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La traduzione nel mondo digitale: la localizzazione videoludica Proposta di traduzione parziale dei videogiochi Bastard Bonds e Dream Daddy

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUISTICA E

TRADUZIONE

TESI DI LAUREA

La traduzione nel mondo digitale: la localizzazione videoludica

Proposta di traduzione parziale dei videogiochi Bastard Bonds e Dream Daddy

CANDIDATO

RELATORE

Daniele Casalini

Chiar.ma Prof.ssa Silvia Bruti

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“Video games have too big an impact on children and adults to be ignored by academia.” (Bernal-Merino 2009: 245)

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Indice

Nota...3

Introduzione e breve cronistoria della AVT...5

1. Capitolo Primo: La traduzione videoludica o localizzazione...11

1.1. Un formato multimediale differente...11

1.2. Gameplay e narrazione...15

1.3. Tradurre un videogioco: la localizzazione...19

1.4. Le limitazioni grafiche...26

2. Capitolo Secondo: Classificazioni in base a età e generi videoludici...29

2.1. Restrizioni d’età...29 2.2. Generi videoludici...31 2.2.1. Action...32 2.2.2. Adventure...33 2.2.3. Educational...34 2.2.4. Racing/Driving...34 2.2.5. RPG (Role-playing game)...34 2.2.6. Simulation...36 2.2.7. Strategy...37 2.2.8. Rhythm...38 2.2.9. Party...39 2.2.10. Survival Horor...40

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3. Capitolo Terzo: Annotazioni in margine alla traduzione...42

3.1. Presentazione dei videogiochi in esame: Bastard Bonds e Dream Daddy...42

3.1.1. Bastard Bonds...43

3.1.2. Dream Daddy: A Dad Dating Simulator - Dadrector’s Cut...46

3.2. Aspetti traduttivi...49

3.2.1. Lessico...52

3.2.1.1. Lessico degli oggetti di Bastard Bonds...52

3.2.1.2. Lessico di Bastard Bonds...53

3.2.1.3. Lessico di Dream Daddy...59

3.2.2. Wordplay...64 3.2.3. Intertestualità...71 3.2.4. Registro...74 3.2.5. Sintassi...77 Conclusioni...79 Bibliografia...82 Ludografia...85 Sitografia...86 Appendice...i

Bastard Bonds - Proposta di traduzione...i

Parte 1 - Oggetti...i

Parte 2 - Mappe...xi Dream Daddy: A Dad Dating Simulator - Dadrector’s Cut - Proposta di traduzione ...lxxx

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Nota

Ai fini di una maggior chiarezza espositiva, di seguito verranno spiegate alcune scelte stilistiche. I termini in lingua straniera sono stati riportati in corsivo, mentre, per quelli che sono ormai entrati a far parte del vocabolario italiano, è stata scelta una trasposizione in tondo. Lo stesso vale per i nomi propri di case di sviluppo e produzione, sia videoludiche che cinematografiche, per quelli delle console e quelli delle associazioni. Nel caso in cui un termine in lingua straniera fosse una citazione diretta, questo è stato riportato in tondo con l’ausilio di virgolette alte doppie. Le citazioni di intere frasi, anche se in lingua straniera, sono caratterizzate da una grafia in tondo, senza ausilio di tali virgolette, ma provviste di un rientro, sia a destra che a sinistra, di 1,00 cm e una dimensione di carattere inferiore rispetto a quella del corpo del testo.

Il terzo capitolo, che consiste nel commento in merito alla traduzione, contiene strutture particolari: le descrizioni dei videogiochi in esame, estrapolate dalla pagina web di riferimento, sono state trasposte in corsivo; gli esempi tratti dal testo di partenza e da quello di arrivo, sono a loro volta caratterizzati dalla medesima grafia. Nel caso in cui si è ritenuto necessario porre l’accento su alcuni termini specifici all’interno di tali esempi, questi sono stati riportati in grassetto. I termini citati dal testo originale e dal corpus della traduzione, al di fuori degli esempi menzionati in precedenza, sono caratterizzati da una grafia in corsivo e posti fra virgolette alte singole.

La sezione ludografica è ordinata secondo un criterio alfabetico, a partire dal nome del team di sviluppo dei videogiochi, cui si farà riferimento anche nel caso in cui è stato necessario citare tali giochi all’interno del corpo del testo. La sitografia, alla quale è applicato lo stesso criterio alfabetico, esclude dal calcolo ogni indicizzazione presente prima delle sigle ‘www’ e ‘en’ comprese.

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Introduzione e breve cronistoria della AVT

Questo studio consiste in un excursus sulla pratica della localizzazione videoludica, affiancato dalla proposta di traduzione parziale di due videogiochi, Bastard Bonds e Dream Daddy. Di seguito è riportata la struttura dell’opera.

L’introduzione si occupa di fornire alcuni accenni sulla traduzione audiovisiva (AVT), soffermandosi principalmente sulle tecniche del doppiaggio e della sottotitolazione.

Il primo capitolo consta della definizione e delle caratteristiche principali del prodotto multimediale in questione, ovvero i videogiochi, proseguendo a descriverne gli aspetti narrativi e ludici, a definire la procedura stessa della localizzazione e le limitazioni grafiche tipiche di tali formati.

Il secondo capitolo, mantenendo un’impostazione di base sui concetti della localizzazione videoludica, prende in esame le classificazioni relative all’età del pubblico che andrà a fruire del videogioco e quelle dovute al genere di appartenenza, nelle quali si propone una lista di dieci elementi atti a individuare le maggiori tipologie di generi videoludici.

Il terzo capitolo, invece, contiene una riflessione sulla traduzione, presentando in primis i titoli in esame, chiarendone le caratteristiche e le strutture principali, per poi passare al commento vero e proprio, dove si propone la discussione di una campionatura di esempi tratti dai testi originali e dalle traduzioni, ordinati secondo dei macro-criteri linguistici e paralinguistici, quali lessico, wordplay, intertestualità, registro e sintassi.

L’appendice, collocata dopo conclusioni, bibliografia, ludografia e sitografia, è composta dalla proposta di traduzione, che riporta prima la localizzazione dei nomi degli oggetti di Bastard Bonds, seguita da quella effettiva del gioco appena menzionato e, infine, da quella di Dream Daddy.

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Primi accenni di traduzione audiovisiva

La traduzione audiovisiva (AVT, Audio-Visual Translation) ha attratto un interesse generale da parte del pubblico accademico a partire dalla fine degli anni ’90 dello scorso secolo, con una ripresa crescente durante i primi anni di questa decade (O’Sullivan, Cornu 2019: 15). Dal punto di vista terminologico, la AVT viene definita anche come media translation, multimedia translation e multimodal translation (Bruti 2011: 146)1.

Tutti questi termini sono ampiamente accettabili, ma per coerenza e rigore, in questa sede si opterà per l’acronimo AVT, forse di più facile comprensione in quanto abbraccia tutti quei prodotti che semplicemente consistono di una commistione di immagini a schermo e tracce audio.

All’interno di questo ramo dei cosiddetti translation studies, si collocano non solo i film come vengono intesi oggigiorno, ma anche quelli muti dei primi trent’anni del sec. XX, i film per televisione, le serie TV e, nonostante un’attinenza forse minore, anche i videogiochi (O’Hagan 2019: 156; cfr. cap. 1).

O’Sullivan e Cornu (2019: 15-30) cercano di stilare una cronologia della AVT partendo dai film muti e arrivando allo sviluppo delle attuali modalità più proficue di traduzione, quali i sottotitoli e il doppiaggio. Queste due ultime tecniche sono indubbiamente le più diffuse ai giorni nostri (Bruti 2011: 147).

I film muti difatti non presentavano voci registrate ma si avvalevano di testi: le didascalie contenevano tanto sequenze narrative quanto stralci di dialoghi dei personaggi. Tale presenza testuale richiedeva pratiche traduttive al fine di universalizzare il prodotto e renderlo fruibile per un mercato internazionale. Oltre alla traduzione delle didascalie, un altro metodo traduttivo della narrazione cinematografica dell’epoca era quello dei bonimenteur o più semplicemente lettori. Conosciute in Giappone come benshi, tali figure si occupavano di spiegare dal vivo, di fronte al pubblico, gli avvenimenti del film in riproduzione (Barnier 2010: 264).

Con l’avvento dei film sonori, una delle prime strategie traduttive adottate fu, in effetti, una non-strategia: i film venivano pubblicati su suolo estero in versione 1 Media fa riferimento al concetto basilare di prodotto mediatico; multimedia pone invece l’accento sulle forme semiotiche trasmesse simultaneamente, coordinate dalo schermo; il termine multimodal, invece, si rifà alle molteplici modalità di significazione comprese nel prodotto multimodale, quali immagini, suoni, musica, colori, prospettiva e via dicendo (Bruti 2011: 146).

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originale, senza alcun riadattamento ai fini della comprensione globale del prodotto. Va da sé che tale stratagemma non fu ben accolto dal pubblico internazionale e le case cinematografiche di Hollywood decisero ben presto di effettuare un downgrade dei film sonori, trasformandoli in film muti accompagnati da intertitoli e, in seguito, modificarono la struttura del film stesso, sostituendo i primi piani originali dei dialoghi con nuove scene dove recitava un cast di attori locali, mantenendo il resto del film muto (O’Sullivan, Cornu 2019: 17).

Tali film, detti multilingue, sebbene non possano essere considerati esempi perfetti di traduzione, coinvolgevano pratiche traduttive purtroppo scarsamente documentate. Essi si affacciarono sul mercato fra il 1930 e il 1932, prodotti sia a Hollywood che nelle sedi distaccate europee, quali i Saint-Maurice-Joinville Studios di Parigi, ma non riscontrarono il successo sperato. La parca documentazione non ci permette di risalire bene alle modalità di traduzione impiegate e a chi le mettesse in atto (O’Sullivan, Cornu 2019: 19-20).

I sottotitoli

Con l’avvento dei sottotitoli si va a delineare una strategia traduttiva che si dimostrerà una delle più proficue. I sottotitoli consistono nell’aggiunta di una o più stringhe testuali, di norma nella parte inferiore dello schermo, talvolta in quella superiore o, come per alcuni film importati su suolo asiatico, su uno dei lati, sistemati in questo caso verticalmente.

Solitamente si distingue fra sottotitoli interlinguistici e intralinguistici. I primi consistono in un passaggio dalla traccia audio della lingua di partenza al testo scritto della lingua d’arrivo; i secondi invece sono un trasferimento dei dialoghi in forma scritta, spesso ridotta per motivi di spazio e comprensibilità, e sono rivolti perlopiù a un pubblico di persone affette da deficit acustici, studenti della lingua o immigrati (Bruti 2011: 147-148).

Poiché uno dei mercati di maggior interesse per il cinema hollywoodiano è sempre stato quello europeo, gran parte dei processi di sviluppo dei sottotitoli avvenne in

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Europa. Dagli anni ’30 fino ai primissimi degli anni ’90 del sec. XX, questi furono impressi chimicamente sulla pellicola. Durante gli anni ’80 dello stesso secolo, fu sviluppato anche il metodo di impressione a laser, durato fino all’avvento del digitale. I sottotitoli venivano così impressi sulla pellicola come una bruciatura (O’Sullivan, Cornu 2019: 20).

C’era tuttavia un problema riguardo alla visione degli stessi: essi risultavano pressoché illeggibili quando venivano sovrapposti a immagini caratterizzate da un bianco predominante. Grazie alla nascita del digitale, i sottotitoli generati al computer riuscirono a ovviare a questo problema, fornendo una cerchiatura in nero che permetteva un migliore grado di discernimento anche su sfondo bianco. Dalla fine degli anni ’70 del ’900, questo metodo di creazione dei sottotitoli ha guadagnato sempre più piede, arrivando a stabilirsi come quello attuale di uso comune per i DVD (Digital Versatile Disc) (O’Sullivan, Cornu 2019: 20) e, probabilmente più d’ampio utilizzo al giorno d’oggi, per i film in streaming visionabili grazie all’imposizione di internet come metodo sempre più diffuso di fruizione dei prodotti audiovisivi.

La diffusione dei sottotitoli su suolo europeo è caratterizzata da differenti metodologie di approccio a livello nazionale: questi sono molto diffusi e utilizzati come metodo primario di traduzione principalmente nei paesi scandinavi, nei Paesi Bassi, in Belgio, Svizzera, Portogallo e Grecia (O’Sullivan, Cornu 2019: 20-21; Bruti 2011: 147). In nazioni quali Italia, Francia e Germania, dove le industrie cinematografiche hanno proliferato e riscosso da sempre un grande successo, si è optato invece per la tecnica del doppiaggio (cfr. più avanti).

Sfortunatamente, le prime pratiche di traduzione applicate ai sottotitoli sono scarsamente documentate ed è spesso difficile risalire ai nomi dei pionieri di questa tecnica traduttiva e al loro approccio lavorativo. Negli Stati Uniti, invece, il nome di riferimento per l’avvento dei sottotitoli è quello di Herman Weinberg, che detiene il diritto di primo professionista della sottotitolazione a New York. Nonostante la scarsità di fonti, è certo che i sottotitoli erano ben più selettivi in fase iniziale, arrivando a essere molto più densi, in termini di quantità e lunghezza, nelle decadi successive (O’Sullivan, Cornu 2019: 21).

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Il doppiaggio

Ai giorni nostri, il doppiaggio consiste nella sostituzione della traccia audio originale con quella della lingua d’arrivo, composta dalle voci dei doppiatori e registrata in studio. Il normale processo di tale strategia traduttiva è solitamente suddiviso in quattro fasi: la traduzione, spesso letterale, del copione; l’adattamento, che regola il testo sulle basi di naturalezza e credibilità, tenendo sempre di conto dei vincoli dettati dal sincronismo; la registrazione in studio della traccia e l’implementazione della nuova traccia audio in quella originale, detta “missaggio” (Bruti 2011: 149).

Un primo tentativo di applicare la tecnica traduttiva del doppiaggio fu attuato in ambito tedesco e statunitense durante lo sviluppo dei film multilingue. Poiché questi ultimi non si rivelarono affatto campioni di incassi a causa della sostituzione degli attori principali, le case cinematografiche di Hollywood e tedesche optarono per un rimpiazzo diretto delle voci dei protagonisti durante le riprese stesse. Tuttavia, tale pratica comportava dei problemi a livello di sincronizzazione fra le immagini a schermo e la traccia audio. Per ovviare a questa complicazione, vennero allora scelti due metodi più fruttuosi: uno consisteva nell’apprendimento da parte di altri attori delle linee di dialogo in lingua straniera, imprimendo in seguito la traccia vocale mentre guardavano il film senza audio. Tali attori dovevano tener di conto dei movimenti facciali e delle labbra di quelli originali per dare l’impressione che le voci appartenessero effettivamente a questi ultimi. Il secondo metodo consisteva invece nella scomposizione della traccia audio dei dialoghi in sezioni da un minuto basate sui movimenti delle labbra, che poi venivano registrate su un’altra pellicola che veniva fatta partire assieme a quella del film originale ma a una velocità più bassa, consentendo di mantenere più alto il livello di sincronizzazione. I traduttori lavoravano su questa seconda pellicola, scrivendo linee di dialogo che potessero essere il più possibile simili a quelle originali a livello sillabico. Il ruolo del traduttore, tuttavia, rimaneva piuttosto marginale, lasciando questi nell’anonimato e affidandosi alle capacità di uno scrittore di rendere le linee di dialogo il più naturali possibili. A causa delle politiche di autarchia del Ventennio italiano, su suolo nostrano prese subito piede la tecnica del doppiaggio, in quanto i film in lingua straniera furono vietati per legge a partire dal 1933. Una simile sorte è toccata alla

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Spagna di Franco nel 1941, mentre in Francia fu approvata una legge che vietava agli studi cinematografici di registrare la traccia doppiata al di fuori del territorio nazionale. Le conseguenze di tali scelte politiche si fanno sentire ancora oggi: in paesi come questi, il doppiaggio è il metodo principale di traduzione dei film, mentre, come già menzionato, altri paesi europei adottarono prima la tecnica della sottotitolazione, che è rimasta a tutt’oggi la principale fonte di traduzione (O’Sullivan, Cornu 2019: 21-23). Accanto a queste due diffusissime strategie traduttive, se ne trovano altre forse di minor diffusione, quali: l’interpretazione consecutiva, che può avvenire dal vivo oppure in forma pre-registrata; il voice-over, tecnica tipica dei documentari che sovrappone la traccia vocale della lingua d’arrivo a quella sorgente, senza però eliminarla; il commento, che è indicato per un pubblico specifico come ad esempio quello infantile, e, infine, i sopratitoli, caratteristici dell’opera e che consistono in una riga di testo, proiettata su uno schermo al di sopra del palcoscenico dove si svolge la pièce, per tutta la durata di quest’ultima (Bruti 2011: 153-154).

Come si vedrà anche più avanti, la traduzione videoludica si avvale quasi esclusivamente delle due strategie principali di traduzione: i sottotitoli e il doppiaggio, spesso in concomitanza e quasi sempre a scelta del giocatore. Questi può arbitrariamente decidere, nella maggior parte dei casi, se attivare o disattivare sia i sottotitoli che il volume del gioco in riproduzione, talvolta avendo anche la possibilità di regolare i volumi anche solo dei dialoghi, lasciando invariati quelli della musica e degli effetti sonori.

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1. Capitolo Primo: La traduzione videoludica o localizzazione

1.1. Un formato multimediale differente

Il sec. XX ha visto nascere una nuova branca del settore dell’intrattenimento, ovvero quello elettronico e interattivo. Dai primissimi flipper degli anni ’20 del secolo scorso, la tecnologia ha fatto passi da gigante, arrivando alle attuali console di nona generazione. Il settore in questione si è espanso a tal punto da diventare molto complesso e articolato: la società statunitense Entertainment Software Association (ESA) ha pubblicato i risultati di un sondaggio svoltosi nel 2006: le vendite dei videogiochi sono state per oltre 7 miliardi di dollari, il giocatore medio aveva 33 anni e il 38% degli interessati era di sesso femminile2. Tali stime conferiscono un’immagine

ben diversa rispetto a quella stereotipica del gamer3 adolescente maschio. Attualmente,

il cosiddetto gaming, ovvero l’attività stessa di videogiocare, è un fenomeno capace di produrre introiti e interesse tanto quanto l’industria cinematografica. Per questo motivo, la traduzione videoludica rappresenta ormai un settore chiave della traduzione audiovisiva (Bernal-Merino 2006: 22).

La traduzione di questo particolare settore dell’intrattenimento è direttamente collegata, per natura stessa, a quella dei più tradizionali formati audiovisivi, quali film e programmi TV, in quanto essendo i videogiochi stessi prodotti audiovisivi, si applicano anche per questi le pratiche della sottotitolazione e del doppiaggio. Tuttavia, presentando un’ovvia componente digitale, fanno riferimento anche al dominio dei 2 Lo studio più recente di tale associazione, svoltosi nel 2018, attesta un aumento della presenza femminile fra gli utenti dei videogiochi in ambito statunitense: dal 38% del 2006, tale stima arriva al 45%. Le donne adulte rappresentano il 33% dell’utenza, mentre gli adolescenti di sesso maschile rientrano solo nel 17%. Inoltre, l’età media per entrambi i sessi sale a 34 anni (ESA 2018: 4-6). 3 Tale è l’appellativo di uso comune e internazionale al giorno d’oggi per gli appassionati di

videogiochi. Cfr. Vocabolario Treccani: ‹http://www.treccani.it/vocabolario/gamer_%28Neologismi %29/›.

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software e, di conseguenza, alla localizzazione tipica di tali prodotti (Bernal-Merino 2007: 2; O’Hagan 2019: 145).

La terminologia stessa dei videogiochi è ancora piuttosto incerta: alcuni ricercatori preferiscono usare il termine computer games, altri electronic games, altri ancora digital games. O’Hagan (2007: 2), riferendosi alla lingua inglese, aggiunge inoltre la disputa sulle varianti ortografiche, chiarendo che in letteratura esiste sia la nomenclatura videogames che il termine video games, con uno spazio che va a separare le due parti del composto. La traduttrice preferisce quest’ultima versione per mantenersi affine alla convenzione del settore della localizzazione.

Bernal-Merino (2006: 23-25) stila con precisione un elenco delle varie terminologie in uso in riferimento ai videogiochi. Egli elenca sette differenti etichette in inglese, partendo dal presupposto che ognuna di esse abbia la sua raison d’être:

Game: iperonimo di riferimento, il più generico fra quelli delle attività

ludiche. I giochi sono concetti universali che coinvolgono uno o più giocatori. Nonostante possa essere presente una componente agonistica, l’obiettivo principale è il divertimento dei partecipanti o anche quello degli spettatori. Poiché i videogiochi hanno guadagnato un alto grado di popolarità e interesse nelle ultime decadi, spesso questo semplicissimo termine viene utilizzato all’interno del settore dell’intrattenimento, piuttosto che la controparte più specifica che include l’accezione prettamente visiva del gioco (video). Aziende, riviste e siti internet non di rado incorporano il termine “game” nel loro nome proprio, tralasciando tale controparte più specifica, pur riferendosi esclusivamente ai videogiochi;

Electronic game: uno dei termini più generici fra quelli del sec. XX. Un

gioco elettronico è caratterizzato da un chip interno che ne permette l’avvio e le funzionalità. Tuttavia, questi non sono necessariamente dei videogiochi, poiché la presenza di uno schermo non è necessaria al loro funzionamento. Un esempio di tali opere potrebbero essere le slot machine;

Video arcade games: questa nomenclatura delinea i prodotti che

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termine va a definire i giochi tipici dell’epoca, che possono ora essere anche avviati tramite le più svariate periferiche, quali computer, smartphone e console;

Computer game: termine che abbraccia tutti quei giochi che possono

essere riprodotti su computer. Si utilizza tale nomenclatura in opposizione ai giochi per console fissa, portatile o telefono;

Console game: le console sono dei computer dedicati esclusivamente alla

fruizione di videogiochi e possono essere fisse, ovvero richiedere un’installazione casalinga, o portatili (dette comunemente handheld), incorporando all’interno di un’unica struttura tutte le componenti necessarie alla fruizione, quali schermo, uscita audio e tasti. Tale sarà il termine d’utilizzo per indicare un prodotto disponibile su queste periferiche;

Mobile game: gioco che può essere avviato tramite periferica portatile,

spesso uno smartphone. Data l’attuale capacità tecnologica di questi veri e propri computer tascabili, sono molte le tipologie di gioco ormai capaci di essere installate sui telefoni;

Video game: i videogiochi sono una forma multimediale di

intrattenimento, azionabile tramite le componenti elettroniche tipiche dei computer (e di altri prodotti tecnologici), controllabile tramite periferiche quali mouse, tastiera o anche controller selezionati come i cosiddetti joypad4, tipici delle console, e visionabile grazie a uno schermo. Un

videogioco viene creato per il consumo di massa, ma al contempo detiene anche lo status di creazione artistica. Questo dualismo sarà di grande importanza al momento della traduzione del prodotto. A differenza dei più comuni formati audiovisivi, il videogioco non è spesso riconducibile a un unico autore, bensì a un intero gruppo di specialisti che lo hanno sviluppato per il pubblico. Questa componente è un altro fattore chiave, in quanto il prodotto farà riferimento solo a se stesso, garantendo una plasticità che potrà adattarsi maggiormente ai differenti mercati sui quali verrà lanciato5.

4 Dispositivo elettronico provvisto di pulsanti e levette che permette l’input di comandi all’interno di un videogioco (cfr.: ‹https://www.merriam-webster.com/dictionary/game%20pad›).

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Viste le caratteristiche selettive e specifiche dei primi nomi elencati da Bernal-Merino, in questa sede verrà utilizzato il termine ‘videogioco’, più affine all’inglese ‘video game’ e forse d’uso più tipico su territorio nostrano rispetto a tutti quelli menzionati finora, alternandolo al primissimo iperonimo nominato, ‘gioco’. Si preferisce un sostantivo univerbato poiché in tal modo è entrato a far parte del vocabolario italiano6.

Nobile (2017: 15) afferma che d’altronde non esiste una reale alternativa per la nostra lingua: alcuni si riferiscono ai videogiochi come ‘giochi elettronici’, ma questo termine è effettivamente un iperonimo, in quanto tale categoria include una vasta gamma di prodotti che utilizzano componenti elettroniche e assumono svariate forme, fra i quali anche il prodotto multimediale in questione. L’autrice sostiene che l’eterogeneità evidente nei territori anglofoni indica che i game studies sono una disciplina ancora giovane in ambito accademico7.

A livello cronologico, il primo videogioco che si possa ritenere tale è apparso sul mercato nel 1961: il titolo era Space War, ed era stato creato da Steve Russell per minicomputer. Successivamente, Computer Space è stato pubblicato sotto forma di arcade game (o più semplicemente arcade), distribuito da Nutting Associates e seguito un anno dopo dal celeberrimo Pong della Atari, il primo videogioco per TV della storia (Bernal-Merino 2006: 23). Inizialmente, tali videogiochi consistevano di meccaniche semplici, date le restrittive capacità dei processori e di memoria dell’epoca, e quindi una forte componente testuale non era forse nemmeno immaginabile. Perciò, durante questa prima fase della storia videoludica, i professionisti della traduzione non erano coinvolti nel processo di localizzazione (O’Hagan 2019: 147). I successivi miglioramenti produzioni videoludiche, occorre specificare che ciò non rappresenta la totalità dei videogiochi sul mercato. Pettini (2015: 270-73) afferma che il concetto di “auteurism” sembra effettivamente difficile da applicare al formato videoludico, in quanto i media digitali mettono in discussione la nozione tradizionale di un lavoro autoriale fisso e lineare. Per questo, alle simulazioni interattive, considerate come storie collaborative, spesso non viene conferito lo stato di prodotto artistico rispetto ai formati tradizionali, come i film o i libri. Tuttavia, il concetto di “auteurism” è una forma che può emergere dagli aspetti unici dello sviluppo videoludico attribuiti a un designer particolare. Nel caso di produzioni dove la presenza di uno sviluppatore/designer è così forte da lasciare un impatto specifico, il localizzatore non dovrà eliminare l’impronta autoriale, bensì valorizzarla. L’autrice riporta gli esempi della serie di Metal Gear Solid di Hideo Kojima, che è ricca di temi ricorrenti e marcatori stilistici.

6 ‹https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/V/videogioco.shtml?refresh_ce-cp›; ‹http://www.treccani.it/enciclopedia/videogioco›

7 O’Hagan (2019: 145) supporta la tesi di Nobile, definendo la localizzazione videoludica come una pratica relativamente nuova in relazione alla AVT.

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tecnologici hanno portato alle creazioni di console a 8 e 16 bit, garantendo una complessità crescente. Quello che forse è il più importante punto di svolta per i fattori testuali e dialogici è stato il passaggio alle cosiddette console di quinta generazione, quali la prima PlayStation della Sony e il Sega Saturn dell’omonima Sega, che utilizzavano un supporto ottico sotto forma di CD-ROM per la distribuzione dei giochi. Questi garantivano la possibilità di immagazzinare una quantità maggiore di dati rispetto alle precedenti console, consentendo l’implementazione di una grande componente testuale, grafica e musicale. La generazione seguente ha visto un potenziamento dei processori delle periferiche e la transizione dai CD ai DVD, permettendo uno spazio tale da consentire di ampliare ulteriormente grafica, complessità ed elementi testuali, fornendo anche l’opzione di inserire dialoghi realmente doppiati. I videogiochi si erano dunque evoluti a tal punto dal poter essere accostati ai film, quasi come una controparte digitale e interattiva di questi ultimi (Mangiron Hevia 2007: 306). A partire dall’inizio del sec. XXI, il settore videoludico inizia perciò a promuovere una consapevolezza migliore della localizzazione, come dimostrato dalla fondazione del Game Localization Special Interest Group nel 2008 (O’Hagan 2019: 148-49).

Come constatato, lo sviluppo dei videogiochi è sempre stato strettamente connesso al progredire delle scoperte tecnologiche, caratteristica che distanzia in una certa misura tale prodotto multimediale da quelli più canonici come i film. Difatti, il settore dei videogiochi è conosciuto come interactive publishing, termine che pone l’accento sulla componente d’interazione tipica di questo formato (Mangiron Hevia e O’Hagan 2006: 2).

1.2. Gameplay e narrazione

Dati l’imprescindibile caratteristica interattiva e il fatto che un videogioco ha come principale scopo quello prettamente ludico del divertimento, l’immersione si pone come un fattore chiave della fruizione videoludica. A differenza dei formati multimediali classici, questa tipologia di prodotto non si limita a rivelare una storia pagina dopo

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pagina o minuto dopo minuto, al contrario, sarà il giocatore stesso a prendere il controllo dei personaggi e guidarli all’interno della cornice narrativa. Il senso di connessione che si va a creare fra il giocatore e il mondo di gioco si stabilisce così in un modo diverso, più attivo. Per questo motivo, la sospensione dell’incredulità deve mantenersi costante per tutta la durata dell’attività ludica. Purtroppo, i fattori che concorrono a danneggiare tale assioma narrativo sono molti: istruzioni confusionarie, menù d’accesso poco chiari, la scarsa qualità del doppiaggio (se presente) e i cosiddetti ‘bug’8, che possono verificarsi qua e là, sono tutte problematiche comuni che possono

incrinare una perfetta qualità di immersione narrativa. Fra questi, un’altra, importantissima componente è quella della traduzione. Se il gioco è tradotto in malo modo, presentando errori grammaticali o stili inadatti all’ambientazione, l’esperienza di gioco può essere rovinata irrimediabilmente, diminuendo così il grado di divertimento (Bushouse 2015: 7-8).

Essendo il fattore ludico una componente imprescindibile del videogioco, la ‘giocabilità’9 detiene quindi un ruolo primario per il tale formato, imponendosi come

caratteristica principale da tenere a mente durante il processo traduttivo. Bernal-Merino (2014: 40) sostiene che, così come per un’opera teatrale il traduttore deve rifarsi alla nozione di “performabiliy” per una buona riuscita della traduzione, lo stesso dovrà fare colui o colei che si accinge a localizzare un videogioco, facendo capo però al concetto di “playability”.

Al fine di mantenere costante il senso di immersione di un videogioco, non solo il testo, bensì l’intera esperienza di gioco deve essere messa bene a fuoco durante il processo di traduzione e questo include le meccaniche del gioco stesse, raggruppate sotto la dicitura di gameplay10 assieme all’esperienza complessiva che se ne trae

(O’Hagan 2007: 4-5). Nonostante il gameplay sia spesso contrapposto alla narrazione della storia del gioco, in realtà queste due componenti sono strettamente correlate fra loro e, quando sono anche ben integrate all’interno di una cornice ludica, contribuiscono 8 Vengono così definiti gli errori di progettazione di componenti sia software che hardware che possono creare problemi di funzionamento di un programma. Cfr. Vocabolario Treccani:

‹http://www.treccani.it/vocabolario/bug/›.

9 Così è detto l’insieme di fluidità, grado di velocità di risposta ai comandi e difficoltà di un videogioco. Cfr. Vocabolario Garzanti: ‹https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=giocabilit%C3%A0›.

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a fornire un’esperienza ancora più significativa. Quando ciò non avviene, si parla di dissonanza ludonarrativa, che però risulta essere un’incongruenza che esula dalle abilità del traduttore, in quanto è presente nella struttura stessa del videogioco. A tal proposito, Bushouse (2015: 10-11) riporta il caso di Uncharted: Drake’s Fortune (Naughty Dog 2007), videogioco d’azione e avventura caratterizzato dalla struttura dei TPS (Third-person shooter) (cfr. par. 2.2.1; 2.2.2), sviluppato da Naughty Dog e prodotto da Sony Computer Entertainment nel 2007. Il protagonista di questo gioco, Nathan Drake, è un uomo descritto dall’autrice come “regular, fun-loving guy” che si trova a dover combattere contro orde di nemici umani e, al fine di proseguire con la storia, è costretto a ucciderli. Il suo carattere è in contrasto con le azioni che deve compiere, in quanto, data l’enorme mole di uccisioni a suo carico, risulta un omicida di massa. Questo, di conseguenza, è un chiaro esempio di dissonanza ludonarrativa.

Il gameplay è certamente un fattore essenziale del formato videogioco e, come si è detto in precedenza, il suo intreccio con la narrazione arricchisce l’esperienza che se ne può trarre. Murray (2004: 1) sostiene che il medium digitale è perfetto per i videogiochi perché è procedurale, ovvero genera un comportamento basato su delle regole, e partecipativo, in quanto permette al giocatore e ai creatori di modificare l’ambiente circostante. Inoltre, tale medium include immagini, sia statiche che in movimento, testo, audio e uno spazio esplorabile, spesso in tre dimensioni. L’autrice ritiene che tutte queste caratteristiche contribuiscano a comporre il quantitativo più grande di blocchi narrativi a disposizione di ogni altro formato.

Sempre secondo Murray (2004: 2-6), il modo in cui le storie vengono raccontate in un videogioco è perfetto per coloro che ne fruiscono, in quanto le componenti del mondo reale, come le relazioni umane, il nostro cervello e la mappa della terra sono tutti elementi di una narrazione ludica improvvisata e collettiva, dove si aggregano, si intersecano ed entrano anche in conflitto le strutture che generano le regole tramite le quali agiamo e interpretiamo le nostre esperienze del mondo stesso. Il medium digitale è di conseguenza il luogo ideale dove mettere in scena ed esplorare i contesti e i rompicapi della nuova comunità globale e della vita interiore postmoderna. A tal proposito, l’autrice ha coniato il termine per lei migliore a definire l’intreccio fra

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narrazione e gioco, in ambito videoludico: “cyberdrama”11. La necessità di una nuova

denominazione di categoria è data dal fatto che, poiché non c’è ragione di considerare i romanzi del mistero o i giochi di ruolo (cfr. par. 2.2.5) come versioni alternative degli scacchi, allo stesso modo non c’è motivo di intendere le nuove forme di narrazione come estensioni del cinema o dei giochi da tavolo, sebbene includano elementi tipici di entrambi. Essenziale al concetto di cyberdrama è la caratteristica della “agency”, che si genera nel momento in cui il mondo reagisce in modo coerente ed espressivo alle nostre interazioni. Tale componente si intensifica, grazie all’effetto drammatico, in un mondo ludonarrativo: se cambiare, per esempio, vestiti o accessori cambia anche il mood di una scena all’interno di un gioco, e se spostarsi in un luogo differente rivela modifiche nella prospettiva emotiva o fisica, allora si sperimenta la cosiddetta “dramatic agency” (Murray 2004: 7).

Un videogioco è quindi un prodotto multimediale dall’elevato grado di interattività che ha come scopo primario il divertimento dell’utente e viene definito dal concetto di giocabilità, caratteristica che, se ben sviluppata, permette una forte valenza immersiva, molto più attiva e forse complessa di quella che scaturisce da un formato dalla fruizione più passiva, come un film o un libro. La traduzione videoludica, spesso definita localizzazione (cfr. par. 1.3), diventa al giorno d’oggi un passaggio essenziale per un buon lancio sul mercato del gioco. Difatti, Pettini (2015: 277) afferma che:

The global status of video games is inextricably linked to the success of game localization, and the vital role played by translation in that process deserves greater academic attention. (Pettini 2015: 277)

Come si è detto poc’anzi, una cattiva traduzione andrà a rovinare la sospensione dell’incredulità che si rivela essenziale per i fattori sopraelencati.

11 Aarseth (1997) conia invece il termine “ergodic literature”, che si accosta al significato di

cyberdrama, in quanto allude a dei testi aperti e dinamici dove il lettore deve eseguire azioni

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1.3. Tradurre un videogioco: la localizzazione

Solitamente, gli approcci alla traduzione si suddividono in due metodi principali: il cosiddetto metodo source-oriented, dove l’integrità del testo originale è di massima importanza e si parte da questo per cercare di fornire una traduzione il più possibile fedele alla fonte; e quello target-oriented, dove invece per determinare il buon esito della traduzione è imprescindibile tenere a mente la tipologia di pubblico destinatario del testo tradotto. Cavagnoli (2012: 24-25) ribadisce che la dominante, ovvero la componente attorno alla quale si focalizza il testo, è fondamentale al fine di creare un testo tradotto che funzioni, garantendo così l’integrità della struttura. Parlando di narrativa scritta, la traduttrice afferma che prima di iniziare a tradurre, è bene avere chiaro chi leggerà il libro tradotto, sostenendo che il lettore di un racconto di Joyce è diverso dal lettore di un romanzo di vampiri: il primo andrà a leggere con lo scopo di riflettere sull’opera e su sé stesso, il secondo vorrà invece un testo capace semplicemente di intrattenerlo, di tenerlo col fiato sospeso e di regalargli un’ora di svago.

Come per qualunque altra tipologia di formato da dover tradurre, le stesse regole si applicano ai videogiochi, seppur con una forte tendenza preimpostata riguardo all’approccio target-oriented. Vi è tuttavia un elemento di assoluto rilievo nel caso di questo particolare prodotto multimediale che va a giustificare questa propensione: la ragione semplice ed essenziale è il bisogno di personalizzare il prodotto, poiché nessun’altra creazione audiovisiva ha lo scopo assoluto di adattarsi all’utente tanto quanto i videogiochi, che sono difatti un formato concepito per l’intrattenimento su misura. Questi ultimi danno sovente la possibilità di creare il proprio personaggio, aggiustare il livello di difficoltà, scegliere la musica e i volumi dei contenuti audio o anche di giocare da soli o in multiplayer, offline od online12. Essendo essi inoltre, come

già menzionato, dei prodotti destinati al mercato globale, il traduttore gioca un ruolo fondamentale nella resa finale del formato sul mercato d’interesse, evidenziando anche caratteristiche, personaggi, musica o parti narrative che potrebbero non essere ben 12 È stata scelta la trasposizione grafica in tondo, anziché in corsivo, in quanto i termini ‘online’ e ‘offline’ sono ormai di uso comune nella lingua italiana e sono entrati a far parte del nostro vocabolario. Si vedano a tal proposito le pagine del vocabolario Treccani:

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accolti dalle culture d’arrivo (Bernal-Merino 2006: 25). Ciò lascia intendere che l’adattamento di un videogioco per una cultura differente non è un processo semplice e va ben oltre il mero trasferimento linguistico (Costales 2012: 388-89).

È stata già menzionata la componente multisettoriale dei videogiochi: essi sono in stretto collegamento con i prodotti multimediali più canonici come i film e le serie TV, ma lo sono anche con i programmi per computer. Più che di traduzione audiovisiva, quando ci si rapporta con un formato ludico digitale, si parla principalmente di localizzazione. Tale pratica nasce negli anni ’80 del secolo scorso, in risposta alle esigenze di mercato riguardo alla vendita dei prodotti software: programmi, siti internet, piattaforme, periferiche elettroniche e i videogiochi stessi vengono adattati a una locale specifica, ovvero una combinazione di lingua, paese e regione13, essendo questi tutti

prodotti destinati al consumo personale (O’Hagan 2012: 127).

Quello di localizzazione è un concetto legato alla globalizzazione e all’internazionalizzazione. La prima consiste nel rendere disponibile e diffondere un prodotto in altri paesi, mentre la seconda consta di tutti i compiti preliminari che vanno a facilitare la successiva localizzazione di tale prodotto, rendendolo neutro culturalmente, ovvero facendo sì che non contenga niente di specifico di una determinata cultura. Questo non significa annullare le caratteristiche culturali del formato, bensì facilitarne la localizzazione, fornendo agevolazioni atte ad aggiustare la componente tradotta. Tali agevolazioni possono consistere nella creazione di illustrazioni al cui interno sia possibile modificare facilmente il testo, nella possibilità di espandere il riquadro di testo per quelle lingue che necessitano di più spazio, nell’identificazione e nell’isolamento di elementi culturalmente specifici. La successiva fase di localizzazione provvede a sostituire tali elementi, aggiungendo componenti culturali e includendo la traduzione stessa. Quest’ultima è dunque solo una fase della localizzazione, ma poiché è posta spesso sullo stesso piano di globalizzazione, internazionalizzazione e localizzazione, si parla generalmente di GILT (Globalisation, Internationalisation, Localisation, Translation)14. Tuttavia, all’interno del prodotto

videogioco, esistono molti generi diversi di testo e non tutti sono fruibili a schermo: 13 La definizione più recente di locale comprende tutte le informazioni sulle convenzioni culturali,

tecniche e geografiche, oltre alla lingua di una data area (Jiménez-Crespo 2013: 12-13). 14 Per approfondire il concetto di GILT, si veda Cadieux, Esselink (2004: 1-5).

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oltre alle componenti testuali del gioco stesso, il prodotto complessivo è composto anche dalla guida, dalle istruzioni, dal testo per la confezione del gioco (se questo non è distribuito unicamente in digitale), dagli elementi destinati alla pubblicità e anche da testi giuridici, come quelli relativi al copyright o alle condizioni di servizio (Nobile 2017: 9-14).

Bernal-Merino (2006: 25) approfondisce tali tipologie testuali, asserendo che il testo specifico di un videogioco all’interno del settore dell’intrattenimento viene diviso nei cosiddetti asset: i testi in-game come libri, documenti, lettere, ecc.; gli art asset, ovvero arte grafica dalle componenti testuali; il doppiaggio e infine la sottotitolazione. Egli sostiene che probabilmente è proprio questa suddivisione di tipologie testuali che più separa i software destinati all’intrattenimento dagli altri prodotti audiovisivi. Questa commistione di componenti contribuisce alla complessità delle sfide che il localizzatore si trova di fronte.

Diventa quindi palese che i videogiochi siano necessariamente caratterizzati da traduzioni target-oriented. Ad avvalorare ulteriormente tale asserzione, lo stesso autore fa notare come il termine ‘localizzazione’ sia già stato usato nell’ambito della traduzione, più specificamente nel campo della letteratura per bambini, in riferimento a una tecnica di traduzione richiesta negli adattamenti culturali che coinvolge anche la rinominazione dei personaggi e la sostituzione dei luoghi della narrazione con alcuni più familiari al lettore. Esattamente come per la letteratura per l’infanzia, i videogiochi richiedono un mantenimento costante dell’interesse e del coinvolgimento, al fine di massimizzare il grado di intrattenimento, che, come si è detto più volte, è la componente essenziale di ogni attività ludica. Questo accostamento rafforza il bisogno di tale strategia traduttiva all’interno dell’ambito della traduzione videoludica (Bernal-Merino 2006: 26).

Lo spazio di manovra disponibile per una traduzione target-oriented è decisamente più ampio rispetto alla sua controparte source-oriented. Nell’ambito della localizzazione, tale libertà è ancora più evidente: poiché i giocatori dovrebbero poter essere in grado di avere un’esperienza di gioco ottimale, le traduzioni non devono risultare come versioni differenti dello stesso prodotto, bensì devono apparire come se il gioco fosse stato sviluppato esattamente per il mercato dove viene pubblicato. Per

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questo motivo, al localizzatore viene concessa praticamente carta bianca al fine di applicare ogni cambiamento ritenuto necessario, specialmente riguardo alla lingua, ai riferimenti culturali e all’umorismo che sono tutti elementi chiave nei videogiochi. Dunque, la localizzazione di questi prodotti culturali si distingue dagli altri tipi di traduzione proprio perché permette un elevatissimo livello di personalizzazione delle versioni tradotte. Inoltre, i localizzatori hanno spesso la libertà di richiedere cambiamenti non solo del dialogo o dei messaggi, ma anche della grafica, delle immagini e della storia, libertà sconosciute a ogni altro tipo di traduzione (Magniron Hevia 2007: 309). Dato che lo scopo principale dei videogiochi è dunque quello di intrattenere l’utente, facendo sì che la traduzione sia modellata secondo le esigenze culturali del pubblico, parlare semplicemente di un modello target-oriented, in questo ambito, può essere considerato riduttivo. Per questo, Suojanen et al. (2015) propongono il cosiddetto approccio della “user-centered translation” (UCT), che rende esplicito il tacito assunto secondo il quale i traduttori sono consci del ruolo centrale dell’utenza che andrà a fruire del videogioco.

A causa dell’elevato grado decisionale a disposizione del localizzatore videoludico, Mangiron e O’Hagan (2006: 5-6) propongono un altro termine da accompagnare al concetto di localizzazione: poiché, come detto poc’anzi, il localizzatore in ambito videoludico dispone di un amplissimo spazio di manovra, le autrici sostengono che la semplice etichetta ‘localizzazione’ non sia sufficiente a delineare chiaramente il processo traduttivo di un videogioco e optano per un modello che dia al meglio l’idea di tali libertà, ovvero quello di ‘transcreazione’. Secondo loro, tale sostantivo definisce in modo migliore il processo traduttivo che il localizzatore di videogiochi deve svolgere. La possibilità di cambiare a proprio piacimento terminologie e culturemi, al fine di restituire un sentimento di originalità in ogni territorio dove il prodotto viene pubblicato, e quella di agire direttamente anche sulle componenti non prettamente testuali del videogioco, fanno sì che la traduzione in questione assuma un aspetto ben più creativo rispetto alle altre tecniche traduttive. Tuttavia, il testo originario rimane comunque il punto di partenza, ed è per questo che l’operazione diviene una trans-creazione15.

15 Secondo Munday (2016: 286-87), la localizzazione videoludica è il luogo adatto dove applicare il concetto di transcreazione, vista la dimensione creativa di tale pratica.

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Bernal-Merino (2006: 26-27) si spinge oltre, affermando che potremmo anche dire che tutte le traduzioni sono delle transcreazioni, poiché comunque richiedono un certo grado di creatività da parte del traduttore. Una transcreazione è una tipologia traduttiva che porta l’ago della bilancia quasi completamente dalla parte del pubblico che andrà a fruirne, pretendendo di sortire lo stesso effetto in tutte le sue versioni. Egli però sostiene inoltre che tale termine manchi di consistenza, poiché il principio stesso della transcreazione è alla base anche del modello che viene applicato alla vendita di qualunque altro prodotto internazionale, che sia esso una rivista, una macchina o un computer. L’autore afferma che ciò che distingue la localizzazione dei videogiochi dagli altri tipi di traduzione non è esclusivamente questa grande libertà di movimento, bensì principalmente la capacità di personalizzazione del formato e del concetto relativamente giovane di shared authorship: nelle ultimi decadi si è visto come il dipartimento creativo di un videogioco lavori sempre più a stretto contatto con quello della localizzazione, fronteggiando difficili sfide a livello coordinativo, ma guadagnando un controllo sul prodotto e una consistenza tale da legare bene insieme tutte le versioni sviluppate. Per queste ragioni, Bernal-Merino definisce il videogioco come:

[...]multi-textual interactive entertainment product for mass consumption with shared authorship that is customised to attract audiences in a variety of countries.

(Bernal-Merino 2006: 27)

Ad ogni modo, l’elevata autonomia decisionale del localizzatore non è esente da ostacoli, che, per quanto riguarda l’ambito videoludico, sono rappresentati da varie limitazioni, in particolar modo quella grafica e da quella legale, in termini sia di copyright che di fascia d’età a cui è destinato il prodotto (per un approfondimento sulle limitazioni d’età, cfr. cap. 2).

Per comprendere il contesto della produzione videoludica, O’Hagan (2019: 150) sostiene l’importanza di conoscere la struttura del settore dei videogiochi, che, oltre ad attestare la presenza interna o esterna di vari localizzatori, consiste in sviluppatori, produttori e, nel caso di giochi per console, anche nei produttori di queste ultime. Il processo di localizzazione riflette tale struttura e la sua gerarchia: i produttori sono tipicamente coloro che detengono la posizione più di rilievo, in quanto determinano le

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regioni in cui il gioco viene pubblicato, il grado di localizzazione che lo contraddistingue (parziale vs completa) e la finestra temporale di pubblicazione. Inoltre, è di loro competenza decretare l’indirizzo che prenderà la localizzazione in base alle decisioni strategiche di mercato, importanti soprattutto per quei titoli derivanti da vari franchise esterni al mondo digitale. Per quanto riguarda i videogiochi per console, questi sono subordinati al processo di conformità ai criteri particolari delle piattaforme su cui sono pubblicati, fra i quali l’uso approvato di terminologie chiave. Ciò implica che i produttori di console, similmente a quelli del videogioco stesso, anche se posizionati a un livello gerarchico più basso, hanno potere decisionale sulla localizzazione, in quanto questa deve aderire ai criteri della piattaforma di utilizzo.

Secondo Nobile (2017: 20-21), esistono quattro principali modelli di localizzazione videoludica16:

il modello sim-ship, abbreviazione di simultaneous shipment, dove lo sviluppo del gioco procede di pari passo con la localizzazione e che garantisce al meglio la libertà traduttiva di cui si è discusso in precedenza. Questo metodo di sviluppo mira a originare un’unica, grande campagna di marketing internazionale, al fine di minimizzare i rischi di importazione causati dalla pirateria. Inoltre, la vita dei videogiochi è piuttosto breve: il prezzo di lancio di un prodotto viene abbassato dopo pochi mesi e di conseguenza, questo modello garantisce uno decorso uniforme a livello mondiale;

il modello post-gold fa sì che i localizzatori possano lavorare sulla traduzione a prodotto completato, consentendo loro almeno un anno di tempo per terminarla. I tempi sono perciò più dilazionati per i mercati esteri, ma il vantaggio risiede nel fatto che chi lavora a tali traduzioni possiede tutti gli strumenti necessari per svolgere un lavoro di qualità, avendo avuto l’opportunità di sviluppare un’ottima conoscenza del gioco;

al modello sim-ship spesso è accostato quello dell’outsourcing, nel quale la traduzione viene affidata anche a collaboratori esterni, che spesso non 16 Per un approfondimento sui modelli di localizzazione, si veda anche Bernal-Merino (2014: 155-222).

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hanno contatti col team interno di traduzione e che sono quindi costretti ad affidarsi al proprio senso comune e alla propria esperienza per trovare una soluzione nonostante lacune contestuali. Un modo per ovviare a questa problematica è quello di fornire un localization kit, che consiste in un insieme di informazioni generali sul progetto e sul contenuto del gioco. Tuttavia, tale strumento è spesso riservato alle produzioni più grandi e non a quelle di minore entità;

infine, vi è il modello in-house che, invece, rappresenta la controparte interna del precedente: come per il sim-ship, i localizzatori lavorano assieme agli sviluppatori, che però nominano un coordinatore della localizzazione atto a supervisionare i traduttori e a fare da mediatore fra questi e gli sviluppatori. La scelta di tale modello è spesso prerogativa di quelle aziende che hanno un dipartimento di localizzazione all’interno del proprio ufficio principale e che lavorano inoltre regolarmente con un gruppo di traduttori freelance.

Gli ultimi due modelli risultano molto simili al primo, anche se vi sono delle piccole differenze con questo.

Essendo la traduzione un’attività umana, nonostante i sempre più svariati esempi di traduzione automatica disponibili al giorno d’oggi, il condizionamento delle scelte e delle decisioni da parte del traduttore, che si trova a dover trasferire il significato dalla cultura d’origine a quella di arrivo, è piuttosto rilevante. Costales (2012: 394-95) sostiene l’approccio funzionalistico della localizzazione: ogni giocatore, indipendentemente dal paese di origine, dovrebbe poter godere della stessa esperienza videoludica, senza che questa soffra di gravi perdite. Tuttavia, si pone anche delle domande importanti riguardo a tale approccio:

First of all, is it always necessary to keep the look and feel of the game, or is it possible to adopt a strategy in which this can be modified in order to meet the expectations of the target audience? Secondly, is it always possible to keep the same game experience without losing any shade or nuance? (Costales 2012: 394)

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Fintanto che si tratta di videogiochi, non viene applicato un concetto di traduzione sbagliata o corretta: i localizzatori devono concentrarsi sull’obiettivo di preservare l’esperienza di gioco, come si è già asserito svariate volte. Le domande riportate sopra difficilmente riescono a trovare risposta in brevi tempi. Tuttavia, vi sono dei casi particolari in cui le premesse del testo di partenza devono essere assolutamente mantenute. Questo è il caso di videogiochi tratti da franchise esterni al mondo videoludico. Parlando delle trasposizioni digitali e interattive dei libri per l’infanzia, Bernal-Merino (2009: 236-45) sostiene che creare un videogioco derivante dal panorama narrativo è sempre una pratica da pianificare con cura, a causa dei collegamenti col testo di derivazione: i personaggi principali, le loro storie e quella generale non possono essere modificati perché sono la ragione principale per cui il giocatore comprerà il prodotto. Per questo, le versioni videoludiche delle storie per l’infanzia non consentono lo stesso, ampio spazio di manovra caratteristico della localizzazione menzionato in precedenza, poiché il riferimento obbligato a un ipotesto costringe i localizzatori a usufruire della stessa terminologia chiave di quest’ultimo.

Similmente, Pettini (2015: 279) ricorda, sulla base delle note di Serón Ordóñez (2011), che i videogiochi ad ambientazione storica non sono caratterizzati dalla stessa libertà di movimento del formato videoludico in generale, poiché, al fine di mantenere una cornice realistica, questi richiederanno più capacità di ricerca che abilità creative.

È stato menzionato come la localizzazione videoludica venga accostata a quella dei software per computer. Tuttavia, mentre questi ultimi vengono tradotti per mantenere integra la funzionalità del prodotto, dire lo stesso per i videogiochi sarebbe riduttivo: il focus della traduzione in ambito videoludico è, oltre quello della funzionalità, quello di preservare l’esperienza di gioco. Quest’ultima nozione ha fatto sì che il percorso della localizzazione dei videogiochi prendesse una sua specifica direzione, ormai indipendente da quella dei software utilitaristici (O’Hagan 2007: 5).

1.4. Le limitazioni grafiche

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programmi per PC è probabilmente quella delle limitazioni grafiche: il testo a schermo apparirà circoscritto a seconda della sua posizione e della sua funzione. Mangiron e O’Hagan (2006: 4-5) pongono l’accento su come nei videogiochi i nomi delle armi, di oggetti e abilità rappresentino una terminologia chiave e di conseguenza sia i creatori che i localizzatori si trovano nella condizione di esercitare un forte grado di creatività. Questi ultimi, tuttavia, vengono ostacolati da un’ulteriore difficoltà: il termine tradotto molto difficilmente sarà della stessa lunghezza di quello originale, soprattutto nel caso di una localizzazione dal giapponese all’inglese, e perciò questo dovrà essere riadattato al fine di rientrare all’interno dello spazio limitato disponibile a schermo. Inoltre, spesso le serie più famose proseguono con nuovi titoli e di conseguenza risulta molto importante che tale riadattamento sia ampiamente soddisfacente, poiché sarà necessario riutilizzare lo stesso termine nel caso in cui debba comparire anche nei capitoli successivi. Nello stesso studio (Mangiron e O’Hagan 2006: 4), le autrici riportano il caso di Final Fantasy X (Square-Enix 2001), videogioco di ruolo (cfr. par. 2.2.5) sviluppato e prodotto dalla Square-Enix in Giappone, a dimostrazione di tale problematica:

Many Japanese games have evocative names for various types of weaponry and take advantage of the ideographs they use, which can convey multiple meanings in minimum space. In FFX there are over a thousand different weapon names of fourteen different types. They must all be translated within a limit of approximately 15 characters. One of the weapons is a blade called 風林火山 (fūrinkazan), an expression made up of four Chinese characters denoting ‘wind, forest, fire and mountain’, and used in Japanese to mean: “as fast as the wind, as quiet as the forest, as daring as fire, and immovable as the mountain”. For obvious reasons, a literal translation will not be a solution, and re-invention is necessary. The American translators opted for the name ‘Conqueror’, completely different to the original but a powerful and evocative choice in English.

(Mangiron e O’Hagan 2006: 4)

Per evitare il problema delle restrizioni grafiche, gli sviluppatori possono al giorno d’oggi decidere quanto spazio concedere alle componenti testuali a schermo, spesso garantendo che la finestra che le andrà a contenere possa essere rimodellata in base alla lunghezza dei caratteri. In passato, tuttavia, le capacità di archiviazione e di calcolo delle console e dei computer non erano sufficienti a permettere ampliamenti, sia testuali che grafici, e perciò non era possibile evitare cambiamenti dovuti a restrizioni spaziali. Bushouse (2015: 70-71) riporta l’esempio di Final Fantasy IV (Square-Enix 1991), altro

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capitolo della stessa serie di appartenenza del titolo nominato in precedenza. All’epoca della sua prima pubblicazione, nel 1991, il gioco prevedeva unicamente sei caratteri per i nomi dei personaggi e questo è il motivo dei riadattamenti impiegati, come l’abbreviazione dell’antagonista “Golbeza” (traslitterato dall’originale ゴルベーザ) in “Golbez”, o la sostituzione del nome del personaggio “Gilbert” (traslitterato dall’originale ギ ル バ ー ト ) in “Edward”17. Questo videogioco è stato pubblicato

nuovamente negli anni a seguire, su piattaforme sempre più nuove e potenti, attraversando restyling sia grafici che traduttivi, giungendo ad avere a disposizione spazio pressoché illimitato per le componenti testuali. Tuttavia, si è detto poc’anzi come la serializzazione dei videogiochi sia un fattore da tenere in conto al momento della traduzione: i nomi riportati, essendo propri di personaggi centrali all’interno del mondo di gioco, sono stati mantenuti identici alla prima traduzione per tutte le versioni a venire. I fan occidentali erano ormai abituati a quei riadattamenti e cambiarli non sarebbe stata probabilmente una scelta proficua ai fini della coesione narrativa.

Bernal-Merino (2014: 110-12) sostiene che tali problematiche grafiche sono comunque ancora evidenti quando ci si rapporta con i testi dei menù, delle finestre di avviso e dei consigli a schermo: qui lo spazio è necessariamente esiguo, dato che le interfacce devono essere chiare, precise e devono riportare elementi lessicali brevi. Il loro scopo è quello di facilitare l’interazione col gioco e a maggior ragione non devono contribuire a turbare la sospensione dell’incredulità, affollando lo schermo di parole.

17 La lingua giapponese dispone di un sillabario specifico per i nomi stranieri e quelli inventati, denominato katakana. Un unico carattere corrisponderà a una sillaba, e pertanto, nonostante i nomi in lingua originale siano traslitterati con sette lettere, nel testo di partenza in giapponese, i caratteri utilizzati saranno invece cinque, come si può evincere dagli esempi riportati sopra. Ciò implica che nel testo originale viene rispettato il limite di sei caratteri imposto dal gioco, ma in sede di traduzione, la traslitterazione di tali nomi sarebbe risultata per entrambi in sette caratteri, eccedendo dunque il limite menzionato. Per questo motivo sono stati reputati necessari dai localizzatori i cambiamenti apportati.

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2. Capitolo Secondo: Classificazioni in base a età e generi videoludici

Il localizzatore dovrà tenere a mente molti fattori quando andrà a tradurre un videogioco: oltre alle problematiche elencate nel capitolo precedente, come quelle grafiche o metodologiche, altre due componenti essenziali spiccano per il quantitativo di ostacoli che possono sollevare, ovvero le limitazioni dovute al target d’età a cui sarà rivolto il videogioco e quelle del genere di appartenenza. Queste, come si vedrà, andranno a incidere sul tipo di traduzione che ci si appresta a svolgere.

2.1. Restrizioni d’età

Una questione spesso sollevata quando si parla di videogiochi è il loro target d’età. Esattamente come ogni altro prodotto multimediale, anch’essi si rivolgono a una precisa fascia di pubblico a seconda dei loro contenuti. Se da un lato queste forme multimediali soffrono di un pregiudizio che riguarda il target principale della loro utenza (cfr. cap. 1), dall’altro molti sono sempre stati preoccupati della violenza che pare pervadere gran parte dei videogiochi. Questo tema è stato spesso discusso negli anni passati ed è ancora al centro di vari dibattiti. Tali preoccupazioni hanno fatto sì che nel 1994 gli USA fondassero un sistema di valutazione d’età atto a classificare e mostrare chiaramente il pubblico target a cui si riferisce il videogioco in questione. Questo sistema è il cosiddetto Entertainment Software Rating Board (ESRB)18 (O’Hagan 2012: 131-32). In

Europa, il modello di riferimento è il PEGI (Pan-European Game Information)19,

mentre in Giappone è utilizzato il sistema CERO (Computer Entertainment Rating 18 Cfr. ‹http://www.esrb.org/›.

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Organization)20. I modelli di valutazione europei esistono anche su scala nazionale,

come lo USK (Unterhaltungssoftware Selbstkontrolle)21 in Germania e il BBFC (British

Board of Film Classification, che, nonostante si applichi esplicitamente ai film, è uno strumento di regolamentazione anche per i videogiochi)22 nel Regno Unito.

Tutti questi sistemi sono indipendenti dalle strutture politiche delle nazioni o regioni di riferimento: in effetti, ogni singolo governo mondiale può decidere di censurare o addirittura proibire la pubblicazione di un videogioco anche se questo è già stato sottoposto alla classificazione d’età e ne rispetta i criteri. Nonostante la scarsa valenza politica, tali sistemi sono tenuti di conto soprattutto per la salvaguardia dei bambini, poiché le scatole dei videogiochi, il disco o cartuccia contenente il software, il manuale di gioco e anche molte delle pagine web da dove è possibile acquistarli in digitale mostrano chiaramente la dicitura dell’età. La classificazione PEGI è una delle più user-friendly, poiché allega anche delle figure, solitamente sul retro della copertina, per far comprendere al meglio le tematiche sensibili contenute nel videogioco, oltre che a indicare l’età adatta per la sua fruizione. Tale classificazione varierà a seconda del territorio dove il prodotto viene distribuito: differenti sensibilità a livello nazionale portano a indicatori d’età differenti. I produttori dei videogiochi cadono talvolta nell’errore di pensare che i tabù siano gli stessi a livello mondiale e di conseguenza applicano un approccio uniforme riguardo a queste tematiche. Sta spesso ai manager della localizzazione porre rimedio a queste sviste, indicando e cercando di evitare possibili conflitti per ogni versione linguistica del prodotto. Nonostante molti temi possano risultare problematici a livello mondiale, ogni nazione dispone di diversi gradi di tolleranza riguardo a essi e i limiti di età possono inoltre risultare diversi. Ne è un esempio Mass Effect (Bioware 2007), videogioco pubblicato da EA che per la classificazione PEGI è adatto a un pubblico di età uguale o superiore a 18 anni, per la BBFC 12, in Germania 16 e 17 negli Stati Uniti (Bernal-Merino 2014: 183-84).

Una volta che il target d’età è stato selezionato per un dato paese dai distributori o dagli sviluppatori, questo pone ulteriori sfide ai localizzatori: al fine di mantenerlo, essi potrebbero dover modificare alcuni aspetti del gioco, considerando, per esempio, che 20 Cfr. ‹https://www.cero.gr.jp/en/›.

21 Cfr. ‹http://www.usk.de/en/›.

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paesi come la Germania e l’Australia applicano dei criteri relativamente severi. In tal modo, la classificazione d’età ha un forte impatto sul processo di localizzazione (O’Hagan 2012: 132).

Come si è appena sostenuto, mantenere il target d’età è spesso un compito affidato ai localizzatori. Di Marco (2007: 6) riporta l’esempio di Mario & Luigi: Superstar Saga (Nintendo 2003), gioco di ruolo (cfr. par. 2.2.5) con protagonisti la mascotte della software house Nintendo, Super Mario, e suo fratello Luigi, e indirizzato a un pubblico di giocatori dai 3 anni in su. Nella versione originale di questo gioco, i fratelli idraulici collezionano molti superalcolici al fine di creare il cocktail definitivo. I riferimenti all’alcol non sono però affini agli standard occidentali per un pubblico d’età così bassa e, al fine di mantenere la classificazione originale, il prodotto che i protagonisti andranno a creare è una semplice cola nella versione americana e un miscuglio di ingredienti fittizi in quella europea. Tale esempio dimostra che il grado di problematicità di un tema differisce da paese a paese e che la localizzazione deve andare a porre rimedio a seconda del limite d’età imposto e della sensibilità generale del mercato di destinazione.

2.2. Generi videoludici

Così come la narrativa è suddivisa in innumerevoli generi, che si parli di libri gialli, romanzi rosa, horror, racconti d’essai, poesia e così via, lo stesso si applica alla produzione videoludica. Siamo ormai lontani dai primi anni ’70 del sec. XX e dai primi prototipi di videogioco bidimensionali. Il panorama dell’intrattenimento interattivo si è sviluppato a tal punto da aver dato vita a tantissimi generi e sottogeneri differenti, che si distinguono per scelte narrative, stili, meccaniche ma soprattutto gameplay. Ogni genere richiederà così una traduzione specifica, proprio come avviene per la letteratura o per il cinema (Bernal-Merino 2007: 2). Ad esempio, Pettini (2016: 67) sostiene che la relazione fra terminologia e localizzazione è particolarmente significativa nei giochi di simulazione (cfr. par. 2.2.6), dove è presente un quantitativo abbondante di termini tecnici che fanno parte di una sfera semantica particolare di riferimento e conferiscono

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