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La «caccia grossa» e il processone.

Natalino Piras, La Nuova Sardegna, 6 maggio 2006, pag. 4.

Dopo gli arresti di massa tra il 14 e 15 maggio del 1899, passata alla storia come la notte di San Bartolomeo, e dopo la battaglia del Morgogliai, il 10 luglio di quello stesso anno, fu celebrato a Cagliari “il processone”. Seguita in questo modo la storia della “caccia grossa” contro il banditismo in Sardegna, recuperata alla biblioteca Satta dallo studioso Giovanni Puggioni. Il campo d’indagine sono pagine e pagine della “Nuova Sardegna”, cronache del 1899 e 1900. Erano tempi difficili. Seicentoquarantadue persone furono arrestate a Nuoro, in Barbagia e Baronia, in Goceano, nel Logudoro, nel Marghine, nel Mandrolisai, in Anglona. Di queste persone, uomini, donne, vecchi, “una buona parte” furono prosciolte in Camera di consiglio. Ne restavano 332. I capi d’imputazione andavano dal favoreggiamento all’associazione per delinquere. “Altri poi sono imputati specificatamente di omicidio, furto, rapina, estorsione, ricettazione, danneggiamento, minacce ecc.”. C’era di che temere d’ogni erba un fascio. Evidentemente però anche nel buio si poteva fare luce. Dei 145 accusati di associazione per delinquere, il sostituto procuratore generale, avvocato Stefano de Giudici, chiede “il non farsi luogo a procedere” per 120, “per insufficienza d’indizi”. È la fine di un incubo collettivo. “L’impero della legge ristabilito”: così titola “La Nuova” nel catenaccio di un lungo articolo del 6 luglio 1900, dove sono riportati, uno per uno, i nomi degli imputati. C’è gente di Mamoiada, Benetutti, Oschiri, Dorgali, Ottana, Olzai, Orgosolo, Orune, Orani, Oliena, Orotelli, Oniferi, Sarule, Nughedu San Nicolò, Lula, Oliena, Birori, Pattada, Tula, Ovodda, Ortueri, Bitti, Ozieri, Nule, Bortigali, Fonni, Chiaramonti, Anela, Bultei. E Nuoro, che ai quei tempi non era capoluogo di Provincia. Ricostruendo i fatti, il pezzo giornalistico dà la parola a un comunicato dell’agenzia Stefani del 16 maggio 1899: “In seguito a denuncia dell’autorità giudiziaria, in 20 comuni furono eseguiti contemporaneamente

numerosi arresti di complici e manutengoli”. Tutta gente che secondo l’accusa poi rilanciata dai media di allora, teneva bordone ai latitanti. Furono incatenate intere famiglie. Nell’infinita teoria degli imputati, lo stesso cognome è ripetuto più volte. Pastori, massai, donne di casa, sindaci e segretari comunali. Dove non bastano nome e cognome soccorre il soprannome. Gli articoli del giornale che ricostruiscono il prima, il durante e il dopo del processo. Sono siglati alcuni dall’“Usciere”, altri sono senza firma, altri di “Rifeo”, pseudonimo dell’avvocato bittese Ciriaco Offeddu. Mettono sotto accusa principalmente Giovanni Nepomuceno Cassis, ex prefetto di Sassari, ispiratore della “caccia grossa”. In un pezzo del novembre 1899, Cassis è scritto spregiativamente con la “K”: Kassis- Faraone. Il conte Giovanni Nepomuceno Cassis, da quel “prefetto sportmen” che era, ironizza il giornale, imbastisce una “genialissima opera comico-tragica”. Prima i 632 arresti e poi il processone. Per debellare definitivamente, queste le conclamate intenzioni, la “massa criminale” messa ai ferri dai soldati del generale Pelloux, i prigionieri restati in loco e i deportati nei bagni penali del continente, quelli che certa mitologia popolare chiamerà poi “tzigantes”. Il processone ribalterà lo stato delle cose. Da oltre seicento, gli imputati si riducono a meno di venti. “La prima soddisfazione è quella di sapere che ci sono giudici anche in Sardegna”, annota il giornale sassarese, “e che finalmente giustizia fu resa a tanti cittadini, qualcuno dei quali morì in carcere”. Il riferimento è al “venerando cavalier Antonio Raimondo Serra, che fu per molti anni sindaco di Dorgali”. Anch’egli, “uomo di onestà indiscutibile e circondato dal rispetto generale, fu travolto dalla raffica cassiana”. Erano tempi bui e la giustizia non sempre distingueva il lupo dall’agnello. Il cavalier Serra “dal passato glorioso e dall’onorata canizie”, attese invano il processo per vedere ristabilita la sua dignità. Chiuse gli occhi nella Rotonda di Nuoro e “poche guardie ne trasportarono la salma al cimitero sine luce et cruce”. C’erano amici e ammiratori del vecchio sindaco che volevano “accompagnare con la fanfara quegli avanzi dell’odio e dell’umana ingiustizia”. Solo che “i

discepoli di Cassis fecero tacere anche le trombe funebri, perché sonavano lode alla vittima e disprezzo eterno disprezzo, ai suoi carnefici”. Erano davvero tempi di ingiustizia. Pochi banditi tenevano in scacco intere popolazioni. Affiggevano bandi di proscrizione, impedivano ai bambini di andare a scuola, ricattavano, sequestravano, uccidevano. Compito difficile per la Giustizia esercitare ed amministrare la giustizia. “Si scambia per favoreggiatore il povero proprietario, il quale per non vedersi sgozzato il gregge ed incendiato il campo, non si affretta a prendere il treno, venire a Sassari, dire al prefetto in quale punto desidera gli venga consegnato il tale latitante”. Nel mirino della polemica ci sono soprattutto certi favoreggiatori “allevati dalle autorità”. Ci si chiede come mai il tale e il tal altro, che tutti sanno essere davvero gente pericolosa e sanguinaria, siano invece lasciati liberi di percorrere la campagna e spadroneggiare nel centro abitato. Scrive “La Nuova” di come sia arduo vivere “nelle infinite lande, che fecero fremere di sdegno i senatori, i deputati, i pubblicisti, i quali non è un mese che attraversarono la Sardegna”. Viaggiatori interessati e insieme distratti, come lo furono i componenti la commissione parlamentare d’inchiesta, guidata nel 1894, sei anni prima, dal deputato Francesco Pais Serra. L’inchiesta riguardava le “condizioni economiche” e la “sicurezza pubblica in Sardegna”. Si crearono pure dei miti. Sempre nel 1894, nella campagna dell’immediata periferia di Sassari, Gastone Chiesi e Bustianu Satta intervistarono i banditi Angius, Delogu e Cicciu Derosas, rinomati per la loro ferocia. Qualche anno dopo le autorità ricorrono al bandito Corbeddu di Oliena, il re della macchia, per la liberazione di due ostaggi francesi, sequestrati da un altro gruppo di latitanti. Corbeddu niente pretenderà in cambio, ché ha dato la sua parola d’onore. Verrà ucciso in un conflitto a fuoco dal carabiniere Aventino Moretti, uno dei caduti al Morgogliai. Difficile essere giusti in quella temperie. Scriveva “La Nuova” che “pretendono di dare rimedi quelli che non conoscono i mali”. Il processone qualcosa riaggiusta. Se non altro si riesce a dimostrare l’illegalità di molti arresti. Il fare di Giovanni Nepomucemo Cassis, ancora

lui, è definito “come una vera reclame ad uso Barnum”. Un circo. “Era meglio confessare”, così Rifeo in una corrispondenza da Bitti, “che gli arresti fatti in massa erano un vero arbitrio, un manifesto strappo alla legge”. Quasi settant’anni dopo, al tempo del banditismo caldo, la storia sembra ripetersi in forma di farsa. Ci fu un giornalista milanese, Augusto Guerriero alias Ricciardetto, che invocava napalm sul Supramonte.

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