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Rappresentare la complessità delle politiche pubbliche con la simulazione ad agenti. Un’introduzione teorica e metodologica e un’applicazione alla mobilità sistematica.

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Alessandro Sciullo

RAPPRESENTARE LA COMPLESSITÀ

DELLE POLITICHE PUBBLICHE CON LA

SIMULAZIONE AD AGENTI

UN’INTRODUZIONE TEORICA E METODOLOGICA E

UN’APPLICAZIONE ALLA MOBILITÀ SISTEMATICA

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© 2020 Ledizioni LediPublishing Via Alamanni, 11 – 20141 Milano – Italy www.ledizioni.it

info@ledizioni.it

Alessandro Sciullo, Rappresentare la complessità delle politiche pubbliche con la simulazione ad agenti Prima edizione: novembre 2020

ISBN cartaceo: 9788855263665

Copertina e progetto grafico: ufficio grafico Ledizioni

Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero dipagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizza-zione rilasciata da Ledizioni.

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INDICE

1. Conoscere per (in qualche modo) decidere 7

2. Lo studio delle politiche pubbliche all’incrocio di diverse tradizioni di ricerca 15 2.1 Considerazioni preliminari: per un approccio multiprospettico

ai processi di policy 15

2.2 Alcune definizioni: policy, organizzazioni e sistemi complessi 18

2.2.1 Politica Pubblica (policy) 18

2.2.2 La dimensione organizzativa 20

2.2.3 Complessità e sistemi complessi 21

2.3 Le politiche pubbliche come azione organizzativa: la policy analysis 24 2.3.1 L’infanzia sistemica della policy analysis 25 2.3.2 I fondamenti della disciplina: il ciclo di policy 27

2.3.3 I modelli decisionali 33

2.4 Una teoria sistemica delle politiche pubbliche 36 2.4.1 Utilità e prospettive di una nuova Teoria dei Sistemi 36

2.4.2 Politiche pubbliche e teoria dei sistemi 39

2.4.3 Un altro paradigma: i Sistemi Adattativi Complessi (CAS) 41 2.4.4 L’approccio mainstream nella letteratura su policy complexity 44 2.5 In nome della complessità: per un dialogo interdisciplinare a supporto

delle policy 48

2.5.1 Complementarietà nello studio dei processi di policy 48 2.5.2 I requisiti di un efficace mediatore cognitivo 54 3. Rappresentare la complessità dei fenomeni sociali: i modelli di simulazione

basati su agenti (ABM) 59

3.1 La simulazione basata su agenti come approccio di ricerca 59

3.1.1 Realtà e modelli 59

3.1.2 ABM e ricerca sociale 62

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3.2 La modellizzazione ad agenti nella tradizione di ricerca sociologica 74 3.2.1 Tra qualità e quantità, oltre i mixed methods 75 3.2.2 Tra micro e macro: ABM, sociologia analitica e complessità 78 3.2.3 Gli ABM come strumenti di dialogo interdisciplinare 82 3.2.4 Un po’ di storia: applicazioni ABM nella ricerca sociale 84 4. Costruire ABM per accompagnare i processi di policy: potenzialità,

prospettive e strumenti. 87

4.1 ABM e processi di policy tra descrizione, spiegazione e partecipazione 87 4.2 ABM e alternative di policy: una proposta di integrazione con

la Qualitative Comparative Analysis (QCA) 95

4.2.1 La Qualitative Comparative Analysis: fondamenti e applicazione

all’analisi di politiche pubbliche 96

4.2.2 QCA e ABM, punti di contatto e prospettive di integrazione 98

4.3 Strumenti per la modellizzazione 101

4.3.1 Descrivere il modello: il protocollo ODD 101

4.3.2 Sviluppare il modello: piattaforme software 108 5. Un caso applicativo: un modello ABM della mobilità sistematica 113 5.1 Quadro concettuale di riferimento e obiettivi 113 5.2 Una descrizione informale: la narrativa del modello 116 5.2.1 I sottosistemi del modello: mercati e sistema della mobilità 118 5.2.2 La geografia del modello: le aree origine-destinazione dei flussi 122 5.2.3 Gli agenti individuali: imprese e lavoratori 122 5.3 Una descrizione formale: il protocollo ODD (e l’implementazione in

NetLogo) 124

5.3.1 Overview 125

5.3.2 Design concepts 132

5.3.3 Details 140

5.4 Il modello della mobilità sistematica come mediatore cognitivo

e alcune prospettive di integrazione 141

Note conclusive 147

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Questo volumetto è il frutto, se non originale e arguto spero almeno utile, del mio dilettantismo. Una condizione che mi ha permesso di muovermi, con la stessa indefinitezza dell'ornitorinco, tra specie di ricercatori e professionisti mol-to meglio accomodate in nicchie disciplinari dai conmol-torni, obiettivi e memol-todi di indagine sicuramente molto meglio definiti.

Una condizione deteriore agli occhi dei più, e ragionevolmente, ma che lascia un certo margine di libertà nel cogliere possibili tratti e antenati comuni a tradizio-ni di ricerca che insistono su domitradizio-ni spesso così contigui che sorprende come possano convivere (a volte anche materialmente negli stessi open space) nell'in-differenza reciproca.

Ho quindi pensato, da dilettante, di poter giocare da cerimoniere presentando gli uni agli altri, i colleghi e gli amici con cui ho condiviso e condivido alcuni pezzi del mio percorso.

Il taglio giusto per introdurre non poteva che essere, come da sottotitolo, intro-duttivo. E quindi di una serie di introduzioni si tratta. Un'introduzione alla pol-icy analysis per gli amici modellisti e (più o meno complessamente) 'cibernetici', un'introduzione alla complessità e ai metodi computazionali per gli amici ( più o meno quantitativi) analisti e valutatori di policy. Con la speranza, se non con l’ambizione, che gli uni e gli altri possano essere incuriositi e chissà stimolati nel provare ad aprire qualche forma di dialogo interdisciplinare, sempre tanto invo-cato quanto, e spesso a ragione, poco pratiinvo-cato.

E con la speranza che gli uni e gli altri, alla cui clemenza voglio fare appello, dopo essersi per caso imbattuti in questo libro continuino comunque a salutarmi dopo averlo scorso, se non con rispetto almeno con affetto.

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Capitolo 1

Conoscere per (in qualche modo) decidere

“Perché è così lungo l’elenco dei problemi urgenti e così corto quello degli scritti nei quali sia chiaramente chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere? [...] Giova deliberare senza conoscere? Al delibe-rare deve invero seguire l’azione. Si delibera se si sa di poter attuare, non ci si decide per ostentazione velleitaria infeconda. Ma alla deliberazione immatura nulla segue […] se manca il fondamento primo: conoscere” (Einaudi 1956).

Nell’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale, la distruzione materiale si era ac-compagnata a una rilevante distruzione di conoscenze. Non meno grave quest’ul-tima dal momento che concorreva a pregiudicare seriamente la possibilità di ope-rare scelte utili ad affrontare la prima. Convinto di questa strategicità del ‘sapere’ Einaudi, allora direttore della Banca d’Italia, si impegnò e impegnò l’istituto nel tentativo di predisporre gli strumenti e i dati per la (ri)costruzione della cono-scenza necessaria a orientare l’azione governativa1.

Conoscenza utile, allora come oggi, significa adeguata agli obiettivi di chi, sulla base di quella conoscenza, deve decidere. È questa funzione del conoscere vale, in varia misura, che la decisione avvenga a livello di coscienza individuale, di gruppo o di organizzazione più ampia. Vi sono molteplici leve che spingono individui e organizzazioni alla scelta di un corso d’azione e la considerazione ra-gionata delle informazioni a disposizione non è né la più determinante né la più diffusa. Ciò non toglie che, seppure esiti di successo possano darsi a seguito di scelte operate d’istinto (o in risposta a stimoli anche meno onesti), una decisione correttamente informata rimane la massima garanzia se non di successo almeno di contenimento dei danni che da una decisione errata possono derivare. In altre parole si può essere più o meno perspicaci e razionali nell’individuare le strategie migliori per gestire una situazione in modo da perseguire il proprio obiettivo, ma senza una conoscenza sufficientemente completa e accurata della situazione in essere (e possibilmente in divenire) cade la precondizione di qualsiasi possibilità 1 A conferma della rilevanza dell’iniziativa di Einaudi, i benefici di questo notevole sforzo informativo ricaddero sull’Italia sia per effetto diretto sulle politiche nazionali di ricostruzione e redistribuzione delle risorse, sia poiché fornirono supporto anche a un altro governo, quello ame-ricano impegnato nella definizione delle linee di intervento del piano Marshall (Visco 2009).

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di scelta razionale, quale che sia la forma di razionalità cui con questo termine ci si voglia riferire.

Da questo genere di considerazioni si è partiti nello sviluppo del presente lavo-ro di applavo-rofondimento. Nelle intenzioni, quindi, un esercizio volto a riflettere sull’importanza di poter disporre di efficaci strumenti di costruzione della cono-scenza necessaria all’orientamento della scelta e delle azioni conseguenti. E, più nel dettaglio operativo, un tentativo di qualificare questi strumenti, ovvero indivi-duare quelle teorie e quei metodi che consentono l’efficace raccolta, elaborazione e interpretazione di dati e informazioni.

Si è poi deciso di focalizzarsi sulle politiche pubbliche come ambito di applicazio-ne di questo approfondimento o se si preferisce, palestra di questo esercizio, in parte per personale consuetudine e una certa pregressa conoscenza della materia, in parte perché l’intricata situazione contemporanea su scala locale e globale ri-chiede urgentemente azioni e interventi che siano guidate da un’efficace, corretta ed esaustiva interpretazione del reale. Con questo, senza ovviamente pretendere di offrire altro se non spunti di riflessione e qualche piccola dimostrazione delle attuali possibilità.

La conoscenza per le politiche pubbliche, quindi, l’oggetto del lavoro. Declinato in questo specifico dominio d’azione, il disporre di strumenti efficaci di cono-scenza significa per il decisore (soggetto individuale o collettivo) poter contare su un dispositivo concettuale e metodologico che consenta di rispondere a due esigenze cognitive:

- esterna, ovvero di avere conoscenza del contesto in cui si deve intervenire per valutare gli effetti dell’azione;

- interna, ovvero di avere consapevolezza del processo (decisionale e imple-mentativo) attraverso cui l’azione si definisce e sviluppa.

L’attenzione dei policy analysts, ovvero degli studiosi della politica governante, ri-spetto ai processi, ai successi e agli insuccessi dell’azione pubblica si è focalizzata negli anni nel cercare di dare risposta a queste due esigenze che scontano però un certo grado di reciproca esclusività. Ovvero, una buona conoscenza del proces-so non si accompagna spesproces-so con una altrettanto valida ponderazione delle sue conseguenze e, sull’altro versante, la considerazione degli effetti complessivi di un intervento può perdere di vista i passaggi fondamentali che ne caratterizzano nascita e sviluppo e che su quegli effetti possono incidere in maniera rilevante. È nostra convinzione che questo trade-off cognitivo (determinato dalla scelta di guardare al processo decisionale o al suo risultato, Martini e Sisti 2014) può risul-tare in un relativo depotenziamento del portato informativo delle pur importanti conclusioni cui si giunge su entrambe le dimensioni di indagine.

Per sgombrare il campo da dubbi sugli eventuali giudizi di merito contenuti nelle precedenti affermazioni, non si vuole qui sostenere che questa situazione sia da considerarsi in qualche modo patologica, ovvero che i risultati e le conquiste della

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ricerca nel campo dello studio dei processi di policy e della valutazione dei loro effetti siano da ritenersi privi di validità o menomati nella loro utilità. Tutt’altro. Questa tendenza alla specializzazione è il risultato dell’elevato grado di compe-tenza e maturità teorica e metodologica raggiunto dalla ricerca nei diversi campi di studio del fenomeno. E gli studiosi di policy possono legittimamente (devono) scegliere in maniera trasparente ambito di interesse (il processo o gli effetti) e metodi di indagine coerenti (approcci qualitativi o quantitativi rispettivamente) come precondizione essenziale per produrre risultati scientificamente validi, ov-vero condivisibili, trasferibili e confutabili (o quanto meno discutibili).

Quanto però qui si sostiene, e nel seguito si cercherà di argomentare, è che in anni relativamente recenti (diciamo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso) si vanno affacciando nel panorama concettuale e metodologico delle scienze sociali alcune rivisitazioni, innovazioni e applicazioni che possono, a nostro modo di vedere, aiutare nel gettare alcuni ponti tra i diversi orientamenti ovvero a predi-sporre una risposta in qualche modo congiunta ad entrambe le esigenze cognitive che abbiamo poco sopra individuato.

Si vuol fare qui riferimento innanzi tutto all’estensione dell’applicazione del pa-radigma della complessità che ha abbandonato l’alveo originario delle scienze fisiche e naturali per trovare fecondo adattamento nelle scienze psicologiche, economiche e sociali. Tra queste, è di particolare rilevanza per noi l’impiego del paradigma nell’ambito dello studio degli effetti dell’intervento pubblico, in un filone di letteratura che si può a ragione ormai identificare con l’etichetta policy and complexity. È bene precisare che le relazioni tra policy analysts e gli studiosi complexity oriented interessati alle politiche pubbliche e i reciproci contributi sono rare, per non dire pressoché inesistenti. Ma il paradigma della complessità può essere un utile strumento di lettura dei processi di policy lungo tutto il loro svilupparsi, dall’individuazione dei problemi all’implementazione delle possibili soluzioni. In secondo luogo ha grandi potenzialità, ancora in parte inespresse, la diffusione di nuovi metodi e strumenti di ricerca resi universalmente accessibili dal concorso di due fattori: l’incremento della potenza computazionale di sistemi informatici di ordinaria dotazione (home pc) e la contemporanea, non a caso, crescita delle comunità di scientists che sviluppano e utilizzano software a codice aperto2 per i quali, come spesso accade nel solidale mondo dell’Open Source (Berra e Meo 2001), la barriera all’accesso è unicamente riferita alle competenze necessarie per il loro impiego. Questi metodi e strumenti mettono a disposizio-ne del ricercatore idisposizio-nedite possibilità di rappresentaziodisposizio-ne e comprensiodisposizio-ne di un ampio ventaglio di fenomeni sociali eterogenei per numerosità dei partecipanti e 2 L’elenco dei software OS di supporto alla ricerca scientifica sarebbe molto lungo. Per citarne alcuni tra i principali non si possono non ricordare: R come pacchetto statistico; Qgis per elaborazioni georeferenziate; Pajeck e Gephi per l’analisi di rete e tutti gli strumenti più diffusi per la modellizzazione ad agenti.

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complessità delle interazioni.

La tesi che si vuole qui sostenere è che il concorso di queste componenti con-cettuali e operative metta a disposizione, oggi più di un tempo, alcune possibilità per intensificare i rapporti, gli scambi e le condivisioni dei risultati tra i ricercatori che si occupano, da diverse prospettive, di politiche pubbliche. E in particolare che l’adozione di uno sguardo informato alla complessità, o ad alcuni aspetti di questo poliedrico concetto, possa rappresentare un avanzamento determinante in questa direzione rappresentando un potenziale di rinnovamento per la policy

analysis sia in termini meramente operativi nel dotarsi di strumenti di indagine più efficaci, sia per riconsiderare l’oggetto stesso al centro della sua attenzione, il processo di policy per l’appunto. Tutto ciò, con l’obiettivo ultimo di trovare una risposta a quell’esigenza di conoscenza utile a direzionare le scelte delle ammini-strazioni ovvero una conoscenza che sia frutto non di sole informazioni raccolte “...con fervore di zelo...” ma di informazioni collocate all’interno di un quadro di significato che costituisca “...un filo conduttore. Non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare” (Einaudi, cit.).

L’argomentazione si sviluppa in quattro parti cui corrispondono altrettanti ca-pitoli.

Il punto di avvio, capitolo 2, è la constatazione della distanza che separa due tradizioni di ricerca che si occupano di processi di policy: la policy analysis e l’ap-proccio di complessità. Dopo una preliminare definizione ‘minima’ dei termini attorno ai quali si sviluppa il ragionamento (policy, organizzazione e complessità) la descrizione delle due tradizioni consente di individuarne i caratteri distintivi e i punti di forza e di debolezza rispetto alla capacità di lettura e comprensione dei processi di policy. L’obiettivo del capitolo è trovare punti di attacco per la costruzione di un terreno comune di confronto che possa andare nella direzione di intensificare un dialogo oggi poco proficuo. La policy analysis, come si è avuto modo di introdurre, vanta ormai qualche decennio di produzione cumulativa di conoscenza nell’elaborazione concettuale e metodologica volta allo studio delle diverse fasi del processo di policy. Incontra però dei limiti, in particolare sul versante della valutazione degli effetti, nella mancanza di una visione d’insieme (olistica) che radichi le politiche pubbliche all’interno delle dinamiche evolutive del più ampio sistema sociale in cui si sviluppano, riconducendo la comprensio-ne degli effetti alla comprensiocomprensio-ne dei meccanismi ad essi sottostanti e non solo ad ipotesi sulla loro correlazione con altri fenomeni sociali di cui in qualche si approssima la misurazione. La considerazione delle conseguenze di un’azione pubblica è così sempre a rischio di non presidiare le molte direzioni in cui i suoi effetti possono manifestarsi, oltre lo specifico ambito di intervento.

L’approccio di complessità in questo campo è invece, come si è detto, tradizione di origine più recente. In questo caso, il framework concettuale è intimamente

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vocato ad una visione olistica del fenomeno di policy e questa tradizione può a ragione essere identificata come una attualizzazione o rivitalizzazione della Te-oria dei Sistemi che in campo sociologico si può far risalire ai grandi teorici (nel senso di rappresentanti di ‘grandi teorie’ onnicomprensive ma non per questo altrettanto valide) di metà XX secolo. Gli studiosi complexity-oriented lavora-no nella predisposizione di lenti interpretative che sialavora-no in grado di cogliere i meccanismi di generazione degli effetti dell’intervento pubblico con interessanti risultati in termini di disvelamento delle dinamiche che li producono. Peccano però sul versante più strettamente politologico, ovvero non prestano attenzione ai meccanismi di formulazione, decisione e implementazione attraverso i quali l’azione pubblica prende corpo. È evidente la distanza tra le due tradizioni quan-to, a nostro giudizio, la possibilità e l’esigenza di riuscire a farla evolvere in com-plementarità. Il problema si pone sia sul piano teorico che metodologico, anzi forse sul secondo si individuano le fratture più nette, con il ricorso a metodologie ‘tradizionali’ nell’ambito della policy analysis, e la messa a punto di potenti

stru-menti computazionali sul versante della complessità. La soluzione si può trovare nella ricerca di un linguaggio comune, che in quanto linguaggio potrà mettere i ricercatori afferenti alle due tradizioni in condizioni di comunicare attraverso parole e sintassi (i metodi di indagine) cui si attribuiscono coerenti significati (ovvero in un comune quadro di riferimento concettuale). L’esigenza è quindi quella di individuare un ‘mediatore cognitivo’ cioè una realizzazione di questo linguaggio che possa fare da interfaccia tra le diverse scuole. Nostra convinzione è che la simulazione basata su modelli ad agenti (ABM – Agent Based Models), e a monte il paradigma della complessità di cui sono strumento privilegiato di applicazione, soddisfino questi requisiti.

È bene precisare che non vuole essere questa una proposta di sostituzione dei tra-dizionali paradigmi concettuali e metodi di ricerca con una proposta radicalmen-te nuova. Limita questa preradicalmen-tesa innanzi tutto la considerazione del fatto che non possono esistere strumenti universalmente validi ma solo funzionali agli obiettivi che si prepongono e questi obiettivi, nel caso dello studio delle policy, sono molti ed eterogenei: la comprensione di un processo (decisionale o implementativo), la valutazione degli effetti di interventi in atto o conclusi (valutazione di impatto o ex-post propriamente detta) e la previsione degli effetti di interventi allo studio (valutazione ex-ante o analisi scenariale). Le consolidate metodologie qualitative e quantitative hanno avuto, hanno e continueranno ad avere immutata importan-za nel produrre risultati utili per la riflessione dei decisori e l’arricchimento della comunità scientifica riguardo allo studio dei processi e alla valutazione di impatto. Quanto si intende fare con il combinato concettuale –metodologico contenuto negli ABM è invece aggiungere a quanto già esiste uno strumento la cui flessibi-lità può sortire due benefici effetti nell’ambito dello studio delle politiche pub-bliche: consente di rafforzare e validare i risultati delle più consolidate tradizioni

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metodologiche in questo mostrandosi particolarmente adatto alla logica dell’ana-lisi scenariale; consente di integrare paradigmi concettuali e metodologie in modo da costruire un ponte per la comunicazione interdisciplinare.

Il capitolo 3 quindi si concentra sulla descrizione degli ABM nell’ottica di far risaltare, dal punto di vista teorico, epistemologico e tecnico, le caratteristiche che fanno di questa metodologia il giusto candidato alla costruzione di una co-noscenza utile alla decisione attraverso la convergenza e il dialogo delle diverse tradizioni che abbiamo sopra brevemente richiamato. Il capitolo si apre con una riflessione generale sull’importanza dell’approccio modellistico allo studio di fe-nomeni complessi e della loro evoluzione nel tempo, siano essi naturali o sociali. Tra i modelli l’attenzione è rivolta in particolare alle simulazioni ovvero ai tenta-tivi di ricreare in laboratorio (virtuale nel nostro caso) i fenomeni di interesse per studiarne in maniera controllata il comportamento. Tra le molte e consolidate tecniche di simulazione, infine, ampio spazio è dedicato alla descrizione degli ABM, il cui primato epistemologico, nell’economia del nostro discorso, consiste essenzialmente in due caratteristiche distintive: la possibilità di rappresentare i comportamenti individuali e le interazioni tra individui, con tutte le importan-ti ricadute in termini di rappresentazione delle teorie sociologiche che questo comporta; la possibilità di rappresentare il sistema sociale a diversi livelli (micro, macro e infiniti meso) e le interazioni tra questi livelli individuando così i mecca-nismi che producono risultati a livello dell’aggregato a partire dalle dinamiche a livello micro (i cosiddetti fenomeni emergenti). Queste caratteristiche degli ABM ne fanno anche un utile strumento di studio dei fenomeni sociali dalla prospettiva della sociologia analitica. Alle ipotesi di lavoro di questa relativamente recente corrente della sociologia contemporanea verrà dedicato lo spazio necessario a chiarire concetti utili allo studio dei fenomeni di policy.

Il capitolo 4 riprende il filo principale del discorso e presenta lo stato dell’arte dell’odierna riflessione e delle applicazioni dei modelli ABM allo studio dei pro-cessi di policy, campo al momento ristretto appannaggio dei ricercatori che si rifanno all’approccio di complexity ma che, nell’ipotesi di questo lavoro, si deve aprire agli apporti e deve condividere i propri risultati con la comunità dei policy

analysts. In questo senso si presenteranno le principali tipologie di modelli appli-cati allo studio di policy, tra queste la modellizzazione partecipativa è quella che mostra le più interessanti potenzialità rispetto all’individuazione del mediatore cognitivo con la definizione del quale si è chiuso il capitolo 2.

Questa tipologia di ABM pretende, con un’impostazione spiccatamente costrut-tivista, che il modello teorico del sistema che rappresenta il contesto di azione cui si rivolge l’intervento pubblico, prenda forma e si definisca nei suoi attributi e nei suoi comportamenti attraverso la partecipazione dei cosiddetti stakeholders. In altre parole, tutti i componenti del sistema interessato dall’azione (ricercatori, de-stinatari, decisori, rappresentanti di gruppi di interesse...) devono essere attivati e

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coinvolti attraverso l’impiego degli strumenti tradizionali della ricerca qualitativa, interviste e focus-group, con l’obiettivo di costruire una narrativa condivisa del contesto e del problema che permetta di individuare e testare le possibili alterna-tive soluzioni.

L’applicazione degli ABM allo studio delle policy trova il suo impiego più pro-ficuo nell’analisi degli effetti delle alternative di policy, la cosiddetta analisi per

scenario. Se dal punto di vista tecnico gli ABM evidenziano piena efficienza nello svolgimento del compito, il problema a monte rimane quello di definizione di scenari plausibili. Al di là delle consolidate tecniche qualitative di future analysis, nel capitolo si propone una strada, interamente da percorrere e probabilmente accidentata, per formalizzare un’attività di ricerca finalizzata alla definizione degli scenari attraverso il dialogo degli ABM come altre metodologie computazionali (Serious Game e Teorie dei Giochi) e in particolare dalla innovativa metodologia quali-quantitativa della Qualitative Comparative Analysis.

Dopo questo inquadramento generale del metodo ABM verrà dedicata attenzio-ne ad alcuni aspetti tecnici attenzio-nell’ottica di definire il livello di formalizzazioattenzio-ne del metodo che, al momento, permane ancora come uno dei suoi punti deboli. La poca standardizzazione, infatti, è il primo degli ostacoli che si frappongono per il riconoscimento della validità delle conclusioni cui si giunge attraverso la simu-lazione basata su agenti. Il secondo, in parte collegato al primo, è l’altezza della soglia di entrata ovvero dei requisiti e delle competenze necessarie per potersi dedicare all’attività di modellizzazione, competenze (di computer science ma non solo) che non compaiono in molti curriculum formativi, e senz’altro non in quelli dei percorsi sociologici e politologici. In ogni caso, si stanno facendo rapidamen-te passi avanti sulla strada della formalizzazione e verranno quindi presentati gli strumenti oggi più utilizzati nella comunità dei modellisti per la descrizione e lo sviluppo delle simulazioni.

Nel capitolo 5 verrà quindi presentato e descritto nel dettaglio della logica e dei componenti fondamentali un modello dedicato allo studio della mobilità sistema-tica considerata tanto come risultato ed ingrediente delle più ampie dinamiche di funzionamento del sistema economico quanto come componente determinante di queste dinamiche. La descrizione consentirà di evidenziare i molti elemen-ti che permettono di ipoelemen-tizzare che ci si sta muovendo nella direzione giusta: la molteplicità delle prospettive nella considerazione del problema mobilità (da parte dei lavoratori, delle imprese e della PA); l’interdisciplinarietà dell’approccio (frutto dell’incontro di discipline economiche e sociologiche); la modellizzazione dei comportamenti degli agenti micro (forniti di una razionalità limitata nelle informazioni e nelle capacità di elaborazione); la riproduzione delle dinamiche micro-macro e la generazione degli effetti a livello di sistema come fenomeno risultante dall’interazione degli agenti individuali. Quest’ultima caratteristica con-ferisce la maggiore utilità in ottica di policy analysis e policy design in quanto

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gli interventi possono essere ipotizzati a tutti i livelli (micro, macro e meso) e in diversi ambiti (politiche del lavoro, incentivazione alle imprese, mobilità...) e si avrà comunque modo di osservarne gli effetti emergenti dalle dinamiche che modellizzano il comportamento del sistema.

Infine, si richiameranno in conclusione i principali elementi che permettono di argomentare il potenziale della modellizazione ad agenti a supporto dei processi decisionali delle organizzazioni pubbliche e private. In un mondo che moltipli-ca modalità, intensità e rapidità di evoluzione dei processi socio-economici e delle loro interazioni, queste organizzazioni si trovano nella necessità sempre più pressante di porsi e risolvere il problema “…dell’assorbimento intelligente di complessità…anche grazie all’adozione sistematica di saperi tecnico-scientifi-ci e metodi di valutazione…” che rappresentino un supporto allo spostamento del baricentro della funzione pubblica verso politiche integrate, partecipative, dai contenuti complessi, implicitamente interazionali (Donolo 2006).

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Capitolo 2

Lo studio delle politiche pubbliche

all’incrocio di diverse tradizioni di ricerca

2.1 Considerazioni preliminari: per un approccio

multipro-spettico ai processi di policy

Poter disporre di adeguati strumenti di acquisizione, elaborazione e restituzione delle informazioni significa poter contare su una precondizione essenziale al sup-porto della capacità di scelta, a livello individuale così come di organizzazione. Quando si guardi alle pubbliche amministrazioni (PA nel seguito) questo significa predisporre una conoscenza utile per la scelta tra diversi possibili corsi d’azione ovvero per la capacità di decidere interventi efficaci finalizzati a indirizzare l’evo-luzione dei fenomeni sociali verso esiti desiderati.

In questo senso, l’adeguatezza di tali strumenti cognitivi si misura rispetto alla loro capacità di soddisfare i bisogni di informazione del decisore da una doppia prospettiva. Da una parte l’azione della PA si può considerare come motore del cambiamento del sistema sociale (meglio, dei sottosistemi che lo compongono) in cui si dispiega, e l’esigenza sarà quella di poter disporre di una descrizione il più possibile accurata, in qualità e quantità, del contesto di intervento. Dall’altra, i processi implicati dagli interventi promossi vanno considerati, insieme agli assetti organizzativi che se ne fanno di volta in volta portatori e interpreti, essi stessi par-te del sispar-tema e pertanto da esso influenzati e coinvolti nei meccanismi di cam-biamento, azioni e retroazioni che concorrono a promuovere (Sterman 2012). Allo studio di tali processi si sono dedicati negli anni ricercatori e practicioners di varia collocazione disciplinare e con diversi obiettivi di indagine. Con un certo grado di semplificazione, si può affermare che nel corso degli ultimi decenni i molti e vari contributi si polarizzano intorno a due diverse tradizioni di ricerca: la policy analysis e la teoria dei sistemi (e, più recentemente, dei sistemi complessi). La prima tendenzialmente orientata allo studio dei processi di policy per il cam-biamento; la seconda allo studio degli interventi di policy all’interno dei processi di cambiamento.

La policy analysis o policy science in quanto settore disciplinare (accademico e professionale) nasce negli USA sul finire degli anni ’50 come branca della scien-za politica. Orientata a trovare spiegazioni ad aspetti di più immediata praticità

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dell’ambito politico dei sistemi sociali, si differenziava dagli orientamenti classici della disciplina che si interrogavano sui principi della legittimità del potere, sulle forme di governo e sui fenomeni politici propriamente detti (elezioni, partiti, movimenti.). Nasce come una scienza dell’azione, come un contributo portato da esperti alle decisioni di governo che orienta la ricerca al rafforzamento dell’azione amministrativa. La policy analysis degli inizi proponeva una gestione ‘scientifica’ delle attività di governo finalizzata a minimizzare gli errori di giudizio dei decisori pubblici attraverso l’impiego di tutti i metodi di analisi e ricerca allora disponibili (Lasswell 1951 citato in Moran et al. 2008). Trattandosi di disciplina orientata

all’azione, si è inizialmente giovata dell’apporto delle scienze manageriali e delle teorie dell’organizzazione riuscendo a trattare il tema della politica governante alla stregua di un processo di azione organizzativa e assumendo così i contorni di una disciplina pragmatica. Questo non ha impedito alla teoria di entrare dopo po-chi anni (grosso modo alla fine degli anni ’60) nel campo di ricerca della neo-nata disciplina, che cominciava a interrogarsi oltre che sulla propria funzione, sulla na-tura stessa del suo oggetto (Meny e Thoenig 1991). L’elaborazione teorica (di una disciplina che rimane comunque rivolta prioritariamente alla realizzazione prati-ca) ha così gradualmente integrato l’ambito e le finalità dell’indagine. La ricerca e la pratica della policy analysis è così evoluta dalla erogazione di consulenza esper-ta rispetto alle migliori alternative di intervento pubblico verso la ricerca orienesper-taesper-ta alla comprensione dell’intero processo di policy affiancando alla ponderazione degli effetti, lo studio dei conseguenti percorsi realizzativi che li producono e, ancora a monte, dei meccanismi decisionali che li definiscono. Un’evoluzione nel solco del paradigma concettuale fondativo della disciplina che può efficacemente riassumersi come segue: ”Il processo del decidere permea l’intero fenomeno am-ministrativo altrettanto quanto il fare “ (Simon 1958).

Da altra prospettiva, l’attività di policy è diventata, in anni relativamente più re-centi, un tema cui stanno dedicando crescente attenzione quegli scienziati sociali che si richiamano alla tradizione teorica della complessità applicata allo studio dei fenomeni economico-sociali. Una tradizione che si evolve all’incrocio di vari apporti teorici: complexity theory, Teoria dei Sistemi e Social Network Analysis. Questa impostazione contribuisce ad alimentare la riflessione in particolare ri-spetto alla collocazione dei processi di policy nel più ampio quadro dei sistemi

sociali in cui ricadono: da una parte (Easton 1957, Brans 1997) le policies ven-gono osservate sulla base della loro funzione all’interno di sistemi sociali più ampi; dall’altra, l’attenzione si rivolge a considerare il grado della loro (in)capacità nell’intercettare le dimensioni di complessità della realtà sociale e nell’individuare quindi adeguate iniziative di intervento per il governo dei problemi che l’agenda politica via via presenta all’amministratore (Boero e Squazzoni 2010, Dennard et al. 2008, Squazzoni 2014). Ad oggi si può a ragione parlare di un filone di letteratura, o quantomeno di contributi coerenti, riconducibili al binomio policy

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and complexity, orientato soprattutto a cogliere la complessità delle dinamiche coinvolte nel determinare gli effetti di un intervento anziché ad interrogarsi sulle modalità della sua definizione all’interno delle arene decisionali.

L’attenzione ai processi di policy, ai loro effetti e al loro dispiegarsi nel contesto sociale di riferimento viene quindi da diverse prospettive disciplinari che mostra-no, nella convergenza tematica, marcate distanze nell’approccio e nei metodi di indagine.

Partire dalla qualificazione di questa distanza, l’obiettivo del capitolo è quello di tentare, in un’ottica di complementarità, di individuare dispositivi concettuali e metodologici per considerare in maniera congiunta queste prospettive. Questo nell’ottica di fornire ai processi decisionali della PA un supporto, ulteriore e non sostitutivo degli approcci correnti, per la costruzione di una corretta (nel senso di non eccessivamente distorta e ristretta) conoscenza del mondo. Questo tentativo deve misurarsi innanzi tutto con la marcata connotazione disciplinare delle due tradizioni di ricerca che sembra spingere la potenziale complementarità verso un certo grado di reciproca indifferenza. Nella frequentazione della produzione scientifica in ambito di policy (making, process, analysis o evaluation che sia il sottoargomento oggetto di attenzione) è raro rilevare riferimenti incrociati tra le due tradizioni. Attingendo all’esperienza personale, è consuetudine presenziare a lunghe e stimolanti discussioni tra policy analysts di diversi orientamenti episte-mologici sulla preferibilità dei metodi quantitativi o qualitativi di valutazione degli effetti dell’intervento pubblico oppure al confronto tra istituzionalisti e radicali dei processi inclusivi circa la migliore descrizione (e prescrizione) dei meccani-smi decisionali; così come non è raro assistere a confronti sulla specificazione di modelli di osservazione degli effetti sistemici di specifici interventi di policy tra ricercatori complexity-oriented. Sembra però che, al di là dell’occasionale parte-cipazione a eventi congressuali o opere collettanee, non vi siano stabili e proficui canali di scambio tra le due comunità che scontano in questo innanzitutto le pa-tologiche chiusure tipiche dell’iperspecializzazione disciplinare che ha investito il mondo della ricerca, sociale e non solo. A ben guardare però, come si cercherà di mostrare nel seguito, ripercorrendo i percorsi di evoluzione dei diversi approcci e andando al cuore dei loro presupposti teorici, non mancano i punti in comune e i terreni di condivisione e possibile confronto. Non ultimo la condivisione dell’o-biettivo di costruire la giusta conoscenza per supportare l’azione di policy delle pubbliche amministrazioni.

Su questo punto vi sarà modo di tornare in conclusione di capitolo.

Prima, per non lasciare eccessivo margine all’ambiguità dei concetti utilizzati e dei contorni dell’oggetto di attenzione, si offre una definizione dei termini dell’argo-mentazione che, con provvisoria leggerezza, sono già stati ampiamente utilizzati in queste righe introduttive, ovvero policy, organizzazione e complessità.

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tratti essenziali caratteristici delle due tradizioni di ricerca richiamate per mettere meglio a fuoco ‘affinità e divergenze’ in merito alle specifiche prospettive di os-servazione sul processo e sugli effetti delle politiche pubbliche.

Da questa ricostruzione si trae spunto per focalizzare l’attenzione su alcuni aspet-ti dei processi di policy che sembrano poter fornire uaspet-tili punaspet-ti di appoggio su cui costruire ponti e canali di comunicazione tra le due prospettive. In particolare, il paradigma della complessità sembra poter offrire alcuni elementi importanti per facilitare questo dialogo sia in termini di condivisione di strumenti concettuali, sia per le indubbie potenzialità che questo approccio mostra di avere nella com-prensione dei fenomeni sociali in genere e dell’efficacia degli interventi della PA volti alla loro gestione nello specifico.

Infine si avanzeranno delle ipotesi sulle caratteristiche di un idealtipico strumen-to cognitivo che consenta a quesstrumen-to dialogo interdisciplinare di prendere corpo, ovvero un dispositivo in grado di garantire la comunicazione e condivisione ne-cessaria ad integrare le diverse prospettive nell’ottica di costruire una conoscenza complessa di una realtà complessa.

2.2 Alcune definizioni: policy, organizzazioni e sistemi

com-plessi

Le scienze umane e sociali mancano in genere di definizioni formali universal-mente accettate dei concetti che popolano la riflessione sui molti ed eterogeni temi di interesse dei ricercatori, e del più vasto pubblico. La collocazione di un termine all’interno di contesti semantici e teorici differenti ne fa un mezzo per l’evocazione di concetti e realtà anche molto distanti. Per evitare ambiguità e ‘stiramenti concettuali’1 in questo paragrafo si cerca quindi di chiarire a cosa si fa riferimento quando, nel seguito del volume, si parlerà di politica pubblica, di organizzazione e di complessità.

2.2.1 Politica Pubblica (policy)

Merita innazi tutto chiarire che nel seguito ci si occuperà di politiche pubbliche

(pu-blic policies o, più brevemente, policies) ovvero di azioni e interventi promossi da un’au-torità pubblica formalmente legittimata e finalizzati a produrre effetti su un qualche fenomeno sociale percepito come problema collettivo (Martini et al. 2009).

L’individuazione dell’attore di policy (l’autorità pubblica) sebbene sia fondamen-tale nel circoscrivere l’ambito di interesse del lavoro, non è però sufficiente. Non tutto l’operato delle pubbliche amministrazioni, pur avendo caratteristiche di orientamento verso l’esterno e verso la soluzione di un problema collettivo, è infatti da ascriversi al concetto di policy. L’azione della PA si rivolge generalmente 1 Giovanni Sartori, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, il Mulino, Bologna, 2011.

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al ‘pubblico’ erogando servizi e promuovendo interventi che pur modificando (auspicabilmente secondo i bisogni rilevati) il contesto sociale di riferimento non rientrano nella categoria di policy ma nell’attività ordinaria di gestione della cosa pubblica (a parte i compiti prettamente amministrativi si pensi a più ‘impattanti’ decisioni riguardo l’organizzazione del trasporto pubblico, la viabilità, la raccolta rifiuti, la dislocazione di servizi sul territorio...).

È quindi necessario affinare ulteriormente la definizione di politics pubblica da intendersi come “...un insieme di decisioni interrelate (o corsi d’azione) prese da un attore o da un gruppo di attori sulla selezione degli obiettivi e dei mezzi adatti al loro raggiungimento all’interno di una situazione specifica in cui gli attori hanno il potere di prendere tali decisioni ovvero di gestire un problema o una questione di specifico interesse” (Howlett 2003). Vale la pena ricordare che le decisioni possono portare alla scelta di un corso di azione come all’ inazione o in altre parole che una politica pubblica può consistere nella decisione di non in-tervenire. In ogni caso questa definizione consente di individuare alcuni elementi caratterizzanti una politica pubblica: l’autorità legittima, la selezione di obiettivi, la presenza di alternative per il loro raggiungimento, la decisione, la presenza di molteplicità di attori coinvolti nel processo.

Le politiche pubbliche come processo decisionale, quindi, ovvero come passag-gio dal problema all’identificazione di una possibile soluzione. Ma la policy è an-che azione, prevede il passaggio “dal dire al fare” (Martini, cit.) ed implica quindi la messa a punto di opportuni strumenti di attuazione delle decisioni, ovvero di un complesso di interventi che coinvolgono numerosi soggetti pubblici e privati e che rendono concreto il cambiamento che si vuole introdurre. Il processo di

poli-cy nel suo insieme, quindi, è da intendersi come il complesso di tutte le dinamiche sociali che veicolano decisione e attuazione dell’azione pubblica. Sotto questa luce, le politiche pubbliche risultano utilmente come una specificazione della più ampia categoria dell’azione organizzativa nell’accezione simoniana dell’“arte di far fare le cose” (Simon 1958). L’utilità, nell’economia della presente argomen-tazione, sta nel fatto che ad esse si possono applicare molti degli strumenti ana-litici sviluppati nella tradizione dell’analisi organizzativa e, a contrario, all’analisi delle organizzazioni si possono estendere gli esiti delle riflessioni che si cercherà di sviluppare. Il contesto organizzativo di riferimento delle politiche pubbliche ha però importanti specificità prima tra tutte l’implicita teoria del cambiamento che dovrebbe guidarlo nella definizione degli interventi di policy e che pone la pubblica amministrazione di fronte alla sfida cognitiva posta dalle scelte che deve operare. Ovvero interrogarsi su ”... come lo stato delle cose e il corso naturale degli eventi sono suscettibili di essere turbati e modificati (dall’intervento, ndr) [...] e quali saranno le conseguenze e il perché del ricorso fatto ... ad una data azione”(Meny e Thoenig 1991).

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2.2.2 La dimensione organizzativa

Il chiarimento di alcuni aspetti organizzativi implicati in una riflessione sulle poli-tiche pubbliche è rilevante per due ordini di motivi. Prima di tutto perché se una politica pubblica si può ascrivere alla classe dell’azione organizzativa, è opportu-no soffermarsi a definire alcune caratteristiche delle organizzazioni che se ne fan-no portatrici e che di conseguenza ne determinafan-no l’orientamento. In secondo luogo, il fenomeno organizzativo nella società contemporanea si va facendo sem-pre più pervasivo al punto che è difficile trovare spazi sociali in qualche maniera non presidiati da una struttura più o meno rigida e formalizzata.

Riguardo il primo aspetto, le organizzazioni in generale possono essere defini-te come ”... complesso schema di comunicazioni e di altre relazioni che viene a stabilirsi in un gruppo di esseri umani[...]che fornisce ad ogni appartenente al gruppo buona parte dell’informazione, delle premesse, degli obiettivi e degli atteggiamenti che influenzano le sue decisioni e crea in lui aspettative stabili e ragionevolmente certe rispetto a quanto gli altri membri del gruppo stanno com-piendo” (Simon, 1958). Questa definizione guarda prioritariamente all’interno del costrutto sociale ma l’autore individua, più oltre nell’opera citata, due ulteriori caratteri dell’organizzazione: la differenziazione/integrazione tra i componenti e l’orientamento allo scopo dell’attività organizzativa. Le organizzazioni (e le PA) sono quindi sistemi di relazioni tra componenti individuali che agiscono attraver-so un coordinamento basato sullo scambio di informazione verattraver-so il raggiungi-mento di uno scopo.

Se questi caratteri sono condivisi dalle organizzazioni private e pubbliche queste si differenziano in base allo scopo “...l’impresa si rivolge al proprio interno...l’au-torità pubblica - almeno in via di principio - si dirige verso l’esterno, legittiman-dosi in funzione del perseguimento di finalità esterne...e i traguardi consistono essenzialmente nella modifica di attributi del tessuto sociale” (Meny e Thoenig cit.).

Le organizzazioni pubbliche sono quindi implicitamente più aperte all’ambiente esterno e spesso (per non dire sempre) e i processi di policy, seppur

ricondu-cibili all’iniziativa di un’organizzazione chiaramente individuabile (il comune, la regione, il governo nazionale) si sviluppano all’interno di ‘assetti organizzativi’ formati dall’insieme di attori individuali e collettivi, pubblici e privati le cui linee di condotta e spazi di interessi incrociano l’ambito di ricaduta dell’intervento di policy. La configurazione di questi assetti organizzativi (che alcuni hanno voluto denominare policy Subsystems) gioca un ruolo importante nelle possibilità di successo variamente intese (efficacia, consenso, risultati) degli interventi di policy. Il termine ‘assetti organizzativi’ consente di passare a occuparsi del secondo pro-filo di interesse, ovvero della pervasività organizzativa contemporanea. A partire dagli originari paradigmi razionalistici weberiani, l’analisi organizzativa è infatti maturata in due direzioni, entrambe rilevanti ai nostri fini. Da una parte nella

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di-rezione di introdurre elementi di spiegazione dei processi organizzativi riferiti alla sfera cognitiva, etica, relazionale e comportamentale dei componenti. Dall’altra, ha dovuto fare i conti con le traiettorie di evoluzione delle società contempo-ranee verso una crescente pervasività delle organizzazioni che hanno finito per ‘assorbire la società’ (effetto ancor più rilevante con l’avvento delle organizza-zioni ‘virtuali’ mediate dall’infrastruttura telematica, Strati 2004, Berra 2007). La pervasività delle organizzazioni è caratterizzata dalla configurazione di numerose, eterogenee e intrecciate reti interorganizzative per cui comprendere un sistema sociale contemporaneo significa farsi carico della definizione di queste relazioni in termini di intensità, canali, direzione e molteplici appartenenze dei membri. Una siffatta realtà influenza ovviamente i processi legati al suo governo. Pertanto, il passaggio ‘dal dire al fare’ ovvero il processo attuativo delle politiche pubbliche coinvolge necessariamente strutture implementative che si formano nella coope-razione fra varie organizzazioni pubbliche, private, più o meno formali, cointe-ressate nella realizzazione di un qualche intervento (Strati, cit.).

Parlare di organizzazione quando si parla di processi di policy quindi significa anche (ma non solo e non sempre) porre al centro dell’analisi non solo l’orga-nizzazione singola, la pubblica amministrazione competente per dominio, ma un‘“unità pluriorganizzativa” che non è un’entità esistente a priori ma risulta dalla ricostruzione proposta dall’osservatore nello specifico contesto di azione.

2.2.3 Complessità e sistemi complessi

Il binomio ‘sistema complesso’ gode di crescente popolarità come strumento di lettura (scientifica e non) del mondo contemporaneo. Merita quindi tentare di chiarirne i tratti fondamentali, a partire da una definizione dei due termini del binomio e restringendone la portata alla particolare accezione che può essere utilmente impiegata nell’economia del presente lavoro.

Il concetto di sistema è tra i più generali e onnicomprensivi che abbiano accom-pagnato lo sviluppo del pensiero umano.

“Un sistema è tutto ciò che è composto di parti connesse le une con le altre. Le parti possono essere di qualsiasi specie[...] il sistema può essere materiale o ideale, vivente o inorganico, immaginario o reale, può anche essere una com-binazione di differenti tipi di elementi[...]Le connessioni tra le parti possono essere legami fisici oppure flussi; comunicazioni, segni o atti di significazioni, connessioni concettuali o puramente astratte” (Collins 1988).

È evidente dalla definizione proposta che tutto quanto si osserva nella realtà (fisica o mentale), ad un certo grado di dettaglio può essere rappresentato come sistema. La generalità non toglie utilità al concetto che, anzi, diventa uno stru-mento analitico fondamentale per la lettura dei fenomeni. È bene tenere a mente

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che il sistema (e in questo rientrano le configurazioni organizzative di cui al punto precedente) non esiste di per sé ma viene definito dall’osservatore. In altre parole, e restringendo il campo alla ricerca sociale, “...non vi è il sistema sociale poiché non vi è affatto un sistema ma una serie di sistemi definiti da differenti teorie del-la società” (Collins cit.). Elemento fondamentale dei sistemi sono i feedbacks, flussi

o interazioni (azioni/retroazioni) tra le componenti del sistema che consentono ai sistemi di orientarsi a uno scopo e regolare le attività per il suo raggiungimento; quando i feedback (informativi) diventano elementi di autoreferenzialità ovvero attribuiscono al sistema la capacità di esaminare componenti, processi e scopi e di riorientare lo scopo si parla di sistemi intelligenti e, nel caso dei sistemi umani, dell’emergere della coscienza individuale.

Il punto che rileva sottolineare ragionando di sistemi sociali e di strumenti per orientarne il governo è che questa autoriflessività non sembra trasferirsi dagli in-dividui ai sistemi sociali che li contengono. In altre parole, il problema che rima-ne aperto rima-nella gestiorima-ne delle organizzazioni può legittimamente porsi in questi termini “I singoli esseri umani sono sistemi autoreferenziali intelligenti ma ai livelli di dimensione superiore i sistemi sono per lo più meccanici” (Collins cit.). La messa a punto di adeguati strumenti cognitivi, quali quelli che si propongono in questo lavoro, dovrebbe puntare alla costruzione di una conoscenza adeguata al tentativo di estendere a livello di organizzazione questa forma di intelligenza. Il secondo termine del binomio, la complessità, ha contorni ancor più universali

ma senz’altro meno definiti e “… like life and consciousness, does not have a rigorous definition [...] however this lack does not forestall a rigorous approach to the subject matter” (Holland 2014).

Complessità e dimensione sistemica sono approcci strettamente interconnessi. O meglio, il concetto di sistema è la componente base per la declinazione degli attri-buti di complessità (viceversa, possono esistere, ed esistono in natura o artificiali, sistemi non complessi).

Ciò premesso, si può arrivare a una definizione di complessità ‘in negativo’, ov-vero a partire dalla banale ma sempre opportuna distinzione tra gli attributi di “complesso” e “complicato” con cui si può definire un fenomeno, un sistema o, spostandosi sul piano di policy, un problema su cui intervenire (Poli 2013,

Holland cit.). La distinzione non è tanto di ordine di grandezza, sebbene la nu-merosità dei componenti condizioni la struttura e la produzione degli outcomes del sistema nel suo insieme, (“more is different”2) ed anche natura e tipologia degli elementi che li compongono possono essere simili quando non identici. La differenza tra complicato e complesso risiede nelle interazioni e nei processi che collegano tra loro i componenti elementari. Sarà sempre possibile, infatti, pro-cedere alla scomposizione di un sistema complicato in componenti elementari 2 Era questo l’efficace titolo di uno dei seminal paper della disciplina pubblicato nel 1972 su Science (P. W. Anderson citato in Terna 2009).

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(dal macro al micro) di cui, a loro volta, sarà sempre possibile comprendere e rappresentare i componenti e le interazioni, per quanto numerosi possano essere gli uni e gli altri. A partire dai componenti elementari si potrà infine derivare (dal micro al macro) il comportamento dell’insieme ovvero derivare i comportamenti (o i valori) aggregati sulla base dei comportamenti (o valori) dei componenti elementari ricorrendo ad algoritmi lineari e proporzionali (di cui il più semplice, chiaramente, è la somma). Il comportamento di un sistema complesso risulta invece impossibile da prevedere a partire dalla descrizione delle sue componenti elementari. Esso non potrà mai essere ricondotto, spiegato e quindi previsto sulla base di algoritmi additivi. Sebbene componenti e interazioni elementari possano essere noti e opportunamente descritti, in un sistema complesso “l’insieme è più della somma delle parti”. In termini più rigorosi, in un sistema complesso il comportamento (o i valori) dell’aggregato deriva da combinazioni non-lineari degli elementi (o valori) descritti a livello micro attraverso un fenomeno che viene definito emergenza. Semplificando, è questa non-linearità dei processi che dalle componenti micro producono il risultato macro che ha permesso inizialmente di individuare e caratterizzare i sistemi complessi all’interno delle scienze dure (l’im-prevedibilità e i punti di biforcazione dei sistemi lontani dall’equilibrio studiati dal ‘fondatore’ Ilya Prigogine, Spaziante 2009). Il paradigma della complessità e l’importanza della dimensione interazionale nella definizione delle traiettorie e degli output dei sistemi è stato da allora applicato alla rappresentazione di pro-prietà e comportamenti di fenomeni pertinenti ai più svariati domini della ricerca scientifica: sistemi fisici, biologici, psichici, sociali ed economici.

Con lo sviluppo del campo di studi sui sistemi complessi si è pervenuti ad una separazione tra lo studio dei Sistemi Fisici Complessi (CPS) e lo studio dei Siste-mi Adattivi Complessi(CAS). La principale differenza sta nella natura dei com-ponenti elementari che nel caso dei CPS sono immutabili nelle loro proprietà, nel caso dei CAS possono modificarsi (apprendere) in risposta all’interazione con altri elementi e, per questo, sono convenzionalmente chiamati agenti (Hol-land cit.). Sui caratteri distintivi dei CAS ci sarà modo di tornare più avanti. Qui è importante sottolineare, a introduzione del paragrafo successivo, che i sistemi sociali all’interno dei quali si decidono e attuano le politiche pubbliche e che sono costituiti da fitte rete di relazioni interorganizzative sono assimilabili ai CAS. In chiusura e in sintesi:

• le politiche pubbliche sono azioni promosse da enti formalmente legittimati e finalizzate a ottenere un qualche cambiamento in risposta a un problema collettivo;

• le politiche pubbliche sono azioni caratterizzate da un processo composito che dalla fase decisionale giunge alla produzione di effetti (attesi e inattesi) passando per una fase realizzativa in cui sono coinvolti molteplicità di attori

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e organizzazioni pubbliche e private;

• la dimensione organizzativa è particolarmente rilevante perché le politiche pubbliche si configurano come azione organizzativa e perché le organiz-zazioni stanno occupando la società contemporanea e si moltiplicano le forme di relazioni interorganizzative, a formare una fitta rete di interazioni molteplici ed eterogenee che nel loro insieme configurano il sistema sociale contemporaneo;

• i sistemi sociali sono sistemi adattivi complessi che non consentono di pre-vedere il comportamento aggregato a partire dal comportamento dei com-ponenti elementari intesi come agenti in grado di apprendere all’interno di intense reti di interazione.

Questi sintetici riferimenti, aiutano a definire i requisiti minimi di una conoscenza utile al supporto delle politiche pubbliche. Quelli cioè di uno strumento di lettura e comprensione nella sua interezza di un corso di azione, la policy, (a) definito lungo una catena di processi che dalla decisione portano ai risultati attraverso un percorso realizzativo popolato di molteplici e eterogenei attori, (b) orientato ad incidere in un contesto in cui la dimensione interazionale (tra individui e orga-nizzazioni) si va facendo cruciale nella determinazione dei suoi possibili effetti e (c) e i cui risultati sono prodotti da dinamiche non lineari originate dai comporta-menti di adattamento messi in campo dai destinatari stessi degli interventi. A fronte di questa sfida, l’intento dei prossimi due paragrafi è quello di collocare lo studio dei processi di policy all’incrocio di diverse tradizioni di ricerca, la policy analysis e la teoria dei sistemi, che ne fanno un loro oggetto di indagine (esclusivo nel primo caso) ma che non sembrano integrare, come sarebbe invece possibile e proficuo, i risultati che ne derivano.

2.3 Le politiche pubbliche come azione organizzativa: la

po-licy analysis

A una rapida consultazione di due imponenti contributi che ricostruiscono i 70 anni di storia della policy analysis (Fischer et al. 2007 per gli USA, Moran et al. 2008

per UK) si evidenzia un limite proprio della disciplina nel proporre una una let-tura realmente esaustiva dei processi di policy: lo sguardo costantemente rivolto all’interno, un dialogo tra addetti ai lavori che, seppure coerente con gli obiettivi dei curatori, contribuisce a perpetuare una relativa chiusura teorica e metodolo-gica che sarebbe auspicabile venisse arricchita da prospettive altre e in particolare da una visione sistemica che consenta di allargare l’orizzonte dell’analisi di policy

agli effetti indotti non nello specifico campo di appliczione ma nel complesso del sistema sociale considerato3. Come, peraltro, era al principio.

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effet-2.3.1 L’infanzia sistemica della policy analysis

Sebbene la bassa intensità di scambi tra i due orientamenti teorici sia ad oggi una situazione piuttosto evidente, essa non deriva da una loro intrinseca distanza ma è probabilmente da collocarsi all’interno del più generale processo di specializza-zione della ricerca scientifica cui si è assistito nella seconda metà del XX secolo. Nel periodo in cui, alla fine degli anni ’50 del ‘900, la policy analysis cominciava ad acquisire la sua fisionomia disciplinare, l’adozione di un quadro di lettura si-stemico delle politiche figurava come ipotesi presa seriamente in considerazione. Risale infatti a quegli anni il lavoro di David Easton, scienziato politico il cui interesse era rivolto a inquadrare l’attività politica, o il sistema politico (eponimo dell’opera fondativa della sua impostazione4), in relazione al sistema sociale più ampio che ne rappresentava l’ambiente operativo. La novità di Easton era conte-nuta non tanto in un approccio spiccatamente sistemico abbastanza diffuso nella riflessione delle scienze sociali del periodo (Parsons è un nome che vale una scuo-la) quanto nella sua considerazione del fenomeno politico come processo di tra-sformazione di domande (inputs) provenienti dall’ambiente in risultati (ouputs) che quell’ambiente concorrevano a trasformare, ovvero una considerazione non puramente funzionalistica.

Con le parole dell’autore:

The very idea of a system suggests that we can separate political life from the rest of social activity, at least for analytical purposes, and examine it as though for the moment it were a self-contained entity surrounded by, but clearly distinguishable from, the environment or setting in which it operates […]Furthermore if we hold the system of political actions as a unit before our mind’s eye, as it were, we can see that what keeps the systems going are inputs of various kind. These inputs are converted by the processes of the system into outputs and these, in turn, have consequences both for the system and for the environment in which the system exists. The formula here is very simple but also very illuminating: inputs – political system or processes – out-puts (Easton 1957)

Easton proponeva un semplice ma innovativo strumento di interpretazione dei processi di policy intesi come processi di trasformazione di domande/problemi emergenti dal sistema sociale in modifiche dei componenti sistemici che fornis-sero ad esse una risposta:

ti delle policy con il contributo policy Dynamics a firma di Eugene Bardach, docente alla Goldman School of Public policy presso l’Università di Berkley, California.

4 “The Political System. An Inquiry into the State of Political Science”, pubblicato a New York nel 1953.

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Figura 1. – Il sistema politico come processo sistemico di trasformazione (Easton cit.)

Nell’identificare attributi, proprietà e condizioni di funzionamento del sistema politico l’autore si riconduce in massima parte all’approccio sistemico: proprietà di identificazione, ovvero ciò che consente di distinguere il sistema dall’ambien-te circostandall’ambien-te (e segnatamendall’ambien-te, individuazione dei componenti e definizione dei confini); inputs and outputs, intesi come condizione di necessaria relazione del sistema con l’ambiente che lo modifica e ne viene modificato; meccanismi di dif-ferenziazione interna per garantire il processo di trasformazione degli inputs in outputs (divisione del lavoro); integrazione del sistema per ovviare al potenziale disgregativo della differenziazione.

Merita però spendere qualche riga di approfondimento sulla trattazione degli inputs e outputs in quanto Easton evidenzia un’importante attenzione a temi che saranno, di lì a qualche anno, centrali nello sviluppo della policy analysis.

Gli inputs si distinguono in due tipologie: domande e supporti. Le prime rap-presentano, nella metafora dell’autore, la materia che entra nel sistema, i secondi l’energia per la usa trasformazione.

Circa le domande, Easton si pone due quesiti molto attuali: da dove vengono le domande che alimentano il processo di policy?; come queste domande si tra-sformano in temi dell’agenda politica? Circa i supporti, invece, ovvero le cinghie di trasmissione che consentono a una domanda di diventare policy, Easton in-dividua le risorse per l’implementazione in tre domini: la comunità politica che può fornire l’appoggio necessario a spingere un corso di azione; il set di regole, formali e informali, che presidia il funzionamento del sistema politico; infine l’orientamento del governo istituzionale.

Easton, insomma, guardava con lo sguardo del politologo alla ricerca di spiega-zioni di un fenomeno, quello della politica governante, collocandosi in un fra-mework molto vicino all’impostazione sistemica in voga nel periodo. Sicuramen-te una proposta innovativa, che autorizza a rilevare come l’infanzia della policy analysis appaia quindi nutrita di questa integrazione di prospettive, organizzative,

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politologiche e sistemiche che è poi andata sfumando negli ulteriori sviluppi della disciplina.

2.3.2 I fondamenti della disciplina: il ciclo di policy

La proposta di Easton, nella sua originalità, rappresenta solo uno dei molti ten-tativi, più o meno recenti, di collocazione delle politiche pubbliche all’interno della più ampia categoria dell’esperienza politica. La tabella di seguito riporta i sei orientamenti più diffusi nella letteratura posizionati all’incrocio del metodo di analisi e della tipologia di attori posti a fondamento del processo.

deduttivo metodo di analisi

Induttivo

unità di analisi individuo public choice economia del benessere

gruppo marxismo pluralismo/corporativismo

istituzioni neoistituzionalismo Statalismo

Tabella 1. – Approcci allo studio dei fenomeni di policies (Howlett 2003)

Posti al vaglio del potere esplicativo e della verifica empirica, i sei approcci si rilevano, ognuno in modo diverso, inadeguati sotto due profili. Innanzi tutto, gli approcci deduttivi, com’è tipico di questa classe di metodi di indagine, si accon-tentano di collocare le politiche pubbliche nel contesto generale delle teorie di riferimento più che testarne con l’osservazione empirica la loro validità; le teorie induttive d’altra parte mancano di sufficiente generalità per giungere al minimo di astrazione necessaria per disporre di uno strumento interpretativo. Queste teorie tendono poi ad essere monocausali, ovvero ognuna individua una spiega-zione unificante ma che, differente dalle alternative ‘concorrenti’, pregiudica ogni possibilità di dialogo. Infine un problema comune è l’applicazione di costruzioni teoriche (deduttive o induttive) già esistenti che non potrà mai permettere di co-gliere la molteplicità delle possibili situazioni empiricamente riscontrabili nell’os-servazione dei fenomeni di policy.

Questa breve digressione è utile per chiarire l’ambito e la portata, lo spazio di movimento che la policy analysis riconosce per sé come ottimale. Rifuggendo da tentativi di spiegazione del fenomeno politico nel suo complesso infatti “L’ana-lisi delle politiche pubbliche deve restare ancorata ad un “livello medio” ovvero quello del bilanciamento tra “...l’attento studio dei casi empirici e un’attenta ge-neralizzazione” (Howlett cit.). Quasi una dichiarazione di adesione alla teorie del medio raggio.

Questo livello medio di osservazione ed elaborazione teorica consente l’indivi-duazione degli elementi che caratterizzano il fenomeno delle policy, ovvero degli attori coinvolti, dei sistemi di relazione e degli strumenti di intervento in cui le policy si realizzano. Tutti questi elementi vengono quindi fatti convergere nella

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descrizione del processo di policy al cui interno giocano un ruolo determinante i meccanismi di scelta attraverso i quali si cerca di dare spiegazione alle dinamiche di definizione dell’intervento pubblico: quali strumenti vengono adottati, da quali attori e con quali obiettivi.

Nella letteratura della policy analysis, il modello comunemente accettato per la rappresentazione del processo di policy è quello che lo descrive come suddiviso in cinque momenti: formazione dell’agenda, formulazione delle politiche, pro-cesso decisionale, attuazione e valutazione.

È importante sottolineare che questa distinzione in fasi, come sempre accade nella messa a punto di modelli interpretativi che aspirino ad avere un certo grado di validità generale, è un artificio analitico che non deve indurre a immaginare il processo di policy come fenomeno caratterizzato da passaggi netti tra fasi suc-cessive lungo un percorso lineare che si avvia con uno stimolo iniziale e arriva alla sua ‘naturale’ conclusione. E questo per due motivi. Innanzi tutto, l’accentuato carattere empirico della ricerca portata avanti dagli analisti di policy non può non fare i conti con un certo grado di sovrapposizione tra le fasi che si riscontra nella realtà dei processi osservati. In secondo luogo, il processo assume, nell’intento di rendere la descrizione della dinamica evolutiva dell’azione delle pubbliche am-ministrazioni, un carattere ciclico, per cui l’ultima fase (la valutazione) dovrebbe costituire il punto di riavvio del processo in direzione del perpetuare o del mo-dificare le scelte di intervento effettuate. In figura 2. è riportato il recepimento del ciclo di policy da parte delle istituzioni europee, a dimostrazione del riscontro ottenuto da questa impostazione nel fornire supporto (ideale) allo sviluppo dei processi di definizione degli interventi pubblici.

Figura 2. Il ciclo di policy del processo legislativo europeo.(*) Nei rettangoli, la mappatura rispet-to alle fasi trattate nel paragrafo (http://www.europarl.europa.eu/)

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Nel seguito, in rapida rassegna, si presentano i lineamenti essenziali delle diverse fasi del ciclo di policy (Howlett cit., Meny e Thoenig cit.)

a) Formazione dell’agenda

Convenzionalmente collocata all’avvio del ciclo di policy, questa è la fase in cui le richieste provenienti dalla società o le situazioni valutate come problematiche da pubblico e gruppi di interesse entrano nell’ agenda politica ovvero diventano possibili prospettive di azione.

Si possono distinguere due tipologie di agenda:

l’agenda sistemica (o pubblica) che contiene tutte le issues che

• in qualche modo la comunità ritiene degne di interesse e si configura come un’agenda di discussione e confronto;

l’agenda istituzionale (o formale) che contiene solo quella parte

• di temi dell’agenda sistemica (o anche di altra origine, a seconda delle oppor-tunità) a cui il governo decide di prestare attenzione.

Le singole issues passano dall’agenda sistemica a quella istituzionale attraverso processi, in parte collegati all’assetto istituzionale della comunità politica di rife-rimento: gruppi di interesse che mobilitano consenso; gruppi di potere capaci di orientare il processo decisionale; i governi e la loro capacità di creare consenso intorno ai temi su cui, a priori, si è deciso di organizzare l’agenda politica. VI è poi il modello della finestra di policy che spiega la collocazione di un tema

nell’agenda politica come frutto di un meccanismo basato sulla contingenza, ov-vero sull’incontro fortuito tra problemi emergenti dalla società, possibili propo-ste per la loro soluzione e interesse dei decisori. In altre parole, l’agenda istituzio-nale può essere formata da elementi frutto dell’incrocio di tre flussi: il flusso delle tematiche ‘all’ordine del giorno’ nell’agenda sistemica, il flusso delle politiche, ov-vero delle soluzioni disponibili per il governo (lo spazio di opportunità) e il flusso della politica, ovvero del consenso intra- e extra-istituzionale ad un certo tema. Centrale in questa, come nelle successive fasi, la configurazione del policy subsy-stem inteso come insieme, più o meno coordinato, di tutti gli attori coinvolti in

una particolare area di policy. Questo insieme si compone di attori individuali

e collettivi pubblici e privati che nel loro complesso forniscono (per dirla con Easton) il supporto necessario ai processi di policy si va modificando e ricompo-nenedo lungo le fasi che lo compongono.

b) Formulazione delle politiche

In questa fase vengono individuate le opzioni di intervento o soluzioni possibili per i problemi individuati nella fase di formazione dell’agenda.

Innanzi tutto è necessario che vengano formulate delle alternative di azione o proposte di policy. Il processo di formulazione si distingue per alcune peculiarità.

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