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Antropologi, tra scienza e cultura.

Stefania Siddi, La Nuova Sardegna, 27 settembre 2007.

CAGLIARI. Se capiremo l’evoluzione genetica saremo in grado di prevedere anche quella culturale. A sostenerlo era Charles Darwin, il padre della teoria evolutiva. Da allora i progressi scientifici sono stati notevoli e a fare da trait-d’union fra scienza e cultura, due mondi apparentemente diversi, ci ha pensato l’antropologia. La cultura tuttavia è frutto di molte interazioni fra popoli e la Sardegna, da sempre un bacino di scambi e interazioni fra popoli del Mediterraneo, può essere un laboratorio di ricerca interessante, ma anche un luogo per discutere e confrontarsi sulle relazioni fra biologia e cultura. Per questo i maggiori studiosi di antropologia italiani, ma anche di altri paesi, si sono dati appuntamento a Cagliari per il XVII Congresso Nazionale dell’Associazione Antropologica Italiana dal titolo «Mediterraneo - Crocevia di popoli e culture - Processi microevolutivi delle popolazioni umane» in programma alla Cittadella dei musei dal 26 al 29 settembre. Alla cerimonia inaugurale, tenutasi ieri al palazzo vice regio, hanno partecipato il Rettore Pasquale Mistretta e l’assessore provinciale alla cultura Luciano Marroccu. L’antropologia è una scienza di cui si parla raramente e di cui si sa poco. Forse perché si studia

solo nei ristretti ambiti accademici, o forse perché si ritiene che si occupi solo di popoli e culture arcaiche. O forse perché nasce da una matrice evoluzionista che per molto tempo è stata usata per teorizzare l’inferiorità di alcuni popoli, così come le differenze fra Nord e Sud Italia. Fra coloro che hanno cercato di dare un contributo al suo sviluppo si annoverano studiosi come Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo, che nel secolo scorso teorizzarono una correlazione fra tratti somatici e criminalità. Il secondo - come ha ricordato l’assessore Marroccu - si recò personalmente anche in Sardegna per uno studio che si concluse con la pubblicazione del libro «Le vie del male», in cui Niceforo sosteneva che l’isola fosse una “zona delinquente” e che nei Sardi scorresse un sangue irrimediabilmente infetto dal virus della violenza. Oggi l’antropologia biologica e molecolare, è una branca che studia la preistoria e la storia delle popolazioni attuali con gli strumenti della biologia. Durante il congresso verrà presentato uno studio sul Dna dei nuragici. Ma c’è anche chi ha studiato gli aspetti biologici e le migrazioni, trovando perfino un rapporto fra geni e lingue. Luigi Cavalli Sforza ha scoperto ad esempio che l’evoluzione biologica è strettamente intrecciata con la produzione culturale. Secondo Mistretta, in un periodo di globalizzazione tecnologica e scientifica è importante soffermarsi alla voce cultura per migliorare le relazioni tra i popoli.

«I geni criminali dei sardi».

Manlio Brigaglia, la Nuova Sardegna, 6 marzo 2009, pag. 36.

Verso il 1896 capitano a Nuoro due giovani intellettuali romani (nel senso che venivano da Roma: ma uno era siciliano e l’altro si considerava sardo). Il più giovane dei due, Alfredo Niceforo, ha vent’anni. Era un enfant prodige, allievo di Enrico Ferri, prestigioso leader della scuola di criminologia positiva di Roma. L’altro era Paolo Orano. Volevano studiare la criminalità isolana (Niceforo) e la complessa psicologia sarda (Orano). La Deledda, assetata di sprovincializzazione, li accolse con grande entusiasmo e l’anno dopo, pubblicando il romanzo «La via del male», glielo dedicò. Subito dopo Niceforo scrisse il suo libro, «La delinquenza in Sardegna», che avrebbe fatto scoppiare un’asperrima polemica, perché teorizzava l’inferiorità dei meridionali (isole comprese) e Orano la sua «Psicologia della Sardegna», anch’esso abbastanza “inconsapevolmente” razzista. Erano gli anni in cui il positivismo si era messo in testa di ridurre a scienza, e comunque di misurare con gli strumenti della ricerca scientifica, tutta la realtà, in particolare quella «deviante». Capofila di questa scuola era, in Italia, Cesare Lombroso: per il quale, per esempio, i delinquenti (e anche le prostitute, del resto) portavano nel viso gli indizi della loro degenerazione. «Una centuria di delinquenti sardi», il quinto volume della collana «Banditi & Carabinieri è un esempio clamoroso di questa «scuola» (sulla cui credibilità si è fatta da tempo giustizia). Siamo nel 1900. Si è chiusa da poco la grande campagna di repressione contro i banditi del Nuorese, che ha avuto la sua notte trionfale quando, nella notte fra il 14 e 15 maggio, sono stati arrestati quasi mille fra latitanti e parenti dei latitanti e presunti favoreggiatori, e nei giorni successivi quando i latitanti, spaventati dagli esiti micidiali della «battaglia di Morgogliai», si sono costituiti a decine. Per un lombrosiano come il direttore del manicomio di Cagliari, il professor Giuseppe Sanna Salaris, è un’occasione straordinaria. Sceglie cento fra gli arrestati più famosi, e

comincia a misurargli il cranio, a indagare sul loro carattere, a farsi raccontare la loro storia, a tracciare il loro profilo psicologico. (Quando le misure del cranio non corrispondono a quelle che sono scritte nei manuali di criminologia, Sanna Salaris ha la scusa pronta: «Questo è, sì, un omicidiario - come dice lui -, ma lo ha fatto sulla spinta dell’ira, non ce l’aveva nel sangue»: nel senso che cattivo sangue non mente). Il libro è abbastanza gremito, nella prima parte, delle scrupolose misurazioni che servono a definire anche numericamente i caratteri del bandito sardo: questi che visita sono tra i 21 e i 30 anni - ma c’è anche un ragazzo di sedici anni, tre volte omicida dietro pagamento -, sono alti fra 1,56 e 1,65 - ma ce n’è anche uno di 1 metro e 84 -, sono (naturalmente) per il 60 per cento pastori. Poi sfilano i 25 casi più interessanti, legati a nomi di banditi allora tristemente famosi, dagli orunesi Dionigi Mariani e Giovanni Moni Goddi, tra loro acerrimi avversari come killer di una sanguinosa faida paesana, a Giuseppe Budroni, «celebre per malvagità e crudeltà», Giovanni Maria Astara («Rotea gli occhi all’ingiro e con essi spesso la testa, quasi vada in cerca, nella cella, di una via che gli permetta di rintanarsi nel bosco»), Francesco Campasi («è credente in Dio e nei preti; in compenso è un vero satiro e durante la sua latitanza ha deflorato in aperta campagna parecchie lavandaie, mentre i compagni gli guardavano le spalle»). Per il lettore di oggi il libro riserva diverse sorprese: la prima è la straordinaria sequenza di ventotto foto di ex latitanti, eseguite con una precisione di dettagli poco meno che invidiabile. La seconda è la piccola ma saporita antologia di poesie composte da banditi e da latitanti (Sanna Salaris le chiama «Canzoni criminali sarde»), tra cui «Nugoro bella zittade abitada» si segnala per la malinconia che la pervade, ma quella che Giuseppe Salis di Burgos dedica alle «bagianas» del suo paese è sicuramente un piccolo capolavoro, sul modello dei sirventesi medioevali. Terzo, la riproduzione di «bandi e proclami» con i quali i latitanti minacciavano sfracelli o vendette personali nei paesi di cui erano «padroni». Quarto, i testi dei «brebus», le preghiere apotropaiche, scritte

in genere da preti di paese, che dovevano servire a salvare il bandito dalle palle dei carabinieri. Insomma, un autentico classico della «questione criminale» sarda, che si legge anche oggi con straordinario interesse (e qualche orrore civile per quei tempi di barbarie rusticana).

La resistenza dei sardi e la repressione nel sangue.

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