un caso esemplare delle connessioni tra dinamiche
22Fonte: https://www.asitaranto.it/dbimg/309491563.pdf
23M. Dardi, Il mercato fra meccanica e storia, in Ponte, Aprile, 1999 24 M. Weber, Economia e società. Comunità, Donzelli, 2005
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economiche e socio-culturali; le interconnessioni che si possono creare tra economico e 'la vita della gente' è paradossalmente osservabile dallo studio dei Distretti Industriali, come citato in precedenza, e quindi con osservazioni dirette e mirate di particolari famiglie di fenomeni, sempre però nel quadro di una precisa, microcosmica, totalità sociale. Queste interconnessioni non risultano semplicemente da deduzioni logiche, ma si manifestano visibilmente dal funzionamento ordinario della cosa stessa.25 Con gli studi
portati avanti da Becattini si è arrivati a definire il Distretto come un insieme di PMI specializzate nella produzione di un certo tipo di prodotto e che, attraverso la vicinanza territoriale e ad un comune ambiente socio culturale, realizzano reciprocamente integrazioni verticali e orizzontali, riuscendo ad ottenere dei risultati che separatamente o in condizioni diverse da queste, non avrebbero mai potuto ottenere; addirittura si parla di risultati che superano persino quelli conseguibili da un’unica grande impresa verticalmente integrata. 26 Lo stesso studioso porta ad una distinzione circa la modalità
con cui può nascere un'impresa e/o distretto; questa può nascere come <impresa nucleolo> oppure <progetto di vita>.27 Tale distinzione nella modalità di nascita di un
distretto ci aiuta a capire la vera natura e l'entità 'sociale' del distretto stesso.
Nel primo caso si tratta di capitale in cerca di valorizzazione: il fine è il profitto e si punta alla massimizzazione della differenza tra ricavi ed i costi; reclutamento, organizzazione produttiva, contatti con l'ambiente esterno sono aspetti prettamente funzionali, strumentali. In contrapposizione un'impresa può nascere come <progetto di vita>, dove viene impiegato del capitale, ma viene promosso da relazioni e si muove nelle opportunità dello sviluppo sociale. L'investimento non riguarda più solo il capitale finanziario, quanto la reputazione all'interno di una comunità, l'impegno nel lavoro, la correttezza nel rapporto con gli altri e tutte quelle dinamiche che si è costruito all'interno di una società, è che rappresentano il vero valore del suo investimento 'capitale'.
Il caso del Distretto Industriale costituisce, in questo modo, l’esempio emblematico di quanto Bourdieu sosteneva, con riferimento alla natura multipla ed articolata del capitale. Il sociologo francese individua tre forme di capitale:
economico: convertibile in denaro o diritto di proprietà sociale: costituito dalle relazioni
25G. Becattini, Dal distretto industriale allo sviluppo locale, Bollati Boringheri, 2000
26 G. Becattini, Dal settore industriale al distretto industriale. Alcune considerazioni sull’Unità di Indagine
dell’Economia Industriale in Rivista di economia industriale, Il Mulino, Bologna, 1979
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culturale: convertibile in certe condizioni in capitale economico e può essere istituzionalizzato nella forma di qualificazioni educative/scolastiche.
Bourdieu definisce il capitale come l’insieme di beni che si accumulano, producono, distribuiscono, consumano, convertono o che si perdono. Capitale è ciò che si possiede e che dà un vantaggio a chi possiede la risorsa e secondo il pensiero bourdesiano non è solo di tipo economico: “reintrodurre il concetto di capitale in ogni sua forma, e non solo nella forma economica.”28 Soffermandosi solo sul concetto di capitale sociale Bourdieu scrive
che è “la somma delle risorse, materiali o meno, che ciascun individuo o gruppo sociale ottiene grazie alla partecipazione a una rete di relazioni interpersonali basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento”.29 E’ quindi intesa come risorsa individuale legata
all’appartenenza in un gruppo e all’interazione tra le persone. In questo senso, però, il capitale sociale può variare tra gli individui, anche appartenenti alla stessa comunità, in relazione al numero di legami sviluppati dal singolo attore.
Con i concetti di capitale culturale e sociale Bourdieu definisce una teoria alternativa per l’azione sociale ed economica. Tali concetti, infatti, si contrappongono a quello di capitale umano, e Bourdieu li utilizza non solo ad evidenziare le ragioni delle differenti traiettorie e delle differenti pratiche economiche e sociali che caratterizzano gli individui, ma al contempo per posizionarli nello spazio sociale ed in una determinata struttura di potere. Il capitale sociale mette in evidenza le differenze che caratterizzano gli individui, a partire dalle risorse che questi possono attivare alla loro rete di relazioni. Così Bourdieu aggiunge un altro tipo di capitale, quello simbolico che misura l’importanza e il riconoscimento sociale di cui godono gli individui.
Tornando allo studio sui distretti, potremmo, quindi, definirli come un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area socio-territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali.30 Qui le persone che vi abitano sono accomunate e
condividono un sistema di valori, che si esprime in termini di etica del lavoro e dell’attività, della famiglia, della reciprocità e del cambiamento. Questo sistema di valori si tramanda di generazione in generazione tramite un sistema di istituzioni e di regole che in questo modo crea un ambiente socio-culturale. Già nella prima definizione e nei primi
28 P. Bourdieu, Forme di capitale, a cura di Marco Santoro, Armando Editore 29 Ibidem