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Gli accertamenti tecnici irripetibili

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

GLI ACCERTAMENTI TECNICI IRRIPETIBILI

Il Candidato: Il Relatore:

Lorenzo Milani Chiar.mo Professor. Bresciani

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO I

Analisi storica dell’istituto

1

.

Introduzione……….…..9

2. Il consulente tecnico nel codice del 1913 e nel successivo codice Rocco ………...11 3. Le novità apportate dal codice del 1988……….………..23

CAPITOLO II

Il consulente tecnico del pubblico ministero e il suo

inquadramento processuale

1. Il consulente tecnico del pubblico ministero………30 2. La nuova ipotesi della consulenza in assenza di perizia………...37 3.Relazione tra consulente tecnico e consulente extraperitale….………….45

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4. Differenze tra consulente tecnico del P.M e quello delle parti private ………..47 5. Statuto giuridico del consulente del P.M………..51 6. Identificazione del ruolo processuale del consulente alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità e costituzionale………...56

CAPITOLO III

Gli accertamenti tecnici irripetibili: i presupposti…

1. Bilanciamento tra principi costituzionali………..70 2. Il concetto di irripetibilità: difficoltà definitorie….………..75 2.1 L’irripetibilità in via originaria………...86

CAPITOLO IV

…La fase procedimentale

1. L’esigenza del contraddittorio……….……..86 2. L’avviso……….91

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2.1 Gli effetti del mancato avviso……….93

3. Il conferimento dell’incarico………95

4. L’accertamento e il deposito della relazione…...………..97

5. La riserva di promuovere incidente probatorio e le novità apportate dalla riforma Orlando……….….106

6. Gli effetti della prosecuzione dell’accertamento nonostante la riserva di incidente probatorio………..…..110

CONCLUSIONI………113

BIBLIOGRAFIA………...………116

(5)

Introduzione

Il presente elaborato si pone l’obiettivo di analizzare l’istituto degli accertamenti tecnici irripetibili, disciplinati dall’art. 360 c.p.p., sottolineandone, in una prima parte, l’evoluzione storica a partire dal codice del 1930, fino ad arrivare alle novità introdotte con il codice del 1988. Successivamente l’attenzione si sposta sul consulente tecnico del pubblico ministero e sul suo inquadramento processuale per arrivare poi ai presupposti dell’accertamento tecnico irripetibile e in particolare al carattere dell’irripetibilità, che come vedremo, risulta essere di difficile definizione. Nell’ultima parte viene approfondita, invece, la fase procedimentale, legata all’attuazione di tale istituto.

È importante sottolineare fin da subito che nel codice del 1930, il consulente tecnico era una figura riservata alle parti private, infatti il pubblico ministero non poteva avvalersi dell’aiuto di un consulente tecnico, ma poteva usufruire del perito di nomina giudiziale.

Quindi mentre all’imputato era permesso di difendersi argomentando, al pubblico ministero era dato il potere di provare, ma questo in fin dei conti era in linea con i caratteri autoritari del periodo in esame.

In un codice come quello Rocco, caratterizzato per i suoi tratti essenzialmente inquisitori, il consulente tecnico finiva per avere uno spazio ristretto e marginale, e veniva considerato come un ausiliario della parte dalla quale ereditava poteri, natura e caratteristiche. La paura era che il

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giudice si potesse trovare di fronte a più verità, pertanto la soluzione fu quella di eliminare valore probatorio alla consulenza degli esperti di parte. In quest’ottica era del tutto normale che al pubblico ministero non si affiancasse alcun consulente tecnico poiché intorno a tale soggetto si era creato un clima di non veridicità, di tendenziosità e di malizia.

Lo scenario cambia completamente a partire dall’introduzione del codice del 1988 con il quale vengono eliminati i retaggi inquisitori del codice precedente.

Le novità apportate dal nuovo codice possono essere riassunte in due punti, da un lato una pluralità di mezzi attivabili per acquisire il contributo tecnico-scientifico al processo; e dall’altro la possibilità per il pubblico ministero di avvalersi di un proprio consulente tecnico.

Oltre a queste due fondamentali novità, viene prevista anche l’equiparazione tra consulente dell’accusa e consulente delle parti private.

Analizzando la figura del consulente tecnico del pubblico ministero, si può notare come questa sia caratterizzata da due distinte discipline a seconda che l’accertamento risulti essere ripetibile (art. 359 c.p.p.) o irripetibile (art. 360 c.p.p.). È bene chiarire fin da subito che qualora gli accertamenti siano appunto irripetibili, il codice provvede a delineare una disciplina specifica, in modo tale da garantire il contraddittorio, nel momento in cui, in pratica, si “perde” un elemento di prova.

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Quello che però è più ambiguo, è la doppia anima che connota l’istituto degli accertamenti tecnici, poichè il consulente, qualora sia chiamato in causa dal p.m., assume la veste di pubblico ufficiale, nel caso in cui invece sia adito dalla parte privata, riveste la qualifica di ausiliario. La domanda che sorge spontanea, così come esprime E. Amodio in un suo articolo, è se il consulente tecnico del pubblico ministero, nel momento in cui va al dibattimento, e viene sottoposto all’esame diretto e al contro-esame, può considerasi in tutto e per tutto un testimone?

Per risolvere la questione sono recentemente intervenute le Sezioni Unite e la stessa corte Costituzionale.

La vicenda, decisamente complessa, è stata risolta proprio dalle Sezioni Unite con la sentenza del 25 settembre 2014, n. 51824, che ha riconosciuto che il consulente tecnico del pubblico ministero deve essere equiparato al testimone.

Spostando adesso l’analisi sui presupposti degli accertamenti tecnici irripetibili, si evince che il vero fulcro dell’art. 360 c.p.p. è costituito dalla nozione stessa di irripetibilità. Prima di cercare di individuarne una definizione, è però importante sottolineare come la norma in esame rappresenti un difficile compromesso tra alcuni principi costituzionali. Il nostro ordinamento presenta le caratteristiche di un rito tendenzialmente accusatorio, basato su principi fondamentali quali quelli dell’immediatezza e dell’oralità. Per altro verso, appare fondamentale garantire la

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conservazione di taluni atti di indagine le cui caratteristiche risultino essere incompatibili con i principi precedentemente esposti e la cui dispersione rappresenterebbe uno spreco probatorio intollerabile. Il compimento degli atti irripetibili rappresenta dunque una deroga al principio della formazione della prova in dibattimento.

Tornando adesso alla nozione di irripetibilità, le difficoltà definitorie sono date dal fatto che il legislatore non ha voluto introdurre né una definizione generale di irripetibilità, né individuare una elencazione di atti tipicamente irripetibili. Il legislatore ha quindi preferito lasciare alla valutazione in concreto ed al divenire dell’esperienza pratica e teorica l’individuazione della differenza tra atti ripetibili e non. Analizzando il codice di procedura penale, si evince come vi siano una pluralità di indici testuali per niente univoci. La dottrina ha cercato di far luce su tale nebulosità normativa e ha individuato alcuni significati all’interno della generale nozione di irripetibilità: essa è stata vista da un lato come non rinviabilità, il che equivale all’indifferibilità dell’atto e, dall’altro lato, come non rinnovabilità dell’atto medesimo, ovvero impossibilità di riprodurre le situazioni di cui l’atto costituisce ricognizione all’interno dello stesso contesto e con le medesime caratteristiche. Oltre a questi casi, bisogna aggiungere poi la situazione in cui è l’accertamento stesso a esaurire il proprio oggetto, si tratta in questo caso dell’irripetibilità originaria che deriva dall’espletamento dell’atto medesimo.

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Le caratteristiche dell’accertamento tecnico irripetibile necessitano di una serie di garanzie al fine di garantire l’effettività del contraddittorio. Tutte le volte che il pubblico ministero intenda procedere ad un accertamento tecnico irripetibile, deve provvedere a darne avviso agli altri soggetti. L’avviso ha lo scopo di informare gli altri soggetti, dell’atto che sta per essere compiuto, e della facoltà di prendere parte al contraddittorio tecnico presenziando al conferimento dell’incarico e potendo procedere alla nomina di un consulente di parte. Per quanto concerne la garanzia giurisdizionale, invece, questa può essere riesumata per mezzo della riserva di promuovere incidente probatorio. Proprio quest’ultimo istituto è stato oggetto di un recentissimo intervento legislativo, ad opera della riforma Orlando (legge 23 giugno 2017, n.103), la quale ha introdotto il comma 4-bis, il quale prevede che, qualora, prima del conferimento dell’incarico al consulente tecnico da parte del pubblico ministero, la persona sottoposta alle indagini preliminari formuli riserva di promuovere incidente probatorio, tale riserva perda efficacia e non possa essere ulteriormente riformulata se l’incidente non sia effettivamente chiesto entro dieci giorni dalla formulazione della riserva medesima. In questo modo è stato definitivamente eliminato il rischio che era insito nella disciplina previgente, ovvero che l’istituto della riserva di promuovere incidente probatorio si presti a forme abusive aventi finalità meramente dilatatorie o ostruzionistiche.

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CAPITOLO I

Analisi storica dell’istituto

1. Introduzione

Il codice di procedura penale dedica alla consulenza tecnica e alla perizia un numero di norme limitato, contenute per la maggior parte nel Libro III, nello specifico a partire dall’art. 220 e seguenti. In primo luogo è importante distinguere la consulenza tecnica dalla perizia, visto che entrambi gli istituti fanno riferimento allo stesso mezzo di prova, che consiste in indagini, accertamenti e valutazioni di natura tecnica, che discrezionalmente, il Giudice, il Pubblico Ministero e le parti private possono disporre nel momento in cui ciò appaia loro necessario, in settori nei quali siano richieste specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche (art. 220 c.p.p.). Tuttavia, mentre il perito è nominato dal Giudice, il consulente tecnico è nominato dalle parti del processo penale, ovvero dal Pubblico ministero, dall’imputato o dalla persona offesa dal reato.

Concentrandosi ora sul consulente tecnico, questi è una figura professionale che va assumendo sempre più importanza nell’ambito dei processi, sia civili che penali, come si può anche notare dalle cronache dei casi più eclatanti. Nell’ambito dei procedimenti l’apporto tecnico-scientifico dei consulenti rappresenta spesso la chiave di volta dell’intero processo, soprattutto

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laddove l’esito della causa è legato alla corretta valutazione di aspetti di natura esclusivamente tecnica.

“Le scoperte ed i progressi delle discipline tecnico scientifiche hanno contribuito a conseguire un maggior grado di certezza della prova nel processo penale. In una ricerca complessa dove si pretende di ricostruire un fatto già accaduto attraverso i ricordi delle persone e i segni delle cose, raramente è possibile acquisire la sicurezza degli elementi sui quali si dovrà, poi, fondare la decisione del giudice.

Diventa facilmente comprensibile, quindi, che per la soluzione di questioni non giuridiche, che esigano un’attitudine o una preparazione tecnica speciale, il giudice, il pubblico ministero o le parti provate ricorrano a personale qualificate. Considerando, inoltre, che l’intervento giudiziario si manifesta in settori sempre più specialistici, con la conseguente necessità di applicare principi scientifici extragiuridici, si è finito per valorizzare, ancor di più la figura degli assistenti tecnici: non soltanto in relazione alla verifica dell’imputabilità, delle modalità della condotta, del nesso causale di quest’ultima con l’evento, ma anche e soprattutto con riguardo ad indagini da sole sufficienti per l’accertamento del reato”1.

L’aiuto tecnico è finalizzato da un lato a percepire direttamente il fatto, dall’altro lato a dedurre il fatto da provare dalla fonte di prova2. Sotto

1 L. Cremonesi, Natura giuridica e funzioni del consulente tecnico del pubblico

ministero nelle indagini preliminari, in GP 1995, III, pag. 238.

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l’aspetto funzionale, pertanto, l’esperto tecnico rappresenta un collaboratore per la ricerca della verità, fermo restando il principio del libero convincimento, riconosciuto al giudice, di accettare o rifiutare i risultati dell’indagine tecnica3.

2. Il consulente tecnico nel codice del 1913 e nel

successivo codice Rocco

Nel processo penale il consulente tecnico evoca l’immagine della parte, di questa costituisce, infatti, strumento di ausilio tecnico scientifico4.

Dunque il consulente tecnico e i suoi poteri si plasmano in stretta connessione al ruolo e ai poteri conferiti alle parti5.

In un codice con caratteri tendenzialmente inquisitori, come quello Rocco, il consulente tecnico finiva per avere uno spazio operativo ristretto e marginale, come del resto ristretto e marginale era lo spazio lasciato alle parti private; il suo confine operativo, invece, aumenta (addirittura si

3 L. Cremonesi, op. cit., pag. 238.

4 R. Kostoris, I consulenti tecnici nel processo penale, Milano, 1993, cit. pag. 1.

5 L’indagine che ci accingiamo a svolgere prende in considerazione esclusivamente l’istituto della consulenza tecnica in senso stretto, cioè quell’istituto il cui unico precedente si rinviene nel codice del 1930. Ciò non toglie che prima di quel momento esistessero altri strumenti (generalmente perizie di parte) attraverso cui l’imputato poteva esercitare una funzione critica o di opposizione rispetto alla perizia giudiziale.

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moltiplicano le stesse figura di consulenti) in un processo come quello varato con il codice del 1988, nel quale alle parti (e con parti si intende sia quella privata che pubblica) viene riconosciuto un ruolo centrale nella formazione della prova.

Per analizzare meglio le differenze tra i due sistemi è necessario partire con la nostra analisi sull’istituto, dal codice previgente, dove il consulente tecnico viene inquadrato come strumento di controllo della perizia giudiziale6. Il consulente tecnico era visto come reazione ai sistemi della

controperizia dibattimentale del codice del 18657 e soprattutto della perizia

di parte del 19138, per mezzo dei quali erano stati regolamentati nelle

6 R. Kostoris, I consulenti tecnici nel processo penale, Milano, 1993, cit. pag 2.

7 Questo modello (su cui cfr., in prospettiva storica, Messina, Il regime delle prove nel

nuovo codice di procedura penale, 1914, pag. 250 ss.) prefigurava una forma di

controllo diacronico (art. 438) sulla perizia giudiziale espletata in istruttoria, senza alcun intervento delle parti private. Esso aveva prestato vistosi difetti sul piano della funzionalità, non solo perché le controperizie dibattimentali si erano rilevate perizie “a tesi”, al servizio delle parti e finalizzate esclusivamente a smantellare la perizia disposta dal giudice alle medesime non favorevole, ma, soprattutto, per via delle interminabili dispute tra “periti d’accusa” e “periti di difesa” in cui era degenerato lo strumento della controperizia e che avevano finito per trasformare le udienze in palestre oratorie e vuota accademia, spesso con l’unico effetto di portare confusione anziché chiarezza nelle menti dei giudici.

8 In questo sistema (su cui cfr. Mortara, Aloisi, Spiegazione pratica al codice di

procedura penale, p.te I, rist. 1920, pag. 403 ss.), volto a rimediare agli inconvenienti

della controperizia dibattimentale e a cui si pervenne a seguito di un vasto movimento di riforma a cavallo tra Ottocento e Novecento il contraddittorio veniva anticipato non solo alla fase istruttoria, ma addirittura all’interno della stessa perizia, nel prevedere (art. 211) che due periti (tre nel caso di pareri discordi: art. 221) di nomina mista (giudiziale e di parte) si riunissero in collegio per procedere congiuntamente e in posizione paritetica alle operazioni (art. 214), con possibilità di esprimere opinioni

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codificazioni precedenti i poteri delle parti in materia di prova peritale. In particolare nel sistema del 1913, impostato per risolvere gli inconvenienti della controperizia dibattimentale, il contraddittorio veniva anticipato non solo alla fase istruttoria, ma addirittura all’interno della perizia stessa, nel prevedere che due periti (tre in caso di pareri discordi), si riunissero in collegio per procedere congiuntamente e in posizione paritetica, alle operazioni. “Il sistema penale del 1913 non acquisiva una figura di consulente tecnico nemmeno nominalmente, in quanto colui che avrebbe dovuto essere il perito «di parte», cioè per intenderci, nominato dall’imputato o dal suo difensore, era nient’altro che un tecnico in materia affiancato al perito d’ufficio (primo perito), di cui nella pratica diveniva un assistente, contribuendo a costituire la cosiddetta «collegiale», intesa quale

divergenti e di redigere eventuali relazioni di minoranza (art.223). Questo schema era, peraltro, suscettibile di non poche deroghe, ora nel senso del ricorso alla sola perizia giudiziale in situazioni caratterizzate da “urgenza”, “semplicità di indagine”, “tenuità del reato” (art. 213), ora nel senso del ricorso ad una perizia collegiale di nomina esclusivamente ufficiosa, in funzione “punitiva” di taluni comportamenti omissivi degli interessati (art. 212). all’anticipo del contraddittorio tra periti in fase istruttoria faceva poi riscontro una sua drastica limitazione in dibattimento (singolare, nell’ambito di un sistema processuale che nelle sue linee generali si sforzava di valorizzare l’oralità). Nasceva in questo contesto l’assioma, poi fatto proprio anche dal legislatore del 1930, che all’udienza la perizia “né si eseguisce né si rinnova, ma solamente si chiarisce”: la richiesta di citazione dei periti a scopo di schiarimento era peraltro consentita solo in caso di pareri discordi; di fronte ad un verdetto unanime eventuali dubbi o lacune erano destinati a rimanere tali.

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partecipazione alle operazioni peritali, alla visione del fascicolo ed alla formazione degli atti processuali”9

Tale soluzione, di fronte ai caratteri autoritari dello stato fascista, era risultata totalmente inadeguata.

Se, come si evince dalla Relazione al Progetto preliminare del codice del 193010, “il principale obiettivo in materia doveva considerarsi quello di

eliminare le insidie della malizia e della venalità, in una parola, il pericolo di non veridicità della perizia, non poteva risultare appagante una perizia a due o a tre, con possibilità di altrettanti pareri discordi che avrebbero disorientato il giudice. Né sarebbe stato utile aggravare le sanzioni per il reato di falsa perizia, in quanto reato di prova difficilissima, quasi mai perseguito nella pratica.

Sembrava preferibile agire radicalmente, eliminando dal processo i periti principalmente interessati a travisare la verità, cioè i periti di parte. Le parti private avrebbero potuto giovarsi dell’opera di esperti; bastava che questi non assumessero la qualità di periti”11.

Questa soluzione aveva una sua logica di fondo in quanto evidenziava che la perizia di parte effettivamente conteneva in sé un’intima discrasia: da un lato il perito, quale ausiliario del giudice, e al pari del perito giudiziale,

9 C. Calcani, A. Mascaro, Ruolo del consulente tecnico nel nuovo processo penale, in

Giust. Pen., 1992, III, pag. 557.

10 Rel. del Guardasigilli al Prog. prel di un nuovo c.p.p., in Lav. prep. del c.p. e del c.p.p., vol. VIII, 1929, pag. 62.

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aveva l’obbligo di far conoscere la verità; dall’altro quale organo di controllo del perito giudiziale, doveva far valere l’interesse della parte. Adempiendo alla prima funzione sarebbe venuto meno ai doveri imposti dalla seconda, e viceversa.

Quindi la creazione di un “difensore tecnico” della parte, a cui veniva dato il nome di consulente tecnico, risolveva l’antinomia12, almeno sul piano

concettuale13.

A ben vedere, a spingere il legislatore del 1930 verso l’istituzione di questo tecnico di parte, oltre alle esigenze di chiarezza e di distinzione dei ruoli, vi sarebbero esigenze ricollegabili inevitabilmente agli elementi autoritari del codice.

Con il codice Rocco, veniva meno la concezione dualistica del processo, così come tramandata dalla scuola classica, per la quale lo scopo del processo doveva essere non solo la repressione dei reati, ma anche salvaguardare i cittadini dagli arbitri dell’autorità, e si affermava un’ottica di stampo positivistica sulla base della quale il contraddittorio e l’intervento delle parti erano visti come intralci per il perseguimento della verità.

12 Nelle sue linee di fondo l’opzione operata dal codice del 1930 segnava, dunque, una svolta importante nel modo di articolare i meccanismi del controllo di parte sulla perizia, pur presentando in sé un carattere per così dire “neutro”, suscettibile di orientare verso i più diversi sviluppi: nel codice Rocco su quella base ci si sarebbe mossi nell’ottica di una sistematica svalutazione dell’apporto del consulente tecnico; nel nuovo codice l’adesione alla medesima scelta di principio doveva portare ad una dimensione “partecipativa” di tale soggetto nell’ambito della prova peritale.

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Mentre si trovava nella indagine solitaria del giudice, compiuta secondo le regole del metodo dell’investigazione obiettiva comune alla ricerca scientifica, l’unico strumento in grado di assicurare la realizzazione di quell’obiettivo finale14.

In tale sistema la prova è del giudice-inquisitore, pertanto è lampante come il giudice sia l’unico soggetto capace di decidere se e in che misura gli necessiti l’aiuto di un esperto, ed è sempre nelle mani del giudice il potere di nominare un perito che lo aiuti nella decisione.

Date le premesse è prevedibile come il legislatore, nel disciplinare la prova tecnica, si sia imposto quale obiettivo principale, quello di affermare il primato del perito di nomina giudiziale quale unico depositario di attendibili responsi scientifici.

Tale scopo poteva essere perseguito senza rompere del tutto con la tradizione, infatti non fu eliminato ogni controllo di parte sulla perizia, ma ne fu ridotto nel maggior modo possibile, la portata e l’incidenza.

Da una parte “veniva escluso per i consulenti tecnici il giuramento e l’obbligo di verità conseguente: accostandoli alla figura del difensore si mirava a declassare nettamente il valore delle loro argomentazioni15:

tenendo conto dello sfavore con il quale erano riguardati gli apporti della

14 Cfr. Carnevale, Carattere della verità nel processo criminale, in Diritto criminale, vol. III, 1932, pag. 405.

15 Ad essi, diceva significativamente la Rel. del Guardasigilli al Prog. Prel. di un nuovo

c.p.p., cit., pag. 64, “il giudice (avrebbe) creduto nei limiti nei quali crede(eva) agli avvocati”.

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difesa, specie in fase istruttoria, si lasciava in tal modo intendere che una presunzione di non veridicità, di tendenziosità, di malizia avrebbe caratterizzato i loro responsi, sì da giustificare a priori la scarsa o nulla considerazione che ai medesimi avrebbe dovuto essere riservata da parte del giudice in sede di motivazione della sentenza”16.

Questo pregiudizio, puntualmente recepito a livello giurisprudenziale, era destinato a protrarsi, anche se in modalità meno marcata, anche dopo gli interventi novellistici del 1955, mirati a rafforzare il ruolo del consulente tecnico.

Dall’altra parte il legislatore interveniva direttamente sui poteri dei consulenti tecnici prevedendo due limiti importanti: in primo luogo l’impossibilità di nominare consulenti tecnici finché non fosse stata depositata la perizia in cancelleria, con la conseguente preclusione di un contestuale controllo sulle operazioni; in secondo luogo la negazione assoluta di qualsiasi intervento in dibattimento dei consulenti tecnici nominati in istruzione.

La natura inquisitoria del processo comportava di dover considerare il consulente come un ausiliario della parte, dalla quale quindi ereditava poteri, natura e caratteristiche. Nel dettaglio, l’apporto tecnico prestato dal consulente di parte veniva ad essere considerato come una “memoria”, ovvero una mera argomentazione. Questo significava negare agli apporti dei consulenti tecnici valore probatorio e considerarli quasi una specie delle

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argomentazioni difensive. La paura, come già spiegato precedentemente, era che il giudice si potesse trovare di fronte a più verità, quindi la soluzione a questa spiacevole situazione, fu quella di eliminare valore probatorio alla consulenza degli esperti di parte.

Era chiaro come il difensore nel tutelare l’interesse della parte avesse il potere di mentire, e questo allora valeva anche per i suoi ausiliari, compreso il consulente tecnico.

Ecco dunque come il codice Rocco, nel riconoscere la natura di ausiliario al consulente della parte privata, allo stesso tempo ne stabiliva il declassamento probatorio, facendo emergere in torno alla figura del consulente tecnico un alone di inattendibilità.

L’apporto più importante del consulente tecnico erano le osservazioni scritte, destinate, però, sulla base di quanto appena detto, ad essere scarsamente considerate.

Bisogna infine notare come la nomina dei consulenti tecnici di parte fosse soggetta ad una regolamentazione piuttosto restrittiva, da cui si deduce come il legislatore considerasse tali soggetti come un surplus di garanzia difensiva. La riprova è data dal fatto che le parti provate non potevano nominare collettivamente più di due consulenti. Sullo stesso piano deve essere posto l’art 324 c.p.p. 1930, in base al quale in nessuna caso la chiusura dell’istruzione poteva essere ritardata a causa di consulenze di parte.

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Infine è importante far luce sul fatto che nel sistema del 1930 il consulente tecnico era una figura riservata alle parti private infatti il pubblico ministero non poteva avvalersi dell’aiuto di un consulente tecnico, ma poteva nominare, durante l’istruzione sommaria, un perito, ovvero un soggetto dotato del potere di produrre prove e non mere argomentazioni, anche se tale possibilità era legata ai casi in cui l’accertamento fosse di facile esecuzione, ovvero ai casi di istruzione sommaria17.

Mentre dunque all’imputato era permesso di difendersi argomentando, al pubblico ministero era dato il potere di provare. Ma questo, in fin dei conti, era in linea con i caratteri autoritari del periodo in esame.

Prima di passare alle modifiche introdotte che il nuovo codice, dobbiamo analizzare un passaggio intermedio rappresentato dagli gli interventi novellistici del 1955, tesi a potenziare il ruolo del consulente tecnico. Con questa riforma i poteri dei consulenti tecnici venivano notevolmente ampliati, ma in termini tali da non eliminare l’originario pregiudizio nei loro confronti1819.

17 In materia, L. Cremonesi, op. cit., pag. 240, evidenzia che «Il codice processuale del

1930 prevedeva come procedimenti istruttori due procedure denominate “istruzione formale” e “istruzione sommaria”. La prima era condotta dal giudice istruttore, che raccoglieva imparzialmente le prove secondo un embrione di contraddittorio e poi decideva se l’imputato doveva affrontare o meno il dibattimento. La seconda aveva come protagonista esclusivo il pubblico ministero, il quale ricercava e formava le prove come si fosse un giudice al di sopra delle parti e, poi, nel dibattimento se ne serviva da quella parte che era».

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Nello specifico la nomina e l’intervento del consulente potevano essere ora possibili in ogni momento dell’istruzione formale e sommaria anche se entro determinati termini finali (art. 323 comma 2), prevedendo allo stesso tempo il diritto del perito di assistere alla perizia (art. 324 comma 1), con la potenzialità di presentare al giudice istanze o di fare osservazioni e riserve: si trattava però di un contraddittorio mediato dall’organo istruttore, e, dunque scarsamente incisivo.

Nel caso in cui la perizia non fosse ancora cominciata o in corso, il consulente tecnico poteva chiedere che al perito venissero sottoposti determinati quesiti con istanze scritte (art. 324 comma 2).

Qualora il consulente fosse stato nominato dopo il compimento della perizia, questi aveva la possibilità di consultare i pareri e le relazioni peritali ed estrarne copia (art. 324 comma 3), mentre nel caso in cui avesse assistito o meno alla perizia, poteva domandare di esaminare la cosa oggetto della perizia o la persona (art. 324 comma 4). Si trattava però di un semplice richiesta, non di un diritto di ottenere, e la possibilità di una risposta negativa era ampliamente favorita dall’art. 324 comma 6 che impediva di ritardare la chiusura dell’istruzione per espletare attività concesse al consulente.

19 Addirittura, G. Frigo, Il consulente tecnico della difesa nel nuovo processo penale, in

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L’ apporto del consulente, in fin dei conti, rimaneva legato al deposito in cancelleria delle sue osservazioni scritte (art. 325), destinate, tra l’altro, a rimanere ancora scarsamente considerate a causa della loro origine20.

Rimaneva comunque piuttosto limitata la partecipazione del consulente in dibattimento: era concessa la citazione in giudizio dei consulenti che avessero già prestato il loro ufficio (art. 416); venivano ascoltati dopo la lettura delle loro osservazioni, ma avevano l’obbligo di limitarsi a rispondere alle domande loro rivolte dal presidente o dal pretore (art. 451 comma 2).

A conferma della scarsa considerazione del consulete vi era anche la previsione che in caso di mancata presenza di questo soggetto, a differenza dell’assenza del perito, non erano previste ipotesi di sospensioni o rinvii del dibattimento.

In conclusione non si può dire che “la situazione sia qualitativamente e radicalmente mutata dopo le modifiche del 1955, che hanno sì eliminato i divieti più odiosi, senza tuttavia, compiutamente realizzarne né il il contraddittorio nella formazione della perizia, né le premesse conoscitive del medesimo. Il consulente tecnico, invero, ha diritto semplicemente di assistere alla perizia (del cui inizio per altro non deve essere avvisato) e, mentre vi assiste, di presentare non già al perito (che deve essere sordo al

20 Si evidenziava, però, l’obbligo del giudice di tener conto delle osservazioni critiche del consulente tecnico, al pari di una memoria difensiva. In questo senso, Del Pozzo, voce

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riguardo), ma al giudice istanza, osservazioni e riserve (art. 324 comma 1 c.p.p.). Solo al giudice ha pure diritto di chiedere al perito siano sottoposti quesiti specifici (art. 324 comma 2 c.p.p.)”21.

Un errore di fondo era sicuramente ricollegabile alla stessa filosofia dell’opera riformatrice del 1955, in quanto si era preoccupata di ampliare i margini dell’esercizio del diritto di difesa, all’interno però, di una struttura processuale che era rimasta immutata nel suo dualismo istruzione-dibattimento, con la presenza nella prima fase di organi ibridi, cumulanti funzioni investigative e giurisdizionali, come il giudice istruttore e il pubblico ministero22.

Inevitabile pertanto, che anche nella materia oggetto di approfondimento, ci si fosse mossi, seppur con tutte le buone intenzioni, in una logica figlia del modello inquisitorio di base.

Inoltre, “la disciplina della consulenza tecnica restava pur sempre informata in qualche misura alla concezione di fondo, di matrice dichiaratamente inquisitoria, che l’apporto conoscitivo al processo sull’elemento tecnico si dovesse considerare esaurito con il responso peritale. Non essendo, e non dovendo essere, inteso come funzionale alla decisione, sia pure sotto il profilo di critica argomentata all’opinione del perito, l’intervento del consulente tecnico andava, dunque, considerato come un quid pluris, quasi

21 Giuseppe Frigo, Il consulente tecnico della difesa nel nuovo processo penale, in CP, pag. 2178.

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una graziosa concessione; la sua presenza, da mantenere per un formale ossequio al diritto di difesa, tendeva ad essere riguardata con una certa diffidenza di base. In sostanza, dunque, la connotazione della consulenza tecnica che il vecchio codice consegnava al legislatore della riforma era quella di un’appendice tollerata dall’ufficio di difesa”23.

3. Le novità apportate dal nuovo codice

L’eliminazione del giudice-inquisitore, in base al quale era articolato l’istituto della perizia nel codice Rocco, il ruolo non più marginale ma protagonista riservato alla parti in materia probatoria e il distaccamento del pubblico ministero dai compiti giurisdizionali che gli erano stati dati in precedenza, non potevano non comportare delle ricadute, decisamente importanti, anche in tema di consulenza tecnica.

Il legislatore, nonostante la direttiva n. 10 della legge-delega del 1987 si limitasse a chiedere un “riordino dell’istituto della perizia”, basato sulla

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“tutela dei diritti delle parti”24, varava una normativa caratterizzata da aspetti

decisamente innovativi.

Le novità più importanti possono essere esposte in due punti:

1. Una pluralità di mezzi attivabili per acquisire contributi tecnico-scientifici nel processo.

2. La possibilità per il pubblico ministero di avvalersi di un proprio consulente tecnico.

Queste sono le due matrici su cui si snoda il nuovo codice di procedura penale del 1988.

Riguardo alla possibilità del pm di nominare un consulente tecnico25, una

simile scelta, si è posta come conseguenza della degiurisdizionalizzazione stessa del pubblico ministero e del suo inquadramento nel ruolo di “parte”26.

È opportuno non dimenticare che né il codice del 1913, né quello del 1930 prevedevano una disciplina riguardante i consulenti tecnici del pubblico ministero. Per quanto concerne il primo sistema, il controllo sul perito giudiziale era effettuato esclusivamente ad opera di un perito nominato dall’imputato (e all’interno del collegio peritale). Nel codice Rocco invece,

24 Analoga previsione, peraltro, era già contenuta nella direttiva n. 10 della legge delega del 3 aprile 1974, n. 108.

25 Tale scelta, assumendo carattere generale, riguarda non solo l’eventualità in cui sia stata disposta una perizia, ampliandosi a ricomprendere anche il ricorso a consulenze “extraperitali”, oltre a specificarsi nell’ambito delle indagini preliminari attraverso disposizioni particolari, aventi la funzione di assicurare all’accusa un supporto tecnico-scientifico ai fini dell’attività investigativa.

26 Cfr. Rel. prog. prel. c.p.p., in Suppl. ord., n. 2 Gazz. uff., 24 ottobre 1988, n. 250 Serie

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pur prevedendo che la difesa potesse operare una critica per mezzo di un esperto, si era escluso che il pubblico ministero potesse avvalersi di un consulente tecnico.

Ma a ben vedere queste impostazioni risultano essere un corollario della posizione che il pubblico ministero ricopriva nei due sistemi.

Nel codice del 1913 il pubblico ministero era visto come “organo di giustizia”27, poiché egli era portatore di un interesse non per forza contrario

a quello della parte privata, ed infatti lo scopo da raggiungere era quello di una sentenza giusta (condanna o assoluzione). Quindi non desta stupore che non si fosse stabilito per il pm il potere di nominare un proprio perito, d’altra parte egli avrebbe potuto contare sul perito di nomina giudiziale. Con il codice Rocco le cose cambiano in quanto il pubblico ministero viene ad essere concepito come il braccio destro del giudice, una sorta di accusatore-giudice nell’istruzione sommaria e dotato di ampi poteri nell’istruzione formale. Veniva delineata una contrapposizione tra parte pubblica e parte privata nettamente sbilanciata a favore del pubblico ministero che si trovava in una posizione di sovraordinazione. In questo modello l’impossibilità per il pubblico ministero di nominare un proprio consulente tecnico risiede in due ragioni: da una parte il pubblico ministero risultava essere un soggetto “sui generis”28 non ancora sufficientemente

27 In materia, Chiavario, Il pubblico ministero organo di giustizia?, in Riv. it. dir. e proc.

pen., 1971, pag. 735.

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distinto dal giudice29; dall’altra parte il consulente tecnico veniva visto come

uno strumento di ausilio debole, il cui contributo era visto quasi con occhio sospettoso, pertanto sarebbe stato inadeguato far si che il pubblico ministero potesse avvalersi di un simile soggetto.

In definitiva possiamo dire che fino all’entrata in vigore del nuovo codice il pubblico ministero restava sprovvisto di propri esperti. Per tale ragione faceva affidamento alla perizia disposta dal giudice30. Ed il passo è stato

breve affinché la perizia “degenerasse” in uno strumento al servizio degli interessi dell’accusa: il perito spesso finiva per compiere i propri accertamenti, non solo in funzione della ricerca della verità, ma anche ma anche nell’ottica di supportare l’ipotesi avanzata dalla pubblica accusa31.

Sulla base di queste vicissitudini, la presa di posizione del nuovo codice consistente nell’aver previsto la possibilità per il pubblico ministero di nominare propri consulenti tecnici, si apprezza in tutta la sua importanza32.

In materia di perizia, questa novità, facendo piazza pulita di tutti gli ibridismi, rende giustizia al perito, il quale, finalmente, si vede riconosciuta una posizione di terzietà. Allo stesso tempo viene resa giustizia al consulente dell’imputato, considerato precedentemente con sospetto e malizia e relegato ad un ruolo del tutto marginale. In particolare

29 Carnelutti, Lezioni sul processo penale, 1949, vol. I, cit. pag. 189. 30 Faranda, op. cit., pag. 83 ss.

31 Cfr. i rilievi di Giarda, sub art. 225, in Codice di procedura penale. Commentario, cordinato da Giarda, 1990.

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quest’ultimo passaggio è stato possibile grazie all’equiparazione tra consulenti tecnici dell’accusa e delle altre parti.

L’altro carattere “rivoluzionario” della riforma è rappresentato, come indicato precedentemente, dalla pluralità di mezzi previsti per l’approdo del sapere tecnico-scientifico nel processo33.

Il già conosciuto istituto della perizia viene conservato, anche se con i dovuti adattamenti, infatti viene reso un istituto prevalentemente attivabile a istanza di parte34, ma non rappresenta più l’unico strumento per introdurre

nel processo gli apporti della scienza e della tecnica.

Ad esso vengono affiancati istituti mai visti nel panorama codicistico, che premiano al massimo il sapere scientifico. Si tratta della consulenza tecnica in assenza di perizia e di altre forme di consulenza tecnica fruibili durante le indagini preliminari e anche prima dell’insorgere di indizi di reato, in un momento che potremmo definire amministrativo.

Ad oggi non si può più parlare, a meno che non lo si faccia in termini volutamente generici, di consulenza tecnica e di consulente tecnico tout

court, ma è fondamentale distinguere tra varie tipologie di consulenza

tecnica, e quindi, tra vari tipi di consulenti tecnici35.

33 Amodio, Perizia e consulenza tecnica nel quadro probatorio del nuovo processo

penale, in Cass. Pen., 1989, pag 171 parla al riguardo di una “vera e propria mini-rivoluzione nella disciplina della perizia”.

34 Sempre Amodio, Perizia e consulenza tecnica, cit., pag 172 evidenzia come la perizia d’ufficio venga vista nel quadro del sistema come una ipotesi marginale e residuale. 35 R. Kostoris, op. cit., pag. 30.

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Il panorama che ci troviamo di fronte, comprende figure che presentano differenze importanti, attinenti alla struttura, alla finalità, all’ambito applicativo; cambiano anche i soggetti legittimati a servirsene.

Per quanto concerne la struttura, in talune circostanze i consulenti tecnici sono concepiti come strumenti di controllo sul lavoro svolto da un altro soggetto che agisce in funzione di perito, è questo il caso della figura tradizionale di consulente tecnico, ovvero il consulente peritale, che il nuovo codice continua a disciplinare. Altri casi analoghi si hanno qualora l’indagato e l’offeso si avvalgano di un consulente tecnico nel caso in cui il pubblico ministero proceda ex art. 360 c.p.p. ad accertamenti tecnici irripetibili.

In altre circostanze le consulenze sono viste come strumenti autonomi di conoscenza, questo è quanto si realizza nell’ipotesi di consulenza tecnica extraperitale (art. 233 c.p.p.), ma anche nel caso degli accertamenti tecnici ripetibili disposti dal pubblico ministero (art. 359 c.p.p.).

Nell’ottica della finalità è importante sottolineare come in certi casi la consulenza appaia funzionale (direttamente o indirettamente) alla formazione della prova tecnica; in altri casi, invece, essa può avere una funzione investigativa, sia per quanto concerne gli interessi dell’accusa (art. 359 c.p.p.) sia per quanto riguarda quelli della difesa.

Infine è importante evidenziare come a variare possa essere anche l’ambio applicativo dell’attività dei consulenti tecnici, questa può esplicarsi durante

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lo svolgimento del processo, nel corso del procedimento, e addirittura, duramente una fase avente natura amministrativa.

Concludendo si può notare come il nuovo codice abbia deciso di puntare proprio sull’istituto della consulenza tecnica e di presentarne una vasta gamma di modelli. Questo rappresenta un dato molto importante che testimonia come sia cambiato il punto di vista rispetto al panorama precedente36.

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CAPITOLO II

Il consulente tecnico del pubblico ministero e il suo

inquadramento processuale

1. Il consulente tecnico del pm

La ricostruzione di una ipotesi più che plausibile di un evento, delle sue modalità di svolgimento e della sua attribuzione a un soggetto determinato, si avvale sempre più dell’ausilio di conoscenze specifiche, finalizzate ad esplicare ed avvalorare teorie che altrimenti rimarrebbero prive di un serio fondamento.

Per queste ragioni anche le indagini del pubblico ministero non possono fare a meno del contributo di consulenti tecnici che, a differenza, di quelli che affiancano il difensore, non possono rifiutare la opera e assumono il ruolo di pubblici ufficiali, in quanto concorrono all’esercizio della funzione giudiziaria37. La connotazione pubblicistica di tali soggetti è confermata

dalla possibilità che essi assistano a specifici atti di indagine, dietro autorizzazione del pubblico ministero (art 359, 2º comma, c.p.p.).

37 Per tesi contraria v. P. Rivello, La consulenza tecnica, in P. Ferrua, E. Marzaduri, G. Spangher (a cura di), La prova penale, Torino, 2013, il quale parla di «presunta veste

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Nello specifico, il contributo tecnico di soggetti competenti entra nel procedimento penale, in ausilio del pubblico ministero, nella forma della consulenza, che può essere definita tecnico-investigativa ex art. 359 c.p.p., quando si esplica durante le indagini, e peritale o extraperitale quando riguarda la fase processuale ex artt. 225 e 233 c.p.p., a seconda che si realizzi nell’ambito di una perizia già disposta dal giudice o indipendentemente da essa. Per quanto concerne i presupposti oggettivi, le differenze sono esigue, come riprovato dal fatto che spesso si verifica la conversione della consulenza investigativa in quella extraperitale, in modo tale che il pubblico ministero possa usufruire del medesimo consulente anche durante lo svolgimento del processo.

In particolare l’art 359, 1° comma, c.p.p., che accentua il carattere investigativo rispetto a quello consultivo dell’esperto, consente al pubblico ministero di nominare e avvalersi di consulenti nel caso in cui si tratti di procedere ad atti di indagine che necessitino di specifiche competenze tecniche38.

Tuttavia è bene chiarire già da ora che, nel caso in cui i suddetti atti consistano in accertamenti non ripetibili, il codice provvede a delineare una disciplina specifica, in modo tale da garantire il contraddittorio nel momento

38 R. Kostoris, op. cit., pag. 148, sostiene che per quanto concerne le differenze tra l’art. 359 c.p.p e 360 c.p.p. queste balzino subito agli occhi, in quanto in materia di accertamenti tecnici irripetibili «il consulente tecnico del pubblico ministero dismette

la veste di organo investigativo, per assumere quella di soggetto che forma in via anticipata una prova utilizzabile in giudizio: i relativi verbali saranno infatti inseriti nel fascicolo per il dibattimento (cfr. art. 431 lett. c)».

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in cui, in pratica, si “perde” un elemento di prova (art. 360 c.p.p.). In ogni caso, la scelta sull’opportunità di arricchire le indagini in virtù del contributo di un consulente tecnico spetta al pubblico ministero, il quale deve comunque rispettare il requisito della necessità di specifiche conoscenze, pena l’inammissibilità dell’esame del consulente in dibattimento.

L’esame se il compito affidato al consulente richieda consulenze tecniche o scientifiche differenti da quelle giuridiche proprie dell’inquirente, o se si tratti di una delega di attività investigative o valutative caratteristiche del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, come tali non ricollegabili alla nozione di consulenza tecnica, è tutt’al più censurabile in sede di appello, ma, rappresentando un giudizio di fatto, non è ulteriormente sindacabile dalla Corte di cassazione, che è giudice di legittimità39.

Quello che caratterizza il compito che il consulente tecnico del pubblico ministero è chiamato a svolgere è costituito dall’apporto del contributo conoscitivo, di rilevamento o di valutazione: in caso di assenza di tale presupposto l’intervento di quel consulente non trova alcuna giustificazione né legislativa, né epistemologica.

Da questo emerge chiaramente la responsabilità del pubblico ministero nel valutare non solo l’effettiva caratterizzazione tecnico-scientifica delle

39 In questo senso, Cass. Pen, sez. VI, 14 gennaio 2004, n.7671, in Cass. Pen., 2005, pag. 2637.

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operazioni da compiere, ma anche nella individuazione del consulente stesso.

A ben vedere, pur essendo previsto che il pm scelga il consulente, di norma, tra gli iscritti agli albi dei periti (art. 73 disp. Att.), nessuna sanzione assiste il mancato rispetto di tale prescrizione, ma del resto non si può nemmeno sostenere che, attualmente, gli albi rappresentino vere e proprie garanzie di qualificazione professionale.

Nel corso delle indagini la nomina del consulente non è sottoposta ad alcuna formalità40, tuttavia è opportuno che il pubblico ministero delinei almeno i

quesiti proposti e indichi un termine congruo in riferimento al termine della conclusione delle indagini stesse. D’altro canto l’esperto non è obbligato a sottoporre una formale dichiarazione di impegno, visto che comunque, data l’obbligatorietà della propria prestazione, riveste sulla base della sola nomina il ruolo e la qualifica connessi.

In ogni caso, nonostante l’essenziale importanza dell’apporto del consulente tecnico nel corso delle indagini, basti pensare ad accertamenti idonei alla stessa qualificazione giuridica del fatto, l’imputato non ha alcuno strumento per farne valere eventuali incompetenze o per verificare il suo operato in tempo reale41, né è avvisato dell’entrata in scena di tale soggetto, finché

40 F. Giunchedi, Gli accertamenti tecnici irripetibili (tra prassi devianti e recupero della

legalità), Milano, 2009, pag. 112.

41 Si ritiene inoperante l’istituto della ricusazione, se non nella forma di una sollecitazione delle parti alla sostituzione ad opera del pubblico ministero. In dottrina, tuttavia, non è mancato chi ha ipotizzato una ricusazione richiesta dall’indagato, con la formulazione della riserva di incidente probatorio (L.Cremonesi, Natura giuridica e funzioni del

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questi non compia accertamenti non ripetibili. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 03178 del 08/08/2000 ha infatti affermato che è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 359 c.p.p. (con riferimento all’art. 111 della Costituzione), nella parte in cui non prevede la spedizione di avvisi all’indagato in relazione alla nomina di un consulente tecnico da parte del pubblico ministero, atteso che l’istituto processuale in oggetto non costituisce momento di formazione della prova, non è una perizia, e non appartiene, essendo gli accertamenti medesimi sempre ripetibili, alla verifica in contraddittorio degli elementi del processo.

Nel caso in cui l’accertamento ricada sotto l’area di competenza dell’art. 360 c.p.p., la disciplina cambia. L’impossibilità di ripetere l’accertamento, a causa delle modificazioni a cui è sottoposto l’elemento di prova, o delle stesse operazioni da compiere (art. 117 disp. att.), comporta l’esigenza di instaurare un contraddittorio, o più specificamente che gli interessati siano posti nella possibilità di esercitare tutte le facoltà di legge.

L’art. 360 obbliga il pubblico ministero che stia per procedere ad un accertamento tecnico non ripetibile, ad avvisare l’indagato, la persona offesa e i rispettivi difensori dell’imminente conferimento dell’incarico all’esperto e della facoltà di nominare propri consulenti. L’avviso ha l’obiettivo di consentire ai difensori, ma soprattutto ai consulenti di parte, di partecipare, non solo al conferimento dell’incarico, ma anche allo svolgimento degli

consulente tecnico del pubblico ministero nelle indagini preliminari, «Giust. Pen. »

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accertamenti e formulare osservazioni e riserve. Nello specifico alla persona indagata è consentito di opporre il proprio veto allo svolgimento dell’accertamento, presentando, prima del conferimento dell’incarico, la c.d. riserva di incidente probatorio. In tal caso il pm è obbligato a valutare la differibilità degli accertamenti in questione e soltanto nel caso in cui ritenga impossibile compiere utilmente le medesime operazioni in un momento successivo potrà procedere senza attendere. Nel caso in cui, invece, il pubblico ministero, nonostante la riserva di incidente probatorio, proceda con gli accertamenti e non sussistano le condizioni di indifferibilità, i risultati che gli accertamenti stessi daranno, non saranno utilizzabili in dibattimento.

Osservando la situazione delineata dall’art. 360, posta in essere per non ricorrere eccessivamente allo strumento dell’incidente probatorio, notiamo come essa delinei una figura di consulente del pubblico ministero molto simile a quella del perito. Questa considerazione spinge a ritenere che le norme disposte per le operazioni peritali siano applicabili anche in questo caso, sempre che siano assenti specifiche previsioni42. Basti pensare alla

possibilità per i consulenti privati e i difensori di proporre lo svolgimento di determinate indagini o di integrare i quesiti posti dal pubblico ministero o alla possibilità di nominare consulenti anche dopo lo svolgimento degli accertamenti stessi.

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Anche per quanto concerne il regime dell’utilizzabilità dei risultati delle operazioni del consulente tecnico-investigativo si individua un trattamento diverso, a seconda che il supporto concerna operazioni tecniche di cui all’art. 359 o accertamenti tecnici non ripetibili di cui all’art. 360.

Nel primo il pubblico ministero può avvalersi della consulenza non solo per indirizzare le indagini e quindi il loro esito, ma anche per dare fondamento a ipotetiche richieste da rivolgere la giudice per le indagini preliminari, quale ad esempio una misura cautelare. In questo caso però la consulenza confluisce nel fascicolo del pubblico ministero ed il giudice, eventualmente, potrà utilizzare le risultanze solo nel caso in cui si proceda a rito abbreviato o patteggiamento. Nel secondo caso, invece, ovvero quando si sia di fronte ad un accertamento tecnico non ripetibile, la consulenza e i relativi verbali confluiscono nel fascicolo del dibattimento (art. 431, 1° comma, lett. c) e sono quindi legittimamente utilizzabili.

In dibattimento il consulente del pubblico ministero potrà riportare quanto effettuato e acquisito, ricoprendo un ruolo simile a quello del testimone, visto che le valutazioni sono già state compiute e impressionate nel contraddittorio delle parti.

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2. La nuova ipotesi della consulenza in assenza di

perizia

La nuova figura introdotta dal codice del 1988, la cui regolamentazione è stata inserita nel Libro III, capo VI, c.p.p. è quella del consulente tecnico in assenza di perizia, detto anche consulente tecnico extraperitale43,

regolamentato dall’articolo 233 c.p.p.. Un istituto del tutto innovativo che si posiziona in mezzo alla filosofia di differenziazione dei contributi tecnico-scientifici del nuovo codice e del quale è necessario in primo luogo delinearne le finalità.

L’art. 233 c.p.p. nel recitare “quando non è stata disposta perizia (art 224), ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici (225; att. 73). Questi possono esporre al giudice il proprio parere, anche presentando memorie a norma dell’art. 121” ha recepito il concetto di una differenziazione tra consulenza e perizia, dando finalmente ascolto ad un’idea risalente nel tempo44. Infatti, già nel periodo del codice

Rocco, non era mancata occasione per lamentarsi dell’inadeguatezza della disciplina al tempo vigente, che relegava la possibilità di nominare consulenti tecnici solo nel caso in cui fosse avvenuta la nomina di un perito,

43 E. Amodio, Perizia e consulenza tecnica nel quadro probatorio del nuovo processo

penale, in Cass. Pen., 1981, pag. 172, sul punto parla in questi termini «Questa nuova figura di consulenza tecnica, sul piano della nomenclatura, si potrebbe denominare extraperitale, per distinguerla dalla consulenza tecnica endoperitale che già conosciamo».

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mentre si evidenziava come la necessità di avvalersi di un consulente tecnico potesse non essere preminente per il giudice, ma esserlo per la parte, alla quale sarebbe dovuta spettare la valutazione circa l’opportunità di nominare un consulente. Chiaramente, all’epoca, non essendo, riconosciuto un potere di questo tipo alle parti private, quest’ultime ricorrevano alle perizie stragiudiziali: ovvero pareri elaborati da soggetti estranei al processo45, a cui veniva al massimo attribuito valore di memoria difensiva46.

Sovvertendo tale impostazione, è stato concesso alle parti di usufruire dell’apporto tecnico dei propri consulenti indipendentemente dal fatto che sia stata disposta o meno una perizia.

Per mezzo di tale istituto le parti possono in piena autonomia presentare al giudice, i dati e i contributi di carattere tecnico scientifico ritenuti idonei a sostenere le rispettive tesi. Esse, quindi, sulla base dei loro poteri dispositivi, godono della totale libertà di scelta in riferimento al ricorso o meno all’apporto di esperti. Pertanto le parti, nel caso in cui le osservazioni scritte, redatte dai consulenti, non siano ritenute appropriate a corroborare le proprie tesi, possono decidere di non presentarle come memorie. Una delle poche limitazioni riguardanti la nomina dei consulenti tecnici extraperitali concerne il limite numerico di cui all’art. 233, comma 1, c.p.p. il quale

45 Quindi non nominati con le garanzie previste dalla legge per i periti.

46 La giurisprudenza negava a tali perizie stragiudiziali valore probatorio, escludendo che sul giudice incombesse il dovere di prenderle in considerazione in sede di motivazione. Sul punto, già dopo l’entrata in vigore del nuovo codice, cfr. Cass. Sez. IV, 26 febbraio 1990, Baronchelli, in Riv. pen., 1991, pag. 102.

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sancisce che non è possibile nominarne più di due47. Nonostante questa

previsione sia stata oggetto di di alcune critiche, essendo stata valutata non soddisfacente laddove la parte abbia bisogno di avvalersi di più consulenti, esperti in più di due settori disciplinari, è importante far osservare come la scena processuale non possa risultare troppo sovraffollata48; inoltre una

limitazione di questo tipo è stata predisposta dal legislatore anche in riferimento alla consulenza tecnica peritale, infatti l’art. 225, comma 1, c.p.p. dispone che il numero dei consulenti non possa superare, per ciascuna parte, quello dei periti.

Esaminando, adesso, le ragioni presentate dal legislatore delegato a sostegno della nuova figura di cui all’art. 233 c.p.p., queste sembrano sostenere l’idea che il consulente extraperitale sia chiamato per la maggior parte a ricoprire una funzione “sollecitatoria”49. Infatti nel testo della Relazione al Progetto

preliminare, la consulenza tecnica extraperitale sarebbe volta a garantire che ciascuna parte, pubblico ministero incluso, “possa avvalersi di un

contributo esterno per l’impostazione e la soluzione di quesiti tecnici: nella prospettiva, peraltro, di una proiezione di tale contributo nel processo,

47 È interessante sottolineare che tale limite riprende quello previsto dall’art. 96 comma 2 c.p.p. per i difensori dell’imputato.

48 R. Kostoris, op. cit., pag 106. in materia evidenzia come «non dura fatica immaginare

che tale limite sia ispirato ad esigenze di snellezza e celerità e dal timore che una proliferazione incontrollata dei consulenti nel processo avrebbe potuto procurare seri problemi di funzionalità, offrendo l’occasione per manovre ostruzionistiche».

49 Di questo avviso Bellussi, La consulenza tecnica fuori dei casi di perizia, in Arch.

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soprattutto per sottoporre al giudice pareri qualificanti idonei ad indurlo a valutare la convenienza di disporre la perizia”50.

In ogni caso per mettere in luce le finalità della consulenza tecnica extraperitale bisogna prendere in considerazione il quadro normativo nell’ambito del quale la medesima si inserisce.

In primo luogo non bisogna scordarsi che il nuovo codice, da un lato, prevede il principio di obbligatorietà della perizia, ampliandone il raggio di azione ai casi che non solo prevedono la “necessità”, ma addirittura l’”occorrenza” di indagini, valutazioni e dati che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche e, dall’altro lato, attribuisce anche alle parti la disponibilità della perizia medesima. Sulla base di questi dati, se il giudice è impossibilitato a rigettare una eventuale richiesta di perizia promossa dalla parte - fatta eccezione per il caso, del tutto sporadico, che la perizia non sia necessaria, in quanto magari i fini che si prefigge siano ripetitivi, superflui o sovrabbondanti (ad esempio perché già acquisiti in altro modo) - si dovrebbe ritenere che per mezzo dell’art. 233 si sia voluto creare uno strumento esclusivamente “sussidiario” di stimolo per arrivare alla perizia. Nasce però il dubbio se questo ambito di applicazione non sia troppo ristretto, considerato il fatto che tale istituto fu salutato fin

50 Rel. Prog. prel. c.p.p., in Suppl. ord. n.2 Gazz. Uff. 24 ottobre 1988, n. 250, Serie gen., p. 66.

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dal suo esordio come una delle novità più interessanti e significative dell’argomento in esame.51

Da questo punto di vista risulterebbe svilente qualificare la consulenza tecnica extraperitale secondo una prassi consolidatasi nell’ambito di un sistema diverso, basato sulla perizia d’ufficio.

Pertanto, sulla base delle considerazioni effettuate, risulta incomprensibile il riferimento contenuto nella Relazione al Progetto preliminare, per cui a fronte del parere del consulente tecnico extraperitale, il giudice potrebbe essere indotto a valutare la convenienza di disporre una perizia. Tale considerazione risulterebbe come un consenso implicito ad una filosofia tendente a trascurare le conseguenze derivanti dal principio di obbligatorietà della perizia. Invece, è fondamentale interpretare lo scopo di questo nuovo istituto sulla base, e non in contrapposizione, delle scelte normative predisposte dal codice in tema di prova peritale52.

In verità, per cogliere veramente le potenzialità della consulenza tecnica extraperitale, bisogna ampliare il nostro orizzonte oltre la previsione dell’art. 233. Non sfugge come per mezzo di tale figura, si schiudano alle parti margini inediti di utilizzo della materia tecnica.

Sono diversi i richiami normativi che argomentano questa direzione:

51 In materia E. Amodio, Perizia e consulenza tecnica, cit.. p. 171; Frigo, Il consulente

tecnico della difesa nel nuovo processo penale, in Cass. pen., 1988, p. 2180.

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1. Da una parte il conferimento alle parti del potere di chiedere la perizia, e dall’altra la possibilità di nominare consulenti tecnici ai sensi dell’art. 233 quando non è stata disposta perizia, distinguono un’alternanza tra le due possibilità che porta a ritenere che le medesime abbiano il comune scopo di far entrare la prova tecnica nel processo. “La chiara alternativa che il testo propone tra consulenza tecnica e perizia induce a ritenere identità di oggetto con essa e, dunque, che questi consulenti tecnici possono essere nominati per «svolgere indagini o acquisire valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche»53.

2. Una netta distinzione tra contributo dei consulenti tecnici e contributo dei periti si verifica in materia di supplemento probatorio in sede di udienza preliminare (art. 422 c.p.p.) dove l’audizione dei consulenti rappresenta il solo mezzo permesso di afferenza processuale del sapere specialistico. Il dato è molto importante perché trattandosi di una fase processuale, e quindi dovendosi escludere l’applicabilità delle forme di consulenza tecnica predisposte per le indagini preliminari, la legittimazione di tali consulenti si trova nell’art. 23354.

53 G. Frigo, Il consulente tecnico della difesa nel nuovo processo penale, in CP, 1988, p. 2181 s.

54 Ancora, Frigo, Il consulente tecnico, p. 2180, il quale sostiene «nella fase anteriore al

giudizio il p.m. svolge la sua attività di indagine preparatoria, di parte, anche eventualmente avvalendosi di consulenti tecnici. In contrapposto, ben può la difesa svolgere la propria attività preparatoria raccogliendo tutti gli elementi ritenuti utili, tra questi, può esservi un tema o anche una ricerca di carattere tecnico, per la quale risulta necessaria o anche solo opportuna l’opera di un esperto, cioè di un consulente. A questa esigenza corrispondono le facoltà di nominare tale consulente, di affidargli –

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3. L’art. 468 c.p.p. non condiziona la richiesta di esame dei consulenti a quella dei periti, laddove prevede che le parti hanno il potere di chiedere l’esame dibattimentale di periti o consulenti tecnici55.

A questo punto se le parti, dopo essersi avvalse dell’aiuto di consulenti tecnici per “l’impostazione e la soluzione di quesiti tecnici”56, possono

ottenerne la citazione in udienza preliminare o in giudizio, da sottolineare, anche nel caso in cui non sia stata disposta perizia, sicuramente non saremo di fronte a consulenti peritali57.

Nel contesto riportato e dall’analisi delle norme elencate, emerge quindi l’idea che tali consulenti tecnici siano in grado di assolvere a funzioni di maggior peso che non quella di semplici stimoli affinché il giudice disponga perizia. Nello specifico essi sembrano concepiti come strumenti autonomi alternativi alla perizia, ai quali ciascuna delle parti può far riferimento, per inserire immediatamente all’interno del processo il proprio contributo tecnico-scientifico.

In materia di perizia, il ruolo del consulente tecnico è ancora, per certi versi, subordinato a quello del perito, ma il consulente tecnico extraperitale,

se del caso – la ricerca, di presentare la sua relazione scritta, e soprattutto di presentare il consulente stesso per farlo ascoltare dal giudice: attraverso l’esame diretto e il controesame nel dibattimento (art. 501 c.p.p.) ovvero attraverso l’escussione diretta dal giudice stesso nell’udienza preliminare (art. 422 commi 1°, 2° e 7° c.p.p.). è chiaro che in questa prospettiva, il consulente si qualifica non solo come un soggetto che assiste la parte, ma anche come possibile fonte di prova».

55 R. Kostoris, op. cit., pag. 100. 56 Così Rel. Prog. prel., cit., loc. cit. 57 R. Kostoris, op. cit., pag. 100.

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invece, è dotato di piena autonomia. Qualora invece si verifichi la situazione in cui a ricorrere a tale strumento non sia solo una parte, si potrà verificare uno scontro tra consulenti dell’accusa e della difesa, secondo la struttura di prova tecnica a parti contrapposte. Questa situazione potrà essere corretta nel caso in cui una parte decida di chiedere al giudice la predisposizione di una perizia o nell’ipotesi in cui sia lo stesso giudice a decidere di percorrere la medesima strada, attivandosi d’ufficio in base agli artt. 224 comma 1 e 508 c.p.p.

Bisogna sottolineare come il potere delle parti di nominare un consulente tecnico fuori dei casi di perizia, rappresenta una possibilità del tutto nuova e completamente diversa rispetto all’avvalersi si un perito. Pertanto la parte finale dell’art. 233 comma 1, dove consente la presentazione di memorie scritte, sembra esclusivamente specificativo e rafforzativo del potere dei consulenti, che ricordiamo, può mostrarsi in forma scritta, come la relazione del perito.

Nonostante l’art. 233 c.p.p. sia formulato in termini generali, “l’ambito applicativo della norma sembra essere circoscritto all’interno del processo”58.

In primo luogo è la stessa collocazione dell’istituto nel Titolo II del Libro III, dedicato ai mezzi di prova, a costituire una riprova di quanto appena affermato. Non bisogna poi dimenticare il carattere alternativo alla perizia e, infine, quale ulteriore elemento significativo, il riferimento alle “parti”,

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