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Banditismo e sequestri di persona in Sardegna

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Academic year: 2021

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Banditismo e Sequestri di Persona in Sardegna.

Introduzione:

La Tesi qui sviluppata studia l’argomento del banditismo e dei sequestri di persona in Sardegna. Il fenomeno viene analizzato trattando innanzitutto le possibili cause che han determinato il nascere di tale particolare forma di criminalità, oltre a visionare alcune interessanti teorie come, ad esempio, quelle degli antropologi Cesare Lombroso e Franco Cagnetta. Si passa poi ad una seconda fase in cui vedremo i principali fatti storici che han determinato le vicende banditesche, dunque i primi sequestri, le bardane, gli abigeati e le faide, a partire dal VXIII secolo sino agli anni ’60 del Novecento: è questo il periodo in cui si può parlare di Banditismo Sociale, di cui Graziano Mesina è probabilmente suo ultimo esponente. Dopodiché giungiamo alla seconda parte dell’elaborato che tratterà nello specifico lo sviluppo del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione. Di questo verranno analizzate le caratteristiche generali, in Italia e in Sardegna, e le principali fasi che determinano il compimento del crimine stesso. Dopo aver seguito poi le vicende relative al più famoso bandito sardo del dopoguerra: Graziano Mesina, e dopo la ricostruzione del sequestro del noto cantautore Fabrizio De Andrè e di sua moglie, Dori Ghezzi, giungiamo alla parte conclusiva della tesi. Qui si tratteranno gli attuali sviluppi della criminalità e del banditismo in Sardegna, con le modifiche e i mutamenti che si son registrati negli ultimi anni. Mutamenti che vedono il fenomeno dei sequestri di persona “tradizionali”, lunghi dal punto di vista temporale (spesso molti mesi) e minuziosamente organizzati, oltre che economicamente dispendiosi per le bande stesse, in costante calo. Si sviluppano invece i cosiddetti “sequestri lampo”, più rapidi, meno rischiosi, e con un guadagno immediato rispetto a quelli tradizionali. Un sequestro che diviene sempre più un "affare" insomma:

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soldi facili e puliti da reinvestire o in nuove attività criminose, che progressivamente prendono piede nell’isola, o nell’acquisto di beni immobili ed attività commerciali. Un “affare” nel quale son coinvolti, al giorno d'oggi, anche esponenti della borghesia cittadina, le vere e proprie menti delle bande. Li ritroviamo spesso, infatti, nel ruolo di "basisti" dei sequestri stessi. Dunque non più un crimine di sola origine agro-pastorale com’era in passato. Si conclude il tutto con l'analisi dell’ultimo sequestro di persona avvenuto nella regione: quello di Titti Pinna, allevatore di Bonorva, tenuto prigioniero dai suoi carcerieri per ben 253 giorni. In allegato tre interessanti documenti. Il primo relativo alla lettura del “Codice Barbaricino. La vendetta come ordinamento giuridico” secondo la trasposizione e codificazione effettuata dal giurista e filosofo isolano Antonio Pigliaru. Un secondo documento relativo ad uno studio svolto da alcuni docenti delle cattedre di storia e sociologia dell’Università di Sassari dal titolo “primo rapporto sulla criminalità: Sardegna, è nata la nuova mala” che analizza i mutamenti dei reati commessi nell’isola dal passato ai giorni nostri. Un terzo documento poi che tratta il fenomeno in questione dal punto di vista del sequestrato, in uno studio denominato: “il sequestro come evento traumatico” che presenta le conclusioni tratte da una serie di interviste cliniche effettuate ad un gruppo di vittime. Per finire l’ultima parte della tesi che si conclude con un’interessante ricerca giornalistica che scorre i principali avvenimenti storici, così come trattati nel corso di tutto l’elaborato, estrapolati da quotidiani sia sardi che nazionali. Un percorso parallelo che, seguendo l’andamento della tesi appunto, racconta i fatti dal punto di vista delle cronache giornalistiche di differenti periodici. Si conclude così il viaggio alla scoperta di quella che è la forma criminosa maggiormente conosciuta ed associata alla malavita sarda, ossia appunto il Banditismo e, nel particolare, il sequestro di persona a scopo estorsivo.

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Capitolo 1: Le origini del banditismo.

1.1 Vari approcci teorici:

Varie son le domande che mi spingono allo sviluppo di questo mio breve excursus sul fenomeno del banditismo, in quella che è una delle regioni più belle, affascinanti e misteriose del bacino del Mediterraneo, la Sardegna. La Sardegna è stata da secoli oggetto di numerose dominazioni straniere: a partire dai Cartaginesi, poi Romani, Vandali, Saraceni, sino alla presenza delle repubbliche marinare di Pisa e Genova, per poi passare alla dominazione di Aragonesi e Spagnoli e infine dall’inizio del XVII secolo in mano ai Savoia, sino al 1861 quando ci fu l’unificazione del Regno d’Italia. Queste dominazioni, portarono talvolta dei giovamenti ma, per contro, spesso e volentieri, andarono a scapito del progresso economico e sociale dell’isola. <<I Sardi, costretti a rifugiarsi sulle montagne per sfuggire agli invasori (Arabi, Romani, Cartaginesi, Spagnoli, ecc) vissero nel totale isolamento, gelosi e fieri della loro

indipendenza>> Queste le parole di Antonio Pigliaru1 nel suo libro dal

titolo: “Il codice della vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”2,

che poi continua: <<Dalle montagne scendevano a valle solo per approvvigionarsi in vista dei lunghi e rigidi inverni e per compiere razzie (le famose bardane) e rapine (i così detti abigeati), indirizzati verso coloro che avevano strappato via le loro terre>> occupandole illegittimamente. Crimini che si sviluppavano dunque con un intento ben preciso che ardeva nel chiaro sentimento di rivalsa. La vendetta dunque, e il desiderio di

1

Antonio Pigliaru, nato a Orune (Nuoro) nel 1922, è morto prima di compiere i quarantasette anni, nel 1969, a Sassari. Là aveva trascorso gran parte della sua vita e insegnava all'università Dottrina dello stato (...). Fondatore di Ichnusa, leggendaria rivista sarda, la sua opera scientifica più nota è La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (Giuffrè, 1959): si ristampa e si discute ancora.

2

A. Pigliaru, Il Banditismo in Sardegna, La Vendetta Barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè editore, Milano, 1993. Cfr. pag. 135 “Così Pigliaru voleva disinnescare le regole del codice barbaricino”.

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riappropriarsi di quanto dovuto, alla base dei primi fenomeni di criminalità nell’isola. Piccoli fenomeni che fanno da sfondo al successivo sviluppo del Banditismo. Quando si parla di banditismo, ci si riferisce ad una particolare zona della Sardegna: La Barbagia. Un vero e proprio universo a se, una sorta di isola nell’isola, caratterizzata da un paesaggio selvaggio; una regione aspra e montuosa, dura a cadere sotto dominazioni straniere. Impenetrabile e inaccessibile, dunque, per chiunque non vi fosse nato. Barbagia, nome derivante dal latino “barbaria” proprio perché è una zona che, resistente alla colonizzazione Romana, si latinizzò in ritardo rispetto al resto dell’isola. Il termine “barbus” designava infatti coloro che non parlavano i dialetti latini. Ed è proprio qui, nella selvaggia e fiera Barbagia, dove percorriamo un itinerario che ci permette di trovare le radici del così detto “Banditismo”. Fenomeno che ha negli anni contribuito a creare un immagine distorta delle genti di Sardegna. Una regione violenta insomma. Una società comandata da delle leggi proprie, talvolta in contrasto con le leggi comuni. Un codice non scritto, il

così detto “Codice Barbaricino”3 che regola i rapporti intercomunitari in

questa particolare zona dell’isola. La cultura Barbaricina, una cultura dunque di oppressi, che però, per contro, mai accettò l’oppressione vera e propria, lottando gelosamente, per la propria indipendenza e libertà. Lotta per la quale queste genti subirono azioni repressive, violenze di ogni genere da parte delle classi dominanti, censure e pregiudizi, contro quella che era una radicata diversità etnica e culturale. E, come ben sappiamo, le diversità sempre stentano ad esser accettate, a farsi capire, a far valere le proprie idee. A divenire “normalità” insomma. Agli inizi degli anni ’50 si

3

Per secoli il “codice barbaricino” dettò legge nella Sardegna centrale. Esso è l'insieme delle norme non scritte che per secoli hanno regolato la vita della Barbagia, nella Sardegna centrale. Le "leggi" del codice venivano rispettate dalla comunità: la violazione comportava la punizione dei colpevoli direttamente per mano della parte offesa. Il primo ad usare il termine “codice barba ricino” e' stato il filosofo del diritto Antonio Pigliaru, nel volume "La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico" (1959). Cfr. pp. 136-140 “Nell’analisi di Antonio Pigliaru le leggi della vendetta sono un codice di guerra”e “trecento anni di Sardegna criminale”.

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giunse addirittura a etichettare questa area della Sardegna con

l’appellativo di: “Zona Delinquente”4 popolata da individui, geneticamente

e per natura portati al delitto, infetti dal “virus della violenza”5, protrattosi di

generazione in generazione, irrimediabilmente. Alla cultura barbaricina, caratterizzata dalla pastorizia, dall’ignoranza, dall’isolamento, dalla diffidenza e da un velo di mistero, fu attribuito lo “status” discriminante di “cultura criminale”. Rifiutandosi di capire quali erano in realtà le vere cause del disagio che sfociò in questo “fenomeno” che stiamo qui cercando di analizzare e di capire. Fenomeno che fu studiato e osservato seguendo varie vie, ma che permane, ancora oggi incompreso o “mal compreso”. Esso fu a lungo combattuto, per lo più con metodi repressivi, indagini, azioni di polizia, interventi militari da parte dello Stato: quando si iniziò a “percepirlo” anche dal punto di vista nazionale. Tutti rimedi che comunque mai portarono ad una totale estirpazione del problema che sembra viver in uno stato di perenne quiescenza. Sempre pronto a esplodere in nuove azioni criminali, dalle più semplici rapine all’azione più grave della privazione della libertà, espletata tramite il crudele “rito” del sequestro di persona. Crimine per il quale la Sardegna è tristemente nota, ormai da tempo, a livello nazionale, e per il quale tutti i sardi, soprattutto in passato, venivano accomunati agli ideali di violenza, barbarie e poi ancora ignoranza e delinquenza. Una credenza popolare, al giorno d’oggi, finalmente non più radicata come in passato, ma, comunque, ancora esistente e viva, almeno nei luoghi comuni popolari del “Sardo/Bandito” . Credenza che fu, in passato, un’amara realtà radicata nella visione nazional-popolare. Ciò, probabilmente, spinse e dette vita a numerosi studi sulla popolazione dell’isola da parte di importanti esponenti di ambienti culturali, sociologici, antropologici e criminologici.

4

G. Sabattini, Capitale sociale, crescita e sviluppo della Sardegna, F. Angeli, Milano, 2006, p. 101.

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- Come mai l’isola godeva insomma della fama di “Regione ad alta

densità criminale” 6

- Come mai la Sardegna era una delle regioni dove si perpetravano più eventi criminosi che altrove?

Queste le domande a cui cercarono di risponder una serie di studi susseguitisi nel dopoguerra. Vediamo, ad esempio, l’ipotesi del famoso

antropologo Cesare Lombroso7, pioniere dello studio sulla criminalità

basato su teorie fisiognomiche. Egli, accompagnato dal premio Nobel alla

letteratura Grazia Deledda8, autrice del romanzo “Canne al Vento”9

percorse le impervie zone della Barbagia e dell’Ogliastra analizzando misure e dimensioni dei crani e dei visi dei nativi. Tutto ciò, allo scopo di dimostrare la fondatezza della sua teoria, secondo cui appunto esisteva un “primitivismo criminale e selvaggio” tra queste “barbare genti”. Questo “male misterioso e oscuro” ha sicuramente delle radicate origini storiche. E, citando le parole di Sergio Atzeni , scrittore e giornalista, nel suo libro

d’esordio “Apologo del giudice bandito”10, del 1986, vediamo che:<< i sardi

6

R. Saba, Hotel Supramonte, Fabrizio De Andrè e i suoi rapitori, Zona editore, Arezzo, 2007, p. 94.

7

Psichiatra, antropologo e criminologo del XIX secolo. Nacque a Verona il 6 novembre 1835, da famiglia ebraica benestante. Viene considerato, a torto o a ragione, il maggior rappresentante italiano del positivismo evoluzionistico di derivazione darwinista, ricordato per le sue ossessive quanto forse un po' puerili misurazioni fisiognomiche, allo scopo di individuare fantomatici "tipi" umani. Come ad esempio quello criminale: il suo chiodo fisso. Resta appunto soprattutto famoso per la sua teoria fisiognomica, ossia il tentativo di ricondurre la determinazione del carattere degli individui alle proprie caratteristiche fisiche (come le già citate misure del cranio o alcune sue deformità). Il suo sogno di portare alla luce il male, il cancro oscuro che si nasconde nell'Uomo e che in realtà risiede dentro la sua testa, nel nobile tentativo di preservare la società dal disordine delle azioni malvagie con azioni preventive, andrà incontro ad inevitabile fallimento. Morì a Torino il 19 ottobre 1909.

8

Maria Grazia Cosima Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936) è stata una scrittrice italiana, originaria della Sardegna e vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.

9

G. Deledda, Canne al Vento, Mondadori, Milano, 1967.

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sono armati l’uno contro l’altro come granchi in una cesta>>11Descritti insomma come un popolo differente, un’etnia a se, frutto di una convivenza tra diversi popoli ed etnie. I Sardi descritti da Atzeni non sono dunque in sintonia. Anzi, a volte, come dice, sembrano far a gara a non capirsi neanche tra loro: <<in ogni caso un Cagliaritano non capirà un Nuorese, uno del Campidano avrà disagio ad attraversar l’Ogliastra. Tra la Costa Smeralda e la Barbagia non corre buon sangue>>. Così come avviene tra la maggior parte dei paesi limitrofi in Sardegna (aggiungo io). In particolare poi se la vicinanza la si ha tra un paese che affaccia sul mare ed uno dell’interno, in questo caso il divario cresce e le rivalità ed inimicizie sembrano quasi esser più accentuate del solito. Forse per una sorta o un intreccio di diversi fattori e gelosie, differenze culturali, linguistiche, comportamentali e persino gestuali, tra paese e paese. Se dunque, vi sono difficoltà di comunicazione ed incomprensioni tra una zona e l’altra dell’isola, figuriamoci nei rapporti con gli Italiani continentali. Il carattere isolano è quello di un popolo poco incline ai patti diplomatici tra gli stessi residenti e quindi, come dicevamo, ancora più marcato nel rapporto “d’amore e odio” con “l’Italia Continentale”. La diffidenza, tratto tipico del popolo Sardo ha dunque, come appena evidenziato, origini storiche ben definite. Nello scorrer dei secoli s’avvicendarono infatti: Arabi, Barbari, Aragonesi e infine Piemontesi, che imponevano alle popolazioni indigene pesanti tasse. Queste tasse venivano puntualmente pagate, ma non si traducevano in un concreto miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Erano, dunque, l’imposizione fiscale , i commissari di leva che portavano via i figli minori a combatter altrove, gli amministratori di giustizia poco parziali e le dure azioni poliziesche che contribuivano ad acuire il malcontento. Un crescente astio nei confronti di coloro che, di volta in volta, si configuravano come i nuovi dominatori , per giungere successivamente a un rapporto tormentato anche poi con lo

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Stato Italiano, sin dagli esordi. Nel il 1861 nasce il Regno d’Italia. La nuova situazione politica unitaria non portò sostanziali e concreti miglioramenti. L’isola, infatti, rimaneva in forte ritardo rispetto a quasi tutte le altre regioni Italiane. Situazione questa, aggravata anche dall’isolamento geografico dovuto alla presenza del mare, e ad una rete di trasporti marittimi insufficienti ed onerosi. Le comunità rurali e le classi meno abbienti furon poi danneggiate dalle scelte del governo nazionale

relative all’Editto delle Chiudende12 del 1820, per citare un primo iniziale

esempio di mala amministrazione. Secondo tale editto, i terreni in precedenza utilizzati comunemente da pastori e contadini per la legna ed il pascolo, furon concessi ad imprese per esser ora sfruttati in maniera controllata: privatizzandone, dunque, il loro utilizzo. Il malcontento sfociò in violente manifestazioni popolari , raggiungendo il suo apice con i moti di Nuoro del 1868, ricordati con la dicitura dialettale di : “torramus a su

connottu” 13 ossia “torniamo al conosciuto”: ripristinare dunque lo “status” precedente all’editto. Il popolo, inferocito, dette alle fiamme il palazzo del municipio di Nuoro, rivendicando così il ripristino del tradizionale sfruttamento comune dei terreni. Ed è questa la situazione che caratterizzerà anche il nascente rapporto “Stato-Regione”. Una convivenza travagliata, scarsamente collaborativa sul versante Sardo, fatta di un generale disinteresse sul versante dei governanti nazionali, i quali ben poco si “occupavano e preoccupavano” dei reali problemi e dello sviluppo locale. Una regione lontana, di seconda classe, vezzo unico d’un “elite” di privilegiati che qui spendevano i loro soggiorni estivi, senza addentrarsi nella “reale realtà” dell’isola, mal celata dagli sfarzi ipocriti del litorale turistico. Ed è in questo clima, di diffuso malumore che cresce la tradizionale diffidenza dei Sardi. Tratto tipico, e ancor più evidente nelle

12 M. Brigaglia, Storia e miti del banditismo sardo, Edizioni speciali per la Nuova Sardegna, Sassari,

p. 61. Cfr. pag. 144 “La resistenza dei sardi e la repressione nel sangue[…]”.

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zone interne, quasi a raffigurare nelle anime delle persone la natura selvaggia e le aspre montagne che caratterizzano soprattutto quell’area, già citata, denominata Barbagia. La Barbagia, terra misteriosa. È qui che prende forma e si sviluppa quel codice di tradizione orale a cui già in precedenza abbiamo accennato, il così detto “codice Barbaricino” figlio di una millenaria cultura agropastorale. Esso nasce come azione di tutela giuridica derivante dalla totale sfiducia nei riguardi del sistema giudiziario statale, ritenuto inadeguato a far fronte ad ogni tipo di contestazione sorta tra privati cittadini. Del codice barbaricino parleremo comunque specificatamente più avanti, nel proseguo del nostro cammino. Torniamo dunque ad analizzare, quali son stati i tentativi di capire questo “malato

cronico” o questa “società del malessere” 14 così come venne definita nel

1968 da Giuseppe Fiori15. Un altro importante studio, in questo senso, fu

quello dell’antropologo Franco Cagnetta16 che, all’inizio degli anni ’50,

visse in Sardegna, avvicinandosi così alla cultura del luogo, alla sua vera essenza. Eseguì precise ed approfondite ricerche connesse al fenomeno del banditismo, da cui presero forma i suoi scritti dal nome “Banditi a

Orgosolo” 17. Sollevò con essi la curiosità, l’attenzione e poi l’interesse,

14 G. Fiori, La Società del malessere, Laterza, Bari, 1968.

15 Giuseppe Fiori: giornalista della Rai-Tv e collaboratore in varie testate quali: il Mondo,

l’Espresso, e La Stampa di Torino.

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Francesco Cagnetta Campione nasce a Bari nel 1926. Antropologo, etnologo e iconologo, legato alla Sardegna dagli inizi degli anni '50, quando la sua "Inchiesta su Orgosolo" uscì sul numero 10 della rivista “Nuovi Argomenti” (1954), primo contributo a un movimento culturale che sollevava le tradizionali e modeste ricerche di folklore al livello di interpretazione antropologica. Nel 1954 crea, assieme ad Ernesto de Martino e a Diego Carpitella, il “Centro Etnologico Italiano”, inaugurando le prime ricerche italiane "sul campo". I primi studi si concentrano sulla Sardegna, in particolare nella comunità di Orgosolo. Qui si era recato per la prima volta per studiare il fenomeno del banditismo: conoscerà e acquisterà un rapporto di fiducia con le principali famiglie del luogo, alcune delle quali anche coinvolte in faide decennali. Il testo dell'Inchiesta ne descrive in dettaglio tutte le fasi. Dopo aver viaggiato per tutto il mondo studiando immagini e popoli e aver raccolto una serie infinita di documenti riguardanti l'uomo e le sue rappresentazioni simboliche, Franco Cagnetta si è spento a Roma il 7 aprile 1999. Cfr. pp. 145 “Le misteriose Facce di un isola antica”.

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finalmente, dell’opinione pubblica nazionale. Lo studioso seguiva un’originale linea teorica per cui la struttura societaria moderna non era ancora riuscita a fagocitare e sottomettere quella arcaica (Dai Romani allo stato moderno, dalle comunità nuragiche sino ai giorni nostri). Dunque unica soluzione, o, per meglio dire, unica via d’uscita, era quella di “cingere in un perpetuo assedio poliziesco” la comunità Barbaricina, abbandonandola a se stessa, e perpetuandone così il perdurare di quella sua essenza primitiva e dei suoi modelli socioculturali arcaici, appunto. La comunità che Cagnetta aveva analizzato in particolare, quella del paese di Orgosolo, era caratterizzata da una spiccata crudeltà e da un forte sentimento di vendetta. Ciò, secondo le sue ipotesi, derivava dal fatto che gli abitanti del luogo, prima ancora di esser pastori furon cacciatori. Ed è proprio la caccia, associata ai rapporti umani, comunitari ed interpersonali di tutti i giorni , che viene ricondotta alla lotta tra uomo e uomo, per la sopravvivenza, per l’affermazione, a difesa e compimento, del reciproco rispetto. Interessante studio quello di Cagnetta, che ebbe sicuramente il merito di destar attenzione, come detto in precedenza, sul fenomeno, non solo a livello locale, ma anche a livello nazionale. Uscir fuori dall’anonimato dunque per dar vita ad altri approcci teorici, di studio o metodi preventivi relativi a quello che, solo ora, veniva riconosciuto come un qualcosa di finalmente rilevante. È così che prese forma la famosa

“Commissione Parlamentare d’inchiesta” del 1969” 18. Da essa verrà fuori

che le vere cause del fenomeno della criminalità, e dunque del banditismo, risiedevano nell’arretratezza delle strutture socioeconomiche delle popolazioni delle zone più interne, e, in particolar modo, nella comunità agropastorale Barbaricina. Ed è proprio da tale comunità, da tali stili di vita, da proprie leggi relazionali, da tutto ciò, che nascerà il

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Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna,Camera dei Deputati, quinta legislatura, istituita con legge 27 ottobre 1969, n. 755. Relatori Medici e Pazzaglia, Roma.

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Banditismo. È il conflitto tra una comunità arcaica, retta appunto da tali leggi (non scritte ma ben note a tutti e da rispettare), ed una comunità più moderna e civile, la vera causa scatenante di questo malessere che guida poi inevitabilmente alla violenza. Uno Stato che decide e trasforma. Un nuovo “ospite” indesiderato e pretenzioso, proprio come in passato lo furono anche i Barbari o i Romani: questa l’immagine che gli isolani avevano, soprattutto quelli dell’interno, in relazione alle nuove classi dirigenti nazionali, le quali imponevano nuovi stili di comportamento, imponevano nuove leggi, imponevano a chi mal accettava, da sempre, qualsiasi imposizione. Non si poteva giunger in Barbagia e, tutt’a un tratto, cambiar delle regole, seppur tacite, esistenti da secoli: con l’assurda pretesa, che esse sarebbero state assimilate così, semplicemente, e senza problemi. È da questa frattura che, ancor più, crebbe e si radicò la cultura del “Non Stato”, dell’indipendenza, racchiusa in una frase, uno slogan provocatorio, visibile qua e la anche sui muri di tante città Italiane, ancora al giorno d’oggi: <<Sardigna no est Italia>> ossia <<Sardegna non

è Italia>>. Frase emblematica rappresentativa dell’iRS19, il partito Sardo

indipendentista, cappeggiato dal visionario e carismatico leader “Gavino Sale”. Schieramento tutt’oggi in lizza alle ultime elezioni regionali, vinte

dalla coalizione del PdL20 del nuovo presidente Ugo Cappellacci.

Torniamo dunque a noi, ed alle riflessioni della Commissione Parlamentare in merito alla questione Banditismo. Essa riteneva e giunse alla convinzione che bisognasse seguire l’antico detto: “prevenire meglio che curare”. Dunque proponeva di procedere alla trasformazione del pascolo brado, caratterizzato dal rito della transumanza, che teneva gli

19 iRS: Indipendentzia Repubrica de Sardigna (indipendenza Repubblica di Sardegna) è un

movimento politico organizzato indipendentista e non violento sardo. Ideato nel 2001 dai principali animatori del progetto on-line denominato "Su Cuncordu pro s'Indipendèntzia de sa Sardigna" (l’accordo per l’indipendenza della Sardegna). Cfr. pp. 147-158 “Gavino Sale, guerriero, pacifista e romantico” e “La Sardegna è come una piccola nazione”.

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uomini fuori di casa, lontani dai propri villaggi, per mesi e mesi, per introdurre, quindi, metodi lavorativi più avanzati e moderni. La

Transumanza21 era una pratica che permetteva che quattro, cinque o sei

uomini addirittura, potessero allontanarsi dalla propria comunità, tener prigioniero un ostaggio per settimane e settimane , l’intera durata del sequestro insomma, senza che nessuno potesse loro contestare tale assenza dal paese, e chiedergliene conto, ma soprattutto senza che nessuno se ne potesse accorgere. <<Prendiamo, per esempio, un paese dell’entroterra barbaricino, tipicamente pastorale come Fonni o Orgosolo. Da qui mancano circa mille pastori ogni anno, e non per una settimana o per un mese, ma per sei lunghi mesi. Com’è dunque possibile andar a individuare, in questi luoghi, chi si sia allontanato per commetter un atto di delinquenza così grave come il sequestro di persona? Ciò significa che Senza il pastore, senza la pastorizia a pascolo brado, quella nomade, e senza la natura selvaggia, che ne diventa la condizione permissiva, il

sequestro di persona non è concepibile>>22. Tutti elementi, la natura, la

transumanza, la pastorizia, le montagne, che permettono a un uomo di sparire senza lasciar traccia di se, e senza dunque poter essere ritrovato, ne dai familiari ne dalle forze di polizia. Quindi è così, è il pastore che per necessità o per rivalsa diviene sequestratore, anche se poi, si notò che, pian piano, come complici ausiliari, iniziavano a partecipar ai sequestri di persona elementi della piccola borghesia urbana che ricoprivano diverse

21 Il termine “Transumanza” è composto dalla locuzione «trans» (che indica spostamento) e dal

vocabolo latino «humus» (che significa «terra»); dal significato letterale dell’espressione ne deriva l’essenza stessa della parola, ossia la consuetudine, da parte dei pastori, di trasferire il bestiame in montagna nel periodo estivo - nel tentativo di trovare floridi e ricchi pascoli – nonché la necessità di tornare a valle nei periodi più rigidi dell’inverno. Si trattava di una vera e propria migrazione di animali e persone che abbandonavano per oltre tre mesi il focolare domestico e si sacrificavano ad una vita campestre. Si ricreava, così, un gruppo sociale ristretto composto dal massaro (uomo di fiducia e collaboratore del proprietario del gregge) che in Sardegna viene denominato “servo pastore”, dai pastori stessi (addetti al controllo delle bestie) e dai produttori caseari.

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Tratto dal programma: Sette giorni al Parlamento. Archivio RAI. Servizio di Peppino Fiori, “un’isola e il parlamento” 1968.

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funzioni : fare i basisti, ad esempio, o attivarsi nel riciclaggio dei denari del riscatto. La commissione giunse dunque, come dicevamo, alla conclusione che bisognasse porre fine al rito della transumanza per dar vita a metodi moderni di allevamento. Non limitarsi perciò a meri metodi repressivi per combatter i mali solo quando son oramai ben radicati, ma giunger alla base e modificar da qui le condizioni socio economiche di una terra rimasta ancora legata a un modello economico e sociale arcaico e regredito. A conforto di tali conclusioni i risultati di una commissione parlamentare sul banditismo, risalente al 1897, voluta dal presidente

Crispi in persona (con decreto ministeriale del 12 dicembre 1894)23

affidata al deputato Francesco Pais Serra24. L’inchiesta mise in luce le

gravi ed eccezionali condizioni in cui l’isola versava e giunse alla conclusione secondo cui i reati diminuivano quando vi era una maggior prosperità economica della regione, e viceversa. Neanche il successivo

“Piano di Rinascita Socio Economico”25 dell’isola, inaugurato nel 1962,

dette sostanziali risultati, soprattutto a causa degli amministratori regionali e dello stesso fautore del progetto, ossia il governo Nazionale. Il fallimento del Piano di Rinascita contribuì ad aumentare le già profonde differenze tra l’interno dell’isola, sempre più depresso ed in progressivo spopolamento, e le zone costiere, industriali, turistiche, dove pian piano

23

M. Brigaglia, Storia e miti del banditismo Sardo, Edizione speciale per la Nuova Sardegna, Sassari, 2009.

24

Francesco Pais Serra è nato a Nulvi (Sassari) nel 1837 e morto a Roma nel 1924. Deputato di Sassari e Ozieri dalla XV alla XXIV legislatura. Garibaldino combatté a Mentana e in numerose altre campagne per l’indipendenza italiana. Repubblicano e democratico, fondò e diresse a Bologna numerosi giornali. Per le sue posizioni politiche fu spesso arrestato e processato. Nella sua casa, centro dell’attività repubblicana in Romagna, si ritrovavano il Carducci, il Fortis, il Fratti ed altri. In seguito passò nelle file dei costituzionali e, pur sedendo alla Camera all’estrema sinistra, votò generalmente a favore del governo. Membro di varie commissioni, fu da Crispi incaricato di svolgere un’inchiesta sulle condizioni della Sardegna, nel 1897.

25 Piano di rinascita economica e sociale della Sardegna, Legge 11 giugno 1962, n. 588 e Legge

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penetrava la modernizzazione e il “benessere”. Crebbe dunque il malcontento in quella parte di popolazione che era stata esclusa dai benefici del Piano di Rinascita (ossia le zone interne) e la conseguenza fu un risveglio della criminalità e del fenomeno del banditismo. Notiamo così, in questa prima rapida veduta d’insieme quanti e quali son stati, a grandi linee, i diversi approcci relativi allo studio del fenomeno in questione. Dall’analisi di un “gene violento” insito nel DNA dei Sardi. All’ipotesi storica, quindi le varie dominazioni, i soprusi, il sentimento di rivalsa e di vendetta contro l’oppressore di turno. Ancora poi il profilo culturale, la chiusura sociale, la diffidenza, il concetto di vita primitivo, una struttura socio economica arcaica. Un mondo differente. Una realtà agropastorale, il rispetto, la povertà, il difficile rapporto poi con lo Stato, la solitudine. Il voler preservare un tacito regolamento, non scritto, fatto di regole tramandate di generazione in generazione. Il mistero di un mondo a se, a tratti incomprensibile. È qui, è in tutto questo che nasce e si sviluppa l’anomalia del Banditismo, tutt’oggi presente con l’ancora fresca vicenda, risalente al 2006, di un allevatore di Bonorva, Giovanni Battista Pinna, tenuto segregato per 253 giorni dai suoi sequestratori. Proprio in questi mesi è in corso il processo relativo al suo rapimento. È in questo modo che il banditismo prende forma e si trasforma, iniziando a strutturarsi. Esso mai assumerà, comunque, le sembianze di un organizzazione

malavitosa vera e propria, quale la Mafia26 ad esempio. Paragone talvolta

azzardato. Ma la Mafia e il Banditismo sono due realtà agli antipodi: la prima caratterizzata da un ordine unitario e gerarchico, la seconda è

26

L’<<associazione di tipo mafioso>> (ex art. 416 bis c.p.) è definita tale quando coloro che ne fanno parte <<si avvalgano della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti>>. Ciò ha consentito di classificare come “mafiose” organizzazioni criminali tra loro piuttosto diverse per struttura ed ambito culturale di origine, come la “Cosa Nostra” siciliana, la ‘ndrangheta calabrese e la camorra napoletana. S. Luberto, A. Manganella, I sequestri di persona a scopo di estorsione, Cedam, Padova, 1984, pag. 43-4, e P. Marongiu, S. Norfo, Measuring Organized Crime in Italy, in Newman, 1999, pag. 62. Cfr. pag. 158 “Perché in Sardegna non c’è la mafia”.

(15)

invece la pura espressione dell’individualismo, tipico della cultura e carattere Sardi. Un individualismo, come abbiam visto di origine storica. Basti infatti vedere le tante culture che caratterizzano l’isola, diversi mondi, diversa la prospettiva della realtà, diversi i linguaggi. Diversi orizzonti, di una terra diversa, fatta di genti diverse. Una terra, paragonabile quasi a un continente, proprio per queste sue mille diversità.

1.2 Una suggestiva lettura del Banditismo Sardo.

Il banditismo costituisce l’espressione classica della criminalità rurale

Sarda. Espressione dunque di una cultura e una società particolari27.

Questo fenomeno sviluppato in tutta l’isola si è pian piano concentrato

verso la zona intera, già conosciuta, ormai, col nome di Barbagia28,

dominata dal massiccio montuoso del Gennargentu. Prima di addentrarci dal punto di vista prettamente storico su quelle che son state le principali tappe del Banditismo analizziamo brevemente la visone di questo

fenomeno tratta dagli studi di Eric John Ernest Hobsbawn29, importante

storico Inglese, che definisce quello Sardo col nome di “Banditismo sociale”. Il Bandito sociale è dunque identificato in colui che è ritenuto criminale dall’autorità, ma che rimane all’interno della comunità stessa, dalla quale è riconosciuto quale esempio: un eroe, vendicatore e combattente per la giustizia, quindi da sostenere ed aiutare. Quello del

27 Cfr. pag. 160 “Il santuario dell’identità sarda”. 28

Con il termine Barbagia, e con la dicitura di “barbaricino” (abitante della Barbagia) ci si riferisce ad uno spazio geografico, storico e culturale della Sardegna agropastorale interna, dove si è sviluppata una cultura autoctona e resistente, ad alto grado di isolamento. Tale cultura poggiava le sue basi sullo sfruttamento comunitario dei terreni, da cui derivavano le sue caratteristiche socioculturali di “egualitarismo”, della vendetta e dell’invidia, dando vita a una cultura arcaica se analizzata nel contesto delle civiltà mediterranee. Quest’area, oggetto di interesse già a partire dall’800 di studi criminologici è caratterizzata da un alto tasso di reati contro il patrimonio e contro la persona.

29

(16)

banditismo sociale è un fenomeno riconosciuto ed è tipico delle società rurali e pastorali. Esso viene e si sviluppa prima dell’acquisizione da parte degli strati rurali di una coscienza politica vera e propria. Secondo Hobsbawn, un comune contadino o pastore si trasforma in “efferato

bandito”30 a causa di un “evento critico” considerato non legittimo dalle

istituzioni, ma conforme alle leggi interne che regolano il suo gruppo di appartenenza che, per questo motivo, lo sostiene. Individua poi le condizioni favorevoli al che un normale individuo possa diventar bandito, e ne elenca le varianti: il fatto di appartener al proletariato rurale di aree povere e regredite, incapaci spesso di assorbire la totale forza lavoro; l’età e la classe sociale di appartenenza degli individui: colui che si da alla macchia di solito è giovane e non ha famiglia. Alcuni banditi sono invece soggetti ai margini della società, come servi senza terra, o ex soldati e disertori. Infine ci sono coloro che “si fanno rispettare” ossia coloro che diventan fuorilegge perché non sopportando soprusi ed ingiustizie: sceglieranno così la via del banditismo per vendicare angherie o torti

subiti. Lo studioso individua tre tipi di banditi differenti31 :

1) il ladro gentiluomo, stile Robin Hood, che diventa bandito per reazione ad un atto di ingiustizia. Egli risponde al classico detto “ruba ai ricchi per dare ai poveri”, rimedia ai torti della comunità, dalla quale ha appoggio e rispetto, e non uccide, se non per legittima difesa o per vendetta.

2) La seconda categoria è costituita dai banditi vendicatori, il cui fascino deriva dal fatto di esser individui che, con le loro gesta, dimostrano la possibilità di riscatto anche per poveri e diseredati, divenendo protagonisti di una ribellione anarchica, contro appunto la società che li circonda.

30

P. Marongiu, Criminalità e banditismo in Sardegna, Carocci editore, Roma, p. 18.

31

(17)

3) Ci sono infine gli “aiduchi” . Sono questi uomini che si associano ad altri uomini , provenienti tutti da un mondo rurale oppresso e sottosviluppato. Si organizzano militarmente, con un proprio linguaggio e propri codici, dandosi per fine una precisa gerarchia politico–militare. Danno così vita ad una sorta di confraternita. Questa rappresenterà la categoria più organizzata e con una certa valenza politica del banditismo sociale. Spesso essi fanno infatti da sfondo alle tematiche nazionaliste o indipendentiste, viste come resistenze armate di comunità minoritarie all’oppressore (così sarà per gli “aiduchi”

Ungheresi, Ucraini, dei Balcani, e per i cosacchi Russi ad esempio)32.

In tutte tre le categorie appena elencate il bandito proviene da ceti poveri, dell’ambiente agro-pastorale, è ben amalgamato nella sua società di appartenenza, che lo rispetta, lo aiuta e lo sostiene, non è nemico delle figure di potere centrale, ma solitamente è in contrasto con le realtà governative locali; generalmente muore per tradimento. Andiamo comunque ora ad analizzare quelli che son stati i principali avvenimenti e fatti di cronaca, in una prima “tranche” che scorrerà il susseguirsi dei principali eventi dall’unificazione del Regno sino ai primi anni ’60, ed una seconda parte che vedrà l’analisi del cosiddetto “banditismo moderno”, analizzato nelle sue caratteristiche generali. Vedremo il caso del sequestro De Andrè e la storia di Graziano Mesina, ultimo esponente dei banditi definibili “sociali”. Per passare infine al nuovo corso del banditismo caratterizzato per lo più dal redditizio “affare” dei sequestri di persona.

32

Aiduchi: termine derivante dall'ungherese haidúk: combattenti, formazioni armate che nel sec. XVI fomentarono nei Balcani la resistenza contro gli invasori turchi. Nel sec. XVIII il termine a. designò i reggimenti di fanteria speciale ungherese; nel sec. XIX indicò le milizie partigiane che in Serbia e Bulgaria parteciparono alle guerre d'indipendenza contro l'impero ottomano.

(18)

1.3 La cronaca dei fatti: dal XVIII secolo sino agli anni ’60.

Prima di addentrarci nel pieno della dominazione Sabauda, che successe, dal 1720, a quella Spagnola nel controllo dell’isola, ricordiamo le vicende

relative alla così detta “Crisi Camarassa”33(evento politico più rilevante

della seconda metà del 600) che vedeva la lotta tra una parte dell’aristocrazia Sarda, contro il potere centrale di Madrid, per ottener una maggior indipendenza. Il tutto si risolverà, dopo gli omicidi dei principali esponenti delle contrapposte fazioni (il marchese di Camarassa rappresentante della Corona e Don Agostino di Castelvì: marchese di Laconi, alla guida della corrente indipendentista) con la dura reazione Spagnola che, sotto la guida del nuovo Vice Re “Francesco Tuttavilla”, Duca di San Germano, stroncò l’opposizione della Nobiltà Sarda. Furono condannati a morte i principali esponenti del movimento indipendentista , datisi però alla fuga, e furon confiscati loro i beni di famiglia, con l’accusa di “alto tradimento” e di “lesa maestà”. Giungiamo dunque al XVIII secolo che trova la Sardegna prostrata, sia dal punto di vista economico, sia a causa di una recrudescenza della criminalità. In modo particolare nelle zone di Sassari, Nuoro, del Goceano, e della Gallura. Zone dalle quali i banditi avevano una possibile e rapida via di fuga tramite le coste settentrionali, verso la Corsica. Crescevano sempre più, dunque, gli omicidi, le rapine i furti e le grassazioni. Atti compiuti da Malviventi isolati o organizzati in bande, che si rifugiavano nelle migliaia di nascondigli che la zona offriva, inaccessibili o comunque difficoltosi da individuare per le forze dell’ordine nelle loro battute di perlustrazione. Questi malviventi potevano poi contare sul sostegno dei vari pastori che, al momento del bisogno, li accoglievano dando loro viveri e da dormire. Vista la situazione i nuovi governanti Sabaudi studiarono metodi repressivi alternativi che si

33

B. Anatra, R. Puddu, G. Serri, Problemi di storia della Sardegna spagnola, Edes editore, Cagliari, 1975, p. 90.

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concretizzarono nell’emissione di editti o “pregoni” e di nuove norme espressamente create e poste in essere per il territorio Sardo. I “pregoni” indicavano ad esempio regole generali su possesso e fabbricazione di armi da fuoco, o sull’istituzione di vari dipartimenti territoriali: controllati da pastori o altri individui, che avevano poteri di arrestare ladri e malviventi. Altre volte si trattava invece di pregoni più “curiosi” per così dire, come

quello che vietava di portar la barba cresciuta da oltre un mese34.

Violazione, questa, punita con trenta giorni di carcere e quattro scudi di pena pecuniaria, che si moltiplicava in caso di recidività. Curioso provvedimento, ma necessario e comprensibile, in quanto era ben noto l’uso di folte barbe tra i fuorilegge dell’epoca per rendersi più difficilmente

riconoscibili, più duri e minacciosi35. Veniva inoltre imposto l’obbligo di non

ospitare tali malviventi e, ai pastori, si richiedeva la costruzione degli ovili in zone di facile accesso, se possibile, in prossimità di strade. Successivi

34 E. Corda, La legge e la macchia, Rusconi, Milano, 1985, p. 17. Pregone: Dallo spagnolo pregòn,

latino preconium, era una disposizione di natura legislativa emanata dal viceré nel Regno di Sardegna. Veniva diramato in tutti i paesi e applicato sulle porte delle Curie baronali; un notaio accompagnato da un banditore ne dava pubblica lettura provvedendo a tradurlo in sardo.

35

“Pregone del Vicerè Marchese di Rivarolo de’ 9 maggio 1738”, ordinazione XVII, con cui si abolisce l'uso delle barbe lunghe: <<Atteso che l'uso di portare la barba cresciuta, che in certo genere di persone serve d'edificazione,riesce in altre d'indecenza e di scandalo, il che singolarmente si sperimenta in questo regno, in cui questo, in cui anticamente fu costume abbominevole, di alcuni dipartimenti, che per la barbarie di tal costume si guadagnarono la denominazione di barbagie, ed i suoi abitanti di barbaraccini, si osserva in oggi introdotto, in tutt'i dipartimenti, che avendolo forse nel suo principio adottato per una delle singolarità stravaganti del lutto solito farsi da' villani in occasione del decesso de' loro parenti (singolarità soltanto praticata dagli Ebrei in simili lutti), si è poscia cangiato in essere distintivo di banditi e fuoriusciti, che con simile fierezza di sembiante credono d'incutere maggiore terrore, ed essere meno conosciuti ne' loro assalimenti nelle strade reali, o sieno pubbliche, e ne' loro omicidii proditorii, e per vendetta; sendo rispetto a questi il lasciarsi crescere la barba un genere di voto superstizioso dal tempo,che premeditano tali omicidii, insichè giungono ad eseguirli, quantunque vi trascorrono anni prima di venirne all'esecuzione. Finalmente hanno ritrovato in tal uso tanto vantaggio i malviventi, che molti, i quali non sono ancora giunti all'età di avere barba naturale, la portano falsa e posticcia nel tempo, in cui vanno a commettere i delitti. Pertanto essendo cotanto proprio del nostro dovere il riformare un costume, che oltre d'essere per tutti i riguardi abbominevole in simil genere di persone, riesce anche occasione di scandali, ed è propizio a delinquenti meritevoli d'essere con ogni mezzo estirpati: per forma del presente pregone, ordiniamo e comandiamo che nell'avvenire nessuno possa nemmeno per motivo di lutto, nè per altro,portare la barba cresciuta più di un mese […]>> Cagliari a' 9 maggio 1738 RIVAROLO.

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editti a quelli sin’ora citati emanati dal Vice Re, il Marchese di Rivarolo, verranno divulgati in merito al bestiame: principale fonte di sopravvivenza dei banditi che, all’occorrenza, uccidevano i capi loro necessari, sottraendoli dalle varie greggi, per poter superare i lunghi periodi di latitanza. Fu dunque emanato, al fine di evitare tali ruberie, l’obbligo di trasferire il bestiame a valle e in pianura, pena la perdita dello stesso. Questi provvedimenti, comunque, non sortirono grandi effetti risolutori. Bisognava dar vita, dunque, a norme più globali ed uniformi. Giungiamo così al 13 marzo 1759, quando Carlo Emanuele III firma il nuovo ordinamento per l’amministrazione della Giustizia nel Regno di Sardegna,

composto da 15 capitoli36. In essi si spaziava dalla durata in carica e

36

E. Corda, op. cit., p. 19. Nuovo ordinamento per l’amministrazione della Giustizia nel Regno di Sardegna, 15 capitoli:

CAPO PRIMO degli uffiziali, scrivani ed altri ministri di giustizia (15 articoli) CAPO SECONDO degli articoli probatori ed oggezionalii (7 articoli)

CAPO TERZO delle difese de’ rei (8 articoli) CAPO QUARTO della tortura (4 articoli) CAPO QUINTO delle pene (3 articoli)

CAPO SESTO di varii delitti e delle loro pene (11 articoli) CAPO SETTIMO dei furti (24 articoli)

CAPO OTTAVO delle grassazioni (6 articoli)

CAPO NONO dell’insulto con animo premeditato (2 articoli) CAPO DECIMO delle sentenze (2 articoli)

CAPO UNDICESIMO delle sentenze contumaciali e del catalogo de’banditi (8 articoli) CAPO DUODECIMO dell’arresto e persecuzioni de’banditi (5 articoli)

CAPO DECIMOTERZO del benefizio dell’impunità per carattere (10 articoli)

CAPO DECIMOQUARTO dei nullatenenti oziosi e vagabondi, de’discoli e diffamati di furti, abigeati e grassazioni, o di complicità ne’medesimi; CAPO DECIMOQUINTO altre ordinazioni riguardanti l’istruttoria delle cause civili (14 articoli)

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compiti dei funzionari di giustizia, alle varie pene per delitti, furti, grassazioni e premeditate provocazioni, sino al metodo della tortura ed i suoi casi di legittimità, alle sentenze, gli arresti e le norme riguardanti l’istruttoria di cause civili. Interessante soprattutto, l’ordinamento stilato da Carlo Emanuele, per la presenza di un catalogo aggiornato e minuzioso relativo ai banditi. Esso si componeva di otto articoli contenenti generalità, connotati, paternità, delitto commesso, data della sentenza e aggravanti, oltre che data e motivazioni di eventuali scarcerazioni. Descriveva poi minuziosamente le ricompense stabilite per le varie taglie pendenti sulle teste dei fuorilegge: per far un esempio la somma dovuta a chi consegnava alla legge un capobanda vivo ammontava a quattrocento scudi mentre si dimezzava in caso di una sua riconsegna da morto (sarebbe stata necessaria la sola testa, particolare macabro ma specificato nell’editto regio). Anche questi provvedimenti si rivelarono vani. L’isola permaneva infestata di numerose ondate criminali di vario genere. Nuovi provvedimenti furono varati a fine secolo, per vietare il possesso di armi da fuoco e di armi bianche, in quanto comune era l’usanza per incolumità personale della popolazione di girare armata, notte e giorno. Tutti rimedi che comunque continuavano a non sortire gli effetti desiderati. Questo lo stato in cui versava la regione alle soglie del nuovo secolo. Giungiamo così all’Ottocento quando in Sardegna a tutela dell’ordine pubblico vi erano sia civili che militari. A sostegno delle regolari milizie si

accompagnavano infatti “Compagnie di barracelli”37 composte in genere

37

Le funzioni attribuite alle Compagnie Barracellari sono quelle di salvaguardare le proprietà affidate loro in custodia dai proprietari assicurati, collaborare, su loro richiesta, con le Autorità istituzionalmente preposte al servizio di: Protezione Civile; Prevenzione e repressione dell’abigeato; Prevenzione e repressione delle infrazioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915.

(22)

da una trentina di uomini, guidate da un capitano, cui veniva affidata la difesa della proprietà e beni degli abitanti di villaggi e città. Il corpo dei baracelli sopravvive tutt’oggi e contribuisce alla prevenzione di furti, disordini, tranquillità e sicurezza pubblica. Nel 1814 poi, nascerà il corpo dei Carabinieri Reali, istituito da Vittorio Emanuele I, nel quale convergeranno anche i così detti “moschettieri reali”: un precedente ordine di milizie armate a cavallo. Crescevan dunque le forze dell’ordine ma, in contemporanea, non accennavano a diminuire i delitti perpetrati di anno in anno, a tal punto da far si che il Re rinunciasse addirittura alla concessione di un indulto generale che era stato predisposto da tempo. Tale sua scelta precedette di poche settimane un editto che poi emanò nel 1806 dove si stabilivano, a conferma della gravità della situazione, nuove norme riguardanti la proibizione delle armi, il gioco d’azzardo, l’ingresso e la permanenza dei non residenti nell’isola. Norme già previste anche in precedenti regolamenti di fine secolo, i quali imponevano l’obbligo ai locandieri di registrare e denunziare alle autorità i loro ospiti. Curiosa, tra le tante, una legge sul divieto di circolare con divise, insegne ed armi riservate agli ufficiali delle truppe regie. Espediente in auge tra i banditi, col quale essi potevano compiere le loro scorrerie con minor difficoltà. Gli editti, dunque, a tentativo di tutelar la situazione, si moltiplicavano di anno in anno, in particolare nelle zone più interne, dove crimini di ogni genere sembravano non diminuire. Era necessario dunque un intervento più deciso. Il governo Sabaudo decise dunque di adottare misure repressive più adeguate. Affidò perciò il compito di risolver la situazione al severissimo giudice di Cagliari Valentino Pilo, il quale si servì senza remore dei più cruenti metodi, tipici della disciplina militare, quali la fustigazione, il nerbo e il bastone, oltre all’assoldamento di boia che

praticavano le tecniche della flagellazione38. È questo dunque il difficile

clima in cui si trova l’isola a inizio secolo. A complicar la situazione

38

(23)

contribuirà poi anche il governo con l’abolizione dei diritti ademprivi39 e con l’emanazione del famoso “Editto delle Chiudende”: legge voluta da

Carlo Felice40 nel 1820 con la quale il Re intendeva introdurre in

Sardegna il modello piemontese della “proprietà perfetta” e autorizzava

<<qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o di abbeveratoio>>41. Essa garantiva a chiunque fosse in possesso di un fondo la possibilità di recintar la sua proprietà con muri, fosse o siepi. Tale nuova norma rivoluzionava l’utilizzo comune dei terreni, così come da consuetudine. I ricchi proprietari dunque iniziarono a recintar i loro fondi, con l’inconveniente però che, appena una siepe o un muro venivano eretti, bastava attender il giorno successivo, che già eran stati abbattuti. L’editto delle chiudende e la lottizzazione dei terreni adibiti a libero pascolo furono due provvedimenti con i quali si tentò di rilanciare l'agricoltura, purtroppo senza tener conto delle aree che avevano un’economia prettamente pastorale in cui il libero pascolo delle greggi era un’istituzione. Ogni tentativo più moderno di associazionismo e di cooperazione fallì quasi ovunque per svariati motivi, non da ultimo quello della lotta massiccia condotta da gruppi industriali continentali che tentarono di monopolizzare il mercato caseario sardo. Soprattutto nella provincia di Nuoro si mantennero a lungo particolari forme arcaiche di

39 Ademprivi: termine introdotto dagli aragonesi per indicare l’uso collettivo delle terre. Cfr. pag.

163 “I comuni che non vogliono regole”.

40

Carlo Felice (1765-1831), figlio di Vittorio Amedeo III e di Maria Antonietta Ferdinanda di Borbone-Spagna. Nel 1807 prese in moglie Maria Cristina di Borbone, infanta delle Due Sicilie. Vicerè di Sardegna dal 1799 al 1821, sovrano assolutista e sostenitore della monarchia per diritto divino, si oppose a qualsiasi forma di liberismo e dedicò la sua vita interamente al campo economico, giudiziario e militare.

41

C. Sole, La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, Editto delle chiudende, Ed. Fossataro, Cagliari 1967, p. 353.

(24)

associazioni o “soccide”42 di bestiame ovino e caprino: forme di

organizzazione che prevedevano la suddivisione delle spese tra più allevatori ma anche la suddivisione finale dei prodotti caseari e del

bestiame43. In un’economia così strutturata e profondamente legata ad

usanze e leggi comunitarie le ordinanze del nuovo Regno sfociarono in rivolte ed in vere e proprie lotte tra pastori e detentori dell’ordine pubblico. L’insieme costituito da questi fatti e la circostanza che con le chiusure delle tanche si erano illegittimamente incorporati ruscelli, fonti e abbeveratoi pubblici, al fine di cedere in affitto i pascoli a prezzi di molto superiori. Nonché la riduzione in miseria di popolazioni di interi comuni, così come a Sedilo, villaggio in cui si dovette ricorrere alla questua per pagare le spese degli avvocati nelle cause contro i proprietari. Tutti fatti che dettero la chiara impressione che l’editto fosse stato emanato al fine di distruggere i pastori. Essi quindi reagirono dappertutto violentemente tanto che, quasi normalmente, gli esattori venivano di solito “grassati”

all’uscita dei villaggi44. Numerose e violente furono le sommosse,

represse spesso nel sangue. Iniziarono dunque, in questo modo, ad acuirsi i contrasti all’interno delle comunità rurali, aumentarono i reati, le

42

Il contratto di “soccida” in Sardegna, molto utilizzato soprattutto in passato, era tipico di situazioni in cui il pastore non aveva mezzi sufficienti (bestiame, terra, danaro) per condurre un allevamento autonomo. Si stabiliva così un rapporto produttivo tra il proprietario dei mezzi di produzione o della maggior parte di essi e un prestatore d’opera, talvolta anche proprietario di una piccola quantità di bestiame. La dipendenza del pastore dal socio maggiore era pressoché assoluta sia per le operazioni di acquisto o di vendita, sia nelle scelte dei pascoli, sia per gli spostamenti nel territorio. La soccida a “cumoni” già presente nel Cinquecento, giunge sino ai giorni nostri. Il socio maggiore conferiva i due terzi del gregge, e il terzo rimanente veniva messo dal socio minore; il contratto aveva una durata di cinque o sei anni, allo scadere dei quali il gregge veniva diviso in parti uguali. Annualmente i frutti venivano divisi a metà, mentre le spese di gestione erano a carico del pastore. I contratti di soccida, in generale, avevano una data di inizio e di termine del contratto prefissati. Solitamente coincidevano con ricorrenze religiose estive; si osserva che tali date coincidono con i giorni di inizio e termine della stagione calda

43

Raccolta delle consuetudini e degli usi agrari della provincia di Nuoro, a cura della Camera di Commercio, Industria e Artigianato di Nuoro, p. 60.

44

L. Carta, A. Accardo, G. Sotgiu, Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d'Italia, S'Alvure, 1991, Oristano, p. 106.

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vendette, le faide e gli omicidi. Nonostante alcuni tentativi di appianar la situazione, i disordini si svilupparono in tutta l’isola, in particolare nella zona centrale, la già citata Barbagia. Così, per appianare situazioni difficili da sostenere, si ricorse nel XIX secolo all’uso delle “Paci” ossia delle forme di riconciliazione ufficiale tra gruppi o paesi tra i quali eran sorti conflitti che perduravano da tempo. Causa scatenante erano di solito terreni e pascoli di dubbia proprietà, quali quelli confinanti tra un villaggio e

un altro ad esempio. Ricordiamo così le faide45 sorte in vari centri della

regione quali quelle di Mamojada, Luras, Osilo, Siniscola, Lodè, e i dissapori poi tra Tempio e Bitti, Fonni e Villagrande. Queste faide giungevano a un punto di non ritorno. Da qui il ricorso allo strumento delle “paci” messe in atto prima che le varie famiglie contendenti si sterminassero l’una con l’altra. Sancita la pace, poi, il Re emanava una carta reale di perdono per tutti i reati compiuti dai contendenti durante le ostilità. Anche a Cagliari, la capitale, crescevano i reati ed il malaffare per l’aumento del numero di truffatori e malviventi, così che furono emanati provvedimenti a garantir un maggior ordine. Ad esempio l’obbligo di aver certificati a testimonianza di cambi di residenza, ai locandieri si imponeva di denunziare alle forze dell’ordine tutti i loro ospiti, o ancora il divieto di circolar nelle ore notturne senza lanterna. Per gli studenti o gli apprendisti di mestieri, la necessità di possedere una dichiarazione che testimoniasse il loro status, sino al divieto di mendicare, se non nella propria abitazione dopo aver ricevuto previa autorizzazione del giudice locale, che determinava se ci fossero realmente le condizioni grazie alle quali potesse

45

La famigerata faida, che spesso insanguina la cronaca sarda , è un tipico fenomeno legato all'ambiente barbaricino, che nasce e trae origine dalla sete di vendetta. Nella fattispecie la faida non è altro che un susseguirsi di azioni conflittuali, che persone o gruppi si scambiano fra di loro. Si attua per riscattare quelle che sono ritenute gravi offese, per chi le subisce, e che hanno in qualche modo leso l'onore e l'integrità morale di una persona. Il ricorso a una vendetta privata nasce fondamentalmente da una sfiducia nei confronti dello stato e del suo sistema giudiziario, ritenuto inadeguato a far fronte a tale tipo di controversie. C'è quindi un forte divario e una netta differenziazione tra il codice nazionale e quello locale, che si ritrovano ad essere in conflitto.

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esser concesso lo “stato di povertà”. Si decise poi di evitare l’esibizione dei corpi dei condannati a morte in “quarti” come si era soliti fare. Avevano capito che ciò non serviva da deterrente, ma aumentava anzi gli odi delle famiglie che vedevano deturpati i corpi dei loro cari, creando così rancori e sentimenti di vendetta ancor più forti. In questo clima di malessere e criminalità giornaliero, si doveva far qualcosa di forte. Era necessario un intervento duro e deciso. Così, finito nel 1836 il regime giurisdizionale

feudale46, abolito da Carlo Alberto47, ci fu nel 1838 l’emanazione di un

nuovo ordinamento del sistema giudiziario48, composto da 131 articoli. Era

orami assodato che il malcontento generale dell’isola risiedeva, per lo più, nelle condizioni economiche d’arretratezza, causato da disastrose annate agricole, e dalle restrittive norme che regolavano il commercio con il Continente. Da ciò nacque, nel 1847, il reale decreto che, prendendo atto della realtà storica dell’isola, enunciava la volontà di voler estender alla Sardegna, da sempre vista come “regione di seconda classe”, i benefici amministrativi già in vigore nelle province della terraferma,. Si sviluppò, così, nella prima metà del secolo XIX la prima violenta lotta tra autorità governative ed amministratori Sardi, come testimoniato da una seduta parlamentare Piemontese, dedicata proprio alla situazione dell’ordine pubblico nella regione. Vi furono forti proteste da parte dell’On. Siotto

Pintor49 il quale sottolineava l’inadeguatezza delle misure di sicurezza a

46

M. Atzori, Tradizioni popolari della Sardegna: identità e beni culturali, Edes, Sassari, 1997, p. 107.

47

Carlo Alberto Amedeo di Savoia detto "il Magnanimo" (Torino, 2 ottobre 1798 – Oporto, 28 luglio 1849) , settimo Principe di Carignano e Re di Sardegna dal 1831 al 1849. Ha legato indelebilmente il suo nome alla promulgazione dello Statuto fondamentale della Monarchia di Savoia 4 marzo 1848 - noto, appunto, come Statuto Albertino - che rese il Regno di Piemonte/Sardegna, prima, e l'Italia, poi, uno Stato costituzionale rappresentativo, tendenzialmente parlamentare e liberaldemocratico.

48 E. Corda, La Legge e la macchia, Rusconi, Milano, 1985 p. 28. 49

Nato a Cagliari il 29 novembre 1805 e morto a Torino il 24 gennaio 1882. Figlio di Giovanni Maria (avvocato di Orune) e di Luigia Pintor. Si laureò anch’egli, come il padre, in giurisprudenza

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tutela della Sardegna, immersa in una drammatica situazione caratterizzata da un’inarrestabile “escalation” di violenze. Puntava l’indice, infine, contro la strana quanto anomala composizione della Commissione per gli Affari della Sardegna insediata a Torino, composta da undici membri, due soli dei quali sardi. Altro intervento fu poi quello dell’onorevole Asproni, che pose l’accento sulle cause dei mali dell’isola in una concatenazione di fattori quali la violenza, l’arretratezza economica, il malaffare, la corruzione e non ultimo il basso livello dell’istruzione. Tutti elementi che portavano inevitabilmente a una situazione ai limiti, contro la quale non era necessario solo un mero intervento militare come unica soluzione ai mali isolani. Per sanare la situazione bisognava intervenire su più fronti. Cosicché fu ampliato lo stanziamento di forze militari. Si giunse a ben quattromila uomini, oltre alla presenza di venti commissari straordinari, disseminati su tutto il territorio regionale. Obiettivo del ministero era, in questo modo, quello di ristabilire la tranquillità e l’ordine pubblico, reprimendo efficacemente i delitti. Basti pensare che in soli 9 mesi: nel periodo compreso tra gennaio e settembre 1850 si erano verificati centoventiquattro omicidi e duecentodiciannove aggressioni a mano armata. Una sorta di guerriglia, caratterizzata anche da un traffico d’armi da non sottovalutare, in particolare molto attivo tra la zona a nord dell’isola e la vicina Corsica. Ricco era infatti il commercio e lo scambio di

per intraprendere, poi, nel 1825, la carriera di magistrato e divenire, dieci anni dopo, magistrato della Reale Udienza. Collaborava intanto all’“Indicatore” dei fratelli Pasella, pubblicandovi un interessante scritto sulle “chiudende”. Nel 1843-44 pubblicò la Storia letteraria di Sardegna, che suscitò un uragano di proteste per le tesi sostenute: denigrazione della dominazione spagnola ed esaltazione del governo piemontese. L’ostilità nei suoi confronti fu tale che lo stesso Viceré De Lannay gli chiese di dimettersi, prospettando persino un periodo di detenzione. Giobertiano e fautore dell’unificazione dell’Isola col Piemonte, fu eletto nella prima legislatura in ben cinque collegi e, con decreto del 15 aprile del 1848, fu nominato reggente della segreteria di Stato per gli affari dell’Isola. Benché cattolico, avversò la politica della Santa Sede per cui nel 1862 le sue opere furono messe all’Indice. Nello stesso anno fu nominato senatore e svolse una lunga e indefessa attività parlamentare. Fu nemico della Francia e di Napoleone III. Nel 1870 chiuse la sua attività di magistrato come presidente di sezione della Corte di Cassazione.

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bestiame sardo con fucili francesi a doppia canna. Non sembravano dunque placarsi i problemi e in contemporanea crescevano anche gli attriti

politici su quella che era ormai divenuta la “questione Sarda”50. Le sedute

parlamentari in materia divenivano sempre più accese ed incandescenti.

Come denunciato da Alberto Lamarmora51, in una seduta del Senato a

Torino, nel 1851, bisognava porre fine all’endemico problema dell’instabilità delle autorità e dei funzionari governativi nella regione. Basti pensare che in ventotto anni si susseguirono dieci Viceré. Continuava poi, Lamarmora, con la critica verso il disinteresse dei ministri Piemontesi nell’occuparsi realmente dei problemi dell’isola e, infine, riconosceva una particolare virulenza dei problemi nella zona relativa alla provincia di Nuoro, dove proliferavano più che mai malfattori e criminali. Qui inoltre le milizie presenti erano ormai insufficienti a placare le scorrerie giornaliere dei fuorilegge, che, organizzati in bande, di giorno e di notte, compivano rapine, violenze e saccheggi nei villaggi. Altro fattore penalizzante per quanto riguardava la governabilità della regione divenne poi il comprensivo timore di quegli onesti cittadini che ricoprivano posti pubblici intimoriti sempre più a proseguire nell’esercizio delle loro funzioni, perché oggetto di continue minacce o attacchi veri e propri da parte dei malviventi. Vediamo così che per molti anni a Nuoro il posto di Segretario comunale rimase vacante per esempio. Nessuno insomma voleva rischiar

50

L. Marroccu, M. Brigaglia, La perdita del Regno: intellettuali e costruzione dell'identità sarda tra Ottocento e Novecento, Editori riuniti, Roma, p. 106.

51

Alberto La Marmora, fratello di altri due importanti generali del Regno di Sardegna e poi del Regno d'Italia: Alfonso La Marmora ed Alessandro La Marmora, fu generale durante le guerre napoleoniche e fu decorato personalmente da Napoleone I. Fu anche nell'esercito del Regno di Sardegna. Come scienziato, grazie ad un lungo periodo vissuto in Sardegna, studiò i fondali marini e le coste a ridosso dei fiumi. I suoi studi e le sue osservazioni in tema furono molto utilizzati nell'analisi di fattibilità del Canale di Suez. Infatti, l'area di Porto Said e di Suez presentano caratteristiche simili a quelle delle coste della Sardegna. Scrisse il libro “Voyage en Sardaigne” nel 1860.

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