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L’impatto sulle performance delle imprese partecipate dal Private equity.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Economia e Management

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

L’impatto sulle performance delle imprese partecipate dal Private equity.

CANDIDATO: RELATORE: Pacifico Emanuele Prof.ssa Mariani Giovanna

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INDICE

Introduzione 4

CAPITOLO 1

1.1) Problematica di finanziamento delle PMI innovative……… 7

1.2) Differenze PMI innovative e startup innovative………. 9

1.3)Le problematiche di finanziamento con le banche per le PMI in genere11 1.4 )Il ruolo del private equity……….. 17

1.5) Tipologie di investimento del private equity……….. 22

1.6) Nascita ed evoluzione del mercato P.E in italia………..…. 25

1.7) Dati sul mercato P.E………..………..29

CAPITOLO 2 2.1) Le fasi delle operazioni di private equity….… ………... 36

2.1.1) Il fund raising………... 38 2.1.2)L’investimento……….……… 40 2.1.3) Il deal flow ……….……… 41 2.1.4) La due diligence ……….………. 53 2.1.5) Il business plan……….. 55 2.1.6) Il closing………….………. 59

2.2) Gli strumenti legati al prezzo……….... 62

2.2.1) I patti parasociali……….………. 65

2.2.2) Il monitoraggio……….………... 75

2.2.3) Il disinvestimento……….………...….. 78

2.3 )La ragione degli investimenti del private equity………. 83

2.4) Fattori rilevanti di scelta per il private equità ……… 86

2.5) Le imprese target oggetto di investimento………... 90

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CAPITOLO 3

Studio di pricewaterhouse cooper:

3.1) Obiettivi e limiti della ricerca PwC………... 98

3.1.1) Indicatori di performance utilizzati da PwC ………. 99

3.1.2) Studio del campione……… 101

Elaborazione personale: 3.2) L’analisi empirica per la valutazione degli effetti sulle performance della partecipazione del private equity……….…….. 105

3.2.1) Costruzione del campione………..….. 105

3.2.2) Indicatori di Performance e Benchmark………. 112

3.2.3) Studio del campione……….………. 114

Conclusione……….……….. 121

Bibliografia ..……….………… 125

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4 INTRODUZIONE

Con questo studio cerchiamo innanzitutto di trattare un tema sempre molto in auge per le imprese che cercano di finanziarsi in un modo distinto da quello bancario : il private equity.

Soprattutto negli ultimi anni, come confermano i dati evidenziati da Ernst & Young del 2016 e 2017, il rinnovato interesse nel nostro paese da parte degli investitori istituzionali ha innalzato il valore delle operazioni di private equity e venture capital che si attesta intorno agli 8,2 miliardi di euro, avvicinando il nostro Paese alla Francia dove si investimenti si sono attestati a 11 miliardi di euro. Questi dati confermano che il private equity sta prendendo piede anche nel nostro paese e che ci sono opportunità da parte dei fondi, italiani o esteri, che possono utilizzare le nostre imprese come veicolo di crescita e di guadagno, sia da parte delle imprese italiane che possono, attraverso gli investitori istituzionali quali il private equity, accrescere il proprio valore e allo stesso tempo utilizzare una tipologia di finanziamento alternativa rispetto a quella bancaria.

Si proverà a descrivere quindi il fenomeno sotto due aspetti principali: quello dell’investitore e quello dell’imprenditore o dell’impresa nella sua interezza, cercando di cogliere tutti gli aspetti positivi e negativi che si creano.

Il seguente lavoro si articola in 3 capitoli: nel primo capitolo definiremo inizialmente le imprese innovative e le loro problematiche di finanziamento, perché proprio l’ impresa innovative è una tipologia di azienda che presenta le maggiori preoccupazioni per il finanziamento classico ovvero quello bancario. Quindi il primo capitolo sarà molto descrittivo, si definirà intanto le PMI innovative,( si farà riferimento alle PMI innovative e alle differenze con le start up innovative) le loro problematiche con il credito bancario e le possibili scelte di finanziamento diverse dalle classiche aziende di credito, introducendo il PE,e analizzando alcune evoluzioni a livello normativo che lo hanno portato ad essere una realtà stabile e sviluppata nel nostro paese .

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Nel capitolo 2 definiremo quali sono le operazioni del private equity nella scelta delle società target e andremo a descrivere tutte le fasi che accompagnano l’investitore istituzionale nella scelta dell’impresa target.

Ci soffermeremo in particolare su due delle tre fasi: l’investimento e il disinvestimento; nell’investimento si determinerà il modo in cui il private equity sceglie l’impresa e viceversa, facendo riferimento anche alla contrattazione di clausole all’interno della partecipazioni (patti parasociali).

Nel disinvestimento invece si andrà a focalizzare l’attenzione sulle modalità di disinvestimento e molto importante sarà dopo quanto tempo il private equity pensa che sia meglio disinvestire (che sarà il leitmotiv dello studio).

Successivamente spiegheremo brevemente quali sono le motivazioni che spingono e il private equity nell’ avvallare questo tipo di operazione, e l’imprenditore ad accogliere al proprio interno un soggetto estraneo, con capitale fresco ma con risvolti pericolosi per la propria leadership.

Nel capitolo 3 analizzeremo uno studio condotto da un conosciuto network che svolge servizi professionali alle aziende cioè Pricewaterhouse Coopers, che descrive le performance economiche di imprese italiane che dal 2005 al 2015 sono state partecipate da Private equity; il periodo preso in considerazione non riguarderà tutta la durata della partecipazione ma ingloba sia l’anno dell’investimento che l’anno del disinvestimento dell’operatore.

Tali performance saranno confrontate con dei risultati macroeconomici e con un benchmark di mercato. Successivamente attraverso una analisi elaborata personalmente, sulla farsa riga dello studio citato, si costruirà un proprio campione che verrà osservato e nello studio del campione si cercherà di dimostrare se, anche in un periodo di 3 anni, che nel mio percorso di studi ho appreso essere il periodo di partecipazione minimo del private equity in un azienda, si hanno delle performance economiche superiori rispetto ad alcuni dati macroeconomici italiani e al mercato stesso.

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Capitolo 1

1.1)PROBLEMATICHE DI FINANZIAMENTO: LE PMI INNOVATIVE

Introdotte nel panorama legislativo italiano nel gennaio 2015 con il Decreto “Investment Compact”, le PMI innovative sono le piccole, medie e microimprese che operano nel campo dell’innovazione tecnologica. Con la loro istituzione, il Governo vuole stimolare la diffusione di innovazioni di tipo tecnologico in tutti i settori produttivi, così da rilanciare la produttività e la competitività dell’industria manifatturiera del nostro Paese.

Requisiti per diventare PMI innovativa:

Le PMI innovative sono state tipizzate dal D.L. n. 3/20151. Ai sensi dell’articolo 4, possono assumere tale qualifica le PMI (ai sensi della raccomandazione 2003/361/CE), che rispettano i seguenti requisiti:

- sono costituite come società di capitali, anche in forma cooperativa;

- hanno sede principale in Italia, o in altro Paese membro dell’Unione Europea o in Stati aderenti all'accordo sullo Spazio Economico Europeo, purché abbiano una sede produttiva o una filiale in Italia;

- dispongono della certificazione dell’ultimo bilancio e dell’eventuale bilancio consolidato redatto da un revisore contabile o da una società di revisione iscritti nel registro dei revisori contabili;

- le loro azioni non sono quotate in un mercato regolamentato;

- non sono iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese dedicata alle start up innovative e agli incubatori certificati;

- possiedono almeno due delle seguenti caratteristiche:

(i) volume di spesa in ricerca, sviluppo e innovazione in misura almeno pari al 3% della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione;

(ii) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in una quota almeno pari a 1/5 della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso

1 Fonte: www.ipsoa.it

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un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in una quota almeno pari a 1/3 della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale;

(iii) titolarità, anche quali depositarie o licenziatarie, di almeno una privativa industriale, relativa a una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale ovvero titolarità dei diritti relativi a un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tale privativa sia direttamente afferente all’oggetto sociale e all’attività di impresa.

Adesso andremo a chiarire più a fondo, la differenza tra PMI innovative e Start-up innovative, ricordando che queste tipologie di imprese innovative sono state prese in considerazione per spiegare le problematiche di finanziamento, proprio per il fatto che sono realtà che più delle altre hanno bisogno di credito per alimentare il proprio business (sotto forma di capitale di debito o di capitale di rischio), per lo sviluppo di progetti altamente tecnologici, innovativi e allo stesso tempo più rischiosi. La difficoltà maggiore quindi, per questo tipo di imprese e per la figura dell’imprenditore, riguarda la concessione del credito da parte di terzi finanziatori, visto che i progetti di queste realtà sono più difficoltosi da comprendere e redditivamente meno intuibili rispetto alle imprese che svolgono un’attività più convenzionale.

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1.2) Differenze PMI innovative e startup innovative

Start up e PMI innovative presentano alcune similitudini ma anche differenze importanti(immagine 1). Una principale distinzione riguarda l’oggetto sociale. Per assumere la qualifica di start up innovativa, l’impresa deve avere come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico. Per le PMI innovative, la normativa non pone alcuna condizione in merito all’oggetto sociale. Altra differenza riguarda la data di costituzione. Mentre lo status di start up innovative può essere assunto dalle nuove imprese, costituite da non più di 5 anni, per le PMI innovative, come abbiamo già visto, non ci sono delimitazioni temporali, ma le imprese devono essere in possesso di almeno un bilancio certificato. Inoltre, le due figure di impresa si distinguono in ordine alla dimensione.

 Requisiti dimensionali: la start up innovativa a partire dal secondo anno di attività deve avere come valore totale della produzione annua un importo inferiore ai 5 milioni di euro. Tale dato deve risultare dall’ultimo bilancio approvato entro i 6 mesi dalla chiusura dell’esercizio.

La qualifica di PMI innovativa invece può essere assunta dalle imprese di piccola e media dimensione ai sensi della Raccomandazione 2003/361/CE, vale a dire imprese che impiegano meno di 250 persone e il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro o il cui totale di bilancio non supera i 43 milioni di euro.  Requisiti di innovazione: sia la start up innovativa che la PMI innovativa

devono rispettare specifici requisiti di innovatività, quali volumi di spesa in ricerca e sviluppo, impiego di personale con dottorato di ricerca e titolarità di privative industriali. Tuttavia, mentre per la start up innovativa è richiesto il possesso di almeno uno dei 3 requisiti sostanziali alternativi stabiliti, la PMI

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:Principali differenze in tabella tra start up e PMi innovative

Requisiti Start up innovativa PMI innovativa Sede Residente in Italia o in Paese Ue ma con sede o filiale in Italia Forma

giuridica

Deve obbligatoriamente essere una società di capitali (anche in forma cooperativa).

Limiti temporali

Deve essere costituita e svolgere attività d'impresa da non più di 60 mesi.

Deve essere in possesso di almeno un bilancio certificato.

Quindi, non possono assumere lo status di PMI innovative le imprese di nuova costituzione.

Requisito dimensionale Il totale del valore della produzione annua della società non deve essere superiore a 5 milioni di euro, a decorrere dal secondo anno.

PMI ai sensi della Raccomandazione 2003/361/CE (meno di 250 dipendenti e fatturato annuo inferiore a 50 milioni o un attivo dello stato patrimoniale inferiore a 43 milioni).

Oggetto sociale

L’oggetto sociale deve afferire alla produzione, sviluppo e commercializzazione di beni o servizi innovativi ad alto valore tecnologico

Non è prevista nessuna limitazione in merito all’oggetto sociale.

Distribuzione utili Non deve distribuire o aver distribuito utili. Non essendo previsto nulla in contrario, può distribuire degli utili.

Requisiti opzionali per rilevare il carattere di innovazione tecnologica

Almeno 1 su 3 di:

1) spese di R&S almeno pari al 15% del maggiore tra costi e valore totale della produzione;

2) personale formato per 1/3 da dottori di ricerca, dottorandi o ricercatori con 3 anni di esperienza; oppure formato per 2/3 da personale in possesso di laurea magistrale; 3) depositaria o licenziataria di privativa industriale, oppure titolare di software registrato.

Almeno 2 su 3 di:

1) spese di R&S almeno pari al 3% del maggiore tra costi e valore della produzione;

2) personale formato per 1/5 da dottori di ricerca, dottorandi o ricercatori con 3 anni di esperienza; oppure formato per 1/3 da personale in possesso di laurea magistrale;

3) depositaria o licenziataria di privativa industriale, oppure titolare di software registrato.

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1.3) Le problematiche del finanziamento bancario per le PMI innovative e in genere

Le PMI innovative sono anche particolari nella loro struttura di finanziamento. Per il loro finanziamento esterno esse si rivolgono alle banche più spesso di quanto facciano le grandi imprese, ma, allo stesso tempo, generalmente rischiano di avere più difficoltà ad ottenere fondi. Ci sono motivi strutturali2 per cui questo avviene: le PMI innovative sono più opache e le loro capacità di fare impresa sono più difficili da valutare, perché i loro bilanci offrono meno informazioni e le loro storie di credito sono generalmente più brevi. A queste caratteristiche si aggiungono i maggiori costi fissi di valutazione esterna e monitoraggio. Tutto questo si traduce per le PMI in costi di transazione più elevati, in particolare per quelli derivanti da asimmetrie informative. L'asimmetria informativa si presenta generalmente nei casi di:

1. Selezione avversa

2. Segnalazione e Selezione 3. Azzardo morale

Alle asimmetrie informative, cioè alle incertezze che nascono dal fatto che una parte è più informata di un'altra, sono legati la maggior parte dei problemi di agenzia presenti negli investimenti di private equity: l'imprenditore dispone di maggiori informazioni sull’impresa rispetto all'investitore istituzionale. I problemi legati alle asimmetrie informative che gli investitori di private equity devono affrontare durante il periodo di investimento sono molteplici. In primo luogo il Socio Imprenditore presenta una conoscenza specifica del business in cui opera l’impresa. Quando le imprese non sono molto complesse, la conoscenza del prodotto/servizio è particolarmente critica e l'uscita dell'imprenditore può comportare il fallimento dell'impresa. I problemi di agenzia sono più gravi nei casi in cui la capacità dell'imprenditore è sconosciuta e l’andamento dell’investimento è difficile da osservare e monitorare. Un modo per superare le asimmetrie informative consiste nel basarsi su un’attività di monitoraggio

2 Fonte: www.ecb.europa.eu

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professionale. L’investitore diventa così "privatamente informato" ed è in grado di ottenere un alto profitto dalla costruzione di un rapporto con l'impresa. Il problema della selezione avversa avviene quando una variazione delle condizioni di un contratto, in questo caso lo sforzo dell'imprenditore, provoca una selezione dei contraenti sfavorevole per la parte che ha modificato, a suo vantaggio, le condizioni. In particolare nel venture capital, la selezione avversa è ridotta con un’intensiva attività di screening e di valutazione dei progetti di investimento o delle imprese da investire. Secondo Lerner (1994), la struttura degli investimenti in sindacato è un altro modo per eliminare la selezione avversa tra gli investimenti nel capitale di rischio. La struttura degli investimenti in sindacato è un altro modo per eliminare la selezione avversa fra gli investimenti nel capitale di rischio. Il rischio di azzardo morale si verifica quando l'imprenditore non si impegna duramente nel massimizzare il valore dell’impresa poiché lo sforzo non è osservabile dall'investitore. L'approccio tradizionale contro l'azzardo morale prevede che più grave è il problema di informazione, tanto più i contratti devono essere legati alla performance. Tuttavia, qualora sussistano rischi fuori dal controllo dell'imprenditore, gli incentivi del tipo pay for performance3 sono meno

desiderabili, perché gli imprenditori, categoria avversa al rischio, devono essere compensati per l’assunzione di tali rischi. Negli investimenti in imprese familiari i rapporti critici sono quelli tra tre categorie di soggetti: i soci fondatori appartenenti alla famiglia, i manager (insider o outsider) e gli investitori di private equity. In questa situazione un’intensa attività di monitoraggio da parte degli investitori, la condivisione delle scelte da parte dei manager e il finanziamento in più stadi incentivano le tre categorie a collaborare e superare i problemi

La letteratura finanziaria4 individua nel relationship lending la soluzione per il superamento dei problemi derivanti da asimmetria informativa.

3 incentivi finanziari ricevuti da alcuni soggetti per incontrare un certo obiettivo di performance o destinazione.

4 Rocco Corigliano, Banca e impresa in Italia: caratteri evolutivi del relationship lending e sostegno dello sviluppo

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Per relationship lending5 (o credito di relazione) si intende una forma di intermediazione bancaria nella quale la banca eroga credito ad un individuo sulla base di un precedente rapporto di prestito o deposito di lunga durata. La relazione di clientela qui è contraddistinta da interazioni frequenti e multiple con il cliente, la banca in questo modo acquisisce il maggior numero di informazioni riservate ("soft information") che può così utilizzare in modo esclusivo.

In tale relazione tra banca e cliente si superano, come già detto, le classiche asimmetrie informative tipiche dei mercati finanziari "market oriented" permettendo un'allocazione efficiente delle risorse del sistema finanziario,cioè affidando il credito ai progetti imprenditoriali migliori.

Tali relazioni finanziarie continuative:

 migliorano l’efficienza delle attività di selezione e monitoring del finanziatore  permettono l’acquisizione di una informazione finanziaria più approfondita e

riservata

 consentono il riutilizzo di questa informazione per interazioni finanziarie ripetute nel tempo.

Tuttavia, nel caso delle Pmi innovative il relationship lending non appare immediatamente perseguibile in quanto l’asimmetria informativa sul progetto in questo caso e quindi la diffidenza del prestatore è maggiore.

Per seguire questo percorso si rende necessaria la presenza di investitori che svolgano un ruolo di “garante”, per esempio come nel caso del business angel. In questo caso la sicurezza e la fiducia del rapporto consolidato tra esempio banca e impresa può essere sostituito da un soggetto finanziariamente preparato e talvolta con conoscenze imprenditoriali che possono fare la differenza.

Soprattutto per le Pmi innovative lo sviluppo si presenta ancora più difficile da sostenere finanziariamente6 a causa:

5 Fonte:wikipedia.com

6 La Commissione Europea si propone di rimuovere i vincoli che ostacolano la creazione di un ambiente favorevole all’avviamento e allo sviluppo di imprese innovative.( Grazie all’accordo di condivisione del rischio di UE e FEI, il Gruppo Cariparma CA avrà la possibilità di erogare prestiti a condizioni vantaggiose per le PMI e le Small-Mid Caps per i prossimi due anni. La garanzia del FEI è fornita sotto l’iniziativa "UE InnovFin finance for Innovators", grazie al sostegno finanziario di Horizon 2020, il programma quadro dell'UE per la ricerca e l'innovazione. L’accordo non sarebbe stato possibile realizzarlo così velocemente senza il sostegno del Piano d’Investimento. Fonte sito commissione europea).

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 del maggiore rischio operativo dovuto al peso rilevante dei fattori intangibili e ad una maggiore opacità informativa derivanti da sistemi innovativi e tecnologici poco conosciuti che possono provocare errori e costi.Vi è diffusa consapevolezza del ruolo strategico dell’innovazione

Altri elementi che influiscono sulle scelte di finanziamento delle PMI in genere:

 costi di agenzia

 costi di transazione e di fallimento  tassazione

E’ quindi in qualche misura inevitabile che, sopratutto durante le recessioni economiche, le fonti di credito per le piccole imprese tendano a prosciugarsi più rapidamente che per le grandi imprese, ostacolando in misura maggiore le loro attività e i loro investimenti. 7E questo è effettivamente avvenuto durante la crisi dell’eurozona. Il merito di credito e la salute finanziaria delle PMI in genere sono peggiorati in modo più marcato rispetto a quelli delle grandi imprese, e il lungo periodo di debolezza economica ha esacerbato i loro problemi di asimmetria informativa. Le statistiche attualmente disponibili non forniscono hard data tempestivi e ad alta frequenza sulla posizione patrimoniale di un insieme rappresentativo di PMI per l’area euro. Tuttavia, sulla base delle informazioni fornite dal sondaggio della BCE (the Survey on Access to Finance of Enterprises, SAFE), vediamo che i profitti, le riserve di liquidità e i capitali propri delle PMI hanno avuto andamenti meno favorevoli di quelli delle grandi imprese durante la crisi (immagine 2).

7 Cfr. Fazzari, S., G. Hubbard and B. Petersen (1988), “Financing Constraints and Corporate Investment”, Brookings Papers on Economic Activity 1, 141-195 and Duchin, R., O. Ozbas and B. A. Sensoy, “Costly external finance, corporate investment, and the subprime mortgage credit crisis”, Journal of Financial Economics, Vol. 97, Issue 3, (2010), pp. 418-435)

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Immagine 2:Comparazione tra PMI e grandi imprese. Source: ECB SME access to finance survey (SAFE)

Dal punto di vista della gestione del rischio da parte delle banche commerciali, può quindi essere in parte comprensibile che le banche adottino un approccio più selettivo nella fornitura di credito in un periodo di recessione, per preservare la qualità degli asset dei loro bilanci. Ma, in genere, la stretta creditizia attualmente appare molto dura per le PMI in generale, perché le banche le considerano a più alta probabilità di insolvenza rispetto alle grandi imprese, e perché le PMI spesso non sono in grado di passare dal credito bancario ad altre fonti di finanziamento esterno.

Di conseguenza, le PMI, rispetto alle imprese di grandi dimensioni, hanno più probabilità di essere colpite dall’eccessiva avversione al rischio delle banche e quindi dal razionamento del credito. E la difficoltà di ottenere credito, che influenza non solo la loro ordinaria amministrazione ma anche la loro capacità di

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crescere, può facilmente trasformare i problemi di liquidità in rischio di insolvenza.

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17 1.4) IL RUOLO DEL PRIVATE EQUITY

Con il termine private equity si intende comunemente l’attività di investimento nel capitale di rischio di società non quotate, da parte di operatori finanziari quali tipicamente banche d’affari, divisioni merchant di banche commerciali, fondi mobiliari chiusi, società di private equity, società finanziarie private, società finanziarie pubbliche. Si tratta di operazioni strutturate e negoziate al di fuori del mercato azionario e che pertanto non fanno riferimento a valori standard di quotazione; inoltre molto spesso sono operazioni di natura strategica per le società destinatarie dell’investimento, per due fondamentali motivi: innanzitutto il finanziamento avviene sotto forma di acquisizione/sottoscrizione di partecipazioni (di maggioranza o minoranza, unitamente ad altri strumenti complementari) e in secondo luogo, oltre all’apporto di capitale, è previsto di norma il coinvolgimento della società di private equity nella gestione operativa della partecipata. Quelle appena evidenziate sono le due principali peculiarità che caratterizzano in modo netto l’attività di private equity e che la differenziano in modo sostanziale dalle altre attività di finanziamento e sostegno alle imprese. La possibilità di reperire quello che efficacemente si definisce capitale paziente può risultare decisiva nell’economia di un’impresa, ancor di più in una situazione come quella attuale in cui si registra la crescente difficoltà da parte delle piccole e medie imprese di reperire risorse finanziarie sul mercato a costi sostenibili. Inoltre è doveroso ricordare che il sistema italiano delle PMI innovative e non è affetto da un rilevante problema di natura strutturale, ovvero la sottocapitalizzazione: tale condizione patologica rende molte nostre imprese pericolosamente vulnerabili e incapaci di far fronte sopratutto a periodi di crisi economica; ciò si riflette anche nelle possibilità di accesso al credito, ancor più nell’attuale situazione di stretta creditizia. Per molti, troppi anni molte imprese italiane hanno prodotto e venduto sfruttando pesantemente e quasi esclusivamente la leva del debito, evitando colpevolmente di capitalizzarsi in misura adeguata; e per molti, troppi anni il sistema bancario ha finanziato tutto e tutti, senza discrimine tra iniziative meritevoli e non, tra progetti remunerativi e

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non, tra imprese sane e imprese malate. Perché, come si dice, erano periodi di “vacche grasse” e conveniva a tutti. Ora, complice la crisi economica tuttora in corso (anche se in maniera più debole rispetto a qualche anno fa), il risultato è un taglio generalizzato delle possibilità di finanziamento e una forte selettività nell’erogazione del credito da parte del sistema bancario; uno dei principali criteri alla base del processo di valutazione e selezione sembra essere ora, appunto, il grado di capitalizzazione delle imprese. Il che, ben inteso, è un’ottima notizia; l’anomalia tuttavia è rappresentata dal fatto che non è stato esattamente così per molti anni. L’esigenza di capitalizzazione per le nostre imprese è dunque quanto mai evidente e il private equity può rappresentare un’importante opportunità in tal senso, essendo uno strumento di investimento nel capitale di rischio. Vi sono poi delle fasi del ciclo di vita nelle quali alle imprese risulta quasi precluso l’accesso al mercato dei capitali e del credito a causa dello sfavorevole profilo rischio-rendimento, del livello dimensionale, della mancanza di asset da offrire in garanzia alle banche, e così via. A titolo esemplificativo un’impresa neonata o da poco avviata, pur presentando ottime prospettive di crescita future, verosimilmente incontra grosse difficoltà nel reperimento di capitale di rischio per mezzo degli strumenti tradizionali; ciò è dovuto principalmente al profilo rischio-rendimento che contraddistingue questa peculiare fase del ciclo di vita dell’impresa: nei primi anni infatti il rischio d’impresa (di mercato, economico, finanziario) è tipicamente molto elevato, non si ha un track record dell’attività d’impresa sul quale basare le valutazioni per il futuro, magari anche il settore economico è giovane e inesplorato e la redditività è comprensibilmente bassa o negativa. Tutte queste caratteristiche scoraggiano fortemente gli investitori, in particolare quelli con una propensione al rischio non elevata, e il rischio che, nonostante la presenza di ottime idee e prospettive, l’impresa non riesca a partire o a svilupparsi è molto elevato. Inoltre anche l’accesso all’indebitamento con le banche risulta estremamente difficoltoso, quando non precluso: ciò è dovuto all’elevato livello di rischiosità dell’iniziativa imprenditoriale e alla scarsa dotazione di capitale fisso da poter offrire in garanzia a fronte del debito. Quand’anche la banca fosse disponibile a concedere

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credito, lo farebbe molto probabilmente a condizioni insostenibili per l’impresa in termini di tassi d’interesse richiesti. In uno scenario come questo, così come in altre fasi peculiari del ciclo di vita di un’impresa, la presenza e la disponibilità ad investire da parte di operatori con una più elevata propensione al rischio e con caratteristiche diverse rispetto a quelli tradizionali possono spesso risultare fondamentali. Si tratta in generale di passaggi critici e/o di discontinuità della vita di un’impresa: in casi come questi l’intervento di un private equity investor può addirittura rappresentare l’unica possibilità per poter far nascere un’impresa, sviluppare un’idea o un progetto, crescere in termini dimensionali e di valore, proseguire l’attività evitando il fallimento, effettuare un’acquisizione. Oltre all’apporto di capitale, un ulteriore elemento che contraddistingue significativamente l’attività di private equity è l’apporto di know how manageriale e tecnico da parte dell’operatore; a seconda dei casi, quest’ultimo può essere in possesso di una profonda esperienza nel settore cui appartiene l’impresa partecipata e vanta generalmente un significativo track record caratterizzato da numerose realtà imprenditoriali. Il fatto di poter usufruire di manager esperti del settore può risultare fondamentale per l’impresa partecipata ai fini del raggiungimento degli obiettivi prefissati. Trascurando i casi di investimenti di natura esclusivamente finanziaria, l’approccio da parte degli operatori è pertanto di “proprietà attiva”, orientata alla creazione di valore nel medio-lungo periodo. All’interno dei private equity investor, gli investimenti vengono attentamente valutati, selezionati e gestiti da team specializzati e dedicati di professionisti; durante l’intera durata del rapporto vi è un’attività di gestione, monitoraggio e controllo continua e dedicata per ciascuna delle società presenti nel portafoglio dell’operatore. Nel corso degli anni l’attività di private equity è andata naturalmente diversificandosi nei vari mercati e Paesi in funzione delle diversità in termini di sistemi economico-politici, di sistemi sociali, di tessuti imprenditoriali, di livelli di sviluppo, ampliando via via l’offerta di operazioni e servizi relativi all’investimento istituzionale nel capitale di rischio delle società. Tuttavia il comune denominatore rimane sempre l’acquisto di partecipazioni di maggioranza o minoranza in imprese meritevoli e con buone

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prospettive di sviluppo, con un orizzonte d’investimento a medio-lungo termine, avendo come obiettivo principe la creazione di valore e la conseguente realizzazione di una significativa plusvalenza al momento della dismissione della partecipazione calcolata, nel totale, dal tasso IRR. Da un punto di vista squisitamente terminologico è possibile trovare differenti definizioni o classificazioni del fenomeno, sia in letteratura sia tra gli operatori del settore; storicamente negli U.S.A. esso è definito nella sua globalità “attività di private equity” e viene distinto tra venture capital e buy out, sulla base della specifica tipologia di investitore che pone in essere l’operazione di investimento (venture capital funds e buy out funds). Alla categoria del venture capital vengono ricondotte due specifiche tipologie di operazioni:

 l’early stage financing, ossia gli investimenti a favore di imprese nei primi o primissimi stadi del ciclo di vita;

 l’expansion financing, ossia gli investimenti in imprese già avviate e finalizzate a sostenere, accelerare e/o consolidare la crescita e lo sviluppo. Diversamente, in Europa, con il termine venture capital si è soliti fare riferimento esclusivamente alle operazioni di investimento finalizzate a sostenere la nascita e le primissime fasi di sviluppo delle imprese (early stage financing); mentre con il termine private equity ci si riferisce a tutte le altre tipologie di investimento nel capitale di rischio di imprese non quotate, riguardanti fasi successive a quella iniziale del ciclo di vita (expansion, replacement, buy out, tournaround). Va detto, tuttavia, che è attualmente in atto un processo di progressivo adattamento agli standard statunitensi, sia da un punto di vista metodologico che terminologico. Al fine di chiarire meglio e completare l’analisi terminologica, si riportano di seguito le definizioni “istituzionali” che dell’attività di private equity danno le associazioni di categoria a livello europeo e nazionale.

La European Private Equity and Venture Capital Association (EVCA) definisce l’attività di private equity come segue:

“Private equity provides equity capital to enterprises not quoted on a stock market. Private equity can be used to develop new products and technologies (also called venture capital), to expand working capital, to make acquisitions, or

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to strengthen a company’s balance sheet. It can also resolve ownership and management issues. A succession in family-owned companies, or the buyout and buyin of a business by experienced managers may be achieved by using private

equity funding.”8

In Italia, l’Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital (AIFI) definisce l’attività di private equity come “attività di investimento nel capitale di rischio di imprese non quotate, con l’obiettivo della valorizzazione dell’impresa oggetto di investimento ai fini della sua dismissione entro un periodo di medio-lungo termine” 9. Da entrambe le definizioni emerge chiaramente che il venture

capital non costituisce un’attività distinta e diversa dal private equity, bensì semplicemente una tra le fattispecie della complessiva attività di private equity; tale circostanza testimonia la progressiva omogeneizzazione alla prassi terminologica vigente negli Stati Uniti. Sulla scorta delle definizioni sopra citate, è possibile affermare che in generale l’investimento istituzionale nel capitale di rischio può essere finalizzato allo sviluppo di nuovi prodotti, idee, tecnologie, all’ampliamento del capitale circolante, al sostegno finanziario di operazioni di acquisizione di altre imprese, al rafforzamento della struttura patrimoniale e finanziaria di un’impresa, alla risoluzione di questioni connesse alla struttura proprietaria o al ricambio generazionale, all’acquisizione di un’impresa da parte di un gruppo manageriale esterno e/o interno alla stessa. Tutte queste diverse fattispecie di operazioni costituiscono quella che viene universalmente definita attività di private equity. Quest’ultima, a sua volta, viene generalmente riconosciuta come un segmento del più ampio settore del merchant banking, individuato come quell’insieme di servizi di consulenza, assistenza e finanziamento erogati da operatori finanziari a sostegno dell’attività ordinaria e straordinaria delle imprese10.

8 European Private Equity and Venture Capital Association, Glossary. 9 Delibera del Consiglio Direttivo AIFI del 22/07/2004.

10 Cfr. A. Gervasoni, F. L. Sattin, Private equity e venture capital. Manuale d’investimento nel capitale di rischio, Guerini Studio, Milano, 2008 (IV ed).

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1.5) Le tipologie di investimento del Private Equity

La letteratura classica suddivide e classifica le diverse tipologie di investimento nel capitale di rischio in funzione delle fasi del ciclo di vita dell’impresa; la logica alla base di tale modalità di segmentazione consiste nella circostanza che a differenti stadi di sviluppo dell’impresa corrispondono differenti esigenze e problematiche, che conseguentemente richiedono interventi differenziati da parte degli operatori. In ogni fase del ciclo di vita mutano infatti le dimensioni, gli obiettivi, le necessità in termini di finanziamenti, strutture, know how: a questi mutamenti devono necessariamente corrispondere diverse modalità di intervento da parte dell’investitore istituzionale, con particolare riferimento ai due asset fondamentali che esso è in grado di mettere in campo, ovvero il capitale e il know how in senso lato. Questa modalità di segmentazione dell’attività di private equity nel suo complesso, nonostante sia stata formulata per la prima volta circa 25 anni fa, è ancor oggi stabilmente adottata dagli operatori, dalle associazioni di categoria, dai centri di ricerca, dai più noti manuali universitari. Partendo dalle primissime fasi del ciclo di vita dell’impresa, si individuano le operazioni di early stage financing, finalizzati al finanziamento delle fasi di nascita e avvio; esse vengono ulteriormente distinte in seed (finanziamento dell’idea) e start up financing (costituzione e avvio dell’impresa). Successivamente con i termini alternativi expansion/growth financing o developement capital si individuano le operazioni finalizzate a sostenere programmi di sviluppo, a supportare e/o consolidare la crescita dimensionale e di valore dell’impresa. Si parla poi di replacement capital con riferimento a interventi che hanno l’obiettivo di subentrare nella compagine societaria prendendo il posto di uno o più soci non più interessati all’attività aziendale; ciò da un lato permette ai soci ancora coinvolti nel progetto aziendale e all’azienda di proseguire nell’attività imprenditoriale senza dover sostenere esborsi finanziari più o meno pesanti legati alla liquidazione/acquisto delle quote dei soci uscenti, dall’altro lato permette a questi ultimi di uscire dalla compagine societaria e monetizzare. Ancora, con la fattispecie buy out si fa riferimento solitamente a tutte le operazioni finalizzate al

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ricambio totale della proprietà o comunque all’acquisizione del pacchetto di controllo di un’impresa target; in questo caso l’investitore istituzionale assume il ruolo di vero e proprio partner dell’operazione, affiancando e sostenendo finanziariamente i soggetti promotori, con il diffuso utilizzo della lava finanziaria come strumento principale per l’acquisizione (leveraged buy out). Quest’ultima circostanza è legata principalmente al fatto che le operazioni di buy out spesso richiedono un ingente esborso di denaro per essere portate a compimento. Con riferimento ai soggetti promotori dell’operazione è possibile distinguere tra management buy out (nel caso in cui i soggetti promotori siano i manager della società stessa), management buy in (manager esterni) e workers buy out (nel caso in cui gli acquirenti siano i dipendenti della stessa società). Gli investimenti finalizzati alla ristrutturazione di imprese in crisi sono invece detti interventi di turnaround, mentre con il termine bridge financing si fa riferimento a quelle operazioni che fin dall’inizio si pongono come obiettivo la preparazione e l’accompagnamento dell’impresa alla quotazione in Borsa. Occorre evidenziare che, stante la riconosciuta validità e adeguatezza della classificazione sopra esposta, molto spesso i confini tra le diverse categorie di operazioni risultano alquanto labili; ciò è dovuto alla crescente complessità delle operazioni che vengono poste in essere, al continuo sviluppo di processi di ingegnerizzazione finanziaria che creano strumenti sempre più ibridi e sofisticati, attraverso i quali gli operatori fanno ricorso contemporaneamente a diverse leve; le nuove esigenze, finanziarie e non, che nascono continuamente in seno all’attività delle imprese richiedono risposte e soluzioni adeguate da parte degli operatori. E molto spesso esse implicano il ricorso a strumenti e tecniche che, oltre ad essere sempre più complessi e sofisticati, attingono contemporaneamente a diverse categorie classiche d’intervento. Alla luce di tutto questo, alcuni autori sostengono che una tale complessità, unitamente alla specificità delle problematiche e delle esigenze riconducibili a ciascun settore di mercato, risultino incoerenti con la classica schematizzazione proposta; sulla base di tale considerazione, propongono ad esempio una ripartizione delle operazioni di investimento nel capitale di rischio in funzione delle diverse fasi strategiche che

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le imprese attraversano durante il loro ciclo di vita, alle quali corrispondono differenti problematiche e relative soluzioni offerte dagli operatori. In tale ottica le tipologie di intervento vengono classificate in tre principali macro-aree11 :

 finanziamento nella fase di avvio;  finanziamento nella fase di sviluppo;  finanziamento del cambiamento.

Come si può vedere, tale classificazione risulta molto meno rigida e dettagliata rispetto a quella classica; le tre macro-aree infatti possono racchiudere al loro interno tipologie di operazioni tecnicamente differenti tra loro, ma che sono accomunate dall’obiettivo strategico caratterizzante la fase del ciclo di vita attraversata dall’impresa. Ciononostante anche questa più attuale classificazione non è esente da situazioni di sovrapposizione tra due diverse macro-aree nell’ambito di una stessa operazione d’investimento, in particolare con riferimento ad operazioni di elevata complessità e che si prefiggono diversi obiettivi contemporaneamente. Con riferimento a quanto detto in precedenza, questa recente segmentazione risponde anche al processo di omogeneizzazione terminologica con la prassi statunitense che distingue tra venture capital (corrispondente alle fasi di avvio e sviluppo) e buy out (cambiamento).

Si riporta di seguito una semplice tabella a fini esplicativi e chiarificatori, riguardo alla differenza (immagine 3) a livello terminologico tra Europa e U.S.A.

Private Equity

Europa Venture capital Expansion capital Buy out

U.S.A Venture capital Buy out

Immagine 3:Classificazione dell'attività di private equity in europa e negli U.S.A

11 Cfr. A. Gervasoni, F. L. Sattin, op. cit.

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1.6) Nascita ed evoluzione del mercato del private equity in Italia

Con riferimento all’Italia la nascita di uno specifico mercato di operatori professionali specializzati nell’attività d’investimento nel capitale di rischio delle imprese viene convenzionalmente fatta coincidere con la nascita della prima e attuale associazione di categoria, l’AIFI (inizialmente Associazione Italiana delle Finanziarie di Investimento, poi Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital). L’AIFI fu costituita nel 1986 da un gruppo di nove società finanziarie di emanazione bancaria e private con la finalità “di sviluppare, coordinare e rappresentare, in sede istituzionale, i soggetti attivi sul mercato italiano dell’investimento in capitale di rischio”12 . Da quel momento il contesto

istituzionale e normativo all’interno del quale gli operatori hanno operato è stato caratterizzato da una continua evoluzione, con riferimento in particolare alla natura degli stessi operatori e alle relative possibilità di investimento. Dal punto di vista normativo prima del 1986 la legge italiana vietava tassativamente alle aziende di credito di svolgere l’attività di investimento diretto nel capitale di rischio di imprese non finanziarie e non quotate; solo a seguito di una apposita

delibera del CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio) del febbraio 198713 e della conseguente circolare della Banca d’Italia del mese

seguente14, anche le aziende di credito sono state abilitate allo svolgimento di tale

attività, pur nel rispetto di precisi vincoli normativi. In particolare esse furono abilitate ad investire nel capitale di rischio di imprese non quotate per il tramite di SIF (Società di Intermediazione Finanziaria) di loro emanazione, alle quali era concessa l’acquisizione a titolo temporaneo di azioni, obbligazioni e analoghi titoli delle imprese, con il vincolo della partecipazione minoritaria. Negli anni immediatamente successivi all’emanazione della nuova normativa nacquero 16 SIF, tuttavia di fatto solo poche di queste operavano attivamente. Un secondo evento decisamente rilevante sul piano normativo fu l’emanazione nel settembre del 1993 del Testo Unico in materia bancaria e creditizia (D.lgs. 385/93): esso

12 AIFI

13 Delibera CICR 6.2.1987

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rappresentò una vera e propria rivoluzione nell’ordinamento del sistema bancario italiano in quanto ribaltò il modello storico della separazione formale e funzionale tra il credito a breve termine e quello a medio-lungo termine sancito nel 1936, introducendo il modello della banca universale. In tale nuovo quadro normativo e organizzativo, l’attività di investimento nel capitale di rischio di imprese industriali non quotate svolta dalle SIF facenti capo a gruppi bancari rientrava nell’ambito della disciplina del Testo Unico in materia bancaria e creditizia, il quale stabiliva a tal proposito puntuali limitazioni15; la ratio di tale

disciplina consisteva nel contenimento della rischiosità delle nuove banche universali e nella parziale conservazione del principio di separazione tra banche e imprese. In particolare vennero stabilite tre categorie di limitazione all’attività: un limite complessivo, che rappresenta il livello massimo di investimento in partecipazioni di imprese non finanziarie in percentuale sul patrimonio di vigilanza della banca; un limite di concentrazione, il quale stabilisce la percentuale massima del patrimonio di vigilanza investibile in una singola partecipazione; un limite di separatezza, relativo all’ammontare massimo della partecipazione della banca in ogni singola impresa partecipata. Inoltre tali limitazioni variavano in funzione della natura attribuita a ciascun istituto di credito, a seconda cioè che si trattasse di banche e gruppi bancari ordinari, banche e gruppi bancari abilitati o banche specializzate. Il passaggio fondamentale per lo sviluppo del mercato del private equity in Italia è stato tuttavia l’istituzione, con la Legge 14 agosto 1993 n. 344, dei fondi chiusi d’investimento mobiliare di diritto italiano; essi sono divenuti negli anni seguenti il principale strumento per mezzo del quale gli operatori specializzati svolgono l’attività di investimento istituzionale nel capitale di rischio delle imprese, come d’altra parte accade diffusamente a livello internazionale. Il settore ha poi subito nel corso degli anni successivi e fino ad oggi una continua e significativa evoluzione normativa e regolamentare, nell’ambito delle più generali riforme strutturali del sistema finanziario italiano, finalizzate all’incremento della competitività dello stesso nel confronto con gli altri mercati finanziari a livello

15 Cfr. A. Gervasoni, F. L. Sattin, op. cit

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internazionale. Merita sicuramente di essere citata l’emanazione del Testo Unico della Finanza16 (TUF), per mezzo del quale è stata riformata integralmente la

disciplina dell’intermediazione finanziaria: si segnala in questa sede l’introduzione dell’istituto della Società di Gestione del Risparmio (SGR) e l’abrogazione della Legge 344/93 citata in precedenza, con la conseguente ridefinizione e modernizzazione della disciplina relativa ai fondi mobiliari chiusi17, affidata in parte alle disposizioni regolamentari della Banca d’Italia e del Ministero del Tesoro. Nel primo decennio dalla nascita, il settore dell’investimento istituzionale nel capitale di rischio ha registrato la presenza di un numero stabile e contenuto di operatori; i pionieri che cominciarono ad operare in questo settore furono nel corso degli anni Ottanta alcune società finanziarie private costituite da un ristretto numero di soci, le quali cominciarono ad investire modeste quantità di capitali in imprese medio-piccole. In seguito con la svolta normativa del 1987 anche il sistema bancario cominciò ad investire nel settore, prima per mezzo delle SIF e dopo il 1993 anche in modo diretto con la creazione di apposite divisioni interne. I primi fondi mobiliari chiusi di diritto italiano cominciarono invece ad operare, a seguito della loro istituzione, a metà degli anni Novanta. Fino a quel periodo, erano pochissimi anche i fondi internazionali di private equity e venture capital che operavano nel mercato italiano; in seguito la loro presenza cominciò a farsi via via più numerosa e stabile. Solo alla fine degli anni Novanta si è assistito a un primo significativo sviluppo del settore in termini di numero complessivo di operatori attivi, in coincidenza con il boom del mercato delle nuove tecnologie che, attraendo un’ingente quantità di risorse finanziarie, ha favorito la nascita di nuovi operatori. Considerando il decennio che va dal 2000 al 2010 il numero delle SGR cui fanno capo fondi di private equity è passato da 11 a 68, mentre i fondi operativi sono passati da 7 a 126; con riferimento alla crescita dimensionale, a

16 D.lgs. 24 febbraio 1998 n.58.

17 I fondi chiusi sono stati introdotti nell’ordinamento italiano nel 1993 più precisamente con la legge n. 344 del 14/08/1993. Il legislatore, non ha fornito una definizione esplicita di fondo chiuso ma ne ha disciplinato il ciclo di vita andando quindi a dare indicazioni precise circa l’istituzione del fondo, la partecipazione e la gestione e dettando regole precise relativamente la costituzione e l’attività delle società di gestione che vogliono istituire fondi chiusi.

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fine 2000 l’attivo complessivo dei fondi ammontava a 580 milioni di euro mentre a fine 2010 esso ammontava a 5,8 miliardi di euro18 . Oltre alla crescita numerica

e dimensionale, nello stesso periodo si è assistito anche ad una significativa evoluzione strutturale del settore con riferimento alla natura degli operatori: mentre all’inizio del nuovo millennio vi erano soprattutto SGR di emanazione bancaria, oggi la maggior parte di quelle autorizzate all’attività d’investimento nel capitale di rischio fanno capo a soggetti indipendenti, in particolare ex imprenditori e professionisti del settore in precedenza alle dipendenze di grandi investitori italiani o esteri. Dal punto di vista dello strumento, ossia del veicolo per mezzo del quale viene svolta l’attività d’investimento, le più recenti tendenze del mercato italiano vedono l’aumento dei fondi chiusi di diritto italiano e dei fondi chiusi internazionali. Tale circostanza testimonia la presenza di un importante processo di allineamento operativo e istituzionale del mercato italiano alla prassi tipica dei sistemi finanziari più evoluti.

18 Banca d’Italia, Il private equity in Italia: una analisi sulle imprese target, Questioni di Economia e Finanza (Occasional papers) n. 98

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1.7) DATI SUL MERCATO DEL PRIVATE EQUITY

In questo capitolo andremo ad osservare alcuni dati sugli investimenti e sui disinvestimenti effettuati da private equity. Per quanto concerne l’attività di investimento, i dati aggregati si riferiscono alle operazioni in equity e quasi equity (prevalentemente prestiti obbligazionari convertibili) realizzate da parte degli operatori e non al valore totale della transazione. Vengono considerati sia i nuovi investimenti (initial) sia gli interventi a favore di aziende già partecipate dallo stesso o da altri operatori (follow on). La dimensione globale del mercato è costituita da:

• investimenti effettuati in aziende italiane e non da operatori “locali”;

• investimenti effettuati in aziende italiane da operatori internazionali, a prescindere dal fatto che abbiano una base formale in Italia, inclusi i fondi sovrani e gli altri investitori internazionali che realizzano operazioni di private equity o venture capital.

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Nel corso del 2016 sono state registrate sul mercato italiano del private equity e venture capital 322 nuove operazioni, distribuite su 245 società, per un controvalore pari a 8.191 milioni di Euro, corrispondente ad un incremento del 77% rispetto all’anno precedente, quando le risorse complessivamente investite erano state pari a 4.620 milioni di Euro. Tale dato, fortemente influenzato da alcune operazioni di grande dimensione, realizzate prevalentemente da soggetti internazionali, rappresenta il valore più alto mai registrato nel mercato italiano. Il numero di operazioni, invece, rispetto al 2015 ha visto un calo del 6% e anche le società coinvolte in operazioni di private equity sono diminuite ripetto al 2015

Immagine 5: Fonte:AIFI

Con riferimento alla tipologia di operazioni realizzate (immagine 5), nel 2016 i buy out hanno continuato a rappresentare il comparto del mercato verso il quale è

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confluita la maggior parte delle risorse (5.772 milioni di Euro), seguiti dal segmento delle infrastrutture (942 milioni di Euro) e dall’expansion (710 milioni di Euro), entrambi caratterizzati da alcune operazioni di dimensioni significative. In termini di numero, con 128 investimenti realizzati, l’early stage si è posizionato ancora una volta al primo posto, seguito dal buy out (98 operazioni), mentre le operazioni di expansion sono state 67.

I dati aggregati relativi all’attività di disinvestimento riguardano, infine, il valore delle dismissioni considerate al costo di acquisto della partecipazione ceduta e non al prezzo di vendita. Anche in questo caso la dimensione globale del mercato è costituita da:

• disinvestimenti effettuati in aziende italiane e non da operatori “locali”;

• disinvestimenti effettuati in aziende italiane da operatori internazionali, a prescindere dal fatto che abbiano una base formale in Italia, inclusi i fondi sovrani e gli altri investitori internazionali che realizzano operazioni di private equity o venture capital.

In materia di write off, si fa qui riferimento ai soli casi di abbattimento totale o parziale del valore della partecipazione detenuta, a seguito della perdita di valore permanente della società partecipata ovvero della sua liquidazione o fallimento, con conseguente riduzione della quota detenuta o uscita definitiva dalla compagine azionaria.

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Immagine 6: Fonte: AIFI

Per quanto concerne le modalità di cessione delle partecipazioni (immagine 6), in termini di ammontare la vendita ad altri operatori

di private equity ha rappresentato il canale di disinvestimento preferito (1.993 milioni di Euro), con un’incidenza del 54%, seguita dalla cessione a soggetti industriali (trade sale), con un peso del 34% (1.228 milioni di Euro).

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Nel corso del 2016 l’ammontare disinvestito (immagine 7), calcolato al costo di acquisto delle partecipazioni, ha raggiunto quota 3.656 milioni di Euro, in crescita del 26% rispetto ai 2.903 milioni registrati l’anno precedente. In termini di numero, invece, si sono registrate 145 dismissioni, dato che segna un calo del 19% rispetto al 2015 (178 exit), distribuite su 113 società

Immagine 8:Fonte: AIFI

La vendita a partner industriali (immagine 8) ha rappresentato la tipologia di exit più utilizzata in termini di numero (), con 54 exit (37% del totale), seguita dalla cessione ad altri operatori di private equity (35 disinvestimenti, 24% del totale). Notare dal grafico che in diminuzione c’è il disinvestimento tramite quotazione

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Immagine 9:Fonte: AIFI

Da ultimo, incrociando il numero di disinvestimenti con la tipologia di investimento originario (Immagine 9), emerge come il maggior numero di dismissioni sia riconducibile ad operazioni di buy out (38%), seguite dagli expansion (37%) e dagli early stage (19%). Vediamo come i disinvestimenti nell’ambito del tournaround sono decisamente meno frequenti rispetto alle altre.

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Capitolo 2

2.1) Fasi delle operazioni di private equity

Ma andiamo ad analizzare, per comprendere meglio le operazioni di private equity, l’iter che precede e conduce all’investimento. A tale riguardo è dapprima opportuno analizzare le diverse fasi del ciclo di vita dei fondi che investono nel private equity. La durata dei fondi di private equity è solitamente di dieci anni, e inizia dal momento in cui si investe, fino al momento in cui vengono dismesse le partecipazioni. Il fine ultimo del fondo è l’ottenimento del massimo rendimento, calcolato come differenza tra il costo d’acquisto e di vendita delle partecipazioni a cui si aggiungono i dividendi eventualmente distribuiti dalle imprese investite, al netto delle commissioni del fondo, entro un arco temporale ben definito che coincide con la durata del fondo. Il ciclo di vita del fondo si scompone in tre fasi(immagine 10): la raccolta delle risorse finanziarie (fund raising), l’investimento (investment period) e il disinvestimento (divestment period), come rappresentato nell’ immagine 10.

Raccolta Disinvestimento

Investimento

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Nella figura sopra proposta la linea rappresenta il confine tra le entrate e le uscite di denaro: come si può vedere, all’entrata di capitali della fase della raccolta, segue l’uscita che caratterizza la fase di investimento, generata a partire dal fund raising stesso. Il denaro impiegato per la durata dell’investimento nell’impresa partecipata si libera dall’impiego al momento dell’exit alimentando una nuova fase di raccolta frutto della distribuzione dei proventi del fondo ai sottoscrittori. La fase del fund raising ha una durata compresa tra un minimo di 6 mesi ad un massimo di 24 mesi. La raccolta delle risorse finanziarie può essere realizzato ricorrendo all’aiuto di intermediari che provvedono al collocamento delle quote del fondo, accelerandone i tempi, ma aumentandone considerevolmente i costi. La seconda fase consiste nell’investimento delle risorse finanziarie nelle imprese selezionate. Questa fase inizia con la ricerca di opportunità di investimento; successivamente avviene l’investimento nell’impresa, e il monitoraggio e la valorizzazione dell’investimento.

Nella terza e ultima fase del ciclo di vita del fondo di private equity avviene il disinvestimento delle operazioni tramite la dismissione delle partecipazioni e la restituzione del capitale agli investitori assieme ai guadagni realizzati e al netto delle commissioni. In questa fase si realizza l’obiettivo dell’investitore e si ottengono i guadagni dell’operazione. È adottando la modalità di exit migliore che i frutti della gestione dell’operazione possono essere colti e distribuiti agli che finanziano l’attività del fondo. Per tale ragione spesso negli investimenti di PE la modalità di exit è prevista fin dal principio

Nei paragrafi successivi si analizzano le diverse fasi che caratterizzano il processo d’investimento nell’attività di private equity, focalizzando l’attenzione sulle principali criticità. È necessario premettere che l’articolazione del processo di investimento può variare anche in modo significativo in funzione delle diverse tipologie di operazioni di private equity; tipicamente l’impostazione e la strutturazione di un’operazione di buy out, che prevede l’acquisizione della maggioranza e quindi del controllo dell’impresa target da parte dell’investitore, differiscono sensibilmente da quelle di un’operazione di expansion, in cui l’operatore entra in posizione di minoranza. Allo stesso modo l’impostazione

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dell’intero processo d’investimento si caratterizza diversamente a seconda delle finalità perseguite dall’investitore istituzionale. In ogni caso è possibile tracciare degli aspetti comuni dall’iter burocratico e delle procedure seguite per attrarre gli investimenti di private equity.

2.1.1) Il fund raising

La fase del fund raising è lo stadio con cui si sollecitano gli investitori a mettere a disposizione i capitali per gli investimenti. Questa fase rappresenta l’attività iniziale del processo di private equity, senza la quale il successivo momento dell’investimento non può avere luogo. Si tratta di un’attività che presenta notevoli criticità, poiché dipende dalla capacità dei gestori del fondo di ottenere risorse mettendo in atto una opportuna strategia di raccolta, e, inoltre è influenzato dalla congiuntura economica. Dal punto di vista di un risparmiatore, la scelta del private equity rispetto ad altre asset class alternative, come per esempio gli hedge funds, rappresenta una scelta importante, basata sulle proprie preferenze di rischio-rendimento, sulla conoscenza degli strumenti e sulla disponibilità di capitale.

L’attività di fund raising si esplicita in un processo impegnativo anche dal punto di vista temporale, dato che in genere dura circa un anno. Tale processo è schematizzabile in alcune fasi, quali:

- identificazione del mercato target per la raccolta; - fase di pre-marketing;

- strutturazione del fondo;

- preparazione e distribuzione del materiale di marketing; - roadshow con i potenziali investitori;

- preparazione della documentazione legale;

- collocamento delle quote e chiusura della sottoscrizione.

Occorre prestare particolare attenzione nella preparazione del materiale di marketing nello stilare un esauriente placement memorandum, contenente la dimensione del fondo, la dimensione delle quote di partecipazione, le politiche di distribuzione dei proventi, i costi di organizzazione e struttura, le modalità di reporting verso gli investitori, la durata dello stesso fondo. Di fatto, la fase del

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fund raising consiste in una sollecitazione al pubblico degli investitori per indurre a sottoscrivere quote di un fondo. Per raccogliere le risorse la reputazione nel mercato nazionale risulta essere un elemento chiave. A tal proposito, un soggetto particolarmente importante nelle prime fasi del processo di fund raising è il

gatekeeper: egli fornisce attività di consulenza ad investitori istituzionali con

focus specifico sul private equity. I gatekeepers sono tipicamente di origine anglosassone e operano su base indipendente, fornendo agli investitori la loro esperienza pluriennale nel settore e l’accesso ai migliori fondi del mercato grazie ai rapporti esclusivi con tali operatori, maturati in anni di attiva conoscenza e frequentazione del mercato. L’elemento di cui i limited partners tengono maggiormente conto nella scelta del fondo in cui investire è senza dubbio il track record del management team della società di gestione: si tratta dei risultati ottenuti dal team su un arco temporale storico medio - lungo. La differenza di performance tra i gestori nel mercato di private equity è sensibilmente rilevante rispetto a quanto accade per i mercati finanziari. Pertanto, devono essere valutate le credenziali del team digestione, prestando particolare attenzione alla loro reputazione e i risultati conseguiti nel passato dal singolo gestore. L’esperienza e la reputazione costituiscono track record distintivi che attirano più fondi da gestire, con i quali si effettuano operazioni di ottimo livello; al contrario, un fondo che è andato male nel tempo non è credibile, quindi la sua performance non potrà che peggiorare maggiormente. Assume una certa rilevanza anche il periodo complessivo che il team di gestione ha coperto lavorando assieme, nonché l’affiatamento tra i vari componenti. È altresì importante la strategia d’investimento che il team intende sviluppare, rispetto alla dimensione, alla tipologia di operazioni, al settore e al Paese prescelto. Tutti questi aspetti assolvono i requisiti della coerenza e della prevedibilità: è probabile che ciò che ha funzionato bene in passato possa funzionare bene anche nel futuro, specialmente in un’attività come il private equity, fortemente basata sulle competenze e sull’esperienza. Altri elementi importanti possono essere schematicamente delineati come segue:

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- struttura organizzativa semplice; - assenza di conflitti d’interesse;

- parametri di misurazione della performance chiari e corrispondenti alle metodologie ufficiali;

- meccanismi di distribuzione dei proventi degli investimenti in linea con le esigenze del mercato.

Una volta attirati gli investitori, la fase del commitment consiste nell’impegno al versamento delle quote di sottoscrizione. Si sottolinea che le quote sottoscritte non vengono versate con l’avvio del fondo ma in momenti successivi (draw downs) su richiesta della società di gestione ogni qual volta il fondo necessiti di liquidità per effettuare un investimento, in nuove imprese o per aumentare la partecipazione in imprese già presenti in portafoglio. La liquidità detenuta dai fondi di private equity normalmente è strettamente necessaria al pagamento dei costi a carico del fondo. Solitamente, il totale dei versamenti degli investitori nel fondo di private equity raggiunge solo il 60-70% dell’ammontare del commitment.

2.1.2) L’investimento

Una volta terminata la fase della raccolta inizia il vero e proprio momento dell’investimento. Si tratta di un processo lungo e complesso, che richiede le competenze e l’esperienza pregressa di cui il team di gestori può disporre. All’interno di detta fase possono essere identificati i seguenti momenti19:

- deal flow: ricerca e screening delle opportunità di investimento da parte dell’operatore;

- due diligence: approfondita valutazione dell’impresa;

- closing: firma del contratto d’investimento e dei patti parasociali; - monitoraggio dell’investimento.

Nei paragrafi successivi si analizzano le singole fasi che compongono lo stadio dell’investimento.

19 Carlotti Matteo,” TECNICHE DI PRIVATE EQUITY - III EDIZIONE

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